mercoledì 4 marzo 2015

La Stampa 4.3.15
Dio è morto, Marx è morto
e anche la psicanalisi sta poco bene
Allarme da New York: è incalzata da surrogati come lo yoga e persino dall’iPhone
di Paolo Mastrolilli


«Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene». Se a questa battuta rubata a Eugene Ionescu ci aggiungiamo che la stessa psicanalisi se la passa piuttosto male, incalzata da surrogati più abbordabili tipo lo yoga, la meditazione e persino l’iPhone, è lecito supporre che Woody Allen sia disperato. Eppure i numeri non mentono. Secondo uno studio Usa citato dal New York Post, dal 2003 ad oggi l’età media dei 3.109 analisti membri dell’American Psychoanalytic Association è salita di 4 anni, arrivando a quota 66. Significa che stanno diventando più vecchi, perché diminuiscono i giovani interessati a seguire le loro orme professionali. Ciò accade per un motivo molto pratico: stanno sparendo i pazienti. Tra il 1950 e il 1960, infatti, ogni terapista americano vedeva in media fra 8 e 10 clienti al giorno. Ora sono scesi a 2,75, quando va bene, perché molti di loro non hanno neppure un paziente da seguire.
Le critiche
I motivi di questa crisi, e la sua stessa esistenza, sono molto dibattuti. Jacques Lacan ne discuteva già negli Anni 70, per negarla. Siccome si tratta della salute di parecchie persone, e le opinioni variano, dobbiamo riconoscere dal principio che per molti pazienti e molti analisti la critiche sono semplicemente infondate. Poi c’è da tenere presente che la disputa è anche ideologica, con gli intellettuali di destra più inclini di quelli di sinistra a demolire Freud. Nello stesso tempo, però, la letteratura che mette in discussione la credibilità della disciplina nata con Sigmund Freud è piuttosto vasta. Alcuni dicono che non ha vero fondamento scientifico; altri che ha cercato inutilmente di sostituirsi alla religione, in particolare al sacramento della confessione; altri ancora che non ha ottenuto risultati terapeutici dimostrabili.
La crisi
Lo studio citato dal Post sostiene che la crisi, almeno in America, è frutto di vari fattori. Da una parte, la psicanalisi non ha mantenuto le promesse sul piano della capacità di risolvere i problemi dei pazienti, spesso vincolati a cicli infiniti di sedute che non hanno mai un punto d’arrivo. Dall’altra, la nostra società sempre più individualistica è diventata difficile da trattare, e le alternative alla riflessione sul lettino si sono moltiplicate, valide o infodate che siano.
Di questi problemi ha parlato Sebastian Zimmermann, noto psichiatra dell’Upper West Side di Manhattan, che ha appena pubblicato un curioso libro fotografico intitolato Fifty Shrinks. Contiene le immagini di cinquanta famosi colleghi, a partire dal mito Martin Bergmann, perché «volevo catturare la vecchia guardia, prima che fosse troppo tardi». Secondo Zimmermann, «oggi viviamo nell’era del narcisismo. Pensiamo di essere così unici, speciali, di sapere tutto, ci scattiamo i selfie. Questo è un mondo molto diverso da quello con cui aveva a che fare Freud».
I narcisisti
L’emergenza è evidente: «I narcisisti sono le persone più difficili da trattare. Generalmente non vengono mai in cura di loro spontanea volontà. Tutti gli altri sono il problema, mai loro». Secondo Zimmermann, «la gente che oggi va alle classi di yoga, o ai ritiri di meditazione, era quella che un tempo veniva in analisi». Adesso invece persino l’iPhone è diventato una minaccia che allontana dal lettino, non perché offra la stessa possibilità di riflettere su se stessi, ma perché ci travolge con la sua continua richiesta di attenzione, e quindi ci distrae dai problemi che invece dovremmo discutere con uno «strizzacervelli».
Il dibattito è destinato a continuare e molte voci si alzeranno in difesa della psicanalisi. Vedere le foto della «vecchia guardia» di Zimmermann, però, fa pensare alla fine di un’epoca.

La Stampa 4.3.15
Italia, crescono le terapie brevi, ma il futuro guarda a Oriente
Indagine della Società Psicoanalitica: più pazienti gravi
di Francesca Sforza


Tempo di bilanci per la psicoanalisi italiana: domenica saranno presentati ufficialmente a Roma i dati di una ricerca che viene effettuata ogni 10 anni e che fa il punto sul numero di pazienti, sul tipo di sofferenze trattate, sui tempi e i modi delle terapie, chiamate a confrontarsi con le società che cambiano. L’indagine è stata condotta dalla Società Psicoanalitica Italiana, la più antica d’Italia, che raccoglie oltre mille soci ed è presente in quasi tutto il territorio nazionale con 11 centri. Nel complesso sono stati inviati 505 questionari, pari al 57,5% di tutti i soci Spi. Il settore è in crisi? Come ha osservato, parafrasando Mark Twain, il dottor Giuseppe Sabucco, psicoanalista del centro milanese, tra i curatori sia della ricerca attuale sia di quella del 2004, «sembra di poter dire che la notizia della nostra morte appare un pochino esagerata».
Pazienti e terapie
Non si può parlare di un calo nel numero di pazienti, ma è scesa la media del numero di sedute che si è disposti ad affrontare. «Vi è una proporzionale riduzione delle ore di analisi effettuate individualmente - osservano Diego Buongiorno e Raffaele Russo, dei centri di Palermo e Napoli - ma non vi è un calo complessivo, soprattutto se si pensa che ci troviamo comunque in epoca di crisi economica». In definitiva ci sono sempre intorno ai 10 mila pazienti che in Italia in questo momento sono in analisi in senso classico (cioè con tre o quattro sedute la settimana) e un numero appena inferiore di persone che con gli stessi analisti fa una terapia più «leggera» di una o due sedute settimanali.
Dolori vecchi e nuovi
«In passato si registravano patologie più isteriche, erano diffusissimi gli attacchi di panico - dice il dottor Antonino Ferro, presidente Spi -: oggi invece si registrano più sofferenze legate all’identità». Guardando i numeri, si osserva che i disturbi della personalità sono passati dall’82% dei casi nel 2004 al 96% di oggi, mentre la percentuale degli analisti che hanno almeno un paziente con diagnosi di disturbo schizofrenico è passata dal 17% al 30,7%. Come dice la dottoressa Daniela Battaglia, del centro di Bologna, «mi sembra importante sottolineare che è aumentata la percentuale di soci che trattano disturbi considerati gravi ».
Identikit del paziente 2.0
Tra i dati interessanti c’è la dilatazione delle fasce d’età: si comincia molto prima e si finisce molto dopo. «Risultati molto buoni sono stati registrati dal modello svedese - dice la psicoterapeuta Jones De Luca – che prevede la psicoterapia per i neonati, così come è molto più frequente di un tempo che si inizi un’analisi a 60 anni e oltre». Il futuro - sostiene il dottor Ferro - è nella prevenzione: «Quando si comincia un percorso terapeutico da bambini, è chiaro che durerà di meno, sarà più efficace ed eviterà sofferenze e spese future». In molti casi si tratta di vincere le resistenze dei genitori, «ma, se si supera la ferita narcisistica, i vantaggi per i figli sono enormi». Cresce poi il successo delle sedute via Skype e il responso è unanime: si adatta meglio ai ritmi delle vite viaggianti.
Guardando a Oriente
Come membro della Società psicoanalitica americana, il dottor Ferro invita a non trascurare gli spunti che arrivano da Oltreoceano: «Non fermiamoci ai numeri, la psicoanalisi europea è più lenta, sentiamo il peso delle nostre tradizioni. Gli americani invece sono più iconoclasti, amano conquistare nuove praterie. Adesso per esempio – dice ancora Ferro - bisogna seguire con attenzione il lavoro di Thomas Ogden, di San Francisco che sta dando delle svolte importanti». Le sfide puntano verso Oriente: dalla Turchia alla Cina cresce il bisogno di accostarsi alla psicoanalisi e grazie alle tecnologie il contatto fra terapeuti lontani è diventato intenso come non mai.

il manifesto 4.3.15
Opg
Da cinque anni combatto per chiuderli, nessuno chieda ancora tempo per cancellarli
di Ignazio Marino

qui

Focus.it 3.3.15
Onde e particelle: la doppia natura della luce
Per la prima volta un esperimento mostra in una sola immagine la natura ondulatoria e quella corpuscolare della luce
di Fabrizio Carbone

con un video, qui
si ringrazia Francesco Maiorano

Corriere 4.3.15
Lo scrittore
Uno Stato palestinese è garanzia per Israele
L’alternativa è una dittatura dei fondamentalisti ebraici o un unico Paese in mano araba che ucciderebbe il sogno sionista
Oggi assistiamo al tentativo, da parte di politici irresponsabili, di dettare le scelte politiche
degli Stati Uniti, senza tener conto delle conseguenze per il nostro principale alleato strategico
di Amos Oz


Iniziamo dalla cosa più importante, una questione di vita o di morte: Se non ci saranno due Stati, ce ne sarà solo uno; Se ce ne sarà uno solo, sarà arabo; Se sarà arabo, chissà quale sarà il futuro dei nostri e dei loro figli. Uno Stato arabo, quindi, dal mare al fiume. Non uno stato binazionale, poiché gli stati bi e multinazionali (tranne l’eccezione svizzera) non hanno un futuro promettente: difatti tendono a frantumarsi o a dissanguarsi fino all’annientamento.
E difatti, immaginare che palestinesi e israeliani, che si sono inflitti finora reciprocamente tante e tali sofferenze, siano disposti all’improvviso a voltar pagina e ad accogliere una pacifica ed equa convivenza, appare a dir poco una chimera. Dopo un’eventuale separazione, in un futuro lontano, potrebbero anche adottare una qualche forma di cooperazione, ma non prima che i palestinesi abbiano avuto modo di sperimentare la libertà e la dignità che — come ben sappiamo — scaturiscono dall’indipendenza. Pertanto, esclusa la realtà di due Stati, e relegato al dominio della fantasia l’ipotesi del binazionalismo, ecco che avanza minacciosa la prospettiva di un unico Stato arabo in grado di cancellare il nostro sogno sionista. Nel tentativo di arginare una visione così funesta, questa terra — dal fiume Giordano al mar Mediterraneo — potrebbe essere governata da una dittatura di fondamentalisti ebraici, caratterizzata dal fanatismo razziale e capace di imporre la sua volontà sia alla maggioranza araba che all’opposizione ebraica. Come si è visto in gran parte delle dittature delle minoranze nell’era contemporanea, anche questa non durerà.
Dovrà fare i conti con il boicottaggio internazionale, assistere a bagni di sangue interni, o entrambe le cose, finchè non sarà costretta a cedere davanti all’inevitabile: uno Stato arabo dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. E la soluzione dei due Stati? Molti di noi, che appoggiano questa prospettiva, sostengono che l’attuale conflitto non può trovare soluzione in altro modo.
Ai loro occhi, Yasser Arafat era troppo forte e intransigente, ma il suo successore Mahmoud Abbas (Abu Mazen), uomo ponderato e ragionevole, è troppo debole. Pertanto si manterrebbe in vita l’opzione dei due Stati tramite un’operazione di «gestione del conflitto».
Ma ahimè, solo l’estate scorsa abbiamo vissuto sulla nostra pelle il significato di questa «gestione», che ci condanna alla prossima Guerra del Libano, e a un’altra ancora; alla prossima Guerra di Gaza, e a tutte le successive; come pure alla terza, quarta e quinta Intifada a Gerusalemme e in Cisgiordania, combattute nelle nostre strade. Il collasso inevitabile dell’Autorità palestinese vedrebbe l’emergere di Hamas o di un successore ancor più estremista, mentre tutti sarebbero testimoni di un’infinità di morti da una parte e dall’altra.
Questa è la realtà della «gestione del conflitto». Infine, l’idea di una possibile risoluzione del conflitto merita uno sguardo più approfondito: da un centinaio di anni a questa parte, non c’è stato un momento più favorevole alla fine delle ostilità come oggi.
Non che i nostri vicini si siano convertiti al Sionismo, né abbiano di colpo accettato il nostro diritto a questa terra. Il motivo invece sta nel fatto che i principali attori politici della regione — Egitto, Giordania, Arabia Saudita, gli altri Stati del Golfo e del Nord Africa — si ritrovano ad affrontare una minaccia di gran lunga più imminente e catastrofica a lungo termine rispetto a Israele.
Per alcuni di loro, l’Iran è al vertice nella classifica delle forze del male. Per altri, questa minaccia si chiama Isis. Ma sia Teheran che l’Isis sono la causa delle molte notti insonni in tutte le capitali del Medio Oriente, e su questo sfondo oggi Israele appare come parte della soluzione, se solo la collaborazione con noi fosse legittimata e rafforzata con la fine dell’occupazione dei Territori palestinesi e con il riconoscimen- to delle aspirazioni dei palestinesi verso uno Stato proprio. Dodici anni fa ci è stata proposta l’Iniziativa saudita per la pace, in seguito sottoscritta (con qualche modifica) anche dalla Lega araba. Non suggerisco di adottarla a occhi chiusi, ma certamente vorrei che venissero coinvolti i sauditi ed altri partecipanti in una discussione sui nostri dubbi e le nostre riserve. Una nostra risposta condizionata, ma positiva, a questo rovesciamento storico dell’antica posizione araba di rifiuto e chiusura totale sarebbe altamente auspicabile, e spalancherebbe la porta alla collaborazione sia sulla proposta dei due Stati che sulla sicurezza regionale.
La verità ineluttabile — per quanto controversa — è che la Guerra dei sei giorni, nel 1967, ha segnato la nostra ultima vittoria decisiva. Da allora, nessun risultato ottenuto può essere considerato una vittoria, perché in guerra il vincitore non è necessariamente colui che infligge le distruzioni peggiori, ma colui che ottiene il suo scopo.
Non avendo fissato alcun obiettivo politico per le guerre più recenti, non abbiamo potuto né aspettarci né dichiarare vittoria, e l’assenza di obiettivi è il riflesso di una realtà in cui nessuno dei nostri obiettivi nazionali è più raggiungibile con la forza. Con questo non intendo dire che la forza militare sia ormai inutile. Anzi, essa è essenziale alla nostra stessa sopravvivenza.
Fin troppo spesso ci ha protetto dall’annientamento, ed è servita sia come deterrente, ma anche per sconfiggere tutti i nostri avversari laddove la deterrenza è fallita.
La forza militare ha svolto egregiamente i suoi compiti. Ma non confondiamo la legittima autodifesa — dove non possono esserci compromessi — con l’illusione di imporre con la forza la nostra volontà politica sugli altri.
È questa la realtà dei limiti della forza militare, com’è stato dimostrato a più riprese negli ultimi decenni, ed è per questo che sono giunto alla conclusione che la cosiddetta «gestione del conflitto» è la ricetta di nuove sventure. Essa è destinata a fallire e dovrebbe, anzi, cedere il passo a uno sforzo sincero e duraturo verso la soluzione del conflitto. Fin troppi israeliani si sono convinti che basta utilizzare un bastone più grosso e far mostra di maggior risolutezza per «educare» gli arabi a sottomettersi alla nostra volontà. Tuttavia, nel centesimo anniversario di questo concetto fasullo, davanti alla prova schiacciante che il nostro bastone sempre più grosso si rivela ogni volta inadeguato, è giunto il momento di riconoscere l’arroganza e la futilità del voler «convincerli della nostra supremazia».
Eppure, la nostra politica è ancora concepita per imporre la nostra volontà con l’uso della forza. Di conseguenza, in Cisgiordania, l’Autorità palestinese è sul punto di crollare da un momento all’altro, sbattendo la porta su importanti operazioni di coordinamento per la sicurezza e lasciandola invece spalancata a Hamas e ad altri gruppi di estremisti pronti a occupare gli spazi lasciati liberi. I coloni e i loro sostenitori in patria e all’estero ripetono che questa terra è nostra per diritto. E quale sarebbe questo diritto? Non hanno ancora capito che il mondo — tra cui la maggioranza degli Stati arabi — riconosce il nostro diritto allo Stato di Israele all’interno della «linea verde» ma respinge senza mezzi termini la nostra occupazione dei restanti territori? Che riconosce il diritto dei palestinesi ad uno Stato accanto al nostro, ma respinge ogni pretesa di ampliamento? Questi coloni, molto simili in questo alla loro controparte estremista tra i palestinesi, sembrano aver dimenticato che i diritti — per quanto divini — se privi di legittimità internazionale devono restare confinati alle sacre scritture, non entrare a far parte del programma di governo.
Quando vantano il diritto esclusivo alla Terra di Israele si rifanno al precetto religioso di non cedere un palmo di terra, e quando pretendono di modificare la normativa che regola la Spianata delle moschee non si curano affatto dei sentimenti di quanti ne condividono la sacralità. Ai loro occhi, offendere 200 milioni di arabi è solo una prova di forza per scatenare lo scontro con un miliardo di musulmani in tutto il mondo.
Allora io chiedo: quando reclamiamo il diritto di pregare sulla Spianata delle moschee, siamo disposti a rinunciarvi finchè non verranno raggiunti gli accordi e che la questione non sia più fonte di divisioni e scontri? A coloro che intendono scatenare una guerra di religione sulle modalità di preghiera io dico: non nel mio nome. Non nel nome dei miei figli, dei miei nipoti, non nel nome di tutti i miei cari e di tutti coloro che sono d’accordo con me.
É sorprendente come persino la provocazione nei confronti degli arabi e dei musulmani non sembri soddisfare il loro appetito. Oggi assistiamo al tentativo di dettare le scelte politiche degli Stati Uniti, senza tener conto delle conseguenze per il nostro principale alleato strategico. Nel favorire un connubio tra la nostra estrema destra e la loro, nel tentativo di scalzare le fondamenta tradizionali bipartisan di tali rapporti, questi politici irresponsabili mettono a repentaglio la nostra sicurezza nazionale. Con presunzione essi vanno affermando: «Il leader del mondo libero oggi è solo nella lotta contro la minaccia iraniana, come osa Obama sbarrargli la strada?»
La nostra storia è ricca di esempi in cui abbiamo sfidato il mondo e in più di un’occasione i risultati sono stati catastrofici. David Ben Gurion vedeva giusto quando ci insegnava che lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito senza l’appoggio di un forte alleato a livello globale. Oggi, per quanto salda sia la nostra alleanza con gli Stati Uniti, la sua permanenza non è affatto scontata. Essa richiede rispetto e considerazione, e certamente non deve essere sottoposta a pressioni malevole e interessate.
In questo contesto, come in altri, occorre distinguere ciò che è permanente da ciò che è transitorio. La nostra alleanza con gli Stati Uniti è transitoria, e sta a noi investire costantemente i nostri sforzi per mantenerla in vita. D’altro canto, la nostra presenza accanto alla Palestina e nel cuore del mondo arabo è una caratteristica permanente della nostra realtà ed è questa a dover dettare le nostre scelte. Allo stesso modo, la forza degli agenti ostili, dai terroristi alle potenze nucleari, è in fase di trasformazione. Pertanto, dobbiamo garantire in permanenza la superiorità delle nostre capacità difensive. E per assicurarci che la nostra potenza difensiva sia sempre adeguata per affrontare ogni eventuale minaccia, nulla è più deleterio che prendere decisioni unilaterali; coalizzare la comunità internazionale contro di noi; e indebolire la nostra alleanza con gli Stati Uniti. Al contrario, guidare uno sforzo di pace dinamico con i nostri vicini palestinesi sotto l’egida dell’Iniziativa araba di pace farà molto per forgiare una coalizione di sostegno, regionale e internazionale, e disinnescare le tensioni nei territori, verso un rafforzamento della sicurezza nazionale.
Il mio appello per la pace non è fondato su ingenue aspettative riguardo le difficoltà nel superare le differenze o le sfide che ci vengono poste dalle bocciature che riceviamo da ogni parte. La pace non è un giocattolo su una mensola, che basta allungare una mano per afferrarlo. Né era semplicemente per il rifiuto di un papà — Rabin, Barak o Olmert poco importa — di pagare il prezzo che ne siamo stati privati così a lungo. Come dice il proverbio arabo: per applaudire ci vogliono due mani. Bisogna essere in due per ballare il tango attorno al tavolo dei negoziati e la nostra controparte palestinese ha contribuito non poco ai passati insuccessi. La colpa è di tutti coloro che sono stati coinvolti in questa vicenda, parti terze e sostenitori inclusi.
Di conseguenza, non prometto nessuna soluzione rapida verso un accordo; nessuna facile attuazione; né una panacea per il giorno dopo. Ma prevedo gravissime conseguenze se non sapremo separare il nostro Paese da quello palestinese. Non mi stancherò mai di ripeterlo: ci saranno due Stati se lo vorremo, oppure un unico Stato arabo in mancanza di alternative.
Non me la sento di criticare i milioni di israeliani che riconoscono la necessità di dividere i territori ma non si fidano della volontà dei palestinesi di garantirci quello di cui abbiamo più bisogno: la sicurezza.
Capisco e condivido questi timori legittimi. Non li prendo alla leggera. Anzi, ritengo che occorre addossare al movimento per la pace e ai suoi leader l’ulteriore responsabilità di vegliare attentamente sulle questioni di sicurezza; di cercare nuove sedi per ribadirne la necessità e l’attuazione (come quelle offerte dall’Iniziativa araba per la pace); e di convincere gli scettici della sua fattibilità.
La mia premessa sionista è semplice e diretta: non siamo soli su questa terra, né siamo noi gli unici proprietari di Gerusalemme. Ai miei amici palestinesi dico lo stesso: nemmeno voi siete soli qui. Questa nostra piccola casa dovrà essere suddivisa in due appartamenti più piccoli. E che vi sia una buona recinzione tra le due proprietà, per garantire rapporti di buon vicinato.
Una volta divorziati, proviamo a coesistere gli uni accanto agli altri, lasciando alle future generazioni il progetto di una possibile coabitazione — confederata o di altro genere. La nostra vita non è un film di Hollywood con i buoni contro i cattivi, bensì una vera tragedia di due cause giuste in un conflitto che genera sempre maggiori ingiustizie. Potranno continuare a scontrarsi, infliggendo ancora più lutti e sofferenze. Oppure potranno cercare di riconciliarsi tramite la separazione e il compromesso.
Nelle terre bibliche è difficile misurarsi con gli antichi profeti. Eppure, è lecito affermare che in Medio Oriente la durata di un «mai» o di un «sempre» va dai tre mesi ai trent’anni. Ciò che era impossibile quando prestavo servizio in divisa durante la Guerra dei sei giorni si è trasformato in un visto egiziano e giordano sul mio passaporto. Coloro che si opponevano aspramente a cedere un territorio «tre volte più grande di Israele» per sancire la pace con l’Egitto non immaginavano che quella pace sarebbe durata per decenni, superando prove durissime. I loro argomenti, allora e adesso, contro la pace con i palestinesi rispecchiano lo stesso terrore dell’ignoto, la stessa riluttanza ad assumere rischi nella prospettiva di un futuro migliore, malgrado la certezza che lo status quo è un’illusione, che sarà sostituita dall’inaccettabile. E proprio come i due precedenti — con l’Egitto e la Giordania — così pure le nostre dispute con la Palestina non saranno risolte dalla sera alla mattina. Eppure anche qui, con una leadership illuminata, si potrà cancellare la parola «impossibile».
(Traduzione di Rita Baldassarre)

il manifesto 4.3.15
«Netanyahu genera panico a scopo politico»
di Michele Giorgio

qui

il manifesto 4.3.15
Netanyahu, allarmismo nucleare contro Obama
Stati uniti/Israele. Israele, che possiede l’atomica, sfida il presidente Usa, in casa sua
di Luca Celada

qui

il Fatto 4.3.15
Pedofilia e Vaticano: “segreto” sulle carte di don Mauro Inzoli


“DELUDE PROFONDAMENTE la scelta del Vaticano di non trasmettere alla Procura di Cremona gli atti inerenti i casi di abusi su minori che hanno visto protagonista don Mauro Inzoli e accertati dalle stesse autorità ecclesiastiche. La decisione della Santa Sede di apporre ai carteggi richiesti dalla giustizia italiana il sub secreto pontificio, una sorta di segreto di Stato, è una contraddizione rispetto al nuovo corso che aveva annunciato lo stesso Papa Francesco”: lo afferma Franco Bordo, il deputato di Sinistra ecologia libertà, autore a Crema di un esposto che ha avviato l’inchiesta giudiziaria nei confronti del sacerdote. “Auspichiamo – prosegue l’esponente di Sel – che ci sia un ripensamento al riguardo e che si sia trattato di una decisione burocratica e non di una cosciente e precisa scelta politica da parte delle autorità vaticane, che non sarebbe compresa e accettata dai cittadini italiani. I tempi dell’omertà su temi del genere sono finiti e oggi ancor più di ieri il silenzio non è accettabile né comprensibile. Confidiamo ora che comunque le indagini proseguano e siamo fiduciosi che la magistratura italiana riesca ad accertare anche autonomamente i fatti”.

il Fatto 4.3.15
Quando la feccia si presenta in tivù
di Antonio Padellaro


Nel 1938, Telesio Interlandi pubblicò il primo numero del quindicinale La difesa della razza e ne stampò 95 mila copie che andarono rapidamente esaurite. Un successo editoriale che durò fino al 1943 e che ebbe, per così dire, la funzione di fare venire a galla l’antisemitismo che albergava in una parte degli italiani. Così, quando cominciò la persecuzione degli ebrei, molti girarono la testa e qualcuno fu indotto a pensare: in fondo se la sono cercata. Quello che succede in Italia a proposito dei rom richiama quello schema, per ora (ma solo per ora) nella forma farsesca adatta ai nostri tempi. Lunedì sera, a Piazza pulita, Gianluca Bonanno parlamentare europeo, leghista, girovago dei talk show dove vende la sua merce avariata, ha definito rom e zingari “feccia della società”. Una parte del pubblico ha battuto le mani e il conduttore Corrado Formigli, collega che stimo, ha detto: “È un applauso di cui mi vergogno”. Spiegando poi: “Bonanno è qui perché riflette un pezzo di Paese che la pensa come lui”. Nelle due frasi, entrambe vere, c’è il micidiale cortocircuito che sta resuscitando il mostro. Abbiamo un Salvini, e i suoi tristi epigoni che raccattano voti dando voce agli istinti più bassi: contro i clandestini che sarebbe meglio abbandonare tra le onde e contro i nomadi brutti, sporchi e cattivi. E abbiamo la Tv che in crisi di ascolti li corteggia e legittima presso milioni di persone la feccia che rappresentano. Purtroppo, vergognarsi non basta più.

il manifesto 4.3.15
Ermanno Rea: «La sinistra per ora non c’è. Renzi spegne gli ultimi fuocherelli»
Lo scrittore: un sindaco sceriffo è lontano dalla mia idea di politica, il Pd come un limone spremuto, non ha senso cercare altro succo
intervista di Francesca Pilla

qui

il Fatto 4.3.15
Incompresi
La dura vita dell’oppositore Pd: perde anche quando ha ragione
di Andrea Scanzi


“Ci sono storie che non esistono”, recita uno dei molti nonsense di Maccio Capatonda. E ci sono uomini che hanno torto anche quando hanno ragione, veniva da pensare guardando due sere fa Stefano Fassina. Era ospite di Piazzapulita in una puntata strana. Per alzare gli ascolti era stato chiamato Buonanno: idea ovviamente non premiata, perché il pubblico di Piazzapulita (3.2% di share) non c’entra niente con quello di Quinta Colonna (6.2%), dove il garbato Buonanno è di casa. Va però aggiunto come anche il pubblico di Formigli, perlomeno quello in studio, stia cambiando: più Buonanno delirava, più loro applaudivano. E giustamente Formigli si dissociava.
IN UN TALE scenario, Fassina viveva il suo ennesimo golgota. Diceva cose condivisibili, ma se lo filavano in pochi. Condannato al disinteresse, pare tuttora vittima del noto adagio renziano: “Fassina chi? ”.
Flavia Perina lo guardava come si guarda una comparsa. Vittorio Zucconi lo trattava con sufficienza, neanche avesse accanto un allievo volitivo ma poco dotato. E Fedriga, l’impalpabilissimo Fedriga, a un certo punto gli ha perfino dato ragione: un colpo oggettivamente durissimo. “Faccio i complimenti a Fassina per la grande onestà intellettuale”, ha detto per nulla ironico l’astro mai nascente della Lega. L’eccitazione politica di Fedriga, sempre più prossimo al Kermit dei Muppet, derivava dal fatto che Fassina si era spinto ad affermare – di fronte a un Formigli attonito – che l’Euro “sta morendo e va a fondo, non è un parere mio ma un dato di fatto, lo dice anche il Financial Times”.
Parole che stridono – giusto un po’ – con la politica del Pd, di cui Fassina fino a prova contraria fa ancora parte. Due sere fa il più antirenziano era lui, e anche da questo si capisce quanto Renzi detesti Piazzapulita: pur di indebolire il programma, è disposto a mandare l’odiato Fassina incontro al massacro, col rischio però che quello spazio diventi uno spot elettorale per Salvini. Povero Fassina: quando poteva governare non ne ha indovinata una, e ora che ha le idee più chiare non se lo fila quasi nessuno. Certo, quella sua ostinata mancanza di carisma e dialettica non lo agevola. Come non lo agevolano le tante decisioni passate, non proprio illuminate, dal voto favorevole alla Legge Fornero a quello sul pareggio di bilancio. È grazie a capolavori simili che Fassina, con tutto il Pd, è riuscito due anni fa a “non vincere” elezioni già stravinte.
ED È, QUESTA, una delle molte fortune di Renzi: avere oppositori interni che o non mordono (Civati) o non incendiano (Fassina). Oppure entrambe. Ciò nonostante, vedere Fassina lunedì metteva malinconia. Era impeccabile: quando ricordava (partendo dalle dichiarazioni della Meloni) che la Liberazione l’hanno fatta i partigiani e non certo i fascisti; quando insisteva sulla deriva fascista della Lega; quando ribadiva con coraggio l’agonia dell’Euro; quando trattava Buonanno da razzista. Bravo, contenutisticamente bravo. Eppure, niente: più parlava, più si sentiva un rumore di niente. Come in una vecchia canzone di De Gregori, però senza poesia.

Repubblica 4.3.15
La stretta dei democratici “Basta votare contro il partito ora serve obbedienza”
Il cambio di marcia sarà annunciato dal presidente dei senatori Zanda
Ma la sinistra si ribella al diktat: “Grave errore, così si accentua lo scontro tra di noi” L’ironia di Gotor: “Abbiamo votato appena 34 fiducie”
di Giovanna Casadio


ROMA . «Ci vuole disciplina, non si può andare avanti come nei mesi passati in cui ciascuno ha fatto quello che ha voluto... ». Non è più possibile perché in assenza del Patto del Nazareno, cioè dell’intesa con Forza Italia — spiegherà oggi Luigi Zanda, il presidente dei senatori dem nell’assemblea del gruppo — votare in dissenso creando una situazione di anarchia significa mettere a rischio il governo. La stretta nel Pd è stata annunciata ieri nell’ufficio di presidenza di Palazzo Madama.
E la giornata parlamentare del resto già parlava da sola. Due volte al Senato è mancato il numero legale in mattinata sull’informativa sul calcio per i fatti di Roma-Feyenoord. Il ministro Angelino Alfano non si è presentato, il vice ministro Filippo Bubbico è stato accolto da contestazioni, due volte seduta sospesa e alla fine salta l’informativa. Nel pomeriggio poi il governo è stato battuto su un emendamento sugli ecoreati: la maggioranza, assottigliata da assenze giustificate, non ha retto. L’ennesimo episodio, dopo tante gocce che hanno fatto traboccare il vaso. A gennaio le mine sull’Italicum, ovvero le richieste di modifica soprattutto della sinistra dem, sono state schivate dal governo grazie al “soccorso azzurro”. E solo una settimana fa l’Imu agricola e la raccolta di firme su un emendamento in dissenso di Roberto Ruta ha irritato non poco i renziani.
Il clima quindi è teso. La sinistra dem si ribella al diktat. Ma la parola d’ordine del governo, del capogruppo e dei renziani è: «Serriamo le file, basta dissensi». Uno dei dissidenti bersaniani, Miguel Gotor dice che «Zanda ha ragione, serriamo pure le file, l’abbiamo fatto finora, tanto che abbiamo festeggiato la 34esima fiducia al governo... poi però c’è la politica». Tra i civatiani, come Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci, Laura Puppato l’insofferenza è palpabile. Tocci presentò le sue dimissioni da senatore (poi respinte) dopo il voto sul Jobs Act, lacerato tra l’obbedienza al gruppo e il dissenso motivato. Zanda ha osservato, e ribadirà oggi, che «non si possono non avere regole» e che «ci vuole il rispetto delle decisioni prese a maggioranza ». Il capogruppo dem chiederà ai senatori di chiarire come intendano comportarsi nei prossimi giri di boa. «Non ci possono essere trabocchetti che partano dalle nostre file, così ci si mette fuori dal gruppo», sarà il pressing. La strada in Senato è tutta in salita. Non solo sulla riforma costituzionale e sull’Italicum, per ora alla Camera, ma anche sull’anticorruzione e su divorzio breve e unioni civili che sono i prossimi nodi al pettine. La sarabanda dei veti e del fuoco incrociato spaventa governo e Pd. Lucrezia Ricchiuti — che ha detto “no” sul Jobs Act, sui capilista bloccati nell’Italicum e sul Senato dei non-eletti — contrattacca: «Se nel gruppo si pensa di risolvere il dissenso minacciando e imponendo l’obbedienza, credo sia davvero la strada sbagliata. Così si acuisce lo scontro. Le fratture saranno solo più profonde. Invece ci vorrebbe da parte della maggioranza più confronto e capacità di ascolto». «Non siamo sabotatori — ripetono nella sinistra dem — però non si può pensare di mettere a tacere chi dissente».
Puppato invita a non esasperare il confronto: casomai ci vuole più ascolto. Però da parte di Renzi e del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi c’è il timore che la maggioranza di Palazzo Madama, già sul filo, possa traballare fino a cadere.

Repubblica 4.3.15
Il pasticcio delle primarie
di Piero Ignazi


IL PD considera le primarie il mezzo principe per la scelta dei candidati alle cariche pubbliche e di partito. Ma sono veramente il sistema migliore? Dipende dagli obiettivi. Se si vuole aumentare la partecipazione alle decisioni non c’è mezzo migliore (al di là di esperimenti attraverso la rete che però sono ancora in fase embrionale).
SE ALLO stesso tempo si vuole aumentare la partecipazione alla vita del partito e l’incremento degli iscritti, allora si affacciano seri dubbi. Se infine attraverso questo processo di selezione si vuole aumentare la democraticità interna del partito, non c’è mezzo peggiore: perché seguendo la strada delle primarie sempre e comunque si rafforza una visione plebiscitaria della democrazia deprimendo quella delegata. E si arriva così al pasticcio della Campania: dove si candida, e vince nell’imbarazzo generale, un candidato come De Luca, che il Pd non ha avuto la forza di far desistere. E ora il partito che aveva votato la legge Severino dovrà votare per un candidato governatore contro quella stessa legge.
Quando le primarie vennero introdotte per la prima volta a livello nazionale, nel 2005, si trattava in realtà di incoronare il prescelto, Romano Prodi. All’epoca quella iniziativa serviva soprattutto a legittimare un candidato che non rappresentava i maggiori partiti. Tuttavia emerse anche un effetto laterale: la partecipazione massiccia dei sostenitori, più di 4 milioni. Quella mobilitazione straordinaria, da un lato, costituiva una sorta di esibizione muscolare nei confronti dell’avversario, ma, dall’altro, evidenziava un grande desiderio, fin lì represso, di poter decidere direttamente. Nessuna iniziativa politica aveva mai coinvolto tante persone in Italia.
Le primarie apparvero quindi un efficace strumento per mobilitare l’elettorato e, in una fase di montante antipolitica — il successo del vaffa day di Grillo è di appena due anni dopo — , recuperare legittimità alla politica e ai partiti. Vi era poi un retropensiero in molti dei sostenitori delle primarie: sottraendo alla classe dirigente il potere di scelta dei candidati ai vari livelli si potevano modificare gli assetti interni e avviare un radicale rinnovamento del personale politico. In realtà questo obiettivo è stato raggiunto solo negli ultimi anni sia a livello di partito con la vittoria di Renzi, sia a livello politico con l’affermazione di sindaci e governatori estranei ai gruppi dirigenti consolidati — Pisapia a Milano e Doria a Genova i casi più eclatanti, oltre a Vendola in Puglia già nel 2005. Nel Pd il mito delle primarie è alimentato da una valutazione precisa, ripetuta come un mantra: la maggior “democraticità” di questo sistema.
Il ragionamento è limpido: aumentando il numero delle persone coinvolte nel processo di selezione, il cosiddetto “selettorato”, aumenta anche il grado di democraticità del partito. È evidente che un processo decisionale opaco e concentrato insindacabilmente in poche mani non può essere soddisfacente. Ma la decisione del Pd di estendere il selettorato sempre e comunque a tutti gli elettori — procedura adottata invece in pochissime occasioni da altri partiti europei — contiene in sé due handicap: dispossessa gli iscritti di una funzione che dovrebbe essere qualificante per l’appartenenza ad un partito, e stimola il virus plebiscitario all’interno del partito e, per estensione, nel sistema di rappresentanza italiano.
Nel momento in cui si offre a tutti (compresi i non cittadini italiani e i non aventi diritto al voto come i sedicenni) il diritto a scegliere, l’incentivo ad iscriversi al partito scende vertiginosamente: rimane solo l’adesione ideale, affettiva. E infatti gli iscritti al Pd, nonostante le brillanti performance elettorali e politiche di quest’anno, sono calati. Ma soprattutto, ben al di là della questione della esasperata personalizzazione, quello che più inquieta è la sottile delegittimazione del principio della rappresentanza e della democrazia delegata: come se procedere alle scelte attraverso rappresentanti sia un male. Indebolimento dei partiti, e contestualmente, indebolimento della democrazia sono gli effetti perversi che un uso debordante delle primarie rischia di provocare.

il manifesto 4.3.15
Appello all’Anpi: guardi ai nuovi antifascisti
di Saverio Ferrari

qui

 Il Fatto 4.3.15
Con Renzi si vola (come con B.)
L’ex capo di stato maggiore Tricarico: “La sicurezza è solo un pretesto”
Il premier, con 6000 ore di voli di Stato all’anno (costo 50 milioni di euro), triplica il dato di Letta (1800 ore) e sfiora il record dell’ex Cav (7000)
Indagini su chi ha svelato l’ultima trasferta in elicottero
di Emiliano Liuzzi


Tranne una breve parentesi, la passione per il volo, ministri e presidenti del Consiglio, negli ultimi vent’anni l’hanno sempre avuta. Verranno ricordati, nell’Olimpo dei virtuosi, solo Romano Prodi, il primo a dare un regolamento a quello che col tempo è diventato l’ufficio sprechi, e il giovane Enrico Letta, che nel 2013 fece precipitare le ore di volo della flotta degli aerei di Stato a sole 1877 ore di volo, quando il 2014 si è chiuso sulla media di berlusconiana memoria: 6000 ore di volo. Un’enormità, e non c’è da stupirsi visto l’uso che ne fa Matteo Renzi. Seimila ore di volo vuol dire che 16 ore e mezzo al giorno c’è un aereo che scorrazza per i cieli del mondo o con lui, o con qualche ministro. Non c’era bisogno che il presidente del Consiglio si facesse sorprendere da un temporale sull’elicottero: nel corso della campagna elettorale, prima delle Europee, fece coincidere a ogni visita un comizio elettorale. Per non parlare di Courmayeur e delle vacanze di Natale Vanzina style.
LA CIFRA ARRIVA da una fonte più che autorevole: il generale Leonardo Tricarico che, tra gli innumerevoli ruoli, ha ricoperto anche quello di capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, consigliere per la Difesa a palazzo Chigi ai tempi del governo Prodi e oggi guida un think tank (Icsa) che si occupa di difesa, intelligence e strategie militari. “Le seimila ore di volo sono troppe. Nel 2010, giusto per fare un confronto, furono 7000, ma parliamo di un periodo diverso da quello che viviamo oggi. Purtroppo, a parte brevi parentesi, non c’è mai stata una trasparenza: il riserbo sull’uso degli aerei è storicamente impenetrabile. E i nostri studi, come Icsa, sono sempre stati complessi. Purtroppo nascondersi dietro alle ragioni di sicurezza non basta. Non ci sono le ragioni di sicurezza che tutti vanno in giro a sbandierare, e non sono io a dirlo, ma i rapporti che i nostri servizi segreti consegnano al governo e alle autorità competenti ogni sei mesi”.
SEIMILA ORE di volo vuol dire un costo che si aggira attorno ai 50 milioni di euro ogni anno, e solo un quarto viene pagato dalla presidenza del Consiglio all’Aeronautica nei tempi stabiliti. “Nel 2012”, spiega ancora Tricarico, “l’Aeronautica vantava un credito di 250 milioni di euro e con il tempo lo Stato ha iniziato a pagare, ma sono soldi sottratti alle ragioni per le quali l’Aeronautica è nata: un obiettivo di difesa e non gestire i voli di Stato”.
Il servizio è gestito da anni attraverso la Presidenza del Consiglio dei ministri. L’hangar di Ciampino del 31esimo stormo, il reparto dell’Aeronautica che mantiene e fa volare gli aerei blu, si è allargato per far fronte “all’andamento crescente delle richieste”. Il risultato è una bella flotta vip a disposizione di Palazzo Chigi: otto velivoli ad ala fissa e due elicotteri, cui si aggiungono due jet in pool appartenenti all’amministrazione Difesa. Tre Airbus (1 da 48 posti e 2 da 36), sette Falcon (da 9, 12 e 16 posti), due elicotteri Agusta AW 139. Tutti moderni, con allestimenti di lusso, televisori al plasma, poltrone in pelle, tavoli in radica da lavoro, letti per il riposino, e toilette che non sono uguali a quelle degli aerei di linea.
Per le solite ragioni di sicurezza (ma su questo punto Tricarico è drastico: “Oggi al massimo i politici rischiano lancio di uova o pomodori”) non è possibile conoscere gli spostamenti del presidente del Consiglio, quello della Repubblica, del presidente della Corte costituzionale e quello di Camera e Senato, il ministro degli Interni, ma i voli restano, in teoria, grazie a un provvedimento firmato da Berlusconi dopo che sugli aerei erano stati fotografati olgettine e canzonettisti di corte, trasparenti. E questo vuol dire che ogni tanto il sito della Presidenza del Consiglio pubblica, dopo un paio di mesi, il volo e le motivazioni. Ma anche a leggere quello non ci sarebbero sempre particolari urgenze.
Sappiamo, per esempio, che il 12 gennaio il ministro Pier Carlo Padoan è volato a Strasburgo, ma poteva farlo con un volo di linea, e non sulla base di una concessione, ma perché l’aereo di Stato è previsto per i luoghi che non vengono raggiunti dai collegamenti di linea. Come il Roma-Londra sul quale è salito il ministro Paolo Gentiloni poche settimane fa, il 22 gennaio: il collegamento tra Fiumicino e la Capitale inglese è abbondantemente coperto. Il 22 dicembre, sempre a Londra, è volato il sottosegretario Sandro Gozi. Ampiamente coperta è anche la linea Roma-Washington dove a settembre si è recata il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin.

Corriere 4.3.15
Confermati gli sgravi per le paritarie: «Un cambio culturale»
Piccoli asili di periferia, licei di prestigio e diplomifici: gli istituti parificati accolgono il 12% degli studenti
di Federica Cavadini


Milano Accolgono il dodici per cento degli studenti, quasi quattro su dieci nelle scuole dell’infanzia. Incassano rette che vanno dai tremila ai diecimila euro all’anno. Ricevono dallo Stato l’1 per cento della spesa per l’istruzione. E altro arriva dalle Regioni, almeno in Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto dove le famiglie che mandano i figli alle paritarie ricevono un buono scuola. Sono per due terzi «di ispirazione cristiana». E più della metà sono al Nord.
Così si presenta oggi il pianeta paritarie, in una ricerca illustrata lunedì a Milano che fotografa un mondo con istituti storici come quelli dei Gesuiti o dei Salesiani, scuole di metodo come Montessori e Steineriana ma anche i cosiddetti «diplomifici». Piccoli asili gestiti dalle suore nelle periferie con «retta libera» e collegi prestigiosi ma selettivi. Realtà molto distanti. E con risultati diversi sulla preparazione degli studenti.
«Adesso per tutti c’è la crisi — sostiene Maria Grazia Colombo, già presidente di Agesc, associazione delle scuola cattoliche — e temiamo che alla fine non ci siano gli annunciati sgravi». «La detrazione ci sarà», ha dichiarato intanto il ministro Stefania Giannini, parlando di «un cambio culturale molto importante». «Quest’anno per esempio chiude il liceo Leopardi di Lecco. E la scuola Maria Consolatrice a Milano — spiega Colombo —. Le piccole scuole sono le prime a crollare. Le famiglie non arrivano a pagare le rette». Secondo l’associazione Treellle, che ha confezionato l’indagine sulle paritarie, quel 12 per cento di studenti delle private era il 27 negli anni Cinquanta. «Si va verso una totale statalizzazione della scuola pubblica», sostiene Rosario Drago, ispettore e consigliere Miur, fra gli autori della ricerca.
È netta e nota la linea di questa parte, che schiera anche l’ex ministro Berlinguer (sua la legge con il riconoscimento delle paritarie): «A favore del pluralismo e contro la contrapposizione, tutta italiana e fuori dall’Europa, scuola statale contro scuola privata». Per «pluralismo e libertà di educazione» è stato anche presentato l’appello firmato da 44 deputati della maggioranza. «Gli sgravi sono un punto di partenza», dice ancora Colombo.
Altrettanto noti gli argomenti del fronte opposto. Che gli studenti negli slogan di piazza riassumono così: «Il governo taglia l’istruzione pubblica e aiuta le private». E gli studiosi spiegano: «Aiuti o sgravi sono un errore: il sussidio che viene dato rappresenta comunque una mancata entrata», sostiene Daniele Checchi, cattedra di Economia alla Statale e ricerca sui risultati di pubbliche e private («Nell’Ocse-Pisa, sui quindicenni c’è un divario di punteggio: più basso alle private, che hanno più studenti deboli, più bocciati»). «La parità di trattamento — continua Checchi — è corretta soltanto quando manca il servizio pubblico, ed è il caso delle scuole dell’infanzia dove il privato spesso svolge una funzione suppletiva. Per le altre scuole, però, è giusto che chi sceglie un servizio diverso paghi un costo aggiuntivo».

il Fatto 4.3.15
Ennesima figuraccia. Renzi contro Giannini
Scuola: niente decreto né ddl, ma linee guida
“Il decreto per le stabilizzazioni non lo voglio, è roba da vetero-sinistra”
Tradite le promesse ai precari: il rinvio mette a rischio le assunzioni
Delle 150 mila annunciate ne arriveranno soltanto la metà
di Marco Palombi


Lui è nero, lei non s’è ancora rassegnata alla figuraccia a cui è stata costretta. Sono Matteo Renzi e Stefania Giannini al termine dello psicodramma decreto sì, decreto no, disegno di legge sì o no: alla fine niente, né l’uno né l’altro, le solite “linee guida” e del resto se ne riparla martedì prossimo per dare il tempo ai ministri di “studiare il testo che gli abbiamo consegnato”. Sono quasi le 21 quando il premier scende in sala stampa a palazzo Chigi e fa il suo breve show sulla riforma della scuola: scuro il vestito, scuro il volto, tesi i nervi quando lascia irritualmente la sala e neanche guarda la ministro dell’Istruzione che tenta di stringergli un braccio con uno dei sorrisi più larghi e finti mai visti in un palazzo istituzionale. Giannini, però, non è remissiva come sembra e lo scontro in atto tra i due è visibile a chi voglia scorgerlo.
DICE RENZI che anche se bisognerà aspettare martedì 10 marzo per l’approvazione, non ci sono problemi: “Non c’è alcun rischio che slittino le assunzioni dei precari. Quale sarà lo strumento legislativo dipende dalla situazione politica e dai caratteri di necessità e urgenza”. E ancora: “Sento discussioni surreali: se facciamo da soli siamo ‘dittatorelli’, se facciamo i decreti siamo antidemocratici, se facciamo i ddl non siamo abbastanza spediti, siamo in ritardo. Troviamo pace”. Poi un passaggio un po’ da bar: “Su questa cosa ci abbiamo messo un miliardino”. Infine grande rispetto per le Camere, le stesse istituzioni che ha schiaffeggiato a più riprese in questo anno di governo: “Noi facciamo una proposta al Parlamento: in un tempo non biblico può legiferare senza bisogno di un decreto. La palla passa al Parlamento, i tempi sono sufficienti”.
E qui c’è un bel pezzo del problema: con un normale ddl sarà difficile arrivare all’approvazione in tempo utile per far entrare in ruolo i docenti precari a settembre, cosa a cui il ministro Giannini sembra tenere parecchio. Quando è il suo turno, Renzi è già tornato nel suo ufficio, cosa che fa abbastanza raramente finché le telecamere sono accese: “Lo strumento legislativo lo sceglieremo martedì
- scandisce lei con la solita voce calma - Decideremo con chiarezza contenuti e veicolo legislativo. Per noi le assunzioni sono una priorità e un’urgenza, quindi sarà uno strumento che consenta di ottenere questo risultato”. Qui la titolare della Scuola allude al decreto - sponsorizzato anche da moltissimi deputati Pd - almeno per stabilizzare qualche migliaio di precari, ma non c’è verso: a Ballarò, su Raitre, giusto pochi minuti dopo, ammette che lo strumento sarà probabilmente un ddl delega e che sarà il Parlamento a doversi mettere una mano sulla coscienza approvandolo in tempi record se non vuole prendersi la responsabilità di ritardare le stabilizzazioni.
Sul decreto, insomma, si vedrà: Renzi non lo vuole e d’altronde assumere 150mila persone a settembre con tempi già stretti non è così urgente come imporre alle Banche Popolari una riforma che dovrà avvenire fra un anno e mezzo. Questione di priorità: un ddl delega va alle Camere che lo approvano nel tempo che credono, poi il governo scrive i decreti delegati e li rimanda in Parlamento che ha almeno 30 giorni per esaminarli. Con tanti saluti alle assunzioni di settembre.
Lo strumento legislativo però, sorprendentemente, non è l’unico terreno di scontro tra premier e ministro: anche sui numeri delle stabilizzazioni si litiga ed è sempre la conferenza stampa a dare conferma alle indiscrezioni. Come vi raccontiamo qui accanto, i soldi stanziati non corrispondono nemmeno da lontano alle promesse renziane di 150mila assunzioni. Il premier s’è ben guardato dall’entrare nei dettagli, ma la ministro ha dovuto rispondere a una domanda precisa. Svicolando: “Non voglio ripetere cifre che per noi sono chiare: ha senso che alla fine compaiano sul dettato di legge”. Modi un po’ evasivi per essere solo un rinvio tecnico.
NEL POMERIGGIO, infatti, fonti di governo avevano sostenuto che Renzi aveva bloccato tutto - anche l’ipotesi di un decreto solo per le assunzioni - con una motivazione abbastanza sorprendente: “Non mi piace l’assumificio. Fare un decreto solo per le assunzioni sarebbe come recitare liturgie da vetero-sinistra, vetero-sindacalismo”. L’assumificio l’aveva proposto lui, ma tant’è. Parlamentari di maggioranza, comunque, sostengono che un bel pezzo del problema siano pure le coperture: tra assunzioni, formazione, soldi ai presidi e per gli indennizzi dei docenti non assunti nonostante avessero lavorato per oltre 36 mesi la coperta del “miliardino” potrebbe essere troppo corta. Saranno nel testo finale, invece, le detrazioni fiscali per chi iscrive i figli alle scuole private care ad Angelino Alfano e allo stesso ministro Giannini: saranno alcune decine di milioni per dare il segnale che c’è stato “un cambio culturale importante”. Cioè che il “senza oneri per lo Stato” scritto nella Costituzione non vale davvero più.

Il Sole 4.3.15
Dopo sei mesi il governo è ancora fermo alle linee guida
di Eugenio Bruno


Sull’istruzione il governo aziona il rewind. Che lo si chiami primo giro di tavolo, per usare il gergo di palazzo, o «inizio esame», per riprendere le parole del premier Matteo Renzi, la realtà è che linee guida erano il 3 settembre e linee guida rimarranno almeno fino al Cdm di martedì prossimo. Nonostante i due mesi di consultazione pubblica già svolti sul documento per la «Buona Scuola» e i ripetuti annunci che era ormai arrivata l’ora di trasformarlo in uno o più provvedimenti (prima a gennaio, poi a febbraio e infine a marzo).
Al netto delle riserve per l’ennesimo rinvio con cui si è conclusa la giornata di ieri - che si somma ad altri slittamenti in ambiti diversi (si pensi al fisco ad esempio) - c’è un aspetto positivo del ragionamento seguito dal presidente del Consiglio in conferenza stampa che merita di essere evidenziato. Stavolta in positivo. Si tratta della volontà di mantenere l’intero disegno riformatore della scuola in un unico provvedimento. Rinunciando alla strada del doppio binario che è emersa più volte nelle ultime 24 ore e che prevedeva il varo immediato di un disegno di legge con le modifiche di sistema e l’approvazione in un secondo momento di un decreto con l’assunzione di 180mila precari.
Questo schema non sarebbe stato condivisibile. Innanzitutto perché è stato già seguito, senza successo, per il riordino della pubblica amministrazione. Alla conversione senza intoppi del decreto Madia è seguita una vita difficile in Parlamento della delega Pa che lo completava. E che, a sette mesi dalla sua emanazione in Consiglio dei ministri, non ha ancora ottenuto il primo via libera parlamentare.
Ma ci sono anche ragioni interne alla riforma della scuola che lo sconsigliavano. L’esigenza di cambiamento che caratterizza il nostro sistema di istruzione può essere soddisfatta solo se la stabilizzazione di massa e in due tempi prevista al suo interno - 105mila docenti in cattedra a settembre e 75mila entro il 2019 dopo un concorso, ndr - arriva contestualmente agli altri capisaldi. Il piano straordinario di assunzioni messo in cantiere può funzionare solo se collegato, da un lato, alla partenza di un vero organico dell’autonomia e, dall’altro, alla creazione di un primo percorso di carriera degli insegnanti. In caso contrario si rischierebbe di ingolfare gli organici con un plotone di insegnanti che non avrebbero alcun ruolo. Fino alla nascita dell’organico dell’autonomia e al potenziamento delle materie (inglese, musica ed educazione fisica alle elementari; arte, inglese e diritto alle superiori) i presidi potrebbero usarli solo per coprire le supplenze brevi dopo la stretta imposta dalla legge di stabilità agli incarichi di un solo giorno.
Passando dai “contenitori” al “contenuto” ci sono alcuni squarci di luce che la «Buona Scuola» contiene e che i discorsi sulla scelta del veicolo normativo più adatto non possono oscurare. Si pensi all’introduzione di un vero anno di prova per i docenti neoassunti oppure al superamento degli scatti di anzianità a vantaggio di un sistema incentrato per il 70% sul merito e sulla valutazione. Così facendo non solo i professori avrebbero davanti un’opportunità di carriera da perseguire ma verrebbe anche sanata l’anomalia che fa della scuola l’unico comparto del pubblico impiego a beneficiare ancora degli scatti di anzianità.
Senza dimenticare infine tutto il discorso del collegamento tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro che viene finalmente valorizzato. Un tema quanto mai cruciale in un un Paese caratterizzato, al tempo stesso, da un tasso di disoccupazione giovanile oltre il 40% e da una quota di studenti in alternanza che fa fatica a superare il 10 per cento. Portare dalle attuali 70-80 ore in un anno alle future 400 nel triennio la formazione on the job per gli istituti tecnici e professionali è un buon segnale che si vuole invertire la rotta. Tanto più perché abbinato al rafforzamento dal 10 al 30% della quota premiale per gli Istituti tecnici superiori. Due misure che, se confermate, metterebbero l’Italia sulla stessa strada del modello duale tedesco. Con i risultati economici e occupazionali che sono sotto gli occhi di tutti.

Il Sole 4.3.15
Il progetto di riforma. Più spazio all’alternanza tra scuola e lavoro
Aumenti di stipendio legati per il 70% al merito
di Cl. T.


Gli aumenti stipendiali degli insegnanti non saranno più legati, come accade oggi, esclusivamente alla mera anzianità di servizio: il “merito” peserà per almeno il 70% degli incrementi retributivi (di cui un 10% andrà a valorizzare le nuove figure di professore mentore o staff). I presidi saranno più autonomi e potranno anche ridurre il numero di alunni per evitare le “classi pollaio” e distribuire meglio gli insegnanti (del nuovo organico dell’autonomia) per esigenze didattiche e organizzative della scuola.
Si proverà a rafforzare l’inglese a partire dalla scuola primaria, estendendo la metodologia «Clil» (insegnamento in lingua straniera di una materia non linguistica), oggi praticato alle superiori. È previsto un potenziamento anche di storia dell’arte, diritto ed economia nelle scuole superiori (prime classi). Le ore di alternanza scuola-lavoro saliranno dalle attuali 70-80 ad almeno 400 ore negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali (per i licei l’asticella si fermerà ad almeno 200 ore sempre a partire dalla terza classe).
Il progetto di riforma dell’Istruzione, dopo mesi di attesa e ripetuti annunci, prenderà la forma di un disegno di legge che (forse) verrà esaminato dal Governo la prossima settimana (la data indicata dal premier è martedì 10 marzo).
L’intenzione del Miur è quella di provare a introdurre primissimi elementi di valutazione nel sistema scuola (dopo i progetti sperimentali tentati da Mariastella Gelmini e subito boicottati dai sindacati che costrinsero Francesco Profumo a stoppare queste iniziative). Le “pagelle” per i docenti si fonderanno su un sistema di crediti didattici, formativi e professionali. Si valuterà ogni tre anni in base all’autovalutazione annuale dell’insegnante, alla qualità della didattica e al percorso professionale, anche in relazione all’organizzazione e alla progettualità della scuola. Chi non soddisferà requisiti minimi (ancora da definire) non avrà l’aumento legato al merito. Se il giudizio sarà negativo per due tornate consecutive sono previste valutazioni periodiche ad hoc (queste norme, è scritto nella bozza di articolato, «non potranno essere derogate dalla contrattazione collettiva»).
Si prova anche a costruire una sorta di carriera per gli insegnanti (oggi del tutto inesistente). Potranno avere la qualifica di “mentore” e svolgere funzioni di supporto didattico e coordinamento delle attività di formazione. Chi diventerà docente “staff” avrà invece compiti organizzativi e progettuali. I nuovi insegnanti “mentore” e “staff” non potranno superare il 15% della dotazione organica.
L’autonomia scolastica servirà soprattutto a potenziare l’offerta formativa a favore degli alunni: si potrà adattare il calendario scolastico, rafforzare il tempo scuola e virare per una programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario complessivo del curricolo e di quello destinato alle singole discipline. È allo studio anche l’ipotesi di istituire un «Curriculum dello studente» per orientare al meglio il ragazzo negli studi successivi e per l’accesso al mondo del lavoro.
Positivo è certamente l’investimento (20 milioni per quest’anno, 100 milioni a decorrere dal 2016) per migliorare il link con le imprese. L’alternanza sale a 400 ore nei tecnici e professionali, e si potranno svolgere periodi di formazione on the job anche presso enti pubblici e in convenzione con gli studi professionali (una misura utile per esempio per i futuri geometri). I percorsi di alternanza, finalmente, avranno sbocco (e rilevanza) nell’esame di Stato: per i tecnici e professionali la terza prova scritta potrà avere ad oggetto la soluzione di problemi o casi pratici e professionali o lo sviluppo di progetti.
Le scuole potranno introdurre insegnamenti opzionali, a scelta dello studente. L’apprendistato per i ragazzi di quarta e quinta superiore (anche minorenni) sarà portato a regime, superando la sperimentazione attualmente prevista fino al 2016 introdotta nel 2013 da Maria Chiara Carrozza (finora l’Enel ha assunto circa 150 studenti-apprendisti di istituti tecnici sparsi in tutt’Italia).
Dopo i rilievi dell’Ocse e i miglioramenti grazie all’utilizzo dei fondi Ue, il Miur prova ad accelerare sul fronte digitale con il potenziamento delle infrastrutture di rete e delle competenze (a partire da logica e pensiero computazionale). La didattica laboratoriale sarà implementata attraverso i laboratori territoriali (e comunque maggiormente legati alle imprese). Nel provvedimento dovrebbe esserci anche un primo pacchetto di semplificazione degli Its, le super scuole di tecnologia post diploma di durata biennale: ma non si interverrebbe sui due nodi più urgenti, governance e bilancio. Si ipotizza pure la fusione Invalsi e Indire: sarebbe un passo indietro perché non si possono sommare valutazione (che fa l’Invalsi) e formazione e ricerca (che fa l’Indire). Il rischio è che si finirebbe per fare male entrambe le funzioni.

il Fatto 4.3.15
Addio 150 mila assunti. La promessa si dimezza
La copertura di un miliardo viene ridotta a 680 milioni
Lo strumento della delega rimanda anche la possibilità che si faccia per il 2015
di Salvatore Cannavò


Più che la ministra Giannini, a essere traditi da Matteo Renzi sono i precari della scuola che avevano creduto ai suoi annunci. Le slide su “la buona scuola” sono ancora lì, sul sito dedicato. Nel 2015 si sarebbe dovuto procedere a 148.100 assunzioni quasi tutte tratte dalle Graduatorie a esaurimento, le liste infernali dei precari storici. Renzi aveva indicato chiaramente anche i fondi stanziati: un miliardo. E poi, era chiaro a tutti che, visti i tempi per procedere alle assunzioni, sarebbe stato necessario un decreto.
Tra definizione dei fabbisogni, calcoli delle figure docenti, coordinamento tra scuole, provveditorati e ministero, possono passare dei mesi. L’anno scorso, l’atto di indirizzo del Miur per il fabbisogno della scuola fu redatto a gennaio. Come sia possibile che un disegno di legge che, bene che vada, sarà approvato a maggio, possa essere efficace per il mese di agosto, quando serviranno i decreti di assunzione, è un mistero.
LA BOZZA ENTRATA ieri in Consiglio dei ministri, e illustrata in conferenza stampa da Stefania Giannini, non mantiene le promesse, dunque, soprattutto sul piano finanziario. Nel testo su “la buona scuola”, infatti, si stanziava un miliardo per le nuove assunzioni mentre nella bozza si parla solo di 680 milioni e invece dei tre miliardi per gli anni successivi si stanziano circa 2,4 miliardi. Ci sono molti posti in meno rispetto ai 148 mila annunciati.
La frase chiave del testo è quella relativa all’organico (riferito all’autonomia degli istituti comprensivi) “in misura corrispondente al fabbisogno stabilito dagli ordinamenti vigenti tenuto conto della valorizzazione e del potenziamento dell’offerta formativa”. Tale offerta si riferisce a linee guida che riguardano l’insegnamento della musica, dell’inglese dell’educazione fisica, ma anche dell’intreccio tra arte, ambiente, enogastronomia e i territori. Una scuola, nelle intenzioni, più legata al “made in Italy” e alla sua valorizzazione, più intrecciata con le aziende (si prevedono sportelli per l’occupabilità direttamente negli istituti).
La crescita della docenza servirà a potenziare questa offerta che però, per come è immaginata, non sarà molto rilevante anche perché avverrà nel rispetto dell’ordinamento vigente e quindi dei tagli già fatti finora. Lo stanziamento dei 680 milioni per il 2015, riduce di molto le previsioni di assunzione. La ministra Giannini non ha voluto dare numeri rinviando al testo che sarà licenziato il 10 marzo. Ma facendo un semplice conto matematico non si tratterà di più di 100 mila assunzioni.
MOLTO DELUSI quindi, gli iscritti alle Gae, i circa 150 mila precari sbandierati finora, un terzo dei quali potrebbero rimanere senza speranza e con la prospettiva, scritta nel testo di legge, della soppressione delle stesse Gae. Vengono tutelati, invece, i vincitori del concorso del 2012 rimasti finora senza cattedra e che saranno immessi in ruolo. Dall’approvazione di questa legge, poi, il concorso sarà la norma per essere assunti, si svolgerà ogni tre anni e sarà su base regionale. Allo scadere dei tre anni, le graduatorie saranno cancellate e si ricomincia da capo. Uno spazio è concesso anche alle Graduatorie di Istituto che copriranno posti eventualmente rimasti liberi. Tutti i nuovi assunti dovranno fare apposita domanda tramite il sistema informativo gestito dal ministero dell’Istruzione.
Il testo che è stato oggetto del dibattito di ieri prevede anche lo Statuto dello studente ma soprattutto integra il piano di riforma degli scatti stipendiali ai docenti. Che saranno, per il 70%, legati al “merito”, come ha detto Giannini, cioè conseguenti ai Nuclei di valutazione istituiti nelle scuole anche se la definizione di questa partita è demandata al nuovo contratto nazionale. Confermate le detrazioni per le scuole paritarie (4.000 euro a studente) viene inserita la possibilità di destinare il 5xmille agli istituti e lo school bonus, un credito di imposta del 65% per elargizioni liberali.

il Fatto 4.3.15
Tutto fermo
La rabbia dei precari: “Dilettanti!”
di Tommaso Rodano


La storia del merito se la devono mangiare. Merito, merito, merito. Lo sentiamo ripetere tutti i giorni, da persone che hanno meno titoli di noi”. La voce di Danilo Corradi, insegnante precario di 37 anni, vibra di frustrazione. “Matteo Renzi ha una formazione inferiore alla mia. Quando parla di scuola, parla di qualcosa che non conosce. Mi piacerebbe discuterne con lui: lo sfido a duello. Siamo ancora in attesa che il meritevole presidente del Consiglio azzecchi il decreto a cui sta lavorando da mesi”. Danilo è uno dell’esercito dei 150 mila. Per la precisione, 148 mila e 100: sono i docenti della “buona scuola”, quelli che a settembre avrebbero dovuto festeggiare l’assunzione dopo anni in bilico, a contare le ore di supplenze e i punti in graduatoria. Uno dei primissimi annunci di Matteo Renzi. Non sarà così, probabilmente. Le carriere e le vite dei 150 mila resteranno ferme, lasciate a mollo un altro anno ancora.
QUANDO ARRIVA la notizia della marcia indietro di Renzi, gli insegnanti si sfogano sul forum del sito OrizzonteScuola: “La riforma più veloce del secolo... morta il giorno prima di partire” (scrive l’utente dlepora), “Dilettanti allo sbaraglio. Spettacolo penoso” (80ila), “Pagliacciata senza fine. Un disegno di legge non potrà mai garantire le assunzioni a settembre, e con queste possiamo seppellire la buona scuola, quello che ne era rimasto” (uforobot), “Prendiamo atto che la tanto rinomata riforma epocale che eliminerà il precariato NON ESISTE” (jeppo17). I messaggi di questo tenore sono decine.
Per Danilo Corradi il problema è a monte. La riforma è fallimentare: “Se Renzi fosse andato avanti con il decreto, avrebbe rischiato un disastro anche peggiore. Secondo le bozze, il governo avrebbe fatto assumere circa 100 mila precari. Gli altri sarebbero rimasti fuori. Con l’abolizione delle graduatorie ad esaurimento e l’obbligo di rifare il concorso nazionale, praticamente, avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo. Il decreto sarebbe affogato in tribunale, tra i ricorsi”. Così, in compenso, rimane ancora tutto fermo. Le storie personali di chi ha investito la propria vita sull'insegnamento sono segnate dalle recriminazioni.
“A 37 ANNI - RACCONTA DANILO - ho sulle spalle 6 anni di Filosofia, laureato con lode. Ci ho messo un po’ di più, ma mi sono pagato l’università coi lavoretti. Poi due anni di scuola di specializzazione. Poi - mentre iniziavo le prime supplenze nelle scuole private (perché per le pubbliche serviva più anzianità) - ho vinto una borsa per un dottorato in Storia Contemporanea. Uno dei quattro anni di ricerca l’ho fatto alla New York University, visto che ci accusano di non sapere l’inglese”. Sei, più due, più quattro, più altri quattro di insegnamento precario. In tutto sono sedici anni di formazione qualificata. E il lavoro stabile in una scuola resta un miraggio. “Sono riuscito a comprare una piccola casa grazie ai risparmi della mia compagna e al prestito di un amico, le banche non mi concedevano un mutuo. E sono fortunato. Mio padre era un operaio dell’Olivetti, da bambino mi diceva che se avessi studiato duramente, sarebbe andato tutto bene. Abbiamo 37 e 35 anni. Per mettere su famiglia aspettiamo ancora la stabilità. Se facessimo un figlio – sorride amaro – avremmo un bonus per iscriverlo a una scuola privata”. Renzi sta tradendo. “Tra gli insegnanti c’è un sentimento che bolle. Nonostante lo scetticismo, ci abbiamo creduto. Ti dicono che forse ti assumono, dopo tanti anni. Ci speri. Se adesso il governo torna indietro, vedranno la rabbia. La rabbia accumulata. L’hanno solleticata con le promesse”.

Repubblica 4.3.15
Il passo lento del rottamatore nella settimana degli intoppi
L’abbandono del decreto sulla scuola e l’ambiguità sulla vicenda De Luca sono un segnale di difficoltà
di Stefano Folli


SI VORREBBE credere che la rinuncia al decreto legge sulla scuola sia figlia dei consigli elargiti al governo dal presidente della Repubblica, le cui parole furono inequivocabili nel discorso di insediamento: l’abuso del criterio di «urgenza» ha creato negli anni una grave distorsione istituzionale. Si vorrebbe credere quindi a un gesto di saggezza da parte di Palazzo Chigi: il secondo in poco tempo, visto che anche per la riforma della Rai — tipica materia parlamentare — si era pensato per un attimo al decreto, poi per fortuna accantonato in favore del disegno di legge.
Sfortunatamente nel caso della scuola, ossia l’assunzione definitiva di un esercito di precari, pare non trattarsi di saggezza, bensì di altri problemi che impongono di rivedere il testo: o le coperture economiche carenti o le difficoltà pratiche nell’individuare criteri certi per stabilire chi ha diritto ad essere assunto. Nel rispetto delle direttive europee e con la necessità di evitare una valanga di ricorsi. Ci si domanderà come sia possibile che si sia arrivati fino al giorno del Consiglio dei ministri per accorgersi che il provvedimento cosiddetto della Buona Scuola non sta in piedi o quanto meno ha bisogno di un ulteriore lavoro di limatura e di messa a punto. La risposta andrà girata alle decine di migliaia di insegnanti precari che attendono di essere sistemati una volta per tutte e rischiano adesso la più amara delle disillusioni. È possibile, s’intende, che si trovi la quadratura del cerchio. Ma l’improvviso abbandono dello strumento del decreto, da parte di un governo che ne fa un uso generoso, sta a testimoniare l’esistenza di un grave intoppo. Certo non ha il sapore di un atto di rispetto verso il Parlamento, come pure si vorrebbe sostenere. Quando ha potuto o ne ha avuto la convenienza il governo Renzi ha saputo come premere sulle Camere con tutti i mezzi regolamentari consentiti: è accaduto sia sulla riforma del Senato sia sulla legge elettorale (l’Italicum). Adesso si sceglie invece di prendere tempo e di procedere con passo lento nonostante che un’urgenza stavolta ci sarebbe, visto che i precari «stabilizzati» devono trovare il loro posto nei ruoli scolastici entro i primi di settembre. È il segno che l’operazione scuola non era stata ben preparata ovvero ne erano state sottovalutate le asperità.
Ed è la ragione per la quale il disegno di legge discusso ieri sera risulta tutt’altro che ben definito. Prevale la nebbia, tipica di quando i problemi non sono risolti, ma si vuole comunque vendere la merce sul piano mediatico. Nella Prima Repubblica si diceva in questi casi che di un certo provvedimento era stata approvata «solo la copertina»: al Parlamento l’onore di riempirla di contenuti. All’incirca è quello che sta accadendo con la scuola e i precari, nonostante che la Prima Repubblica con i suoi riti si consideri estinta da più di vent’anni. Ma sembra che qualcosa di simile sia avvenuto anche con le misure per la banda larga di Internet: anche qui grandi attese e poi, al dunque, solo una copertina. O meglio, come si dice oggi, «le lineeguida ». Un po’ poco per un governo che della velocità realizzativa ha fatto la sua cifra fondante.
In ogni caso è stata una giornata significativa per il Parlamento. Per la prima volta dopo molto tempo gli è stato riconosciuto giocoforza un certo ruolo. Non solo. Anche sul caso De Luca le Camere sono tornate centrali nell’ottica di Renzi. Come ha detto la ministra Boschi, nel solco delle parole del presidente del Consiglio a questo giornale, la legge Severino non sarà modificata per salvare il candidato del Pd alle regionali. Tuttavia, ha aggiunto un po’ sibillina, il Parlamento è sovrano e prenderà le sue decisioni. Tanto è bastato a Renato Brunetta per annunciare l’incoerenza del governo e dare per certo un provvedimento «ad personam» pro-De Luca. Una certa ambiguità nel governo c’è senza dubbio, nonostante le assicurazioni del premier. Ma che sia possibile in questo clima votare una modifica alla legge Severino, sembra fantascienza. Meglio ragionare su come mai Renzi ha cominciato la settimana così male: fra caso De Luca, riforma della scuola, banda larga e anche disavventura in elicottero. Un momento di meditazione è opportuno.

il Fatto 4.3.15
Boschi passa alle Camere la patata bollente De Luca
La ministra e le modifiche alla Severino: “Ci pensi il Parlamento”
La minoranza s arrabbia. Ma la salva-Campania si farà
di Paola Zanca


All’ora della merenda, in un capannello del Transatlantico, un gruppo di funzionari del gruppo parlamentare del Pd scorre le ultime notizie sul cellulare con gli occhi sbarrati. “Ma come ‘ci penserà il Parlamento’... noi non-lo-fac-cia-mo! ”. Sono imbufaliti con Maria Elena Boschi che ieri ha deciso di interpretare il suo ruolo di ministro dei Rapporti con il Parlamento in maniera singolare: lanciando a due mani la patata bollente delle modifiche alla legge Severino. Uscendo da un convegno a Palazzo Giustiniani, la fedelissima di Matteo Renzi ha risposto così a chi le chiedeva come pensavano di affrontare la grana Vincenzo De Luca (vincitore delle primarie Pd, condannato, destinato a essere sospeso subito dopo l’eventuale elezione a presidente della Campania): “Al momento non è allo studio da parte del governo nessuna ipotesi di modifica della legge Severino”. Poi ha aggiunto: “Non so se il Parlamento, nelle prossime settimane, riterrà di intervenire”. È così che quella che fino a ieri poteva essere relegata come iniziativa di una sparuta pattuglia di deputati democratici vicini al sindaco (decaduto) di Salerno, finisce al centro del dibattito parlamentare, angustia il pomeriggio dei funzionari legislativi del Pd e fa innervosire la minoranza democratica: “Non si può usare il Parlamento à la carte – dice Gianni Cuperlo – Il coinvolgimento non vale sulla riforma costituzionale e vale invece sulla legge Severino? ”.
PER LA VERITÀ, come vi abbiamo raccontato ieri, non serve che nessuno si metta a studiare codici e precedenti: lo ha già fatto Fulvio Bonavitacola, braccio legale di De Luca a Montecitorio. Che ha depositato in commissione Affari Costituzionali la proposta di legge che salva il candidato dalla Severino: via l’abuso d’ufficio dai reati che prevedono la sospensione dall’incarico e il problema è risolto sia per De Luca che per Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli a rischio per le stesse ragioni. Ora che la Boschi ha lanciato la patata bollente al Parlamento intero, dicevamo, la faccenda si è fatta seria. E Bonavitacola gongola. Ha già praticamente incassato il sì dei bersaniani. Non roba di poco conto, se si considera che, in commissione, sono quasi tutti esponenti della minoranza Pd: dallo stesso Bersani (che in serata, a Otto e mezzo, parlerà di “rigidità eccessive” della legge) a Rosy Bindi, da Gianni Cuperlo ad Alfredo d’Attorre, tutti saranno chiamati a votare la salva-De Luca. Il punto è solo quando. Spiega Davide Zoggia (bersaniano che si è fatto ambasciatore della norma in Parlamento) che stringere i tempi sarebbe inopportuno: non si può andare di corsa e tentare il blitz prima delle regionali di maggio. Ma a De Luca quella norma serve anche se arriva in ritardo. E nel merito Zoggia ha già detto sì, seppur rilanciando la patata bollente al governo: “Renzi prenda l’iniziativa, o si fa un tagliando alla Severino o si modificano le primarie. La minoranza del Pd non rimane insensibile a questi temi. Quello che è importante è che non si faccia finta di nulla”. E finta di nulla non si farà.
Paradossalmente, il problema vero per il Pd a questo punto è Forza Italia. Proprio quelli che contro la Severino hanno messo in piedi una battaglia campale. Quella è la legge che ha buttato fuori Berlusconi dalla politica e adesso vogliono cambiarla per salvare De Luca? Dalla Campania, Stefano Caldoro, il governatore uscente di nuovo in corsa, dice all’Huffington Post che la norma dovrebbe essere “corretta e riservata solo per reati molto gravi”. Ma è chiaro che nel centrodestra punteranno ad alzare la posta.
Nel Pd, nessuno si dice disposto a modificare l’impianto di fondo della legge. Ma è lo stesso capogruppo democratico in commissione Affari Costituzionali Emanuele Fiano a convenire che “punti giuridici di discussione ci sono”. E sono già all’esame della Corte costituzionale. L’ultimo quesito è stato sollevato dalla Corte di Appello di Bari nell’ambito della causa di un consigliere regionale pugliese, Fabiano Amati. Alla Consulta si chiede di verificare la costituzionalità di alcune parti della Severino: c’è la questione dell’abuso d’ufficio, c’è la disparità di trattamento tra parlamentari e amministratori locali ma c’è anche l’annosa faccenda della retroattività, quella contestata da Berlusconi. Se il Parlamento intervenisse prima del pronunciamento della Corte, potrebbe darsi che la Consulta non abbia più motivo di dire la sua. Forza Italia ha già subodorato il pericolo: “Vogliono modificare la legge perché sanno che i giudici costituzionali gliela fanno a pezzi”.

Corriere 4.3.15
De Luca, il Pd si spacca sulla legge Severino
di Alessandro Trocino


Tra i democratici c’è la tentazione di una revisione per eliminare l’abuso d’ufficio tra le cause di incompatibilità
Bersani: troppe rigidità, serve una riflessione. Boschi: nessuna modifica, vediamo se il Parlamento riterrà di intervenire ROMA Imbarazzo. Il caso di Vincenzo De Luca, candidato vincente alle primarie del Pd in Campania, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, mette il partito in una condizione difficile. Perché, in caso di vittoria, la legge Severino prevede la sospensione dall’incarico (come accadde a Napoli per Luigi de Magistris, poi reintegrato dal Tar). E in questa oggettiva situazione di confusione, si fa avanti l’opposizione. Pier Luigi Bersani lo dice chiaro: «La Severino contiene rigidità eccessive, un abuso d’ufficio è una cosa che può succedere a un sindaco. O si cambia la Severino, senza fare delle legge ad personam, o si cambiano le regole d’ingaggio per le primarie del Pd».
Per il governo parla il ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Le leggi si devono cambiare se c’è una valutazione di carattere complessivo non su un singolo caso». La collega Maria Elena Boschi dice no «al momento», ma lascia aperto uno spiraglio: «Vedremo se il Parlamento riterrà di dover intervenire». La patata bollente sembrerebbe così passare dal governo al Parlamento. Se non fosse che la minoranza pd ributta la palla dall’altra parte. Eh no, ribatte Gianni Cuperlo: «Non si può usare il Parlamento à la carte : il coinvolgimento non vale sulla riforma costituzionale e vale per la Severino?». Alfredo D’Attorre concorda: «Qual è la mia posizione? Sentiamo prima quella di Renzi. Cosa ha da dire il segretario del Pd? Non può non avere una posizione». Quella di Davide Zoggia è chiara: «Serve un tagliando alla Severino». Un ritocchino che escluda il reato di abuso d’ufficio da quelli che prevedono la sospensione, per esempio. Comunque qualcosa bisogna fare, sostiene Alessia Morani: «Un intervento è necessario. Ma che sia chirurgico, con il bisturi». Il paziente, comunque, è a rischio. Perché intervenire ora somiglierebbe molto a quelle leggi ad personam tanto criticate dal Pd. Con un’aggravante: la Severino fu usata proprio contro Berlusconi (condannato, però, in via definitiva per un reato fiscale, a differenza di De Luca). Dice Francesco Boccia: «È un pastrocchio. La verità è che bisognava intervenire prima, anche se De Luca è stato un ottimo sindaco e non ho niente contro di lui. Io già per Berlusconi dissi che non si doveva utilizzare la Severino. Ma allora erano tutti giustizialisti, ora sembrano tutti spariti di colpo. La speranza adesso è che intervenga la Consulta».
L’intervento della Consulta sarebbe la vera ancora di salvezza per il Pd. Perché la legge presenta profili di presunta incostituzionalità e giacciono vari ricorsi. Ma è molto probabile che il verdetto finisca per arrivare tardi. Difficile che si faccia in tempo anche con una nuova legge. Ma il piano della minoranza è far comunque partire un iter di riforma. «Con calma — dice Zoggia —. Tanto De Luca sarà sospeso e magari reintegrato, come accadde a de Magistris». Pippo Civati trasecola: «Cambiare la Severino? A parti invertite, avremmo scatenato una furia omicida. Se è una legge pessima, non dovevamo votarla. Così finisce che facciamo una legge ad personam». È quello che pensa Renato Brunetta (FI): «Per De Luca, siamo certi, si provvederà. Renzi e Boschi, ipocriti». Con il vincitore delle primarie del Pd, si schiera invece il governatore Stefano Caldoro: «La legge Severino è sbagliata, va cambiata».

Repubblica 4.3.15
La pagella della Sanità la Toscana supera l’Emilia precipita la Lombardia
Dalle cure agli anziani ai vaccini, la graduatoria dell’assistenza il Piemonte al terzo posto, bene il Veneto, ultima la Campania
di Michele Bocci


IN RIGA dalla prima all’ultima. Nel sistema sanitario nazionale si presta sempre grande attenzione a non fare classifiche delle regioni, perché è difficile paragonare i servizi di assistenza di realtà locali con storia, organizzazione, bilanci e situazioni sociali diverse. In questo caso però non si scappa: la cosiddetta “griglia lea” assegna punteggi che permettono di chiarire chi lavora meglio e chi peggio in sanità. Chi cresce e chi cala da un anno all’altro. Questo è lo schema: sono stati scelti 31 livelli essenziali di assistenza (lea, appunto), cioè le prestazioni che tutte le regioni devono dare ai loro cittadini, e si è accertato il modo in cui vengono erogati. Si valutano ad esempio tassi di vaccinazione, servizi agli anziani, ricoveri ospedalieri appropriati e non, esami come la risonanza magnetica, controlli sulla sicurezza del lavoro. Chi va bene nella singola voce ottiene un punteggio, pesato a seconda dell’importanza del settore. Via via che la qualità della prestazione peggiora, il “voto” assegnato si abbassa.
In queste settimane si sta calcolando come si sono comportate le regioni nel 2013. I dati saranno ufficializzati ad aprile. Il punteggio più alto, quello che si prenderebbe ottenendo il massimo in tutti gli indicatori, è 225. La Toscana con un exploit significativo si è fermata a 214 e in un anno ha scavalcato l’Emilia (204), diventando la prima in classifica. Un risultato molto importante, tanto più in un periodo pre elettorale come questo. Così i vertici della regione lo hanno diffuso già da tempo. Adesso però si conosce la lista completa, con tutti gli altri tranne Bolzano, Trento, Friuli, Val d’Aosta e Sardegna, che sono a statuto speciale. Guardando sotto la Toscana si trovano alcune sorprese. La prima riguarda la Lombardia. Almeno secondo gli indicatori in questione, non è più tra le realtà leader della sanità italiana. In due anni, dal 2011 al 2013, è passata dal secondo al sesto posto a pari merito con la Liguria (scendendo da 195 a 187 punti). Balzano invece dal nono al quarto posto le Marche e colpisce anche la crescita del Piemonte, terza solitaria malgrado sia una regione in piano di rientro. Anche il Veneto è un inquilino stabile della parte alta della graduatoria. L’Umbria invece segna un certo affaticamento.
Nelle posizioni basse restano le realtà del Sud, con la Campania che pur avendo un punteggio in crescita non riesce a schiodarsi dall’ultima posizione. Ormai è rimasta l’unica sotto la soglia dei 130 punti, quella in cui si è considerati inadempienti. Fino a 160 c’è una riserva e sopra si è adempienti. Salta all’occhio che le regioni più in difficoltà in questa graduatoria sono anche quelle con i bilanci messi peggio e allo stesso tempo con una spesa maggiore per il personale.
La griglia lea viene compilata da un tavolo ministeriale a cui partecipano le regioni e la loro agenzia nazionale, Agenas. Tra l’altro serve a calcolare quali sono le realtà locali di riferimento, cosiddette “benchmark”, per indicare alle altre i prezzi giusti per gli acquisti. Perché chi ha buoni servizi di solito ha anche lavorato sulle gare per contenere la spesa. Inoltre, insieme ad altri indicatori legati agli stessi lea, può far mettere le regioni in piano di rientro. Insomma, magari non si tratta di una classifica, ma offre una bella fotografia della qualità dei servizi sanitari in Italia.

Corriere 4.3.15
Reati economici. Il Governo ha messo a punto l’emendamento
Falso in bilancio, nodo non quotate
Pd diviso sul limite di 5 anni per l’archiviazione che impedisce le intercettazioni
di Giovanni Negri


Milano Sanzioni fino a cinque anni nelle società non quotate e fino a 8 nelle quotate. Area di non punibilità dai confini un po’ incerti; sanzioni più leggere per i casi meno gravi; inasprimento delle misure a carico delle società e non solo dei manager. Il ministero della Giustizia scopre le carte e in tre paginette di emendamento alla legge anticorruzione in discussione al Senato riscrive il falso in bilancio. L’intenzione è quella di superare l’ostruzionismo di Forza Italia che sinora ha rallentato i lavori, presentando la proposta in Commissione e non in Aula, come invece fino all’altro giorno sostenuto. Ma a questo punto a spaccarsi è lo stesso Partito Democratico. Risultato? L’emendamento è fermo all’esame del ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, e, forse, verrà depositato oggi in una forma tutta da verificare.
Intanto, nel testo circolato ieri, quattro articoli aggiuntivi al disegno di legge Grasso, la pietra dello scandalo è rappresentata dal nuovo limite di pena introdotto per il falso in bilancio commesso sui conti di una società non quotata. Il ministero della Giustizia rivede (parzialmente) al ribasso quanto messo nero su bianco a fine agosto e prevede un tetto massimo di pena a cinque anni, invece dei sei sino poco tempo fa decisi. Un anno che però fa la differenza. Perchè, se rende possibile l’applicazione della - futura - nuova ipotesi di archiviazione per particolare tenuità del fatto, che il Consiglio dei ministri si appresta ad approvare definitivamente, nello stesso tempo cancella il ricorso a intercettazioni nel corso delle indagini.
Il capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Giuseppe Lumia, chiede il ripristino dei sei anni, mentre l’ex magistrato Felice Casson, senatore Pd, sale sulle barricate e si dichiara indisponibile a votare il testo messo a punto dall’ufficio legislativo della Giustizia.
Prova a buttare acqua sul fuoco, a sera, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che, nell’escludere ritocchi alla Legge Severino nelle misure anticorruzione, rivendica invece la sostanza dell’emendamento: «Abbiamo eliminato le soglie di non punibilità su cui c’erano state critiche e si terrà conto invece delle condotte di particolare tenuità, ma senza creare aree di impunità e lasciando al giudice la valutazione caso per caso: siamo comunque pronti al confronto».
Nel merito, l’emendamento, sul fronte delle sanzioni eleva sino a otto anni, con un minimo di tre, il falso nelle società quotate rendendo su questo piano l’ordinamento italiano il più severo dell’Unione europea sul punto e nello stesso tempo parifica alle quotate, ai fini della rilevanza penale, anche le società che fanno appello al risparmio pubblico o che comunque lo gestiscono, le controllanti di quotate, e chi emette strumenti finanziari per i quali è stata presentata richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese Ue.
Il più evidente nodo da sciogliere è relativo alla determinazione del perimetro della non punibilità o della diversa punibilità. Possibilità che, peraltro, è riservata alle sole società non quotate. Per loro, l’emendamento introduce due nuovi articoli nel Codice civile, il 2621 bis e il 2621 ter: con il primo si prevede l’applicazione della pena da 6 mesi a 3 anni se i fatti commessi sono «di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta».
Ma a venire prevista è anche una chance di non punibilità. Che potrà scattare per la particolare tenuità del fatto, secondo il progetto del Governo varato in prima lettura a dicembre. In questa prospettiva, nell’area dell’archiviazione verrebbe attratto anche il falso in bilancio commesso però in società (ma il testo non è affatto chiaro) che stanno al di sotto dei limiti di fallibilità e quindi di dimensione assai ridotta. Ferme resterebbero le condizioni e cioè la non abitualità della condotta e la sua limitata portata offensiva.
Da Confindustria nessuna posizione ufficiale sul nuovo testo, ma trapela una profonda insoddisfazione su una serie di punti specifici: la scarsa tassatività della fattispecie penale che si traduce nell’indeterminatezza del concetto di «informazioni» oggetto del delitto, come pure in quello di «pubblico» destinatario delle informazioni stesse, nella mancanza di concretezza del pericolo posto in essere, nella difficile applicazione dell’archiviazione per tenuità del fatto a un reato che resta appunto di pericolo e non di danno.

Corriere 4.3.15
Al gran ballo dei sovrintendenti cambiano di posto in cento
di Pierluigi Panza


Al gran ballo dei sovrintendenti, diretto dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, sono invitati un centinaio di conservatori dei nostri quadri e monumenti. Per l’esattezza 89 soprintendenti, tre direttori di biblioteche nazionali e 19 dirigenti del ministero. Senza problemi di genere, anzi: qui per le signore è difficile trovare abbastanza cavalieri.
Sebbene dal ministero non arrivi alcuna conferma ufficiale («pubblicheremo i nomi sul sito dopo il vaglio della Corte dei Conti»), la riforma Franceschini sta entrando nel vivo con le nomine nelle nuove sovrintendenze. Nomine che sono state trasmesse ai sindacati per valutazione consultiva.
La «riforma» Franceschini prevede una «rivoluzione» nel settore che – tralasciando le soprintendenze archeologiche e archivistiche – porterà a identificare quattro diversi livelli nella gestione dei beni artistici. Il primo è la nomina dei direttori dei 20 principali musei italiani: sono arrivate 1200 domande e una commissione sta vagliando i candidati. Il secondo è la nomina dei veri e propri soprintendenti alle Belle arti, architettura e paesaggio. Il terzo è la nomina dei direttori dei Poli regionali che si occuperanno di tutti i musei della regione (ad eccezione di quelli che rientrano nei 20). Il quarto sono i segretari regionali, dirigenti di seconda fascia (76 mila euro) che sostituiscono i direttori regionali (dirigenti di prima fascia, 130 mila euro), che hanno compiti di stazioni appaltanti.
L’accorpamento delle sovrintendenze innesca un cambio generale che non è, però, un rinnovamento (solo per i 20 direttori di musei c’è un concorso con possibili nuovi inserimenti) ma un rimescolamento di sedie di dirigenti già in ruolo. Ovvero spostamenti e qualche avviamento alla pensione.
Difficile individuare un criterio univoco negli spostamenti, che paiono frutto di valutazioni ad personam : l’unico elemento che li unirebbe sarebbe la richiesta del commissario anticorruzione Cantone che avrebbe suggerito il rimescolamento delle cariche per impedire che i dirigenti pubblici mettano troppe radici. Il ministero si attiene alla regola che nessuno resti più di dieci anni nello stesso posto. Valutazione che non tiene in conto la necessità, per i soprintendenti, di conoscere profondamente il territorio.
Il valzer tocca in maniera diversa Venezia, Firenze, Milano, Roma. Via tutti da Venezia: Renata Codello, che ha curato i restauri delle Gallerie dell’Accademia come sovrintendente ai Beni architettonici viene mandata a fare la soprintendente a Roma; la sua collega Giovanna Damiani, sovrintendente ai Beni artistici, va in Sardegna. Metodo opposto a Firenze: qui, dopo il controverso addio della Acidini (che ebbe divergenze con Renzi quando era sindaco), la poltrona è passata ad interim ad Alessandra Marino che viene ora promossa a soprintendente generale. Secondo alcuni è una «strana coincidenza», ma anche altri 7 sovrintendenti sono nelle sue condizioni.
A Milano arriva una nuova soprintendente che era a Ravenna: Antonella Ranaldi, non famosissima. Siccome a Brera arriverà un nuovo direttore, Sandrina Bandera, attuale sovrintendente e direttore di Brera, diventa sovrintendente del polo regionale della Lombardia (si occuperà di tutti i musei fuorché Brera), mentre Alberto Artioli, attuale responsabile dei Beni architettonici, farà il segretario regionale. Luigi Ficacci, noto studioso e sovrintendente a Bologna, andrà ad Urbino, posto lasciato libero da Fabio de Chirico, che va alla direzione generale per l’arte contemporanea a Roma. Pure Maria Vittoria Marini Chiarelli lascerà la Galleria d’arte moderna di Roma per andare al settore educazione e ricerca del ministero (una posizione subordinata rispetto alla precedente?), retto da pochi mesi da Caterina Bon Valsassina, ex direttrice regionale della Lombardia. Luca Rinaldi, sovrintendente in Piemonte al centro della polemica sulla richiesta rimozione del vagone in piazza a testimonianza della deportazione ebraica, andrà in Liguria (aspirava alla Lombardia). Cambiare tutto per cambiare qualcosa o per non cambiare niente?

Repubblica 4.3.15
Azzardo di Stato
L’Italia ha un triste primato Una slot machine ogni 143 abitanti. Anche se i costi sociali delle dipendenze sono alti, c’è un gran guadagno per i Monopoli
Perciò è difficile dire basta. Ma la prossima settimana il nostro Paese dovrà scegliere da che parte stare
di Federico Fubini, Andrea Greco


IERI pomeriggio alle sei sedeva in penombra in una sala di Better Slot in via Nicolò da Pistoia un gruppo di sette persone. Questo Better Slot ospita una ventina di slot machine e videolotterie fra la Circonvallazione Ostiense e il quartiere romano della Garbatella. Dopo una mezz’ora, i sette non si erano ancora scambiati una parola. Una signora con una sigaretta accesa nella mano sinistra schiacciava ogni pochi istanti con la destra il pulsante di una macchina chiamata Sphynx. Si vince quando si allineano tre o quattro sfingi egizie. La macchina mandava suoni studiati per essere seducenti, e ogni tanto in sala si udiva il rumore di una breve cascata di monete. Come centinaia di migliaia di altri italiani, quei sette in via Nicolò da Pistoia stavano contribuendo in maniera decisiva a un solo obiettivo: tenere il Paese al riparo da una procedura per deficit eccessivo a Bruxelles.
Nel 2013 le entrate erariali da piccole e grandi slot machine sono arrivate a 4,3 miliardi di euro, secondo l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato. L’anno scorso i ricavi di base si sono più o meno confermati allo stesso livello, ed è stato un risultato provvidenziale: il rapporto fra deficit pubblico e prodotto lordo nel 2014 si è attestato al 3,033%, per soli 274 milioni di euro l’Italia ha evitato una procedura per deficit eccessivo che avrebbe costretto il governo a nuove, pesanti correzioni di bilancio. Gli avventori dell’azzardo di Stato, un universo basato su un sistema di concessioni pubbliche senza paragoni al mondo, sono a loro insaputa degli eroi della crisi finanziaria: hanno salvato i conti pubblici. Dall’inizio del 2014 fino al primo agosto scorso, almeno 333 di loro erano o erano stati in cura per dipendenza dal gioco d’azzardo presso i servizi sanitari della Regione Lazio. Non esistono dati su base nazionale, ma l’incidenza del Lazio su questo fenomeno suggerisce che gli italiani affidati alla sanità pubblica per curarsi dalla “ludopatia”, la dipendenza dalle scommesse, devono essere almeno cinquemila ogni anno. Forse settemila, se si tiene conto che alcune Asl non rispondono ai questionari.
Ovviamente le slot machine non sono la sola fonte di ricavi dell’azzardo di Stato. Fra Lotteria Italia, Gratta&vinci, Bingo, giochi in rete ed altro, le entrate erariali nel 2013 hanno superato gli otto miliardi. Le slot di vario tipo pesano per oltre metà di questi ricavi. Il governo ha poi imposto di recente sulle 13 società concessionarie una sovrattassa da 1.200 euro per ogni macchina che abbia operato anche un solo giorno in una periferia italiana nel 2014. In totale fa mezzo miliardo, perché questo Paese si fregia di una particolarità che lo rende unico in Europa e in tutto l’Occidente: secondo le stime di Repubblica sui dati di Euromat e su quelli dei singoli Paesi, l’Italia ha in assoluto la più alta densità di slot machine di vario tipo. Da sola ne ospita ufficialmente 414.158, circa la metà di quelle presenti in tutto il territorio degli Stati Uniti. In Italia c’è una di queste macchine ricche di neon colorati e suoni ipnotici ogni 143 abitanti. In Germania una ogni 261, negli Stati Uniti una ogni 372. Sulle videolottery, le macchine dove si scommette non uno ma dieci euro per volta, il primato del Paese è ancora più netto: secondo il consulente di settore Eugenio Bernardi ve ne sarebbero 160 mila in funzione in tutto il mondo, ma di queste 50.985 sono attive in Italia (in base ai dati ufficiali dei Monopoli di Stato).
Dal 2009, quando l’ultimo governo di Silvio Berlusconi ha lanciato le slot per far quadrare i propri conti, questo Paese è rapidamente diventato un campione mondiale del settore. Non c’è ormai angolo di strada sprovvisto di un’opportunità di erodere i bilanci familiari. Nel 2013 gli italiani — spesso di ceto basso o medio-basso, per lo più uomini e di mezza età — in totale hanno fatto scivolare in quegli ingranaggi luminosi 9,4 miliardi di euro. Una stima fornita dalla Regione Lazio indica che i costi sanitari diretti da ludopatie è di 85 milioni di euro l’anno; ma i costi “indiretti”, dovuti al crollo della capacità lavorativa o alla perdita del posto per chi è catturato dal gioco, sarebbero di quasi cinque miliardi.
La prossima settimana il governo deciderà se modificare la tassazione su questa parte del gioco d’azzardo e ridurre il numero delle macchine nelle città. Sembra certo che non taglierà le videolottery , quelle che pesano di più sulle tasche di chi vi si accanisce sopra. Qualcosa dovrebbe emergere nel decreto di attuazione della legge delega fiscale annunciato dal governo per il 20 marzo. «Gli obiettivi sono la tutela della salute pubblica, la lotta all’illegalità e l’attenzione alle entrate — ha detto di recente Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia — . C’è un eccesso di offerta in alcune situazioni di gioco, troppa diffusione sul territorio. Dobbiamo trovare un equilibrio, partendo dalle condizioni di salute nella società».
Paradossalmente però neanche i conti delle imprese concessionarie delle slot machine sono in salute. I loro bilanci fotografano l’implosione in corso. Queste aziende sono di fatto esattori di un prelievo non dichiarato e su di esse il governo e il parlamento negli anni hanno avanzato pretese, imposto multe sempre più esose, richiesto versamenti una tantum.
Così si è rapidamente arrivati all’osso, mentre ogni periferia d’Italia si riempiva di sale giochi e bar-casinò. Le concessionarie attive sono Igt (ex Gtech ed ex Lottomatica), Snai, Bplus, Cogetech, Gamenet, Sisal, Hbg, Gmatica, Codere, Cirsa, Intralot, Nts Network, Netwin Italia. Da un’analisi dei loro bilanci 2013 — gli ultimi disponibili, a parte le prime due che sono quotate — emerge che un anno fa avevano debiti cu- mulati per 5,4 miliardi di euro. E anche se una parte minore di questi debiti va imputata ad altre attività, si tratta comunque di un livello di guardia. In teoria governo di Mario Monti aveva vietato loro di pagare per le concessioni indebitandosi, un’abitudine malsana e rischiosa per questi esattori non dichiarati. Eppure tutte lo fanno lo stesso e lo Stato chiude un occhio, visto il ruolo di queste aziende.
Le società più esposte sono Sisal, Snai, Intralot, Codere, che con gli attuali risultati impiegherebbero tra 4 e 8 anni per coprire il loro debito netto. Le 13 concessionarie, con la notevole eccezione di Igt, la più grande e che fa capo alla famiglia De Agostini, sono quasi tutte in mano a fondi chiusi, ossia ai private equity. Ma per loro i margini di guadagno si stanno azzerando, anche perché l’alleanza in affari con un socio famelico come lo Stato costa cara. Tutti gli azionisti delle concessionarie vorrebbero vendere, nessuno vuole comprare. Nel 2013 quasi tutte hanno chiuso in rosso.
In via Nicolò da Pistoia, la signora con la sigaretta nella mano sinistra continua a far girare il rullo di Sphynx con la destra. Ha già fatto scivolare nella feritoia molte monete, ma non ha ancora vinto. Inutile chiederle se sa quanto renda all’erario questa sua attività. «Non sono pratica del settore», risponde.

il Fatto 4.3.15
Suggerimenti
Giustizia, riforme a costo zero
di Bruno Tinti


Renzi e il suo Ammiraglio hanno partorito una timida riforma del processo civile; non hanno toccato il processo penale, il diritto fallimentare e il falso in bilancio. La riforma del diritto penale-tributario è pessima; e quelle sulla responsabilità civile dei magistrati e la riduzione delle ferie dei magistrati non servono per abbreviare e rendere più efficaci i processi (nel senso di concedere alla legalità qualche chance in più per combattere l’illegalità). Così l’Anm, dominata dalle correnti (Area e Unicost) collaterali all’attuale maggioranza, ha blandamente protestato; poi ha presentato un “Decalogo per la giustizia”, un elenco di cose da fare se si vuole fare sul serio.
L’idea è buona, il decalogo molto meno: che vuol dire, per esempio, “Riforma del sistema delle nullità nel processo penale”? Renzi e l’Ammiraglio non hanno nessuna idea di cosa siano queste nullità e come dovrebbero essere riformate: ci andava una spiegazione. Però l’iniziativa ha stimolato alcuni magistrati che hanno fatto proposte concrete e fattibili a costo zero. Eccole, con qualche breve commento; hai visto mai che ne salti fuori qualcosa di buono?
1) La prescrizione va bloccata con il rinvio a giudizio o – almeno – dopo la sentenza di primo grado. E qui ogni spiegazione è superflua.
2) Costituzione dell’“Ufficio del giudice”. Veramente è già previsto (art. 50 dl 90/2014), ma è una presa in giro: la legge si limita a elencare tutte le figure professionali che già prestano servizio. È ovvio che, siccome tutta questa gente già è sotterrata dai fascicoli, non basta cambiargli l’etichetta e chiamarli “Ufficio del giudice” invece che cancellieri, giudici onorari e giudici ausiliari. Sicché, per creare qualcosa che funzioni, bisogna aggiungere risorse, attribuire a ognuno le sue competenze e spendere soldi. Questo è un punto delicato, perché soldi non ce n’è; e infatti la legge prevede che questo Ufficio sia costituito “nell’ambito delle risorse disponibili e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. L’Anm propone di destinare alla Giustizia le risorse sottratte alla mafia e i fondi del Fondo Unico Giustizia; che è ragionevole. Poi, ingenuamente, raccomanda il “Rafforzamento della lotta all’evasione e destinazione alla Giustizia delle somme recuperate”. Perseguire l’evasione fiscale non è tra gli obbiettivi di questa maggioranza (e nemmeno di quelle che l’hanno preceduta) ; e – se lo fosse – qualcosa a scuole, ospedali e strade bisognerebbe pur dare. Necessaria che sia, non credo che questa riforma abbia molte probabilità di vedere la luce.
3) Riforma del sistema delle notifiche nel processo penale. In effetti questo è un vero collo di bottiglia: le notifiche (gli avvisi delle udienze, interrogatori, sentenze) si danno sia all’imputato che al difensore. Per il difensore è facile, gli si manda una email (certificata) ; ma l’imputato ha la brutta abitudine di cambiare casa e di non dirlo a nessuno; e tocca cercarlo, incaricando vigili, carabinieri, polizia, tutta gente che – ovviamente – avrebbe ben altro da fare; si perde un anno e, quasi sempre, non lo si trova; però se non lo cerchi, il processo non si può fare, sarebbe tutto nullo. La riforma è semplice: la prima volta che un cittadino è denunciato lo si cerca fino a che non lo si trova (se è arrestato diventa tutto facile), gli si spiega che ci sarà un processo a suo carico, che – se non ha un avvocato di fiducia – gliene sarà nominato uno d’ufficio e che, da questo momento in poi, tutti gli avvisi saranno fatti all’avvocato; si informi. Si risparmierebbero 10 milioni di euro ogni anno; e i processi non si prescriverebbero più.
Qui si ferma l’Anm (le altre proposte sono luoghi comuni) e cominciano i suggerimenti dei magistrati, quelli che spalano fascicoli tutti i giorni e quindi sanno cosa dicono.
4) Travaso automatico nell’udienza preliminare e nel dibattimento di tutti gli atti di indagine non specificamente contestati dalle parti. Bisogna sapere che il nostro codice di procedura prevede che tutto quello che è stato fatto nelle indagini (interrogatori, perizie eccetera) va buttato dalla finestra subito dopo la richiesta di rinvio a giudizio: davanti al giudice si ricomincia daccapo. Questa pazzesca antiriforma (fu fatta nel 1989) piaceva agli avvocati e quindi è stata da subito intoccabile (se non per peggiorarla). Se Renzi e l’Ammiraglio si convincessero che si tratta di una solenne idiozia, passerebbero alla storia come i salvatori della giustizia italiana.
Il resto alla prossima puntata.

Corriere 4.3.15
Pansa: la nuova destra? Ha la benzina della rabbia ma mancano auto e pilota
Milano «Il carburante questa nuova destra ce l’avrebbe, non ha però né la macchina né il pilota».
intervista di Massimo Rebotti


Gianpaolo Pansa, che ha scritto da poco La Destra siamo noi. Una controstoria italiana da Scelba a Salvini , divide la questione della rappresentanza politica della destra in due: da un lato i contenuti — «il carburante» — che, sostiene, ci sono; dall’altro il leader — «il pilota» — che viceversa «manca».
Iniziamo dal carburante .
«Adesso è la rabbia. Per le tasse, la burocrazia e lo strapotere del sistema dei partiti che, in questa fase storica, coincide con il centrosinistra, con il Pd. E poi c’è una base potenziale: la grande massa delle persone comuni, quelle che non hanno protezione, che tutta questa ripresa di cui parla il governo Renzi nella loro vita di tutti i giorni proprio non la vedono, non sanno dove sia».
E il leader?
«Quello invece non c’è. Non basta che ci sia un’onda di destra, come in altri Paesi d’Europa. Ci vuole anche qualcuno che sia in grado di mettersi alla guida. Qui non c’è la signora Le Pen, che da sola vale dieci uomini».
L’ultimo libro di Giampaolo Pansa, a cominciare dal titolo, racconta di una destra italiana storicamente maggioritaria nel Paese, interprete, spesso senza saperlo, della sua natura più profonda, eppure in costante condizione di inferiorità rispetto alla sinistra.
Cosa tiene insieme la destra adesso?
«A questo punto lo devono scoprire di nuovo. Una fase è finita e non c’è molto tempo. Berlusconi, che ha un anno meno di me, è alla fine della sua vita politica, la sua figura è usurata e ha fatto anche tanti errori. Ma il suo erede non può essere Matteo Salvini».
Il leader della Lega però è in costante crescita di consensi.
«La manifestazione di Roma, per me, è stata un buco nell’acqua. Ho seguito il comizio e l’ho trovato banale, francamente mi aspettavo di più. Salvini ha fatto un discorso come se fossimo in campagna elettorale, ma domani mica si vota. Non c’erano proposte. Oppure sono irrealizzabili. Le tasse al 15%, per esempio. A chi non piacerebbe? Ma Matteo Salvini non ha spiegato nulla delle coperture, dove si prendono i soldi per finanziare una riforma di quel tipo? Per un moderato, per il ceto medio che si vuole opporre alla sinistra, c’è bisogno di parecchio di più. Così non basta».
Quella piazza però ha apprezzato .
«Il leader della Lega ha verve, ma quell’entusiasmo era basato su un’illusione: che possa essere lui a trainare il carro. Una coalizione di centrodestra è una macchina complessa. E per battere Renzi devono prevalere le posizioni moderate».
Però nel suo libro ha inserito anche Salvini all’interno dell’album di famiglia della destra italiana.
«Ma certo, c’è anche lui e a buon diritto. La Lega è un partito di destra e non da oggi. E quella di piazza del Popolo è stata una manifestazione di destra. Una destra non moderata, ma nemmeno così estremista come si dice in questi giorni».
C’era CasaPound in forze.
«L’intesa con loro non mi scandalizza e liquidarli come fascisti è sommario. Tuttavia, e non voglio mancare di rispetto alle loro idee — mi hanno pure difeso per i miei libri revisionisti sulla Resistenza —, mi pare contino poco. Insomma, secondo me, vedendo il comizio di sabato scorso nella Capitale, nell’entourage del presidente del Consiglio si fregavano le mani».
Perché i moderati se li prende il Pd?
«Con un’ opposizione fatta così Renzi ha davanti un ciclo. Lui è sicuro di sé, ha anche una gran faccia di tolla e in questo momento può dire tutto e il contrario di tutto. Certo poi può sempre succedere l’imponderabile...».
Ha scritto un libro che racconta varie fasi, leader e personaggi, della destra italiana: da Giovanni Guareschi a Mario Scelba, da Indro Montanelli a Giorgio Almirante. Ma questa nuova aggregazione di Salvini a cosa assomiglia?
«Mi ricorda un po’ l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma il parallelo, se lo raccontiamo a Salvini, penserà che porti iella. Quel movimento — che aveva nel simbolo un italiano, l’italiano medio, schiacciato da un torchio — ebbe un boom impressionante alla fine degli anni Quaranta, ma poi altrettanto rapidamente si sgonfiò fino a sparire».
Non pare il caso della Lega.
«No, certo. Anche se, come vediamo in questi giorni, anche quel partito non è immune da liti assassine. Del resto nemmeno la restante parte del centrodestra sta dando una splendida prova di sé...».
Quindi il paradosso di una destra potenzialmente maggioranza ma che resta minoranza, come sostiene nel libro, è destinato a perpetuarsi?
«A questo paradosso forse adesso una soluzione c’è: Matteo Renzi è di sinistra o di destra?».
Secondo lei?
«Secondo me molti moderati ora stanno con lui».

Corriere 4.3.15
Immigrazione e identità
Diritti (e doveri) dei nuovi italiani
di Gian Antonio Stella

qui

Corriere 4.3.15
Undicesimo non sculacciare
Il Consiglio d’Europa condanna la Francia: non vieta le punizioni corporali sui bimbi
Nel 2012 il 25% dei genitori italiani parlava di “schiaffi educativi”. Gli psicologi Usa: “E’ una sconfitta”
di Paolo Di Stefano


Un giorno Franti, il ragazzo cattivo di Cuore , assiste a uno spettacolo penoso: un muratore è caduto da un’impalcatura e si trova per terra cadaverico e insanguinato. Che fa quel monellaccio di Franti? Ride. Un uomo barbuto lo guarda, gli strappa il berretto dalla testa e gli lascia andare un ceffone sul viso: «Scopriti il capo, malnato, quando passa un ferito sul lavoro!». Ben diverso il destino di Pinocchio, che dopo la prima fuga da Geppetto viene riconsegnato da un carabiniere al padre, che ha l’impulso di dargli una «buona tiratina d’orecchi» ma purtroppo si accorge che si è dimenticato di fargliele, le orecchie. Dunque si accontenta di prenderlo per la collottola per riportarselo a casa minacciandolo. Ma le cose si complicano, perché i passanti cominciano a sussurrare che quell’omaccio di Geppetto pare un galantuomo, ma in realtà è un manesco. Fatto sta che il povero Geppetto finirà in prigione e Pinocchio riavrà la libertà. Da una parte De Amicis con la sua lezione morale. Dall’altra la beffa irridente di Collodi. Due visioni opposte della pedagogia ottocentesca. Il risultato è che Pinocchio, tirato su a molliche di pane ed educazione antirepressiva, diventa un Garrone qualunque, mentre Franti, espulso dalla scuola e additato ad anti-modello teppistico, rimane l’«infame» che era.
Da sempre ci si interroga se sia meglio un «sano ceffone» ogni tanto, per evitare di tirar su figli bamboccioni o viziati, oppure se le mani siano da tenere a freno in ogni caso. Centinaia di pagine sui manuali di pedagogia familiare invitano sempre più ad abbandonare qualunque forma di violenza educativa. Del resto, anche il Consiglio d’Europa non ha dubbi e condanna (simbolicamente) la Francia che ancora non prevede, tranne che in alcuni ambiti (tra cui la scuola), un «divieto sufficientemente chiaro, vincolante e preciso delle pene corporali», tra cui schiaffi e sculacciate, violando così l’articolo 17 della Carta europea dei diritti sociali. Secondo l’associazione britannica per la protezione dell’infanzia, «Approach», auspice dell’iniziativa europea, sarebbero cinque i Paesi da richiamare, e tra questi c’è anche l’Italia.
Nel Paese di Maria Montessori e di don Milani, ancora nel 2012, secondo «Save the Children», per un quarto dei genitori lo schiaffo era un gesto educativo. Ciò non toglie che fortunatamente le cose, in pochi decenni, siano cambiate radicalmente: non la bacchettata ma il colpetto sulla nuca mollato dal prof di matematica, che ancora negli anni Ottanta veniva tollerato, oggi sarebbe inaccettabile, anzi perseguibile per legge. E se un Franti aggiornato al 2015 si prendesse uno schiaffone in un luogo pubblico, per strada o a scuola, scatterebbe la denuncia penale della famiglia, sempre pronta a schierarsi a difesa del pargolo, specie di fronte a maestri e professori.
D’altra parte, ha ragione Gilles Lazimi, coordinatore della campagna francese contro le violenze educative, quando definisce eticamente non difendibile lo schiaffo a un bambino in un Paese, come il suo, che proibisce di «colpire un animale». E le ricerche scientifiche dimostrano l’incremento di aggressività in giovani cresciuti con le «maniere forti». Ma se capita che papà e mamma escono dai gangheri? Persino l’ American Academy of Pediatrics invita i genitori a non lasciarsi autoflagellare dai sensi di colpa per lo scapaccione in un momento di esasperazione. Purché sia inserito in un contesto di abituale serenità, dialogo, affetto. Perdere il controllo è sempre un segno di impotenza e l’unica dimostrazione di autorità è saper porre dei limiti senza ricorrere alla minaccia verbale (c’è anche quella!) o fisica. Per fortuna sia il mondo di Franti sia quello di Pinocchio sono lontani.

La Stampa TuttoScienze 4.3.15
“E ora liberiamo le menti nella nuova società del sapere”
Le strategie del numero 1 degli psicologi dell’intelligenza “Il boom delle conoscenze richiede più indipendenza individuale”
di Andrea Grignolio

Gli interventi sugli «strumenti del pensare» necessari ai cittadini della società della conoscenza che appaiono su questa rubrica sono stati ispirati dai lavori di James Flynn, il più autorevole psicologo dell’intelligenza. Flynn ha pubblicato il saggio «Osa pensare», in cui passa in rassegna 20 concetti, dall’insensato timore verso l’«innaturale» alla differenza tra causa e correlazione, fino a quella tra percentuale e proporzione, passando per la fallacia della tolleranza assoluta e la falsità della realtà come testo interpretabile soggettivamente: sono principi che ritiene necessari per chiunque voglia capire criticamente e apprezzare la modernità, modernità resa sempre più incomprensibile sia da una crescente astrazione del sapere disciplinare sia dalle ideologie anti-moderniste.
Negli ultimi interventi abbiamo affrontato anche con l’aiuto di scienziati (Elena Cattaneo, Carlo Rovelli, Luca Bonfanti) ed epistemologi (Riccardo Viale) temi come la creatività, l’innovazione e l’incertezza, fino ad argomenti «divisivi» quali gli Ogm, i vaccini e il clima, passando per i meccanismi cognitivi e sociali per svelare le bufale anti-scientifiche. Stavolta ci siamo rivolti a Flynn, chiedendogli lumi sugli strumenti minimi del pensare da consegnare tanto a un liceale quanto a un lettore di quotidiani. E ci ha dato una risposta spiazzante, con qualcosa in più - e più complesso - di ciò che gli chiedevamo. Ha voluto condividere ciò che viene prima degli strumenti del corretto pensare, vale a dire una riflessione critica sui modi in cui la politica vede la società. È a partire da questi modelli interpretativi che si decidono quali strumenti usare nelle scuole, nelle università e nella realtà globale. Ma se si sbaglia analisi - se il modello è «sotto-identificato» - è inutile ragionare sugli strumenti.
«Molti scenari politici - esordisce - si basano su modelli che prevedono un esito “inevitabile” della storia», quali il modello capitalistico, basato sulla meritocrazia, o quello marxista, centrato sull’equa distribuzione dei beni. Lo psicologo, però, ci mette in guardia da queste semplificazioni, suggerendo una visione più complessa. «Questi modelli - continua - sembrano convincenti, ma evitano la domanda centrale che la scienza sociale pone: cosa succede se il modello di società non rispecchia la realtà? O meglio, se non considera correttamente le circostanze nel mondo reale necessarie perché questo funzioni?». Si tratta di modelli tecnicamente «sottoidentificati», che suggeriscono soluzioni educative e politiche sbagliate, che portano la società a scelte inefficaci. Il tutto emerge confrontando il modello capitalista e quello del socialismo reale.
Lo storicismo marxista, secondo cui le società industriali tendono a evolvere dal capitalismo al comunismo, «è una previsione improbabile e semplicistica», ma nasconde aspetti interessanti come le tendenze comportamentali disfunzionali e le spinte reazionarie dei lavoratori. «Nella storia recente - prosegue Flynn - si nota che molti lavoratori, per esempio gli immigrati che dall’Europa rurale arrivano negli Usa, temono e disprezzano chi sta “sotto di loro” più dei “padroni” ed esprimono un voto conservatore repubblicano. D’altra parte è noto che la maggior parte dei lavoratori viene sedotta dal mercato, che li diverte, alienandoli».
Ma anche «i modelli proposti dalla destra» - aggiunge - non funzionano. Basta «considerare la tesi meritocratica del libro di Richard J. Herrnstein e Charles Murray “La curva di Bell”, che nel 1994 si interrogava sulle conseguenze dell’abolizione dei privilegi e delle disuguaglianze prodotte dall’ambiente. Gli autori stabilivano tre punti: 1) con l’eliminazione delle differenze ambientali ogni differenza di talento sarà dovuta alla predisposizione biologica individuale, ovvero ai geni; 2) senza più privilegi chi ha talento volerà verso la vetta, lasciando gli altri in fondo; 3) i più talentuosi saranno concentrati nelle classi superiori e i geni “cattivi” nelle classi inferiori». In altre parole - conclude Flynn - «l’egualitarismo tende ad autodistruggersi», perché «i bambini delle classi superiori e inferiori tenderanno a ereditare occupazioni e redditi dei loro genitori in base al merito. La “upper class” diventerà un’élite genetica che si auto-perpetua e le classi socialmente più basse diventeranno una “discarica genetica”, con quartieri in crisi, famiglie disfunzionali e scuole inefficienti».
La soluzione di Flynn è «mediana» e si basa su un utilizzo corretto degli strumenti del pensare. Sono quelli che permettono non solo di non sbagliare modello di società e di politiche educative, ma di operare quel «cambiamento epocale nelle motivazioni delle persone che è necessario per ridurre le disuguaglianze dell’ambiente sociale e i privilegi, diventando meno ossessionati dallo status sociale». Se, dunque, l’eccesso di uguaglianza non funziona, nemmeno le disuguaglianze funzionano. Creando molti indigenti, pressoché privi di ambienti stimolanti, e pochi abbienti, ricchi di stimoli, si dilata a tal punto il desiderio di denaro da far dimenticare che questo non è il fine in sé, ma un mezzo per produrre benessere. Il fine - suggerisce - è una società basata su scienza e conoscenza, dove, sebbene «pensare criticamente non abbia mai rappresentato un’automatica garanzia di potere, chi si doterà dei 20 concetti-chiave - per esempio rifiutando l’idea che esista una “scienza alternativa” o che la Natura abbia una finalità - potrà contare su quella mente liberata senza la quale nessuna autonomia personale è possibile».

La Stampa 4.3.15
Così parlò Matisse
Mentre si apre una grande mostra a Roma, in un libro i pensieri dell’artista sul suo lavoro, sui maestri del passato, sulle correnti del ’900
di Elena Del Drago


L’arabesco
È il mezzo più sintetico per esprimersi in ogni fase. Lo si trova nelle grandi linee di certi disegni rupestri. È lo slancio passionale che gonfia questi disegni. [Ci sono arrivato] guardando queste donne mediterranee, questa cocorita, questi frutti e queste foglie. Questi sono papiers découpés e questo è l’arabesco. L’arabesco si organizza come una musica. Essa è il suo timbro particolare.
L’opera e l’artista
L’opera è l’emanazione, la proiezione di sé stessi. I miei disegni e le mie tele sono parti di me stesso. Il loro insieme costituisce Henri Matisse. L’opera rappresenta, esprime, perpetua. Potrei dire che i miei disegni e le mie tele sono i miei veri bambini. Quando l’artista muore si sdoppia. Ci sono vite d’artista corte, Raffaello, Van Gogh, Gauguin, Seurat per esempio. Ma questi geni si sono realizzati completamente. Essi sono morti rimanendo «presenti». Non hanno finito di vivere. Un artista deve dunque sforzarsi di esprimere la sua totalità, fin dall’inizio. Così non invecchierà; se esso è sincero, umano e costruttivo, troverà sempre un’eco nelle generazioni successive».
Arte e sincerità
L’arte non è un gioco di prestigio. L’arte deve sempre rapportarsi all’emozione stessa dell’uomo. Senza sincerità non esiste opera autentica. Quando mi si chiede io rispondo, e mi trovo a fare le cose come le ho sempre fatte. Non posso contraddirmi. Sono sincero e questa sincerità è il mio equilibrio. La penso come Courbet: «Un vero capolavoro è qualcosa che si deve poter ricominciare per provare a sé stessi che non è frutto dei propri nervi o del caso».
La sensazione dello spazio
Ciò che voglio dare sempre è la sensazione dello spazio, tanto nella più piccola tela quanto nella cappella di Vence. Tutto ciò che vediamo passa dalla retina, s’inscrive in una piccola camera, amplificata dall’immaginazione. Bisogna trovare la quantità e la qualità di timbro per impressionare l’occhio, l’odorato e la mente. Far assaporare interamente una pianta di gelsomino, per esempio. Trovare la quantità e la qualità dei colori. Vedete questa composizione: un giardino. Bene, questo giardino è il ricordo delle mie sensazioni rivissute nella natura che io progetto in anticipo, che io dispongo nello spazio.
L’arte astratta
Non c’è un’arte astratta. Ogni arte è in sé astratta quando è l’espressione essenziale priva di ogni aneddoto. Ma non giochiamo con le parole... Arte non figurativa, allora... Si può anche dire che se oggi non c’è più bisogno, in pittura, della rappresentazione fisica delle cose, è tuttavia necessario che un artista, mentre esprime attraverso una sintesi l’oggetto con l’aria di chi se ne distanzia, abbia in sé stesso, porti dentro di sé, il senso di quell’oggetto. Deve finire per dimenticarsene, ma, ripeto, occorre che nella sua mente vi sia il ricordo reale di quell’oggetto e delle reazioni che esso ha prodotto sul suo spirito. Si comincia, anzitutto, da un oggetto. Poi viene la sensazione. Niente è gratuito. I pittori di oggi, cosiddetti astratti, mi pare che spesso partano da un vuoto. Sono privi di scopi, mancano di respiro, ispirazione, emozione, sostengono un punto di vista inesistente: imitano l’astrazione. Non c’è espressione in ciò che vorrebbe essere il rapporto tra i loro colori. Ma se non arrivano a creare questi rapporti, essi possono maneggiare invano tutti i colori che vogliono. Il rapporto è la parentela tra le cose, è il linguaggio che le unisce; il rapporto è l’amore, sì, l’amore. Senza questo rapporto, senza questo amore non esiste più un criterio d’osservazione, dunque non c’è opera d’arte.
La cappella di Vence
Ho potuto fare, nello stesso tempo, dell’architettura, delle vetrate, dei grandi disegni murali su ceramiche, e riunire tutti questi elementi, fonderli in un’unità perfetta. Ho dotato questa cappella di una cuspide che ha più di dodici metri di altezza. E questa cuspide - in ferro forgiato - non appesantisce la cappella ma, al contrario, le dona altezza. L’ho fatta come un disegno - un disegno su un foglio di carta - ma è un disegno che cresce. Quando si vede una ciminiera che fuma, verso la fine della giornata, si osserva questo fumo che sale e sale... e non si ha affatto l’impressione che si fermi. È un po’ il senso che ho voluto dare con la mia cuspide. Lo stesso per l’interno, per l’altare: il sacerdote è collocato davanti al pubblico. Occorreva dunque decorare l’altare in modo leggero, allo scopo di permettere all’officiante di vedere i suoi fedeli e ai fedeli di vedere lui. Vi è, dunque, in ogni elemento una leggerezza che corrisponde a questo bisogno. La leggerezza consente un sentimento di rilassamento, di elevazione; tanto che la mia cappella non è: «fratelli, bisogna morire». Al contrario: «fratelli, bisogna vivere!».
Arte e religione
Tutta l’arte degna di questo nome è religiosa. Che sia una creazione fatta di linee o di colori, se questa creazione non è religiosa, non esiste. Se questa creazione non è religiosa, non si tratta d’altro che di arte documentaria, di arte aneddotica... che non è più arte. Che non ha niente a che fare con l’arte. Che deriva da una certa epoca della cultura, per spiegare e dimostrare, a gente senza educazione artistica, cose che potrebbero notare senza che si abbia bisogno di dirglielo. Gli spettatori sono pigri di spirito. Bisogna mettere sotto i loro occhi un’immagine che lasci dei ricordi e li spinga anche un po’ più lontano... Ma questa è un’arte di cui noi ora non abbiamo più bisogno. È superata.

Corriere 4.3.15
Teodora, ovvero la Belle Époque a Bisanzio
di Marco Rizzo


Si dice comunemente che dietro ai successi di ogni grande uomo ci sia una grande donna. Se però quest’ultima esce dall’ombra e assume un suo autonomo profilo, è quasi inevitabile che si attiri maldicenze, antipatie, vero e proprio odio. Un caso celebre è quello di Teodora, moglie di Giustiniano, l’imperatore bizantino che riuscì per breve tempo a riunire per l’ultima volta le due parti dell’impero (i due appaiono l’uno di fronte all’altra nei celebri mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna).
Lo storico Procopio di Cesarea dedicò a Teodora un ritratto al vetriolo, conosciuto sotto il titolo di Storia segreta , che prudentemente scelse di tenere nel cassetto, perché fosse pubblicato dopo la morte di Giustiniano. In realtà fu Procopio a morire per primo, e la sua opera rimase a lungo ignorata. Stampata per la prima volta nel 1623, diffuse l’immagine di Teodora come una prostituta che, grazie alla bellezza e agli intrighi, riuscì a diventare imperatrice, macchiandosi di ogni tipo di nefandezza.
L’astio di Procopio era probabilmente dovuto all’estromissione dalla cerchia del potere dopo un lungo servizio nella corte e nell’esercito bizantino. Altrettanto inevitabilmente, una vicenda biografica come quella descritta dalla Storia segreta doveva accendere l’interesse e la fantasia di storici e letterati di epoche assai meno moralistiche. Gibbon, De Sade, Sardou, d’Annunzio, sono tra quanti hanno contribuito al contromito moderno di Teodora.
Tra loro va ricordato anche uno dei fondatori della bizantinistica moderna, Michel-Charles Diehl, di cui Castelvecchi ripropone la biografia dell’imperatrice, originariamente pubblicata nel 1903, Teodora imperatrice di Bisanzio (pp. 184, e 17,50). L’approccio è meno romanzesco, le vicende di Teodora sono inserite nel contesto della sua epoca, anche se dalle pagine di Diehl traspare l’inconfondibile clima della Belle Époque parigina, che spiega la simpatia con cui lo studioso tratteggia il profilo dell’imperatrice.
Per una ricostruzione più aggiornata, si può vedere la biografia di Paolo Cesaretti, uscita nel 2001, Teodora. Ascesa di una imperatrice (Mondadori). Curiosamente, nella quarta di copertina di Castelvecchi, Diehl viene fatto morire a Dachau nel 1945, anziché l’anno prima nella Parigi da poco liberata. Forse, una vendetta postuma di Procopio.

 Stampa 4.3.15
Madonna: “Europa attenta qui tira aria di fascismo”
“Respiro intolleranza per chi è diverso o addirittura non più giovane” E la musica? “Cerco semplicità, canzoni che chiunque possa cantare”
di Luca Dondoni


Giulio Andreotti diceva che «a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca». Da quando si è cominciato a parlare del nuovo disco Rebel Heart, Madonna non ha fatto passare giorno senza stuzzicare l’attenzione dei media. Prima il «Madonnaleak» (molte delle canzoni del cd apparse in Rete a fine 2014), con successive polemiche, un arresto e la pubblicazione di parte dell’album. Poi, nell’ultimo mese, ha alzato la minigonna davanti ai fotografi dei Grammy Awards, è caduta sul palco dei Brit Awards e alla tv francese ha paragonato il Front National di Marine Le Pen al Partito Nazista. Impegno sociale o strategia di promozione per il nuovo album?
Pochi giorni fa la star era in Italia per registrare l’intervista con Fabio Fazio che andrà in onda domenica all’interno di Che tempo che fa; il conduttore ha chiesto alla popstar una sua opinione sugli attentati di Parigi: «Ci hanno fatto capire che la libertà non è scontata - ha risposto colei che fu Material Girl - ma anche che dobbiamo essere più tolleranti». Al termine della registrazione, Madonna ha accettato di rispondere anche alle nostre domande.
Lei sembra non curarsi del passare del tempo. Balla, canta e si comporta come se fosse all’inizio della carriera. Sempre diretta, tagliente, precisa, concentrata, qualcuno dice strafottente. Nulla può impensierirla.
«È facile essere me perché sono io che mi comporto come voglio e quindi non ci faccio caso. L’importante è mettere il proprio lavoro, l’arte, prima di ogni altra cosa. Il mio compito è fare belle canzoni che possibilmente diventino classici da suonare con la chitarra. Per la produzione poi lascio fare a gente forte, attuale, dj che riempiono gli stadi. In Rebel Heart, personaggi come Diplo, Avicii o Kanye West mi hanno aiutata con la loro visione a creare, come cerco sempre di fare, un prodotto che anticipa i tempi».
Perché per fare la voce recitante che dà il via a «Iconic» ha chiamato l’ex pugile Mike Tyson?
«Per quell’introduzione avevo bisogno di un personaggio che avesse avuto una vita difficile e che fosse cresciuto come essere umano. Mike Tyson rappresenta esattamente l’uomo che volevo».
Qualche giorno fa ha detto che in Europa si respira un’aria fascista. È ancora di quella opinione?
«Sì fascista è la parola giusta. Nello scorso tour ho spesso respirato tracce di antisemitismo, intolleranza nei confronti di chi è diverso, delle minoranze come gay, ebrei, musulmani. Ho visto parecchio sessismo e la discriminazione l’ho sentita sulla pelle. E quando parlano di me come di una donna di una certa età i media peccano di “ageism” (razzismo nei confronti di chi non è più giovane, ndr)».
A proposito, ha saputo che proprio Tyson per recitare quell’introduzione ha detto di essersi ispirato ai discorsi di Mussolini?
«Per l’abilità e la potenza oratoria, non per altro».
Lei si è sempre schierata al fianco della signora Tymosenko in Ucraina, o delle Pussy Riot. Dopo gli ultimi avvenimenti, e senza dimenticare la censura del governo di Putin nei confronti dei gay, farà anche lei come Cher che ha detto che non si esibirà mai più in quel Paese?
«Al momento non sono previste date da quelle parti, ma si sappia che non ho paura di nulla e di nessuno».
Lei è considerata una donna risoluta. Nella canzone «Joan of Arc» (Giovanna d’Arco) dice che essere distruttivi non è da coraggiosi. Lo insegna anche ai suoi figli?
«I miei figli sono già sui social network e con Rocco discuto spesso a questo proposito. Ho sempre spiegato ai ragazzi la distinzione tra la professionista e la mamma, conoscono bene la differenza. A volte anch’io vengo ferita dai commenti negativi, ma non posso farci nulla se non guardare oltre».
Come sarà la scenografia del tour che arriverà a Torino a novembre?
«Non posso dire ancora nulla, se non che non amo ripetermi. Sto cercando ispirazione un po’ ovunque, in questo periodo il mio cervello è come una spugna; per esempio oggi ho visto i led sul pavimento dello studio di Fabio Fazio e ho avuto una certa idea...».

Corriere 4.3.15
Bellocchio: a volte limiti incerti tra realtà e finzione
I confini del sesso sul set
Da Jake Gyllenhaal all’imbarazzo di Mila Kunis le confessioni opposte dei protagonisti di Chiara Maffioletti


Ci sono momenti in cui il confine tra un attore e il suo personaggio diventa più sottile. Momenti in cui le parole si spengono e cedono il posto al corpo, strumento con cui è molto più complicato fingere ma che diventa l’unico a disposizione quando si girano scene d’amore. Che si tratti solo di un bacio o di tutte le cinquanta sfumature di passione, gli attori di solito minimizzano sull’erotismo di quei ciak. Ma il «non c’è niente di vero», pare essere la prima bugia sul tema.
C’è chi lo ha ammesso, come Ryan Gosling: «Di solito tutto è finto, ma se vuoi rendere l’intimità devi comportarti diversamente». Anche se la maggior parte degli attori parla di imbarazzo. Come John Hamm: «È strano e sgradevole...», Rosamund Pike: «Sei con un uomo che non è tuo marito: ha solo le mutande, tu solo il tuo intimo e tutto si conclude in un’arida scena» o Mila Kunis: «È difficile girare una scena di sesso... non è affatto piacevole». Jake Gyllenhaal su Amore e altri rimedi , ha ironizzato: «La cosa più difficile era fingere di essere eccitati da Anne Hathaway». Anche se poi ha specificato: «Non ho mai fatto sesso indossando la biancheria intima, sarebbe strano».
Eppure quelle scene sono spesso i momenti più d’impatto in un film, quelli che si ricordano di più. Dal ghiaccio sulla pancia di Kim Basinger in Nove settimane e mezzo all’amore sul tavolaccio della cucina di Jack Nicholson e Jessica Lange in Il postino suona sempre due volte fino agli orgasmi diretti da Lars Von Trier in Nymphomaniac. Il sesso si ricorda e piace anche, almeno stando agli incassi record (413 milioni di dollari nel mondo) di un film la cui unica ragione d’essere è in quelle scene, come Cinquanta sfumature di grigio.
Ma c’è una visione, anticipata dal New York Times, molto distante tra chi quelle scene le interpreta e chi invece le immagina, scrive, dirige. I registi sono poco convinti della pura finzione. «Non è vero che gli attori sono freddi. Se sono nel personaggio non possono che provare i suoi sentimenti. Almeno se a monte si fa un lavoro serio con loro», spiega Paolo Franchi. Lui ha diretto scene intense in film come Nessuna qualità agli eroi (discusso a Venezia per il nudo integrale di Elio Germano) o E la chiamano estate (che ha avuto grande fortuna in Oriente): «Ma mai fini a loro stesse: erano subordinate all’aspetto psicanalitico della storia». Non pensa che i suoi attori «abbiano mai finto. Poi certo, quando finisce il ciak tornano in loro». Scene come queste toccano anche gli autori: «Spesso sono più intimidito io degli attori: cerco sempre di fare molti passi indietro».
Marco Bellocchio sintetizza così: «Sono scene in cui la differenza tra l’essere e il rappresentare è più confusa. Laddove ci sono azioni così ravvicinate è difficile separare l’interprete dall’uomo». Per questo il più delle volte, quando devono essere girate, si cerca di «limitare al minimo la troupe sul set, di mettere gli attori a loro agio. Sperando ci sia intesa». È successo in Vincere! «con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. Ma con il passare del tempo, tendo più ad alludere». Questo perché le scene di sesso «se non sono sorrette da una grande ispirazione diventano pornografia».
Bellocchio poi ricorda «la famosa scena della fellatio in Il diavolo in corpo : nell’esplicita erezione del pene c’era l’esempio di un coinvolgimento non credo solo meccanico. È la rappresentazione visiva di come sia difficile se non impossibile astenersi da ogni sentimento quando si mette in scena un atto d’amore».
Esistono dei trucchi: cuscini, protesi, lavoro di post produzione.... «Ma si vedono. Il solo trucco che uso è la luce». D’accordo anche Franchi: «Nei miei film non c’è niente di simulato. Anche Elio Germano era completamente lui».
Giovanni Veronesi ha pochi pudori: «Le scene d’amore sono i miei effetti speciali. Gli attori devono fingere e io mostro come». Lo ha fatto con Bellucci e Scamarcio in sedia a rotelle in Manuale d’amore 2 : «Montavo sopra di lui, simulavo i movimenti». Quella scena l’aveva «sognata: era un mio sogno erotico. È molto sensuale ma non si vede niente: ho fatto togliere le mutandine alla Bellucci, ma ne indossava un altro paio, lui aveva le sue». Secondo Veronesi «di solito comandano le donne. Non per delicatezza: non c’è sesso tra gli attori, sono tutte attrici. Ma perché in genere una donna ha girato più scene di sesso». E così, «se l’attrice è imbarazzata, come lo era Violante Placido con Silvio Muccino in Che ne sarà di noi , il regista deve stare accanto a loro». I trucchi degli attori? «Se si gira dopo pranzo bevono un po’». In questa camminata da funamboli tra realtà e finzione, la regola per Veronesi è una sola: «Il cinema deve essere per metà ciò che si mostra e per metà immaginazione. Altrimenti diventa un film porno».