domenica 8 marzo 2015

il Fatto 8.3.15
Il pugno di Francesco a CL: “Non compiacetevi troppo”
Il pontefice accusa Comunione e Liberazione di autoreferenzialità
di Marco Politi


Città del Vaticano. Dio non paga il sabato, dice il proverbio. Ma poi il conto arriva. È passato il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI e Comunione e liberazione si gonfiava di orgoglio per essere tra i “giusti”, in prima linea nel combattere i “mali” del mondo, nell’attaccare i “nemici” della fede, nell’accusare i cattolici più pensosi o critici di essere “tiepidi”, filoprotestanti, eretici, succubi del relativismo, paurosi. Loro erano i combattenti di Dio, gli altri erano gli infedeli o, se cattolici diversamente pensanti, gente debole nella difesa dei principi “non negoziabili”. Loro si sentivano l’avanguardia eletta, se c’era da far barriera al testamento biologico, la fecondazione artificiale, le unioni di fatto.
Poi sono venuti gli scandali lombardi, si è aperto il coperchio su intrecci politici-affaristici che poco odoravano di incenso. E Roberto Formigoni, detto il Celeste, rimasto l’unico in Italia convinto che i cittadini normali credano alla favola dei lobbysti che gli pagano le vacanze a migliaia di euro, “ma – grida il Celeste furioso – non è vero, tra amici c’è chi anticipa e poi si paga alla fine, senza ricevute”. A insaputa evidentemente di chi aveva anticipato.
FINCHÉ la tunica lacerata della vanagloria è diventata così inguardabile che nel 2012 il successore di Giussani, Julian Carron, ha confessato pubblicamente via stampa: “Chiediamo perdono se abbiamo recato danno alla memoria di don Giussani con la nostra superficialità e mancanza di sequela”. Il conto è arrivato ieri mattina in Vaticano sotto forma di predica del Papa ad un incontro con Comunione e liberazione nel decennale della morte di Giussani. E il mite Francesco, con l’eleganza antica di chi sa maneggiare la penna e la parola nella Compagnia di Gesù, ha stilato l’elenco dei vizi ciellini. Madamini, il catalogo è questo! “Quando io metto al centro il mio metodo spirituale, io esco di strada – ha spiegato – Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una spiritualità di etichetta: ‘Io sono Cl’... e poi cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento... quel guardarci allo specchio che ci porta a trasformarci in meri impresari di una ong”. La strada della Chiesa, ha soggiunto Francesco, è andare a cercare i lontani, i senza fede, anche i delusi dalla Chiesa. Ed è essenziale “saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera”. Un breve catechismo di ciò che Cl non è mai stata. Guai a diventare adoratori del proprio carisma, ha lasciato intendere il pontefice argentino. Guai a lasciarsi pietrificare. “È il diavolo quello che ‘pietrifica’”, ha sottolineato. E con accento lieve ha aggiunto: “Non dimenticare! ”.
FRANCESCO ha citato il fondatore di Cl, don Giussani, per fissare due principi. Il cristianesimo non consiste nella difesa di posizioni fisse contrapposte al nuovo come pura antitesi. Non è (possiamo tradurre in linguaggio semplice) né guerra di trincea né farsi truppe d’assalto. E soprattutto, sempre citando Giussani, papa Bergoglio ha rimarcato che oggi la cosa fondamentale è agli aspetti elementari, originali del cristianesimo. Seguire la morale cristiana, ha illustrato il pontefice, non è esibire uno sforzo titanico di coerenza “in una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo”. È commuoversi di fronte a Dio, che conosce i tradimenti dell’uomo e gli vuol bene lo stesso e lo abbraccia. E qui Francesco ha preso simbolicamente per mano tutti coloro, che nella gerarchia, nel clero, nei movimenti si sentono militanti e militari di fronte alla società contemporanea – e perciò resistono alla sua immagine di Chiesa “ospedale da campo” – e ha sussurrato con la sua cadenza latinoamericana, indicando la rotta del cattolicesimo nel XXI secolo: “Dicevo nei giorni scorsi ai nuovi cardinali: la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno, di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero, di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle periferie dell’esistenza”. Il Vangelo di Francesco è questo. I ciellini saranno disposti ad ascoltarlo? Certo, se facessero orecchie da sordi, sarebbero in numerosa compagnia.

il Fatto 8.3.15
Il direttore di Tempi, Luigi Amicone
“Ci sono stati scandali, però non rinunciamo al potere”
di Virginia Della Sala


“Voglio precisare che nella prima parte del suo discorso, il Papa ha detto che il carisma originario di Comunione e Liberazione non ha perso la sua vitalità”. Luigi Amicone, ciellino di vecchia data, fondatore e direttore del settimanale cattolico Tempi, ci tiene a sottolineare che il Papa ha pronunciato anche parole di apprezzamento.
Amicone, perché papa Francesco ha bacchettato Cl, ieri?
Ma non è vero. Il Papa non ci ha criticato. Ci ha solo ammonito a non rimanere impantanati nel passato e a guardare al futuro. Poi, quello che dice il Papa è comunque oro colato.
Infatti ha scelto termini ben precisi: ha parlato di “meri impresari”, di “spiritualità di etichetta". A cosa si riferiva?
A quello che dobbiamo evitare. Se c’è una realtà lontana dal conformismo del potere è proprio Cl. Per questo veniamo bastonati da ogni parte.
Non sarà che invece si riferiva agli scandali che hanno coinvolto Cl e al suo potere politico?
Può darsi. Ma si tratta di casi singoli che non coinvolgono tutto il movimento. È come se si incolpasse me se un mio amico ruba un’auto. Il Papa voleva solo dire ‘Ritornate a incendiare la realtà come un tempo’. Forse oggi siamo un po’ più timidi.
Quando c’è stata questa conversione alla timidezza ?
In questi ultimi anni, forse proprio alla luce di vicende che hanno fatto cattiva pubblicità al movimento. Cl si è ripiegato su se stesso.
E quindi cosa farà domani un ciellino per seguire le parole del Papa?
Si interesserà alla vita degli altri, ai loro problemi, alla società. Uscirà dai suoi interessi.
E uscirà anche dai palazzi del potere?
No. Anzi, io vorrei entrarci in un palazzo. Forse il Papa avrebbe qualcosa da ridire, ma sono convinto che se non si entra nei palazzi, non si può fare nulla. Bisogna usare il potere per cambiare il mondo. Non è negativo. Senza potere, non cambi le cose.

il Fatto 8.3.15
Il confessore di Aldo Moro e il segreto della Repubblica
Cossiga raccontò “Monsignor Mennini andò nel covo delle Brigate Rosse durante la prigionia per l’ultima assoluzione”
Lui ha sempre negato
di Enrico Fierro


Chi sa se per monsignor Antonio Meninni è arrivato il momento della verità. Trentasette anni dopo “don Antonello”, padre spirituale e confessore di Aldo Moro, ha l’occasione per dire tutta la verità sui suoi incontri con lo statista dc nel covo delle Brigate rosse. Il nunzio apostolico del Regno Unito, domani si siederà sui banchi della Commissione parlamentare sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro.
UN PEZZO della storia tragica d’Italia che ha visto come protagonisti non solo gli assassini delle Br, ma uomini dei servizi segreti deviati, massoni della P2, amici e colleghi di Moro imbelli. “Se devo essere sincero non mi aspetto particolari novità dall’audizione di monsignor Meninni”, ci dice Miguel Gotor, senatore del Pd e membro della Commissione d’inchiesta, ma soprattutto studioso del “caso Moro”, “otto anni di studio matto e disperatissimo”, gli piace dire citando Leopardi. “Intanto – chiarisce il senatore – ritengo importante e significativo che l’alto prelato abbia accettato di confrontarsi con noi, è stato un gesto positivo da parte del Vaticano. Per questa ragione spero che l’audizione sia pubblica, l’unico modo per evitare ricostruzioni fantasiose. Dopo trentasette anni la trasparenza è obbligatoria. Il tempo è passato e monsignore può avere l’occasione di chiarire molti aspetti legati al suo ruolo nella vicenda Moro. Di volta in volta viene indicato come il postino delle lettere che la famiglia Moro indirizzava al presidente, oppure come uno dei protagonisti della mediazione tra il Vaticano e le Brigate rosse”.
Trentasette anni fa, Antonio Meninni era “don Antonello”, viceparroco della parrocchia di Santa Chiara e amico della famiglia Moro. Figlio di un altissimo dirigente dello Ior, la banca del Vaticano all’epoca diretta dal discusso monsignor Marcinkus, don Antonello svolge un ruolo significativo nei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro. In quelle ore nella notte più nera della Repubblica, il viceparroco era in contatto col “prigioniero Moro”. Fu Francesco Cossiga, all’epoca del sequestro ministro dell’Interno, a rivelare nel 2008 che Digos e Servizi tenevano sotto controllo i telefoni in uso al sacerdote: “Don Meninni raggiunse Aldo Moro nel covo della Br e noi invece non lo scoprimmo. Avevamo messo sotto controllo il telefono della parrocchia e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò. Sono convinto che abbia incontrato Moro nella prigione delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell’esecuzione dopo la condanna a morte. Seguendolo avremmo potuto ritrovare Moro”. Nessuno seguì l’allora sacerdote che però ha sempre negato di aver varcato la soglia del covo brigatista dove lo statista fu rinchiuso. “Magari avessi potuto incontrare Moro. Purtroppo non mi è stata data la possibilità di offrire consolazione a una persona che mi onorava di affetto e di amicizia”, disse in una intervista rilasciata ad Antonio Padellaro per il Corriere della Sera nel 1979. Dopo quella intervista don Meninni venne sentito dal pm di Roma Domenico Sica. E non fu la prima volta, come rivela il sito cattolico Aleteia.org , che il prete fu ascoltato da autorità giudiziarie e commissioni parlamentari d’inchiesta. Tanti i misteri sul ruolo svolto dal prete in quei 55 giorni. Era il postino della famiglia Moro? Secondo alcune testimonianze sì.
QUALCUNO parla di una trentina di lettere affidate dalla moglie dello statista, la signora Norina, al sacerdote. Che fine hanno fatto? Per Prospero Gallinari, capo delle Br, quelle missive furono bruciate insieme ad una serie di documenti privati, ritenuti dai brigatisti poco influenti e significativi, da lui personalmente. Voci e indiscrezioni giornalistiche succedutesi negli anni, e che fanno parte della lunghissima teoria dei misteri sul caso Moro, parlano di vari incontri tra la vedova dello statista Dc e il prete. La signora Norina chiese più volte se don Meninni avesse davvero incontrato il marito pochi giorni prima la sua barbara uccisione nel bagagliaio della Reault-4 rossa. Il prete rispose di sì, opponendo però il segreto della confessione sui contenuti di quell’incontro. Questa circostanza, come tantissime altre, non è stata mai del tutto verificata. Giovane sacerdote, don Meninni sapeva muoversi. “Stiamo parlando di un giovane uomo di 31 anni catapultato in una storia straordinaria – dice Gotor –, per capire certi atteggiamenti, e anche i silenzi, bisogna andare con la memoria al clima plumbeo dell’epoca”. Il suo telefono era sotto controllo, le conversazioni erano criptiche. “Beh si è fatto tutto quello che si poteva…”, gli dice un uomo mai identificato in una telefonata. Don Meninni riattacca. Le bobine di quelle telefonate non ci sono più. Erano reperti importanti del caso Moro. Sono sparite.

Repubblica 8.3.15
Ior
Bloccati 360 conti sospetti
183 milioni di euro depositati dai correntisti privilegiati diversi dagli enti religiosi
Fuori dal patto i clienti laici che hanno usato la banca come paradiso fiscale
di Andrea Greco


ITALIA e Vaticano proseguono nella trattativa per il nuovo concordato fiscale. Il negoziato sembra agli sgoccioli: anzi, il fatto che Matteo Renzi ne abbia parlato e se ne stia occupando fa supporre gli addetti ai lavori che l’inchiostro stia per correre. «Gli sto mettendo fretta», ha detto ieri il premier ai collaboratori, parlando del negoziato — Questa degli accordi con Svizzera, Monaco e Lichtenstein è una cosa enorme, attesa da decenni. Chiuderla adesso è fantastico, se ci metto anche il Vaticano c’è doppia soddisfazione ». In attesa dei passi ufficiali, qualche spunto si delinea, specie nei rapporti bancari tra i due paesi, destinati a regolarizzarsi. Significa che presto lo Ior potrebbe tornare ad avere rapporti di controparte effettivi con gli istituti italiani, togliendo il Vaticano dall’imbarazzante lista grigia stilata dalla Banca d’Italia. Tuttavia, la prossima redenzione non dovrebbe valere per i clienti privilegiati che per anni hanno varcato il torrione Niccolò V in cerca di privilegi fiscali e di segretezza assoluta. Un portavoce dello Ior chiarisce che le prossime intese «non riguarderanno i clienti privati italiani, ma soltanto la Chiesa in senso generale e il Vaticano ». Specie le congregazioni religiose, titolari di circa metà dei 6 miliardi di attivi della banca e che hanno il problema di evitare la doppia imposizione tra le sedi decentrate e quelle a Roma. Chi invece ha usato lo Ior come un centro off shore dovrà sanare le posizioni in altro modo, insomma. Secondo il bilancio 2013 della banca vaticana, l’ultimo disponibile, restavano «359 rapporti che non rispondono ai criteri stabiliti nel luglio 2013, per un saldo complessivo di 183 milioni di euro a fine 2013, segnalati come rapporti in eventuale chiusura e sottoposti a relativa procedura». Una procedura che collega queste posizioni alla vigilanza interna (Aif), che potrà chiudere i conti solo dopo avere verificato che non siano frutto di attività illecite. A un anno di distanza quei conti sarebbero «molti di meno». Sempre dal bilancio, altri 396 clienti, con deflussi per 44 milioni, erano stati trasferiti «con bonifico a istituzioni finanziarie con sede in giurisdizioni che garantiscono la tracciabilità dei fondi in forza di un quadro normativo equiparabile (per l’88% italiane)». Quindi banche domestiche, cui quei soldi sarebbero stati versati, mentre 5,7 milioni sono stati trasferiti a titolo di donazione e 1,2 milioni «liquidati in contanti». Negli ultimi anni, almeno 9mila sarebbero i conti chiusi perché riferibili a privati, che solo per privilegi, conoscenze o in cambio di sospette donazioni erano stati autorizzati ad aprire un conto allo Ior. Almeno 6mila erano in stato “dormiente”: forse perché riferiti ad attività passate, ma che poi per inerzia o altro non erano stati chiusi. Secondo il bilancio Ior 2013, i conti effettivi chiusi erano 3mila, di cui 775 di titolari che non ne avevano più il diritto, dopo le restrizioni poste quell’anno. Un portavoce assicura che nessun cliente è passato dallo Ior ad altri paradisi fiscali. Ma in ambienti bancari c’è il sospetto che, con l’aiuto di Promontory — il consulente americano che due anni fa ebbe il mandato di sbrogliare la matassa dei conti Ior, in totale delega e autonomia si dice — la parte più scottante del traffico bancario sia stata smistata lontano, per preparare la “fase II” della trasparenza. Anche le autorità italiane, ancora pochi giorni fa, notavano una qualche discrezionalità da parte dell’Aif, nel segnalare o meno gli spostamenti di denaro le segnalazioni dell’Aif all’Unità di informazione finanziaria, antenna della Banca d’Italia sul riciclaggio di denaro.
Lo Ior da qualche anno sta inviando lettere ai clienti privati per esortarli a mettersi in regola.
Ma il percorso di trasparenza non è sempre lineare. La procedura di antiriciclaggio messa a punto da Gotti Tedeschi a fine 2010, aderente alla normativa internazionale, fu riscritta con toni più laschi dopo la sua estromissione, voluta dall’allora segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone. Nella nuova versione, di inizio 2012, l’Aif finì sotto l’ala della Segreteria di stato: un controsenso della corporate governance sottolineato da Moneyval pochi mesi dopo, quando assegnò alla Santa Sede una valutazione negativa in 8 dei 49 criteri standard. Anche con la Banca d’Italia i rapporti non sono facili. Il mancato utilizzo del circuito Swift (chissà perché) verso l’Italia, che identifica automaticamente le controparti delle transazioni, da anni irrita via Nazionale: al punto che con una circolare del 2010 lo Ior è finito sulla sua sulla grey list, e tale status impedisce all’istituto di avere rapporti interbancari con le banche italiane. Per loro, lo Ior è come fosse un cliente impresa, che deve appoggiare ogni operazione a banche (estere) di corrispondenza. Ma Oltretevere si è convinti che anche questo andazzo, che ha portato al congelamento di circa 150 milioni in Italia, deve finire. «I tempi ormai sono cambiati».

Corriere 8.3.15
Il premier e i 2 milioni di elettori da schierare alle primarie
L’obiettivo del segretario per il nuovo Albo: così rivoluzionerà il Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA Che cosa intenda veramente fare Matteo Renzi quando annuncia «rivoluzionerò il Pd», in realtà lo sanno in pochissimi. Anche se qualcuno azzarda una data per questa innovazione: giugno prossimo.
Qualche esponente democrat particolarmente malizioso sospetta che sia un modo per tenere «occupati» i rappresentanti della minoranza e far loro qualche (apparente) concessione. Ai bersaniani, in effetti, non sembra vero che il 30 marzo partirà una campagna di tesseramento vero e proprio o che il leader abbia già lasciato intendere di essere pronto a cancellare le primarie per i segretari regionali. Da ora in poi quelle cariche di partito verranno scelte solo dagli iscritti, cioè da coloro che da marzo avranno in tasca una tessera con su scritto «Il Pd lo costruisci tu».
In realtà questo è un modo per cercare di radicare nel territorio il Partito democratico versione Renzi, ed evitare che i ras locali, al Sud e al Nord, facciano un po’ come pare a loro. Ed è anche un riconoscimento agli iscritti e ai militanti.
Sbaglierebbe chi pensasse che questa innovazione abbia qualcosa a che spartire con quel ritorno al partito pesante che sogna la minoranza pd. Succede anche negli Usa che i Democratici se devono scegliere i loro capi se li votano loro, ma se devono scegliere i governatori fanno le primarie. Esattamente quello che avverrà per il Pd dove quello strumento resterà per i candidati alle cariche monocratiche: sindaci e presidenti di regione. E saranno ovviamente primarie anche per il candidato premier la cui figura coinciderà con quella del segretario. Chi vorrà votare il leader dovrà essere iscritto a un Albo degli elettori (al Nazareno dicono di sperare di arrivare a quota due milioni per l’Albo, ma in realtà l’obiettivo è più ambizioso).
Renzi però è sempre Renzi e se ha rinunciato all’idea del partito-comitato elettorale non riesce a fare a meno di alcune innovazioni. Lui e il suo abilissimo portavoce Filippo Sensi hanno le orecchie e gli occhi sempre sintonizzati sull’uso che si può fare delle nuove tecnologie. Di qui l’idea di far lanciare, ma non dal partito, bensì da movimenti della società civile legati al Pd, grandi battaglie di propaganda che coinvolgano gli italiani, un po’ come avviene negli Stati Uniti. È un modo per avvicinare i cittadini, sempre più lontani dalla politica.
Del resto, come ha spiegato lo stesso segretario in una recente intervista all’ Espresso , nel momento in cui il premio di maggioranza, come prevede l’Italicum, va alla lista, è inevitabile cambiare il Pd. Che diventerà a quel punto un partito che tenderà inevitabilmente ad allargarsi e a imporsi come una forza politica a vocazione maggioritaria.
E Renzi immagina di vincere anche la prossima tornata elettorale con quel Pd: «I segnali di ripresa — spiega ai suoi — ci sono, dal Jobs act arrivano i primi risultati positivi, se riusciamo a sfruttare questa occasione e far tornare la crescita, sia che la Lega e la destra si dividano o si uniscano, faranno fatica a starci appresso».

La Stampa 8.3.15
Lo scontro
La minoranza dem pronta all’astensione sulle riforme
di Francesca Schianchi


L’obiettivo grosso è la legge elettorale, alla Camera a maggio. Ma, per preparare il terreno, un segnale della minoranza del Pd a Matteo Renzi potrebbe già arrivare dopodomani, in occasione del voto finale sulla riforma costituzionale a Montecitorio. Un’«azione simbolica», come la definiscono: dopo aver votato gli emendamenti, pur a denti stretti, ora, sull’ultimo voto necessario per spedire la legge al Senato, stanno pensando di astenersi o non partecipare. «Domani noi deputati di minoranza della Commissione Affari costituzionali ci riuniamo e valutiamo come muoverci», fa sapere Alfredo D’Attorre, «il pacchetto riforma costituzionale più legge elettorale non sta in piedi», dice, e ne è tanto convinto che domani interverrà anche, con altri della minoranza, a un incontro partecipato da varie associazioni - da Libertà e Giustizia alla Fiom: previsto Landini - che chiedono di «bloccare stravolgimenti della Costituzione». «Non sosterremo nel voto la riforma del Senato», diceva ieri a «Libero» Fassina, anche se difficilmente si arriverà a un voto contrario, pur ininfluente ai fini dell’approvazione della legge.
Pesanti critiche alle due riforme sono arrivate anche da Bersani, pronto a non votare l’Italicum se, come insiste Renzi, non saranno concesse modifiche: «La proposta che farò è di andare nella stessa direzione tenuta sino ad oggi», ripete il premier. «Quelli del Pd che vogliono discutere avranno le assemblee dei gruppi e la Direzione del partito», taglia corto: domani ci saranno incontri su fisco e Pa, dopo quelli tanto discussi di dieci giorni fa, ma saranno disertati dalla minoranza, critica sul metodo.
Minoranza che, in attesa di dare battaglia sull’Italicum, valuta se sia il caso di lanciare un messaggio già martedì. Ci sta pensando Gianni Cuperlo, ma anche Francesco Boccia: «La cosa più saggia è che tutti quelli che non sono d’accordo prendano la medesima posizione sulla riforma del Senato»; per quanto lo riguarda, «se resta la chiusura del governo, temo di non votarla».
Posizioni che però non preoccupano Renzi: «In Parlamento i voti sulle riforme ci saranno». E se martedì dovesse riprodursi lo scenario del Jobs Act (33 deputati Pd non lo votarono), sospira il renziano Carbone, «sarà poi il referendum a stabilire se gli italiani stanno con noi o con loro».

Corriere 8.3.15
Serracchiani avvisa la minoranza: le riforme restano come sono
Avvocata? Non chiamatemi così
di Alessandro Trocino


ROMA «Non mi piace essere chiamata avvocata o presidentessa. Al limite, meglio “la presidente”». Debora Serracchiani, vicesegretario (o vicesegretaria) pd, non condivide la battaglia lessicale del(la) presidente della Camera Laura Boldrini.
Perché?
«Non credo che la questione del linguaggio oggi sia la priorità. Meglio affrontare altri temi, come l’eguaglianza retributiva e la lotta al femminicidio».
Oggi è l’8 marzo: lo festeggia?
«Mai festeggiato molto. Però è una giornata che può essere usata per affrontare i temi di cui parlavo. E come monito, per ricordare che la strada è ancora lunga».
Anche quella delle riforme? Nel Pd c’è chi vuol cambiarle.
«Non c’è motivo di cambiare né la riforma del Senato, né la legge elettorale».
Per Miguel Gotor, «se non cambia la riforma del Senato, non voteremo l’Italicum».
«Legare le due cose mi sembra un terzo tempo incomprensibile. Abbiamo ampiamente discusso, ora si chiuda il più presto possibile».
Ma i dissidenti dem potrebbero preparare un’imboscata. E se votassero contro?
«Non abbiamo mai espulso nessuno e non lo faremo ora, anzi con il dissenso cerchiamo il dialogo. Ma lascerei le frammentazioni al centrodestra».
Sperate nel soccorso azzurro? Forza Italia, magari la parte verdiniana, potrebbe convergere nel segreto dell’urna.
«Non so se convergerà, ma certo le riforme sono state costruite con l’apporto di tutti e più volte c’è stata una scomposizione e ricomposizione dei gruppi parlamentari».
Cuperlo non vuole stare in un partito di centro che guarda a destra.
«Abbiamo ridotto il costo del contratto a tempo indeterminato, tassato le rendite e detassato il lavoro, dato un bonus di 80 euro ai lavoratori, abbassato le tasse alle imprese. Se non è sinistra questa, fatico a capire cosa lo è. Ma non credo che gli italiani non dormano per questa preoccupazione. Contano le politiche concrete, non le etichette».
Chiedono di usare i soldi risparmiati con lo spread per fare cose di sinistra.
«L’economia ci può aiutare, ci sono dati incredibili. Lo spread sotto 90, l’euro debole, il petrolio che cala, una ripresa timida ma visibile, le assunzioni che ripartono. Il tesoretto che si libererà potrà essere usato per abbattere la disoccupazione e aumentare la formazione professionale».
Renzi riabilita il «partito delle tessere».
«Non è un ritorno al passato. L’Italicum dà più peso a chi è strutturato sul territorio e noi stiamo già cambiando. Nel Pd la rivoluzione è già in corso».
Il caso Campania vi ha messo in imbarazzo.
«Al di là del caso singolo, io dico che primarie sono irrinunciabili, ma bisogna arrivare a fare chiarezza su alcune regole. La legge Severino non si cambia. Ma bisognerà allineare il codice etico del Pd con la legge».
Ncd vorrebbe anticipare la stretta sulle intercettazioni.
«Non c’è motivo. Ma troveremo una sintesi».
Che effetto le ha fatto leggere le ultime intercettazioni su Berlusconi?
«Lo stesso di quando le vidi la prima volta, negativo. Un ritorno al passato».
Eppure ci fate le riforme.
«Sì, abbiamo ritenuto necessario farlo, ma restiamo profondamente diversi».

Repubblica 8.3.15
Stefano Fassina
“Resto contro, non sarò l’unico tra i dem”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Stefano Fassina non voterà, martedì, la riforma costituzionale alla Camera. Il deputato della minoranza pd promette battaglia sull’ Italicum , accusa il governo di non ascoltare e intravede la volontà di portare avanti un presidenzialismo di fatto. Senza i necessari contrappesi.
Maria Elena Boschi ha detto che l’ Italicum deve essere approvato prima dell’estate. Cosa ne pensa?
«L’importante è fare bene, la ministra Boschi si deve preoccupare dei contenuti. Il pacchetto legge elettorale- riforma del Senato cambia la forma di governo. La nostra democrazia parlamentare diventa un presidenzialismo di fatto, squilibrato sul piano costituzionale, senza le garanzie e i contrappesi previsti in sistemi di questo tipo».
Quali sono i correttivi necessari?
«Avevamo proposto delle modifiche importanti alla riforma costituzionale, purtroppo respinte dal governo. Ci riproveremo a palazzo Madama per le parti ancora modificabili, come quelle sul procedimento legislativo. Quanto alla legge elettorale è necessario cambiare due punti fondamentali: i capilista bloccati, che fanno sì che la Camera sia composta per due terzi da nominati, e la possibilità di apparentamento al secondo turno. Perché il premio di maggioranza alla lista fa sì che con il 25 per cento alle elezioni ci si possa prendere il 52 per cento del Parlamento, eleggendo da soli presidente della Repubblica e giudici costituzionali ».
La battaglia alla Camera ripartirà su questo?
«Sì, ma il voto finale sulla riforma costituzionale non è una formalità. Io non la voterò e non sarò da solo, ma non mi faccia fare numeri. Anche sulla legge elettorale a presentare emendamenti sarà un nutrito gruppo di parlamentari, un fronte più ampio di quello che si è espresso in modo critico al Senato».
Renzi ha definito le vostre riserve «incomprensibili».
«Un giudizio strumentale. Il premier cerca la polemica sui singoli punti, noi invece mettiamo in evidenza che è in corso un cambiamento radicale della forma di governo. In questi mesi abbiamo avuto molti esempi della volontà di marginalizzare le Camere, ignorando il lavoro delle commissioni sui decreti lavoro, andando avanti su 40 articoli di riforma in un’aula abbandonata dalle opposizioni, attaccando la presidente della Camera Laura Boldrini solo perché aveva difeso l’autonomia del Parlamento. La ricerca di un presidenzialismo di fatto si manifesta in questi sconfinamenti del governo e del presidente del Consiglio».

Repubblica 8.3.15
E in Cassazione minacciano lo sciopero bianco
di L. Mi.


ROMA Ufficialmente lo negano. Ma gli alti magistrati della Cassazione, giusto in queste ore, stanno seriamente pensando a una clamorosa protesta contro la legge sulla responsabilità civile, che è entrata in vigore il 4 marzo. Legge odiata e ritenuta fonte di grave delegittimazione. Quasi uno sciopero bianco.
Tant’è che, giusto da quattro giorni, i giudici si stanno scambiando mail in cui elencano dubbi e pericoli, e s’interrogano sul da farsi. Ci sono quelli più arrabbiati, i teorizzatori dello sciopero tout court, come nel caso di Magistratura indipendente; quelli altrettanto furibondi, come i seguaci di Pier Camillo Davigo, ex toga di Mani pulite ora alla Suprema corte, protagonista dell’avventura di Autonomia e indipendenza, gruppo di toghe che ha “divorziato” da Mi per mettersi in proprio. Ma ci sono soprattutto tanti magistrati della sinistra di Md e del Movimento giustizia, e gli stessi moderati di Unicost che chiedono ai responsabili dell’Anm della Cassazione di fare al più presto un’assemblea per decidere lì se continuare a lavorare lo stesso come se niente fosse, oppure se cominciare a fare i conti con la responsabilità civile da una parte, e le gravi carenze di organico dall’altra.
Dice Luigi Riello, il presidente dell’Anm della Cassazione, ex Csm, e toga di Unicost: «Certo, la richiesta di un’assemblea urgente ci è pervenuta. Tant’è che mercoledì faremo una giunta per decidere che fare. Sulla responsabilità civile il nostro giudizio è drastico. Basti pensare che dentro c’è quella parola, “travisamento dei fatti e delle prove”, la più ricorrente nei ricorsi che giungono qui». Quello che Riello non vuole rivelare è che tra i suoi colleghi c’è soprattutto una protesta. Riguarda i cosiddetti “carichi esigibili”, il lavoro che ogni toga è tenuta a fare, e tutto quello che invece viene fatto in più, magari in sofferenza, per garantire che i processi non vadano in prescrizione. Se i magistrati rispettassero alla lettera il “carico esigibile” la giustizia della Cassazione, ma non solo quella, si paralizzerebbe. Adesso, con la responsabilità civile che incombe e che potrebbe mettere in mora ogni magistrato per ogni decisione, i magistrati dicono: «Ma vi rendete conto che pericoli rischiamo di correre? Lavoriamo sotto stress, potremmo sbagliare ed essere puniti. Fermiamoci. Rispettiamo rigidamente quello che dobbiamo fare. Fermiamoci lì». È lo sciopero bianco che già molti hanno sollecitato all’Anm. Ad aggravare la situazione a piazza Cavour c’è la legge sul pensionamento anticipato (da 75 a 70 anni) che praticamente falcidia il palazzo. Quasi tutti i presidenti di sezione a casa, uno svuotamento di esperienze giuridiche, denunciato più volte dal presidente Giorgio Santacroce. Adesso, dicono le toghe, è ora di dire basta.

Corriere 8.3.15
Vacue riforme
La scuola cattiva è questa
di Ernesto Galli della Loggia

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Corriere 8.3.15
Detrazioni per le paritarie, serve
oltre un miliardo in tre anni
Le ipotesi fatte dal Tesoro per la proposta introdotta nella bozza sulla scuola
di Gianna Fregonara

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il Fatto 8.3.15
Tiscali e la P.a., ovvero vinco la gara e poi triplico il prezzo
La connessione degli uffici pubblici, venduta a 265 milioni, costerà 1,3 miliardi
di Giorgio Meletti


Forse servono doti intellettuali superiori per capire gli algoritmi delle gare della Consip. Certo un cittadino normodotato fatica a comprendere la misteriosa magia per cui, gestendo la gara per la connessione Internet degli uffici pubblici, il numero uno della Consip, Domenico Casalino, si vanta di aver risparmiato 2 miliardi, anche se lo Stato potrebbe finire per spendere più di prima.
Per esempio il ministero dell’Economia, azionista unico della Consip, sta scoprendo in questi giorni di essere la prima vittima della beffa: secondo stime riservate, il risultato della nuova gara “risparmiosa” sarà che i costi per la connessione triplicheranno.
ADDENTRIAMOCI nel mistero. La società statale che centralizza le forniture alle pubbliche amministrazioni ha bandito la gara per il cosiddetto Spc (Sistema pubblico di connettività), cioè la fornitura di collegamenti Internet a tutti gli uffici pubblici per i prossimi sette anni. Base d’asta: 2,4 miliardi. Vincitore della gara: Tiscali, società dell’europarlamentare Pd e segretario regionale della Sardegna, Renato Soru, renziano della prima ora.
Com’è noto, Soru ha vinto la gara con un ribasso dell’89 per cento, offrendo di fornire il collegamento Internet agli uffici pubblici per sette anni per 265 milioni, circa 38 milioni all’anno. Le verifiche della Consip sulla sostenibilità economica dell’offerta stracciata hanno portato alla conclusione che a questi prezzi Soru porterebbe a casa oltre 10 milioni di profitto, cioè un paio di milioni all’anno almeno.
Siccome il bando di gara riserva lotti di fornitura anche per chi segue il primo in classifica a condizione che pratichi gli stessi prezzi, Vodafone (come British Telecom che aveva fatto un’offerta inferiore) ha accettato di partecipare al prezzo di 265 milioni benché avesse offerto 1,28 miliardi, quasi cinque volte tanto. Quindi, se Vodafone può fornire a un euro ciò che nella sua offerta iniziale aveva detto di non poter vendere per meno di cinque, significa che le grandi società di tlc in queste complicate gare d’appalto fanno un po’ il gioco delle tre carte.
In realtà, è proprio il meccanismo della gara a consentire le più ardite acrobazie contabili a spese dello Stato. A rivelarlo è l’avvocato della Consip Andrea Guarino, in una memoria di pochi giorni fa per il Tar del Lazio, a cui si era rivolta Fastweb.
LA GARA CONSIP ha chiesto ai concorrenti di offrire un listino prezzi articolato in circa 500 voci del menù di offerta Tlc. Per arrivare a un’offerta unica e confrontabile, le 500 voci sono state ponderate, si è fatto cioè una sorta di paniere per dare un peso a ogni prodotto del listino; così, moltiplicando ogni singolo prezzo per la quantità indicata nel paniere, Soru è arrivato a indicare la cifra di 265 milioni. Come ha potuto tenersi così basso? Semplicemente ha offerto un forte sconto sulle voci del listino a cui Consip ha dato un notevole peso nel paniere, e ha sparato un prezzo stellare per la “banda garantita”: quasi sette volte più di quanto offerto da Fastweb, il triplo del prezzo proposto da Bt, senza effetti sulla competitività della sua offerta totale.
Infatti adesso si scopre che nel bando la “banda riservata”, cioè il collegamento non condiviso con altri, incide sul paniere per il 3 per cento. Strano, perché secondo i tecnici di Fastweb e British Telecom, finora titolari della fornitura sulla base della gara di otto anni fa, la banda riservata incide almeno per il 30 per cento sui consumi delle pubbliche amministrazioni. Ed è destinata a incidere sempre di più, come secondo il piano per la “crescita digitale” varato martedì scorso dal governo Renzi: teleconferenze, telemedicina, formazione a distanza e applicazioni in banda larga che chiedono grande capacità di trasmissione di dati.
Ecco perché sia Tiscali, sia British Telecom, sia Vodafone sono sicuri di guadagnarci anche dando la connettività con uno sconto apparente dell’89 per cento. Ed ecco perché il governo Renzi spenderà almeno uno dei due miliardi che è convinto di aver risparmiato e di poter utilizzare per finanziare l’ambizioso piano per la banda larga.
Scrive infatti l'avvocato Guarino: “Un concorrente può formulare un'offerta molto competitiva offrendo ribassi consistenti per quelle singole voci cui è associato un coefficiente di ponderazione elevato”, e può “ottenere un'adeguata redditività della propria offerta complessiva modulando opportunamente il prezzo delle singole voci cui è associato un coefficiente di ponderazione ridotto”. Qui anche il comune cittadino capisce che questa “redditività” si ottiene perché nella realtà la banda riservata pesa molto di più del 3 per cento, e quindi il paniere della Consip non rispecchia il vero fabbisogno di connettività di uffici, scuole e ospedali.
I TECNICI DI FASTWEB, attuali fornitori dell’Economia, hanno calcolato che con l’attuale consumo di banda il ministero di Padoan passerà da una bolletta mensile Internet di 231 mila euro a una di 695 mila, cioè il triplo. Insomma, più che un risparmio, un salasso. Si stima che a fronte dei 265 milioni del prezzo di aggiudicazione la vera bolletta per la pubblica amministrazione sarà tra 1,2 e 1,3 miliardi di euro. L’ennesima storia di risparmi solo promessi: si annunciano grandi vantaggi per le casse dello Stato mentre si firmano impegni di spesa che gli elettori scopriranno solo nei prossimi sette anni.

il Fatto 8.3.15
Ecco il 730 precompilato: chi lo riceverà, come funziona e dov’è la fregatura
di Patrizia De Rubertis


Basta vedere il fisco come se fosse un mostro”, ripete Matteo Renzi, senza però essere ancora riuscito ad attuare la delega fiscale approvata oltre un anno fa. E così, in attesa di un sistema fiscale più equo e trasparente, cosa c’è di meglio di una dichiarazione dei redditi precompilata che strizza l’occhio a oltre 20 milioni di italiani tra lavoratori dipendenti e pensionati che presentano il 730? L’operazione è stata lanciata come la rivoluzione 2.0 nel pagamento delle tasse. Ecco una breve spiegazione in forma di domanda e risposta.
Perché è precompilato?
Dal 15 aprile il modello sarà già compilato con i dati in possesso dall’Agenzia delle Entrate che utilizza le informazioni disponibili in Anagrafe tributaria (redditi da lavoro e da pensione, parenti a carico, immobili e terreni, ma anche contributi per le colf e detrazioni per le ristrutturazioni), quelle trasmesse da banche e assicurazioni (conti correnti, mutui, polizze vite e infortuni) e dagli enti previdenziali.
Sarà veramente così facile?
Rendere il Fisco più umano e a portata di clic farà correre il serio rischio che l’operazione si trasformi nell’ennesimo caos. Questo perché tra meno di 40 giorni i contribuenti non riceveranno il modello direttamente nella buca delle lettere, così come sbandierato lo scorso giugno da Renzi. Il 730 precompilato sarà, infatti, consultabile solo su un’area del sito delle Entrate. E, una volta scaricato, se il modello si accetta senza modifiche, l’appuntamento con le tasse si conclude. Ma nel caso fosse necessario modificare o aggiungere dati, il contribuente dovrà rimetterci le mani. O meglio il mouse, visto che si fa tutto online.
Quali dati mancano o vanno integrati?
In primis, le spese mediche per cui si richiede la detrazione del 19%. E non sono informazioni di poco conto, dal momento che nel 2014 le hanno presentate quasi 12 milioni di contribuenti. Poi va inserita quasi tutta la parte degli oneri deducibili e detraibili, come le spese per l’istruzione, per le attività sportive dei ragazzi e le erogazioni liberali. Per avere il modello totalmente compilato, bisognerà aspettare il 2017.
Come si compila?
Si può modificare, integrare o accettare il modello, dal 1 maggio al 7 luglio, da soli o tramite soggetti autorizzati.
Se si sceglie il “fai da te”?
Bisogna compilare la dichiarazione online attraverso il proprio ‘cassetto fiscale’, al quale si accede solo dopo aver richiesto un codice Pin. Per farlo, ci si registra al servizio “Fisconline” e, dopo aver scritto il reddito complessivo dichiarato lo scorso anno, il sistema fornisce la prima parte del Pin (4 cifre). La chiave completa (ultime 6 cifre e password di accesso) arriverà a casa in due settimane. È possibile ottenere il Pin anche al numero verde 848.800.444 o all’Agenzia delle Entrate.
È più facile rivolgersi a Caf o commercialisti?
Con buona pace della rivoluzione fiscale, questa sarà la strada che continuerà a essere più battuta soprattutto dai pensionati che rappresentano gran parte dei 20 milioni interessati dall’innovazione: loro, mano al portafoglio, continueranno a sborsare circa 50 euro al professionista e fino a 30 euro al Centro di assistenza fiscale.
Quali documenti servono per chiedere assistenza?
Per ricevere i 730 precompilati degli assistiti, i professionisti devono prima acquisire la delega e poi formulare online una richiesta specifica. Ma i loro accessi saranno tracciati dall’Agenzia per effettuare i controlli sulla correttezza delle deleghe, perché per la prima volta saranno Caf e commercialisti a rispondere degli errori. E se rappresenta un vantaggio per i contribuenti, la novità sta scatenando le proteste dei commercialisti.
Come funzionano i controlli?
Se il contribuente accetta la dichiarazione senza apportare cambiamenti (inserendo solo i vari bonus fiscali che alleggeriscono il carico) ha un’immunità dai controlli. Se si modifica o integra il 730, scattano eventuali accertamenti.
È obbligatorio il 730 precompilato?
No, si può sempre presentare la dichiarazione dei redditi seguendo la vecchia strada del cartaceo.

il Fatto 8.3.15
Da Firenze a Roma, prendi un cinema e fanne tante case
I proprietari dell’America (già occupato) riconvertono sale in residenze Vip
di Mariagrazia Gerina


La rottamazione s’avanza sui cinema d’Italia. È una storia vecchia quella delle sale storiche che cadono sotto i colpi di ruspa, la raccontava già Tornatore in Nuovo Cinema Paradiso. Adesso però le parole d’ordine sono cambiate: “salvare dal degrado”, “valorizzare”, “riconvertire”. Matteo Renzi docet. Da sindaco di Firenze lanciò una lista programmatica: “cento luoghi” da recuperare alla città, cinema, mercati, piazze.
IN PICCOLO, anche il sindaco di Roma Ignazio Marino promette la “rigenerazione” dei 42 cinema chiusi della capitale. Per ora è riuscito a mettersi contro tutti. Il patròn della Sampdoria, Massimo Ferrero, alias Viperetta, protesta perché il Comune si è ripreso la Sala Troisi, abbandonata da due anni. Registi e attori romani sono insorti perché la “rigenerazione” prevede che salti il divieto a concedere cambi di destinazione d’uso superiori al 50%. E i “ragazzi del Cinema America”, costretti a chiudere i battenti dopo una fortunata stagione, protestano anche loro. “Salviamo i cinematografi”, recita lo striscione che hanno appeso fuori dalla sala trasteverina sigillata, diventata il Nuovo Cinema Paradiso della Capitale. Di loro che l’hanno occupata si è scritto molto, dell’appoggio che hanno ricevuto dal gotha cinematografico italiano anche (Scola, Verdone, Gregoretti, Elio Germano, Carlo Degli Esposti, che ha messo su una cordata per tentare l’acquisto). Più in ombra sono rimasti i proprietari, che li hanno fatti sgomberare a settembre scorso. E che ora hanno impugnato anche i vincoli fatti apporre dal ministro Dario Franceschini a difesa della sala.
ROMANI, Victor Raccah, di origine tripolina, e Massimo Paganini al cinema non sono interessati. Di mestiere comprano edifici dismessi e li rivendono dopo averne fatto crescere il valore. E anche il loro progetto sul Cinema America è sempre stato chiaro, fin dal 2002 quando lo acquistarono già in stato di abbandono: al posto del grande schermo tirar su nuove residenze di lusso da rivendere a prezzi di mercato. Nella Firenze di Matteo Renzi, dove Raccah e Paganini sono sbarcati anni fa con varie società immobiliari, l’operazione è riuscita. O quasi.
Era di loro proprietà, o meglio della Primaticcio srl di Paganini, l’ex Cinema Apollo, inserito da Renzi nella lista dei “cento luoghi” da recuperare. Una sala storica, vicino a Santa Maria Novella, costruita sulle spoglie del teatro Politeama negli anni Trenta. La Primaticcio propose di farne un complesso residenziale di lusso, con il ristorante dove un tempo c’era la galleria. La giunta Domenici diede l’ok. E Renzi spinse per la realizzazione. I vincoli sono rimasti ma non hanno fermato le ruspe. E cinque anni dopo, pronti i residence di lusso, la facciata dell’ex Apollo su via Nazionale è ancora avvolta dai ponteggi. Intanto però nella Firenze governata dal renziano Dario Nardella sta per vedere la luce anche l’altro progetto caro ai due imprenditori romani: la trasformazione in albergo di lusso dell’ex Monte dei Pegni. Un complesso enorme, 10 mila metri quadri, protetto da diversi vincoli, tra Borgo Ognissanti e via Palazzuolo, di proprietà della San Paolino Hotel & Resorts. Nel 2003 un’altra società della galassia Raccah-Paganini, la Sanfrediano, lo acquistò dalla Cassa di risparmio di Firenze, con incluso progetto di trasformazione e richiesta di cambio di destinazione. Nel 2006 arriva l’ok della giunta Domenici, nel 2009 quello del Consiglio comunale. Due mesi dopo, la magistratura, su esposto del comitato di quartiere e della consigliera Ornella De Zordo di “Un’altra città” blocca tutto. E la convenzione tra la proprietà dell’immobile e il Comune, ancora da firmare, finisce nel cassetto. A luglio scorso, però, l’assessore all’urbanistica Titta Meucci, veterana di Palazzo Vecchio, l’ha ritirata fuori e firmata.
TUTTO COME PRIMA, meglio. Prosciolti proprietari, progettista e l’ex assessore all’urbanistica, Gianni Biagi, l’inchiesta però non è ancora finita. A ottobre, infatti, un dirigente e tre funzionari del Comune, inizialmente prosciolti, sono stati rinviati a giudizio, con l’accusa di aver favorito la società di Paganini e danneggiato “l’interesse pubblico connesso all’ordinato sviluppo urbanistico”, consentendo tra l’altro alla società di monetizzare l’obbligo di inserire nel progetto un 20% di residenze a canone concordato. Prima udienza convocata a giugno del 2015. I soldi però (per quel 20% cancellato) nelle casse di Palazzo Vecchio sono già arrivati: 328 mila euro a titolo di contributo urbanistico. “Un errore - osserva il consigliere di sinistra Tommaso Grassi, dai banchi dell’opposizione - non aspettare la magistratura”.

il Fatto 8.3.15
Mondadori, Rcs e i (tardivi) timori degli intellò di casa nostra
di Silvia Truzzi


OGGI È l’otto marzo, dunque per onorare la festa della donna sarà il caso, almeno qui, di non scrivere di donne. Di spazi in politica, di banche del tempo e impegno silenzioso. Per rispetto alle donne, parleremo di una delle notizie più importanti della settimana. Cioè la decisione di Rizzoli di andare a vedere le carte di Mondadori, e molto probabilmente di vendere l’intera area libri al gruppo della famiglia Berlusconi. Ieri sul Giornale (di Berlusconi, ma per una volta lasceremo fuori l’onnipresente ex cav) Vittorio Feltri, storicamente allergico all’italica trombonaggine, prendeva in giro gli autori che hanno aderito all’appello di Umberto Eco. E domandava: se l’iniziativa l’avesse presa Rizzoli, il drappello di intellettuali si sarebbe comportato allo stesso modo? Lui ne dubita. Noi ci permettiamo di dubitare anche della premessa, perché non è affatto chiaro chi ha fatto la prima mossa: Rizzoli affogata dai debiti o Mondadori affamata di espansione? Forse tra qualche tempo sarà più chiaro. Scrivevano gli intellettuali nell’appello che “un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari. Non è un caso che condividano la nostra preoccupazione autori di altre case: questo paventato evento rappresenterebbe una minaccia anche per loro e, a lungo andare, per la libertà di espressione”. Non se li è filati nessuno, certamente perché i soci di Rcs sono più preoccupati della voragine debitoria che delle ragioni della cultura. E forse perché è un po’ troppo tardi per i tormenti francofortiani sull’industria culturale che riduce la letteratura e tutto il resto a bene di scambio. Il dibattito è vecchissimo, ma sarebbe sciocco non vedere dove va il mondo. I bilanci di Segrate sono stati (almeno per un paio d’anni) salvati dalle fantasie pseudo sadomaso di una pingue casalinga inglese, cinquanta sfumature di niente. Ed è solo il caso più eclatante, ma ce ne sono molti altri. Tanto che perfino la sofisticatissima Adelphi (che ha fatto davvero un percorso culturale con il suo catalogo) deve fare qualche concessione al mercato, di tanto in tanto. Lo stesso vale per Bompiani. Che però annovera tra i suoi scrittori anche il ministro Franceschini, il quale ci perdonerà se non gli accordiamo come autore di romanzi la stessa longevità e resistenza che ha dimostrato nelle sue molte giravolte politiche. Il premio Strega ha già preso le contromisure: quest’anno corre Elena Ferrante, scrittrice invisibile ma amatissima pubblicata da una piccola casa editrice.
NON FACCIAMO finta però che esista un dibattito culturale in Italia: a poco vale puntare il dito contro le televisioni di B (con tutte le responsabilità che indubbiamente Papi ha), vuol dire davvero guardare il dito e non la luna. Dove si vede chiaramente che non ci sono anticorpi alla “mercificazione” della cultura, al degrado delle istituzioni formative, a un rincretinimento generale. Di cui anche il piddì fu pci dovrebbe fare ammenda per i disastri compiuti nelle varie controriforme della scuola. Noncisononemmenopiù i venerati maestri, perché – quei pochi – sono stati spazzati via dalla furia rottamatrice di quarantenni smaniosi per lo più senza alcun talento: nella trilogia di Arbasino, restano gli appartenenti alla categoria “solito stronzo”. Possiamo solo confidare nelle brillanti promesse. Anche se avanti di questo passo andrà a finire che l’intellettuale di riferimento della sinistra diventerà Roberto Saviano: o è già successo?

il Fatto 8.3.15
Dove viviamo
Il Paese del sottopopolo e la disciplina silenziosa
di Furio Colombo


Piazza del Popolo, a Roma, nel giorno di Salvini e di persone mai viste prima di CasaPound, ti metteva di fronte a una domanda: chi sono? Quando entrano in piazza quelli di CasaPound la domanda è la stessa e la risposta è più oscura. Perché passa attraverso la certezza che quelle persone, formate chissà come, chissà da chi, o restano ferme con i loro strani pensieri, che la storia avrebbe dovuto cancellare, o si muovono con la violenza piena e incontaminata, che è il senso – l’unico senso – di ciò in cui credono. Sono pochi ma sono un nucleo organizzato che appare saldo e, in modi diversi, con una certa disciplina. Diciamo che la loro identità viene dal fatto che sai da dove vengono. Ma non potresti scommettere sul dove vanno, con chi, perché.
QUELLO stesso giorno, ricorderete, dall’altra parte di Roma, si muoveva un corteo molto più numeroso (forse il doppio): centri sociali, sinistre senza partito, operai senza fabbrica, precari senza scuola, esodati senza lavoro e senza pensione, frammenti di sindacati, No Tav, No autostrade, niente voto, schede bianche. È un nuovo fenomeno italiano, ora che i partiti si stanno a mano a mano sciogliendo: il sottopopolo. Economicamente non è una classe sociale inferiore a un’altra. Semplicemente è una massa divenuta folla che non ha un partito dove sostare, non ha un punto di guida a cui fare riferimento, non ha un programma o un manifesto da riconoscere come proprio. Ha un dirimpettaio, che però ha altri interessi che non un popolo da guidare: i partiti hanno staccato le locomotive, lasciando i vecchi treni fermi sui binari dove ormai cresce l’erba, hanno progetti che riguardano solo la squadra che una volta era “dirigente”. Adesso è un sorta di circolo ufficiali dove i vari livelli di ex comandanti si incontrano e si scontrano, senza riferimento alle ex truppe in attesa, piuttosto per esprimere sostegno o dissenso, ma sempre al coperto e al sicuro nel loro circolo, sempre interessati soprattutto al loro destino.
È una situazione strana perché sembra facile e inevitabile dire che i protagonisti del circolo dovranno pur rinnovare cariche e gradi. È vero. Ma è anche vero che hanno ragione ad avere fiducia. Quando uno dei loro più alti ufficiali (De Luca) ha avuto bisogno di voti per le sue primarie, subito si è schierato un battaglione di 170 mila voti venuti dal niente, nonostante una autorevole raccomandazione (Saviano) a stare alla larga da quel voto. Segno che la partecipazione non c’è e non è desiderata, tanto che tutti sostano fuori. Ma la disciplina è richiesta e, nel caso, si ottiene. La disciplina, senza partecipazione e senza dibattito, non è il segno di un buon partito e di una buona politica. Accade in politica ciò che accade in economia: la distanza fra i vertici e una base a cui, al momento giusto, comandare consenso, si fa sempre più grande. Loro non vivono in mezzo te e tu non vivi fianco a fianco a nessuno. E infatti il fenomeno si sdoppia e viene tenuto a bada in attesa di lontane elezioni. Prevale un “poi si vedrà”.
Intanto alcuni gruppi restano disponibili (in cambio di che cosa?) per lo spettacolo della disciplina di partito. E tutti gli altri sono i marciatori da una base perduta a punto d’arrivo che non conosce, se non come nostalgia. È il sottopopolo che non rinuncia a stare insieme (o a cercare di farlo) e, in assenza di un qualsiasi tipo di navigatore, si muove nel vuoto da niente a niente.
Fatti del genere possono continuare a lungo ma non per sempre, specialmente se accadono su un versante e sull’altro di ciò che un tempo si chiamavano destra e sinistra. Si direbbe che l’improvvisa e strana decisione di governare insieme (le “larghe intese”) che continua tuttora, sia pure in una sua versione parziale e stravolta, abbia creato una condizione di disabilità politica di ciascuna delle due parti, che adesso può funzionare solo con strappi violenti (prevalentemente strappi interni a ciascuna parte), e solo rinunciando a qualsiasi atto che un tempo si chiamava “politica”.
L’IMPEGNO adesso è di gestire una lista di impegni che non sono mai stati proposti da nessun a nessuno in alcuna elezione ma che sono diventati e proposti all’improvviso come doveri assoluti che (nelle parti in cui esiste ancora un partito) escludono ogni pretesa di autonomia, ogni decisione difforme, ogni interruzione di disciplina. Chi rifiuta la disciplina, anche per la naturale, istintiva ribellione agli ordini di provenienza sconosciuta, fluisce nel sotto-popolo che si impegna nel vuoto senza sapere da dove viene e dove va. Fatalmente le fila dei partiti regolari, anche di quelli che non subiscono evidenti frantumazioni, si assottigliano, benché mascherati dai sondaggi benevoli di cui non conosciamo la base sondata. Ciò che è probabile è (sarà) la scoperta che, pur mantenendo le indicazioni e il segno prevalente dei sondaggi, le proporzioni risultino diverse, ovvero drammaticamente rimpicciolite. Piccoli voti disciplinati per piccoli governi monogestiti intorno a programmi sempre più indicati da un punto altro (diventerà un gioco scommettere su “chi ha potuto volere una cosa simile”) sostenuti dalla piccola disciplina di un mono Parlamento sempre più pastorizzato, fin dalle liste, e debitamente sfoltito. Fuori continua la lunga marcia del sottopopolo. Fino a quando deciderà di accamparsi intorno alla cittadella, e di esigere una risposta.

dall’articolo di Eugenio Scalfari su La Repubblica di oggi:
Il nostro Lucio Caracciolo, direttore del prestigioso Limes e nostro collaboratore, cita una parola molto efficace: democratura, che nasce dalla fusione tra democrazia e dittatura e con essa definisce la Russia di Putin: c’è il demos, cioè il popolo e c’è Putin che comanda da solo.
Il Parlamento, cioè la Duma, non conta niente, si limita a ratificare.
Neppure il governo conta, serve solo a trasmettere alle province dell’Impero gli ordini del dittatore e a farli eseguire dalla burocrazia. Alcuni ministri invece, insieme a Putin, al capo dei Servizi di sicurezza e qualche grande manager economico, costituiscono l’oligarchia, il gruppo che, guidato da Putin, amministra l’Impero.
Questa democratura esiste ed è sempre esistita in tutti gli Imperi, nei quali bisogna amministrare una grande quantità di diverse etnie, diversi linguaggi, diverse culture ed economie. Nel presente di oggi lo troviamo in Cina, in Giappone, in Usa. In Europa no perché l’Europa non è uno Stato. I vari statarelli conservano ancora una democrazia più o meno solida. Ma la tentazione verso la democratura in alcuni di essi è abbastanza forte. Diciamo che la democrazia è difficile da conservare negli Imperi e negli statarelli la tentazione esiste ma di solito non si realizza. Per fortuna, perché ove mai si verificasse diventerebbe una tirannide vera e propria.
Gli articoli ai quali Scalfari fa riferimento sono disponibili qui di seguito alla data di ieri

La Stampa 8.3.15
Putin tra Medioevo e marketing
“L’Occidente non ci corromperà”
Asse con il patriarcato e Russia come “centro vero della civiltà”
di Anna Zafesova


Per soli 1000 rubli, nemmeno 15 euro, ogni russo può contribuire alla guerra in Ucraina con un rituale magico. I militanti del nuovo movimento Anti-Maidan hanno messo in vendita un kit per la maledizione voodoo fai-da-te: un pupazzetto di carta al quale si possono incollare le le facce di Barack Obama, John Kerry, Petro Poroshenko e altri politici ucraini e americani.
Gli adesivi sono inclusi agli aghi da infilare nella figurina, scegliendo di infliggere lesioni più o meno gravi o la morte. I proventi delle vendite verranno destinati ai bambini del Donbass.
L’iniziativa ha suscitato qualche sconcerto, costringendo i suoi autori a declassarla come «scherzo». Ma l’Anti-Maidan finora non ha manifestato molto senso dell’umorismo. Insolita alleanza tra conservatori religiosi e biker filo-putiniani, il movimento si è già distinto per scontri fisici con gli oppositori, e recluta «maschi robusti» per fermare la rivoluzione in piazza che gli americani stanno preparando a Mosca. Di cui l’omicidio di Boris Nemzov, ordinato da Oltreoceano, è solo il primo passo.
Rituali bizzarri
L’idea di ricorrere ai rituali voodoo potrebbe apparire in contraddizione con i valori ortodossi. Ma il mix di Santa Russia, propaganda sovietica e marketing d’assalto sta producendo frutti sempre più esotici. A Novosibirsk un’inedita alleanza tra il vescovo locale e il vicecapo della polizia ha portato sul banco degli imputati il direttore del Teatro dell’opera, incriminato per una versione moderna del «Tanheiser» di Wagner. Il metropolita Tikhon non ha visto lo spettacolo, ma lo giudica «offensivo» (sul palco appare un manifesto con Gesù crocifisso tra le gambe di una donna). Il caso per ora è amministrativo, ma la chiesa chiede di trasformarlo in penale. E a Izhevsk il teatro locale è sotto attacco dei religiosi per la «Tormenta» di Alexandr Pushkin, dove figura un pope ubriaco. Il teatro per ora riesce a difendersi ricordando che questa rappresentazione del sacerdote porta la firma del più famoso poeta russo ed è stata fatta 200 anni fa.
Usa come il «Terzo Reich»
Dal processo alle Pussy Riot il patriarcato è ormai ufficialmente considerato il custode dell’ideologia, e il suo portavoce Vsevolod Chaplin teorizza il ritorno di Mosca come la «terza Roma» sognata nel Medioevo, anzi, sarà «l’unico centro vero di civiltà nel mondo», che si ribella al «piano totalitario dell’Occidente» di cui Hitler era solo «un tipico rappresentante». Gli Usa e l’Ue sono gli eredi del Terzo Reich, sottomettere la Russia è l’unico obiettivo degli stranieri dai tempi di Napoleone. Anzi, di Ivan il Terribile, sostiene lo storico Alexandr Myasnikov, chiamato dal Cremlino a fare lezione ai governatori sulla «guerra informativa» che l’Europa conduce contro Mosca da 500 anni. La sete di sangue di Ivan, e il figlio che ha ucciso con le proprie mani, sono «un’invenzione dei giornali europei» per screditare uno zar che sfidava «le sanzioni europee che c’erano già all’epoca».
Una via per Stalin
A questo punto il ritorno della via Stalin a Pietroburgo, chiesto dai comunisti, non fa quasi più notizia. La storia diventa campo di battaglia politica, e la senatrice Elena Afanasieva dalla tribuna accusa la Nato di aver appiccato il fuoco alla Biblioteca delle scienze sociali, per «distruggere i documenti originali e falsificare la storia».
Una versione da «Codice da Vinci», che perde fascino quando si scopre che la biblioteca, fondata nel 1918, era preziosa essenzialmente per la sua collezione di periodici del ’900. Ma la Duma ormai viene chiamata «stampante impazzita» dove farsi notare con proposte sempre più clamorose, dal bando delle mutande di pizzo al divieto agli evasori del bollo a contrarre matrimonio, al taglio delle ore di inglese nelle scuole. Così per i russi sarà ancora più difficile resistere alla propaganda, che con il pretesto di uno scandalo di pedofilia in Norvegia ha rilanciato il tema dell’Europa depravata. Il commissario per i diritti dell’infanzia di Putin, Pavel Astakhov, ha accusato la Norvegia di essere un Paese di «infantofili», mentre per i talk show gira una signora russa divorziata da un norvegese che racconta «la tradizione vichinga» di stuprare in gruppo i bambini e afferma che il governo di Oslo toglie i figli alle famiglie eterosessuali per educarli come gay, con il progetto di rendere omosessuale il 90% della popolazione. La Russia resta l’unico baluardo contro questa nuova Sodoma, e la chiesa ortodossa critica l’idea della Duma di penalizzare le punizioni corporali dei bambini, «un attentato alla autorità della famiglia tradizionale» voluto dai liberali.
L’oscurantismo
Vladimir Zhirinovsky, che 20 anni fa scandalizzava con la promessa di «un uomo a ogni donna e una bottiglia di vodka a ogni uomo», oggi sembra un politico serio. L’oscurantismo invade perfino l’Istituto di fisica tecnica, fucina di geni della Silicon Valley, dove gli studenti difendono dal licenziamento un professore che su Facebook ha esultato per l’omicidio di Nemzov: «Una canaglia in meno, così finiscono tutte le prostitute». I giovani putiniani già l’anno scorso distribuivano preservativi con le facce di Nemzov e altri oppositori. E mentre il politologo Dmitry Olshansky scrive sul tabloid «Komsomolskaya Pravda» che i liberali sono «una minoranza etnicamente compatta», a Pietroburgo il gruppo Facebook «Moralità» minaccia Leokadia Frenkel, che al centro ebraico insegna russo ai figli degli immigrati: «Gli ebrei educano i neri» si indignano i sostenitori dei «valori slavi tradizionali», e sul Web vengono pubblicate le foto del figlio e del marito della donna insieme all’indirizzo della famiglia. Dal rituale voodoo alla caccia alle streghe, il Medioevo 2.0 continua.

Repubblica 8.3.15
Herta Müller
Il Nobel per la letteratura: “I Servizi segreti sono tornati a far fuori gli avversari politici”
“La Russia è di nuovo il regno della paura, Putin l’ha riportata ai tempi bui del Kgb”
intervista di Andrea Seibel


Il Cremlino vuole mandare in rovina l’Ucraina: è la punizione perché ha osato guardare a Ovest L’Ue non l’abbandoni
I russi mi fanno pena: pensavano di andare incontro alla libertà, ma subiranno una delusione. E vivranno gli incubi del passato

ERO preoccupata all’idea di intervistare Herta Müller, premio Nobel per la letteratura. La immaginavo chiusa, diffidente. Noi giornalisti possiamo dare l’idea di essere invadenti, ostili, pur senza esserlo minimamente. L’intervista quindi è anche un atto di fiducia tra persone che non si conoscono. Ma la scrittrice è venuta, ha visto e ha parlato.
Ancora un assassinio politico in Russia e Putin promette che risolverà il caso. La morte di Boris Nemtsov per molti è segno chiarissimo che la Russia si sta avviando a tempi cupi. Avrebbe mai pensato che il nazionalismo populista rialzasse la testa?
«Che Putin intenda occuparsi personalmente del caso e che abbia assegnato a uno dei suoi fedelissimi la guida delle indagini è in effetti la conferma ufficiale che a Mosca non esiste una giustizia indipendente, oltre a indicare che il movente dell’omicidio è inquinato da falsi indizi. Far fuori gli avversari politici è di nuovo un ferro del mestiere dei servizi segreti russi in patria e all’estero. Le morti di Natalja Estemirova, Alexander Litvinenko e forse anche di Boris Berezovskij, trovato impiccato, non sono state finora chiarite. Anche se Putin non ne è stato l’esecutore materiale questo omicidio è il risultato della sua folle propaganda nazionalista, sempre più sfrenata da quando ha dato il via alla guerra in Ucraina».
Putin recentemente ha dichiarato che in Ucraina orientale sarebbe in corso un genocidio ai danni dei russi.
«Non c’è limite all’assurdità delle menzogne della propaganda del Cremlino. Oltre alla guerra contro l’Ucraina Putin conduce anche una guerra di propaganda contro l’Occidente. In certi casi le sue bugie sono sbalorditive: ma lo sa Putin che i soldati di Hitler della “Legione Condor“ sono arrivati in Spagna travestiti da turisti sulle navi da crociera dell’organizzazione ricreativa “Kraft-durch-Freude“ e quando hanno bombardato Guernica si sono staccati le mostrine dalle uniformi? A dispetto di tutti gli accordi di Minsk non credo proprio che Putin interromperà la guerra. Gli serve Mariupol e l’accesso di terra alla penisola di Crimea. E poi farà ancora una puntata in Transnistria. Putin non la finirà mai con l’Ucraina – ha deciso di demolirla lentamente e progressivamente, è un progetto che ha nel cassetto. Nessun accordo di pace e nessun dialogo diplomatico cambieranno le cose. Putin non si darà per vinto».
In che modo riuscirà a ottenere quello che vuole?
«Perché l’Occidente è impotente e lo manifesta costantemente. La soluzione all’aggressione di Putin non può essere militare, è naturale, ma non c’è mica bisogno di dirlo in continuazione! La gente dell’Europa dell’Est che ha vissuto per decenni sotto l’occupazione russa sa bene che i dittatori della risma di Putin rispondono solo alla forza. La ragionevolezza e il dialogo sono interpretate come debolezze. Eppure Angela Merkel conosceva la Ddr e il Kgb. La sua disciplina diplomatica agli occhi di Putin ha sempre una parvenza conciliatoria. Le sanzioni hanno quindi la massima importanza, sono attualmente l’unico strumento a nostra disposizione per mostrarsi decisi e prendere le distanze. Sarebbe bene prospettare a Putin sempre un ulteriore possibile inasprimento delle sanzioni. Invece non si fa altro che sottolineare l’intenzione di ristabilire al più presto i rapporti presistenti».
In che epoca vive l’Ucraina, nel passato o nel presente? E ha un futuro?
«Per Putin l’Ucraina appartiene a un passato che nelle sue intenzioni sarà il futuro. Ha usato la stessa tattica per impadronirsi della Abkhazia, dell‘ Ossezia e della Transnistria. Neppure l’Ucraina uscirà da questa stretta. L’obiettivo di Putin è mandare in rovina l’Ucraina. Con vessazioni quotidiane, il blocco delle forniture di gas, la distruzione delle infrastrutture, la morte di migliaia di ucraini. È la punizione perché l’Ucraina ha osato guardare a Ovest. Putin punisce l’Ucraina per tutto quello che è successo nei paesi esteuropei dopo il 1989» E‘ espressione di debolezza o di forza?
«Credo che in questo caso debolezza e forza non siano antonimi. Anche il culto della personalità è espressione di forza e di debolezza. È un misto di diffidenza infinita e di potere infinito. E‘ da lì che nasce il terribile potere assoluto la presunta onnipotenza. Lo conosco dalla Romania di Ceaucescu. Nessuno del suo entourage contraddice più il dittatore ».
Recentemente ha detto che Putin la fa star male.
«Sì. La sua politica mi fa star male. Mi umilia come persona. Offende la mia intelligenza. Offende ogni giorno l’intelligenza di noi tutti, sempre con la stessa faccia tosta. È già stato smascherato centinaia di volte, ogni sua bugia viene scoperta, ma continua ugualmente a mentire. In questo modo mi offende. E‘ come una presa in giro. E non ci si può far nulla» Gli esperti non fanno che ripetere che la Russia esige rispetto. Vuole essere riconosciuta come grande potenza.
«Per Putin avere rispetto significa tremare, come in passato nell‘ Europa dell’Est si tremava davanti ai russi. Ma a Putin non importa l’opinione che si ha di lui. Odia gli Usa e l’Europa e si rende conto di essere sempre più isolato. Mi fanno pena i russi, qualche anno fa hanno creduto di andare in direzione della libertà, ma subiranno una nuova delusione, torneranno a vivere gli incubi del passato, i tempi in cui si ha paura di dire ciò che si pensa. Siamo tornati ai tempi della fuga e dell’esilio».
Che cosa dobbiamo all’Ucraina?
«Non le dobbiamo nulla. Ma dovremmo prendere sul serio la nostra società e fare il possibile perché la gente in Ucraina possa vivere come noi. Non dobbiamo permettere che l‘Ucraina venga distrutta. Non dobbiamo permettere alla Russia di impedirci di aiutare l’Ucraina. Tra l’Ucraina e la Ue deve instaurarsi uno stretto legame economico e politico».
Dovremo convivere con Putin ancora per qualche anno.
«Probabilmente. Non credo che Putin possa cadere alle urne. Credo che non gli servano neppure brogli elettorali, perché una parte delle persone lo sceglie per vecchia consuetudine e un’altra parte è ammutolita da una paura nuova. Sono entrambe forme di opportunismo, un adeguarsi nella quotidianità spinti dalla paura. E‘ il ritorno del socialismo, anche se è un concetto che non si usa più. E la paura è stata l’unica produzione che nel socialismo ha realizzato il suo piano. Durante la Perestroika si sarebbe dovuto sciogliere il Kgb dichiarandolo organizzazione criminale. Così non avremmeo al vertice un uomo del Kgb, un Putin. Invece oggi i Servizi segreti governano l’intero paese».
(Copyright Die Welt. Traduzione di Emilia Benghi)

il Fatto 8.3.15
Obama, il razzismo e l’altra Selma dove si celebra il Ku Klux Klan
Ennesimo ragazzo nero ucciso da un agente. Il presidente in Alabama
di Giampiero Gramaglia


Nell’America che fa i conti coi fantasmi del suo passato e processa le sue paure, basta un botto poco prima del decollo dell’elicottero del presidente dal prato della Casa Bianca per risvegliare i timori mai sopiti di minacce terroristiche. Le forze dell’ordine bloccano a lungo la scena, pur se lo scoppio non è da attribuire a un attentato, ma all’esplosione accidentale di un carrettino per le vivande, forse un furgone bar. Il Secret Service, responsabile della sicurezza del presidente, chiude tutti gli accessi, finché Obama, con la moglie e le figlie, non parte per Selma, in Alabama, dove si celebra il 50° anniversario della marcia guidata da Martin Luther King, uno dei momenti salienti dell’affermazione dei diritti civili degli afro-americani: in particolare, allora, il diritto di voto.
L’anniversario della marcia, riportata alla memoria degli americani dal film La strada per la libertà, cade in un momento di fermenti razziali, mai spenti dopo l’estate calda di Ferguson (Missouri) e tragicamente riaccesi da quanto avvenuto, l’altra notte, a Madison, la capitale del Wisconsin.
Un poliziotto interviene per sedare una lite, ha una colluttazione con un ragazzo di colore di 19 anni, Tony Robinson, sospettato di aggressione, ma disarmato, e gli spara, uccidendolo. Il capo della polizia ammette che Anthony Robinson non era armato: ci sarà “un'inchiesta approfondita”, come prevede la legge. La missione a Selma dà l’occasione a Obama di riproporre l’attualità della questione razziale e pure la necessità di fare avanzare le nuove frontiere dei diritti civili, degli omosessuali e degli immigrati: “Selma non riguarda il passato, Selma è ora”, avverte il presidente, denunciando che “Ferguson non è un caso isolato”. Mercoledì, era stato diffuso un rapporto sui comportamenti razzisti della polizia di quella cittadina: l’agente che uccise Michael Brown, 17 anni, ne esce indenne, ma il Dipartimento della Giustizia denuncia che i poliziotti, per lo più bianchi, prendono di mira i neri e usano la forza in modo eccessivo, attaccando con cani e taser persone inermi. Un sondaggio indica che per quattro americani su dieci le relazioni tra bianchi e neri sono peggiorate da quando il primo presidente afro-americano, s’è insediato alla Casa Bianca. Obama condanna gli abusi e dice: “Singoli individui o interi dipartimenti di polizia negli Usa possono non aver ricevuto la giusta formazione”. La Bloody Sunday di Selma, dove la polizia represse brutalmente la marcia pacifica di 500 attivisti guidata dal già Nobel per la Pace, è celebrata in modo contraddittorio. Il ponte della marcia è tuttora intitolato a un generale e senatore confederato, Edmund Pettus, che, dopo la Guerra Civile, fu esponente di spicco del Ku Klux Klan. E, a un estremo, un cartellone inneggia proprio al fondatore del movimento razzista, Nathan Bedford Forrest, a 150 anni dalla battaglia di Selma, persa dai Confederati. Ai presenti, Obama ricorda che “il movimento dei diritti civili non ha aperto la strada solo ai neri: non riguarda solo i neri, riguarda l'America”. Ad ascoltarlo c’erano, fra gli altri, Lady Gaga, Bono e il suo predecessore George W. Bush.

il Fatto 8.3.15
Alla periferia di Istambul
Nelle scuole delle donne nasce un’altra Turchia
di Gabriella Greison


Istanbul Kaynarka, Pendik, periferia estrema di Istanbul. Zona orientale, 50 km dal centro. È uno di quei posti dove le forze di polizia, giudici e pubblici ministeri (tutti uomini), si rifiutano di perseguire reati in cui sono coinvolti mariti, padri, fratelli, che mai pagheranno per quanto fatto alle (loro) donne. È uno di quei paesi dove le donne vivono chiuse in casa e la percentuale di analfabetismo è molto alta.
Il viaggio con i mezzi pubblici dura due ore, come ha raccontato Elif Safak, la scrittrice turca più famosa, venuta qui a leggere libri alle donne del posto. Si prende il Marmaray (il collegamento ferroviario che unisce le due sponde del Bosforo con un tunnel sottomarino, ndr), il tram, il treno, e due autobus. L’ultimo tratto a piedi, prima di entrare nella scuola dove organizzano corsi pomeridiani per le donne, è il più bello. Le strade sono tutte sterrate, ogni macchina che passa alza un grande polverone. Ci sono le camionette ferme ai lati della carreggiata con il portellone sul retro aperto, vendono giocattoli e macchinine di plastica. Altri furgoni vendono frutta, verdura, miele, prodotti della terra.
SONO L’UNICA occidentale nel raggio di chilometri, la mia presenza desta molta curiosità. Qui ci si capisce a gesti, trovare qualcuno che parli inglese è raro. Per capire la tipologia di un negozio devi affacciarti dentro, fuori non c’è scritto niente. C’è un signore che per una lira turca ti fa pesare sopra la bilancia che tiene sotto lo sgabello. Al di là della strada principale, niente asfalto, passa un asino con un carico di pelli, quattro cani randagi dormono al sole, un bambino chiede di essere fotografato, si mette serio davanti all’obiettivo e aspetta lo scatto.
Alla scuola Halk Egitim Merkezi le donne possono venire liberamente, gratuitamente, seguono lezioni di lingua, per imparare a leggere e scrivere il turco. Poi il passaggio successivo sarà l’inglese. Nell’aula di fianco stanno facendo lezioni di musica, strumenti di base, una pianola, un flauto, una chitarra. Al piano di sopra si impara a dipingere e c’è anche l’aula per i lavori artigianali seguita da Esel, un’insegnante molto pacata: collanine, lavori all’uncinetto, decorazioni per la casa. C’è anche la lezione di parrucchiera e manicure nella stanza in alto, tenuta da Cemile. Ma pure quella di disegno riscuote un discreto successo. Le donne, un centinaio in tutta la scuola, divise per aule, sono molto incuriosite da me, vorrebbero chiedermi più cose di quello che riescono. Sema Enginsoy mi fa da interprete e dice che questo è solo uno dei quartieri dove nascono questi punti di ritrovo, nella periferia di Istanbul ce ne sono diverse centinaia, il totale delle donne che fa questa scelta è di qualche migliaio (su 650 mila abitanti di Pendik). “L’interesse di queste donne è soprattutto imparare qualcosa in più rispetto al nulla assoluto che regna in casa. Già soltanto il primo passo, che le ha portare qui, è la svolta decisiva, è la luce. Il nostro piccolo lavoro serve per dare dignità alle donne turche e rincuorare le future generazione. Sembrano piccoli gesti quotidiani, i nostri, ma in realtà non lo sono”.
LA SECONDA scuola è l’Ertugrul Gazi, altro luogo di grande fascino. Anche qui le donne vengono volontariamente a imparare qualcosa. C’è chi trova piacere nel seguire un corso di canto, chi vuole imparare a leggere i giornali (in casa lo fanno solo gli uomini), c’è anche chi segue corsi di cucina. Leyla Geagel, una donna sui quaranta, molto affascinante per i modi di fare cortesi, racconta che sta per essere premiata un’allieva che ha preso per la prima volta l’autobus da sola per andare in un posto oltre 5 km da casa (solitamente l’accompagnava il fratello con la macchina): è Sevda, 50 anni, chador e un grande sorriso. Il giorno prima invece è stata festeggiata Ferah, 35 anni, 4 figli, chador, occhi intelligenti: a casa ha riempito un quaderno intero con le frasi imparate al corso. Mi mostra fiera il quaderno, detentore del primato. Nella stanza accanto inizia il corso di educazione igienica. Ceylan, 20 anni, 2 figli, chador, sta facendo il corridoio di corsa per arrivare in tempo al corso di agente immobiliare (le case in Turchia vengono sù alla velocità della luce).
La giornata tra le donne turche vola via così. E sulla porta, prima di uscire, mi raggiunge una donna, mi regala il suo disegno: riproduce una casa e, alla stessa grandezza, una serie di uomini e donne alternati che si tengono per mano. Dietro c’è una ragazza, mi chiede con i gesti se mi lascio fare da lei le treccine ai capelli prima di andare via. Quello che le donne turche non dicono è questo. La Turchia nel 2015 ha ottenuto la presidenza del G20, ospiterà il prossimo summit delle potenze mondiali e assicura che entro il 2025 colmerà il gap tra uomini e donne. Il gap che deve colmare parte scuole come Halk Egitim Merkezi e Ertugrul Gazi. E vista da qui, Istanbul è ancora più bella.

Corriere 8.3.15
Varoufakis: «L’Ue non accetta il piano della Grecia? Potremmo convocare
un referendum sull’euro»
Intervista al ministro delle Finanze greco: «La Bce nel 2012, in una crisi simile ma con un governo conservatore, aumentò senza problemi la nostra possibilità di emettere titoli a breve termine Ora invece è molto ”disciplinante” con la Grecia»
di Danilo Taino

qui

il Fatto 8.3.15
Un equivoco s’aggira per l’Europa: è Tsipras
di Marco Palombi


Un equivoco si aggira per l’Europa. Si chiama Alexis Tsipras. È l’equivoco dell’altra Europa possibile, equa e solidale, a chilometro zero, in cui i beni comuni nascono sugli alberi. Nella realtà, invece, Tsipras finora può vantare gli stessi risultati di Renzi: “In Europa abbiamo cambiato il linguaggio”, disse alla fine del semestre italiano. Resta vero. E infatti ora la Troika nei documenti ufficiali si chiama “le Istituzioni”: sono sempre Bce, Fmi e Commissione, ma fa tutto un altro effetto. Pure il Memorandum, che erano i diktat imposti dai creditori alla Grecia, adesso lo chiamano “gli accordi”: gentili, sembra quasi li abbiano scritti in due.
In letteratura, si sa, la forma è la cosa, in politica non sempre. Un equivoco si aggira per l’Europa: è quello per cui mille ascolti di Bella Ciao possono sostituire la macroeconomia. Purtroppo per Tsipras non si dà sinistra se un governo non controlla leva monetaria e leva fiscale, non si dà sinistra senza una Banca centrale dipendente dal governo e, ahilui, non si dà Eurozona senza austerità: è la svalutazione del lavoro a tenerla in equilibrio. La moneta, come ogni strumento tecnico, non è neutra. Il Pci, per dire, lo sapeva e Luciano Barca definì lo Sme, antenato della moneta unica, “la scimmiottatura di una politica di deflazione anti-operaia”. Non usciremo mai dall’euro, ha detto invece Tsipras allo Spiegel, “perché io amo l’Europa”. Evidentemente è un altro di quelli che pensano che la capitale europea sia Bruxelles. O Ventotene. Alexis, c’è un equivoco.

Repubblica 8.3.15
Fitoussi: “L’intesa alla fine sarà trovata”
L’economista: se uscisse dall’euro si scatenerebbe una enorme crisi, ma resta un problema di democrazia
di Eugenio Occorsio


ROMA «La situazione è così ingarbugliata che si pone un problema politico di fondo: l’Europa non è una federazione, la Commissione non rappresenta una base elettorale, ha senso che comandi su governi democraticamente eletti e decida cosa devono fare?» Jean-Paul Fitoussi, il guru di SciencesPo, economista europeo fra i più prestigiosi, ha firmato con una serie di colleghi un manifesto di supporto a Tsipras: «La sua strategia politica di rottura offre l’occasione per riflettere sui gap di democrazia in Europa».
Domani si va all’Eurogruppo senza nessun accordo, anzi rispetto a pochi giorni fa c’è lo scontro aperto fra la Bce e Atene, e secondo la stampa tedesca addirittura fra la Merkel e Juncker. Siamo non solo in stallo ma si va indietro: come finirà?
«Alla fine il buon senso prevarrà e il governo tedesco darà l’input decisivo per raggiungere un accordo. Restano però da questa vicenda che è drammatica perché c’è di mezzo un popolo ridotto alla fame, degli insegnamenti cruciali. Si è visto che nei Paesi d’Europa si può cambiare governo ma non cambiare politica. C’è qualcosa che non va. Ora si diffonde lo spavento perché ci si rende conto che c’è tanta di quella tensione che basta poco per far saltare tutto e provocare la rottura con la Grecia: se Atene esce dall’euro si apre una crisi dei debiti sovrani modello 2011, però al quadrato».
Il professor Galbraith, uno fra i firmatari del suo manifesto, ipotizza una specie di complotto per sbarazzarsi di Syriza. Lei cosa ne pensa?
«Non credo. Guarderei alle evidenze: l’Europa continua, con la mancanza di appoggio democratico che dicevo, ad imporre una politica, quella del rigore, che non solo è fallita ma ha aggravato la crisi. E ora insiste con la Grecia ».
C’erano accordi firmati che impegnavano non solo quel governo ma il Paese in quanto tale.
«E’ una questione morale. I precedenti governi greci hanno fallito nelle riforme, sono gravemente colpevoli. Ma ha senso far pagare questo alla popolazione? L’aspetto paradossale è che intanto l’economia dà segni di ripresa in tutta Europa. I motivi sono il ribasso del petrolio, la svalutazione dell’euro, le politiche espansive della Bce. E aggiungo anche la resistenza della gente, che è riuscita nei Paesi più in difficoltà a reagire e a trovare in sé le risorse per la rinascita. Bene, nessuno di questi motivi attiene minimamente alle politiche portate avanti dalle autorità dell’eurozona».
Come giudica l’inusuale durezza verbale adottata da Draghi verso la Grecia?
«Ha sorpreso anche me. Credo che sia stata una mossa necessaria perché nel frattempo stava lanciando il quantitative easing al quale i Paesi nordici si oppongono. Draghi doveva far vedere agli oppositori che non stava facendo nessun regalo, e che chi non lo merita non avrà agevolazioni».

Corriere La Lettura 8.3.15
Barry Eichengreen. Noi e la Grecia
Attenti alle lezioni del passato: la storia non si ripete
di Michele Salvati


Bibliografia
È uscito negli Stati Uniti in gennaio il saggio di Barry Eichengreen Hall of Mirrors. The Great Depression, The Great Recession, and the Uses — and Misuses — of History («La sala degli specchi. La Grande Depressione, la Grande Recessione e gli usi e abusi della storia»), edito da Oxford University Press, (pp. 520, $ 29,95). Nato nel 1952, Eichengreen insegna Economia e Scienza politica alla University of California, Berkeley. Un altro testo che paragona con efficacia la crisi attuale a quella degli anni Trenta è il libro a due voci di Anna Carabelli e Mario Cedrini Secondo Keynes. Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods (Castelvecchi, pp. 116, e 12)

Siamo tutti preoccupati per la crisi greca, sia per le sofferenze che infligge a un Paese a noi caro, sia per i rischi che sta correndo l’intera costruzione dell’Unione economica e monetaria europea. È dunque comprensibile che l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica si concentri su questo «piccolo» caso e lo segua nella cronaca del giorno per giorno con una lente che ne svela ogni dettaglio: la cronaca, il dettaglio, possono fare la differenza tra una catastrofe non voluta e il rientro in una penosa «normalità».
La crisi greca è un caso estremo delle difficoltà europee a uscire dalla «Grande Recessione» originata dalla crisi finanziaria americana del 2007-2008, immediatamente trasferitasi all’Europa con un impatto economico devastante. A differenza degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione Europea fuori dalla moneta unica, nei Paesi che l’hanno adottata il Pil reale, dopo il crollo del 2009, all’inizio del 2015 non ha ancora raggiunto i livelli del 2008 e assai peggiore è la situazione di alcuni di essi, tra i quali Paesi grandi come Italia e Spagna. Il «piccolo» caso greco non può dunque essere capito a fondo se non nel contesto della Grande Recessione.
Perché è esplosa una crisi così grave, paragonabile solo alla «Grande Depressione» degli anni Trenta del secolo scorso? E perché sembra essere così difficile uscirne, in specie per i Paesi europei che hanno adottato la moneta unica? Il grande merito dell’ultimo libro di Barry Eichengreen Hall of Mirrors (Oxford University Press) è quello di porsi questi interrogativi muovendosi da una sponda all’altra dell’Atlantico per confrontare Europa e America (e a volte attraversando il Pacifico, per analizzare il caso giapponese); spostandosi da un secolo all’altro per confrontare la Grande Depressione con la Grande Recessione; passando con grande competenza storica dall’analisi economica a quella politica; e riuscendo a inframmezzare l’analisi con brillanti medaglioni su episodi particolari e singoli protagonisti delle due grandi crisi: eroi, avventurieri, lestofanti.
Nonostante gli abbellimenti, i medaglioni istruttivi e divertenti, lo stile brillante, il massimo sforzo di farsi capire anche da lettori con competenze limitate di economia e ricordi vaghi di storia politica, il libro è impegnativo, perché l’analisi è seria e non viene banalizzata. E perché il messaggio che Eichengreen (economista dell’università californiana di Berkeley) vuole trasmettere ai suoi lettori non è semplice. Semplificandolo molto, riducendo un grande corpo (cinquecento pagine fitte) a un esile scheletro, esso si compone di due parti, legate insieme: una più analitica e metodologica, l’altra più interpretativa e più legata alle preoccupazioni contemporanee.
Veniamo alla prima. Comprendere l’origine e lo sviluppo delle grandi crisi di un ordine economico, politico e sociale così multiforme e mutevole come il capitalismo moderno è essenziale se si vuole evitare che esse si ripetano. Ma è difficile, per due principali motivi. È difficile perché, confrontando una crisi con l’altra distante nel tempo — la Grande Depressione con la Grande Recessione — il capitalismo non rimane lo stesso e i rimedi elaborati per superare la prima possono risultare non più efficaci per la seconda.
Negli Stati Uniti alle soglie della Grande Depressione il credito era sostanzialmente credito bancario e la lezione che si trasse dagli errori di allora condusse ai grandi progressi nella teoria monetaria e nell’organizzazione bancaria dei decenni successivi. Ma alle soglie della Grande Recessione buona parte del credito traeva origine dal sistema finanziario cui aveva condotto la deregolazione nella parte finale del secolo ed era fornito da un «sistema bancario ombra» ( shadow banking ). Controllare le banche non bastava più e il grande errore nella gestione della crisi finanziaria americana del decennio scorso — il mancato salvataggio della Lehman Brothers — è in buona parte dovuto alla mancata comprensione di quanto interconnesse fossero banche e istituzioni finanziare non bancarie.
Ed è difficile comprendere l’origine e lo sviluppo delle crisi perché non c’è un capitalismo, ma ci sono i capitalismi, sistemi economici incorporati in istituzioni nazionali tra loro difformi: i rimedi appropriati in un sistema politico e istituzionale — negli Stati Uniti, ad esempio — possono non esserlo in un altro, l’Europa dell’euro — per fare l’altro grande esempio. Gli Stati Uniti sono un Paese sovrano, l’epicentro del sistema finanziario mondiale; l’Europa dell’euro è un insieme di Stati semi-sovrani che hanno adottato un’unica moneta, ma ancora stentano a unificare i loro sistemi bancari e creditizi, per non dire dei loro sistemi fiscali: come scherzava Henry Kissinger, non c’è un singolo numero di telefono cui rivolgersi per informarsi su quali politiche perseguirà l’Europa.
Nonostante queste difficoltà gli economisti e i politici imparano, e hanno imparato molto dalla Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso: basti ricordare il fondamentale contributo di John Maynard Keynes. Ma proprio perché imparano e hanno imparato, poiché sono riusciti a impedire che la Grande Recessione recente si trasformasse nella disastrosa Grande Depressione di ottant’anni prima, gli stimoli ad affrontare radicalmente le cause delle crisi possono attenuarsi prima del necessario, prima di averle estirpate alla radice: questa è la seconda parte del messaggio di questo libro, quella più rivolta alla situazione odierna.
Una volta passato il peggio, le pressioni degli interessi per il ritorno alla «normalità» — o meglio, alle pratiche precedenti alla crisi — si fanno sempre più forti e possono impedire riforme profonde: il presidente Barack Obama ha faticato molto a far passare il Dodd-Frank Act del 2010, una legge di riforma del sistema finanziario americano che va senz’altro nella giusta direzione, come eufemisticamente direbbero i politici. Ma ci va per un tratto troppo modesto: le grandi istituzioni finanziare, le banche d’investimento «troppo grandi per fallire» ( too big to fail ), e dunque capaci di ricattare i politici, sono ritornate più forti di prima.
In Europa la situazione è ancora peggiore perché ai contrasti e alle pressioni degli interessi economici e finanziari si aggiungono i dissidi e le incomprensioni dei diversi Stati nazionali che — anche se non vogliono passare a un vero Stato federale, anzi proprio perché non vogliono compiere questo passaggio — dovrebbero almeno coordinare strettamente le loro politiche economiche in un contesto di moneta unica. Cosa che si guardano bene dal fare.
Avevo iniziato dalla crisi greca e dalle preoccupazioni che essa suscita circa la tenuta dell’Unione economica e monetaria europea. Alla Grecia di oggi e all’Unione monetaria Eichengreen dedica analisi preoccupate e condivisibili nei capitoli finali del libro. Sono però sicuro che anche chi consulta Hall of Mirrors solo a questo scopo non riuscirà a fermarsi a essi: le analogie storiche con il soffocamento delle diverse economie nazionali prodotto dal Gold Standard tra le due guerre lo spingeranno a leggere i capitoli dedicati a questo sistema di cambio, e a come i diversi Paesi che l’avevano adottato finirono per abbandonarlo, alcuni, purtroppo, non prima di aver subito danni politici irreparabili.
La situazione è oggi profondamente diversa, come Eichengreen è il primo a sottolineare. Vero, ma almeno il Gold Standard era un sistema di cambi fissi tra monete diverse, da cui si poteva uscire con relativa facilità: dall’euro non si può uscire senza provocare una catastrofe economico-finanziaria. E se il lettore comincia a muoversi, a spostarsi dalle materie di suo immediato interesse, a sfogliare altre parti del libro, non ha che l’imbarazzo della scelta: tra un secolo e l’altro, tra un Paese e un altro, tra un ragionamento economico e una ricostruzione di storia politica. Cadrà sempre bene.
Conoscere la storia è indispensabile per capire l’economia. Ma derivare dalla storia lezioni semplici su come decidere in situazioni inevitabilmente diverse — diverse da quelle prese a modello — non è facile: anche se il lettore di questo libro portasse a casa soltanto un atteggiamento di cautela nei confronti di coloro che dalla storia pretendono di tirare lezioni, avrà fatto un grande passo avanti nella comprensione della storia, della politica e dell’economia.

La Stampa 8.3.15
Il dilemma che ci lascia Charlie
di Roberto Toscano

qui

Corriere 8.3.15
Charlie Hebdo
Autocensura, il virus pericoloso causato dalla paura
di Pierluigi Battista


In Francia Le Monde ha scoperto che dopo la sbornia del «Je suis Charlie» successiva alla carneficina di Parigi, è il momento del ripudio del povero Charlie. Scrive infatti che tanti disegnatori e vignettisti, contattati da Charlie Hebdo per continuare la collaborazione con quel settimanale per un giorno soltanto ammirato da tutti come ultima trincea della libertà d’espressione, hanno chiesto espressamente che il loro nome venisse cancellato. È il «virus della censura» che sta contagiando tutti, come la chiama il commentatore Michel Guerin? È la paura che vince, il terrore che ha colpito nel bersaglio? E con che velocità la solidarietà universale si è prima appannata e poi è scomparsa nei confronti dei vignettisti «satanici» che sono stati massacrati dai guerrieri del fanatismo islamista.
Anche in Danimarca, dopo gli attentati di qualche settimana fa, i giornali militarmente blindati che hanno osato sfidare l’ira dei fondamentalisti, hanno ripiegato su una sponda meno esposta al pericolo delle rappresaglie armate di chi, con la scusa della «blasfemia», uccide e commette stragi. Vince la paura? Si diffonde il «virus della censura» e dell’autocensura? I vignettisti hanno paura di entrare in quella internazionale degli invisibili che, dopo essere stati indicati come bersagli della vendetta islamista, si nascondono, fanno perdere ogni traccia di sé, cambiano identità sotto la protezione della polizia. Facebook in Turchia ha tolto le vignette considerate blasfeme. A Londra, nel museo Albert e Victoria un ritratto di Maometto, neanche particolarmente blasfemo, è stato rimosso per evitare in anticipo ogni polemica. Ayaan Hirsi Ali, che ha appena pubblicato un libro, non potrà presentarlo in pubblico per ragioni di sicurezza. E perché dei vignettisti, dei disegnatori liberi, anarchici, trasgressivi, ironici dovrebbero diventare degli eroi? Perché rischiare la morte per la propria libertà d’espressione se le società che hanno fatto della libertà d’espressione un principio apparentemente non negoziabile, in realtà si tirano indietro, eccepiscono sulla libertà che si trasforma in «licenza», se le autorità religiose considerano un’«offesa» la libertà di critica anche la più urticante e irridente?
Charlie Hebdo è di nuovo un giornale solo, come lo era prima della carneficina di gennaio. Quando pubblicavano le vignette incriminate, pochissimi trovarono quel gesto coraggioso un esempio da seguire. Per la paura. E per la censura che si sta insinuando dentro di noi, diventando potentissima autocensura. Un virus devastante per i nostri valori.
Pierluigi Battista

La Stampa 8.3.15
Oak Ridge, le ragazze atomiche che vinsero la seconda guerra mondiale
Scienziate ma anche operaie, segretarie e mogli che avevano seguito i mariti nel centro americano dove si lavorava alla bomba in un clima di stressante segretezza. Un libro racconta la loro storia
di Mirella Serri


Celia, Helen, Colleen e le altre faticavano tutto il giorno fino a notte fonda e pure la domenica. Un pomeriggio di marzo del 1944 avevano pensato di prendersi una pausa e chiacchieravano consumando pasticcini e caffè. La porta della stanza si spalancò all’improvviso e l’uomo che fece irruzione le interrogò sui contenuti della loro conversazione. Poi intimò: «Cercate di non parlare di cose che è meglio non divulgare». Di chi si trattava? Forse era un agente dell’Fbi, si dissero le giovani donne che da quel momento non si concessero più un break in gruppo. Ma del resto erano state avvertite: la gigantografia all’entrata del campo militare di Oak Ridge, il centro segreto statunitense dove si lavorava a spron battuto per realizzare la prima bomba atomica, esibiva il disegno di un occhio imponente e una svastica: «Il nemico sta cercando informazioni. Attento a cosa dici».
Bocche cucite, dunque, in quella città-fantasma che aveva visto la luce nel 1943, con file ordinate di prefabbricati e con docce e cucine comuni. Qui a occuparsi di impianti nucleari e di separazione elettromagnetica non fu una popolazione esclusivamente maschile. A dare un contributo determinante per la realizzazione del micidiale dispositivo fu anche un numero consistente di scienziate fino a oggi completamente dimenticate. Adesso, a raccontarci la singolare vicenda di Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale. Il progetto top secret che decise le sorti del conflitto (Newton Compton, pp. 380, € 9,90) è la giornalista e scrittrice americana Denise Kiernan. L’autrice ha dedicato sette anni alla stesura del libro a lungo nelle classifiche d’oltreoceano - da cui poi è stata realizzata la serie tv Manhattan - e ha attinto ai materiali della Commissione per l’Energia atomica e alle interviste con le protagoniste vissute nel campo militare.
Rischio di crollo psichico
Persino all’invenzione dell’ordigno atomico vi fu una mano femminile, quella dell’ebrea Lise Meitner. Costretta dalle leggi antisemite a fuggire in Svezia, elaborò la spiegazione teorica della prima fissione nucleare e la comunicò all’amico e collega Otto Hahn. Anche a Oak Ridge, dove l’età media degli abitanti era di 30 anni, le giovani ricercatrici raggiunsero risultati straordinari. Lo fecero sulla scia delle indicazioni di Robert Oppenheimer, chiamato nel 1942 a dirigere il «progetto Manhattan», e di premi Nobel come Enrico Fermi e Ernest Lawrence. Così emersero i talenti della ventiduenne Jane Greer che guidava una squadra di abili matematiche; della chimica Virginia Spivey e di Helen Hall che gestivano in maniera egregia le «torte» di uranio e di plutonio; di Dorothy Jones, specializzata in apparecchi elettromagnetici, e di Colleen Rowan, responsabile della tutela delle tubature.
A sostenere quella pazzesca corsa contro il tempo, però, non furono solo le fanciulle che avevano frequentato il college, ma anche le segretarie, le impiegate, le operaie, le addette alla manutenzione e pure le mogli che avevano seguito i loro uomini. Tutta questa presenza femminile fece sì che l’enorme sforzo collettivo arrivasse al capolinea. Solo pochissimi conoscevano il vero obiettivo dell’insediamento che superò i 75 mila abitanti. Gli stressanti ritmi di lavoro e l’ordine della massima segretezza erano condizioni pesanti da rispettare. «La combinazione di alloggi affollati e di isolamento», registra lo psichiatra del campo, «sta conducendo al crollo psichico. Non è consentito alleviare lo stress confidandosi con un coniuge o con un coinquilino». Furono organizzate danze, giochi e lotterie. Ma non bastarono: fu la presenza femminile, spiega l’autrice, a garantire stabilità e coesione sociale che evitarono la dispersione delle energie e anche la follia.
Un apporto disconosciuto
La proclamazione della vittoria in Europa, l’8 maggio 1945, non arrestò il funzionamento dei macchinari. Apparve un nuovo cartellone con una bandiera bianca che sventolava sulla Germania. «Fuori uno. Ne resta un altro. Concentratevi sul lavoro». Dopo che fu centrato il bersaglio di Hiroshima, venne reso noto al mondo il nome del centro di ricerca. La collettività di Oak Ridge si divise tra l’incontenibile entusiasmo per aver contribuito alla vittoria e l’orrore per la morte e la distruzione.
Quando in Svezia le fu comunicata la notizia dell’esplosione nucleare, Lise Meitner si chiuse in un cupo silenzio, e un’analoga sofferenza investì le molte donne che si erano applicate all’atomica. Nessuno comunque fu disposto a riconoscere l’importanza dell’operato femminile: Hahn salì sul podio di Stoccolma per ritirare il Nobel per la chimica nel 1946 e non ebbe nemmeno una parola per Lise che era in platea ad applaudirlo. Fu messa da parte proprio come le ragazze di Oak Ridge.

Corriere 8.3.15
7 marzo 1945, nasce la Jugoslavia di Tito, il maresciallo non allineato

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Corriere 8.3.15
Gran buffet alla romana
Il gusto e gli eccessi ai tempi di Pompei e nacque il cibo come fenomeno sociale
di Eva Cantarella


Come tutte le conoscenze storiche, anche quelle sull’assunzione del cibo aiutano a comprendere sia la nostra cultura, sia quella degli «altri»: tutti quelli che sono (e sono stati) «diversi» da noi. A dimostrarlo, le pratiche alimentari e la regolamentazione sociale delle cene ( convivia ) nell’antica Roma.
Per alcuni secoli i pasti dei romani furono molto frugali. Le risorse economiche erano modeste, i valori sociali erano l’austerità e la sobrietà: la colazione mattutina ( ientaculum ) consisteva in una tazza di latte o di acqua, pane con miele o frutta secca... Meno austero ma ugualmente modesto il pranzo meridiano ( prandium ): un veloce spuntino, spesso solo gli avanzi della sera precedente.
E ugualmente modesto (anche se meno del prandium) il pasto principale, la cena ( cena ), consumata nel pomeriggio in famiglia, spesso accanto al focolare, a volte integrata da uno spuntino notturno ( vesperna o merenda ).
Ma con il tempo da un canto l’economia crebbe, dall’altro i romani impararono ad apprezzare le piacevolezze della vita: «Graecia capta ferum victorem cepit», scrive come ben noto Orazio. Accanto al piacere dei bagni nelle terme i romani avevano appreso dai greci quello della buona cucina: caviale importato dal Mar Nero, pesce, crostacei e ostriche di cui erano abilissimi allevatori, buon vino importato dalla Grecia.
Il pasto serale divenne un momento importante della socialità: vi si incontravano gli amici, si stringevano nuove conoscenze, si concludevano affari e alleanze politiche, spesso legate a scambi matrimoniali. Il cibo veniva servito in una sala (il triclinium ), dove ci si sdraiava alla greca. A differenza di quanto accadeva in Grecia, però, potevano parteciparvi anche le donne: o meglio, anche le donne «per bene», intendendo per tali quelle che non vi partecipavano per mestiere (etere, danzatrici, musiciste).
Sempre a differenza che in Grecia, l’enfasi non era posta sul vino (anche se molto apprezzato) bensì sul cibo. A dimostrarlo basta ricordare l’abitudine di liberare lo stomaco, tra un piatto e l’altro, ficcandosi due dita in gola.
Ma al di là di pratiche come questa, per noi non esattamente eleganti, i romani erano diventati dei raffinati gourmet. I primi grandi chef dell’antichità erano stati greci (più precisamente siciliani), ma questo non toglie che a Roma ne esistessero di veramente eccellenti, come il celeberrimo Marco Gavio Apicio, nato circa il 25 d.C. sotto Tiberio, sotto il cui nome è giunto a noi un manuale di cucina intitolato «De re coquinaria». Infine, un’ultima considerazione: a Roma, le cene non avevano la connotazione religiosa che caratterizzava i simposi greci, sempre preceduti, tra l’altro, da un sacrificio agli dèi. Ma avevano una funzione sociale che le avvicina, più che alla Grecia, a noi e alle odierne cene e buffet intesi ad allargare le conoscenze, concludere affari e stringere accordi politici. Nonché, spesso, a esibire il proprio status sociale.
Cosa, questa, che come in tutti i tempi faceva sì che alcuni, che non conoscevano le buone maniere, esagerassero (ed esagerino) cadendo nel cattivo gusto e a volte nel ridicolo. Come accade in una celebre opera letteraria, al famoso Trimalcione, che nel Satyricon di Petronio offre cene proverbiali, nella sua casa tanto sfarzosa quanto volgare. Tra una portata e l’altra descrive orgoglioso e vanesio le sue ville, il danaro che possiede, la ricchezza delle sue terre.
È l’immagine feroce del nuovo ricco che esibisce un benessere troppo rapidamente acquisito e molto mal digerito.
E per concludere qualche parola sull’abbigliamento: a Roma si cenava scalzi. Gli uomini non indossavano la pesante toga, ma un abito più comodo e leggero ( synthesis o vestis cenatoria ). E a volte (cosa, questa, del tutto inaspettata) indossavano abiti femminili.
Come leggiamo, infatti, nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, di un senatore che aveva destinato a una certa persona, per testamento, le vesti muliebri di sua proprietà. Ma siccome il senatore amava cenare vestito da donna, nacque un problema: intendeva forse alludere a quelle con cui usava cenare?
I giuristi interpellati non mostrarono alcuna sorpresa (a Roma il «cross dressing» non era un problema). Come dice l’incipit di un celebre romanzo di Hartley, L’età incerta , è proprio vero che «il passato è una terra straniera: fanno le cose in un altro modo, lì».

Repubblica 8.3.15
La mia Libia
Le parate di Italo Balbo viste dal terrazzo di casa, la fuga in campagna dai nonni, la scoperta della politica e infine una nave per l’Italia
Valentino Parlato ricorda il paese dei suoi primi vent’anni “E di quando Gheddafi...”
di Valentino Parlato


SUL FINIRE di quella notte di novembre del 1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io avevo vent’anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l’auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera.
All’imbarco, sul piroscafo Celio, trovai Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e Giuseppe Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico. Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c’erano solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici.
Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanza perché stavamo facendo un buon lavoro politico. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: “Sei persone rimpatriate per attivismo comunista sovversivo”. Il Sunday Ghibli, più spiccio, annunciò: “One way ticket”, biglietto di sola andata.
Avevamo costruito — promotore soprattutto Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme. Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto imponente. Del lavoro sindacale si occupavano in particolare i fratelli Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista dell’arte della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria nazionale d’arte moderna). La diffusione del sindacato, l’infiltrazione del Partito comunista e, cosa forse più importante, l’Associazione per il progresso della Libia che rivendicava una Libia indipendente e democratica, trovarono l’opposizione non solo dell’Autorità militare britannica che occupava il Paese ma anche della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare all’Italia. Vale la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva il Comitato di liberazione della Libia e con il quale la nostra associazione aveva stretti rapporti.
Ci riunivamo nell’elegante studio notarile di Errico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette postali. Ma partecipavo anche attivamente, con Mario Mazzarino, alla redazione di due giornali successivamente chiusi d’autorità: Il Pinguino e il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica “Visto da destra e visto da sinistra” — dove ovviamente gli argomenti “visti da destra” erano piuttosto stupidi.
Sono passati più di sessant’anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima verso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l’unica ragione per cui provo affetto per questo Paese oggi così drammaticamente devastato — e a mente fredda è difficile negare che l’intervento militare del 2011 abbia prodotto l’attuale disastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanissimi genitori italiani.
Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cui Mussolini doveva arrivare a Tripoli per impugnare la “Spada dell’Islam”. Allora era governatore il maresciallo dell’aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo di Tobruk). Per l’accoglienza del Duce organizzò serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli, dromedari. Per noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era vicina a casa nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose che noi guardavamo dal terrazzo come fossimo al cinema. La domenica, altro avvenimento: la messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina trainata da quattro cavalli. Entrava nella cattedrale sotto la navata centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che presentavano le armi. Dovevano restare immobili per tutta la durata della messa. Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati.
L’Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tutti della quinta elementare venimmo promossi. Ma insieme con la “promozione di guerra” arrivarono anche le bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia — mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e Anna nella campagna di Sorman, un paesino a sessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochi chilometri da Sabratha, l’antica città romana, tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul mare. Fu qui che mi trasformai in contadino agli ordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare gli animali, a montare a cavallo, a raccogliere le arachidi. Scopro così che le noccioline americane nascono sotto terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto la pancia per farlo alzare, l’indomani mi sferrò un calcio che mi sbatté per terra.
Tutto il lavoro agricolo era fatto da braccianti libici, noi li chiamavamo tutti “arabi”. L’uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Io li frequentavo, e con loro imparai anche qualche parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile , le fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata. Accampati nelle zone vicine venivano da mio nonno per comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loro il vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarli parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e più spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e i dodici anni ero tutt’orecchi. Grazie all’esercito mi feci anche una cultura, seppur alquanto stravagante. Quando il campo d’aviazione fu smobilitato il comandante regalò infatti a mio nonno la loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d’amore, ma anche dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree.
Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una sera fecero un’esibizione di fuoco antiaereo, poi uno di loro che parlava italiano disse a mio nonno che gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto. Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata la cena, e mentre eravamo tutti a tavola — c’erano il comandante del reparto, l’ufficiale medico che mi sedusse perché aveva due coniglietti in una gabbietta sull’auto, il sergente Springhorum che parlava italiano — la radio, che avevano portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il gelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e l’indomani all’alba partirono per la Tunisia.
Se i tedeschi se n’erano andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi avevano riaperto la pubblica amministrazione e mio padre, che era funzionario, tornò al lavoro. Io invece non tornai a scuola, studiai privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all’unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entro nel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi di politica e sempre qui assisto al tragico pogrom del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno stato di Israele, il 4 novembre lasciano partire un ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa 132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in caserma. Ho ancora il senso di colpa per non aver accompagnato in quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri compagni di scuola ebrei a casa.
Paradossalmente è proprio dal lavoro politico di quei miei primi vent’anni — venni espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove — che quasi cinquant’anni dopo il Raìs mi invitò a Tripoli. Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli italiani nati in Libia era proibito tornare, Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse anche un’intervista per il manifesto. Lo incontrai altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura notevole. Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga all’Inferno. Non poteva immaginare che la Libia si sarebbe trasformata in un inferno.

Il Sole 8.3.15
Così l’Italia dovrebbe attuare militarmente un blocco
Migranti e sicurezza. All’impegno per individuare e fermare i barconi in partenza si aggiungerebbe quello di affrontare trafficanti, milizie e organizzazioni criminali
di Gianandrea Gaiani


Dopo l’allarme sul gran numero di migranti in attesa di imbarcarsi in Libia per l’Italia, stimati tra 500 mila e un milione, l’inviato dell’Onu per la Libia Bernardino Leon si è detto favorevole ad attuare un blocco navale delle coste libiche. «È l’unica cosa che si possa fare concretamente: ce n’è bisogno» e «non penso che ci sarebbe alcun problema a ottenere il sostegno da parte del Consiglio di sicurezza. Nel Palazzo di Vetro è diffusa la consapevolezza che l’Italia si trovi a fronteggiare un compito molto pesante», ha detto Leon al Corriere della Sera.
In termini giuridici il “blocco navale” è una misura di guerra tesa a impedire al nemico l’utilizzo dei suoi porti. La Libia non è un “nemico” ma i flussi di migranti in partenza da porti e spiagge della Tripolitania Occidentale rappresentano una seria minaccia alla sicurezza italiana ed europea non solo per la grande quantità di persone che stanno facendo collassare le strutture di accoglienza, ma soprattutto per i lauti guadagni che questi traffici fruttano a jihadisti e criminali.
L’Italia dispone dei mezzi militari per effettuare una vasta gamma di operazioni anche in tempi brevi considerato che la flotta d’altura è attualmente impegnata in quelle acque nell’esercitazione Mare Aperto.
Fregate, corvette e pattugliatori posizionati a tre miglia dalle coste libiche e coordinati da una nave da assalto anfibio tipo San Giorgio sarebbero in grado di controllare in modo capillare l’area costiera intorno a Zawyah, la più vicina a Lampedusa, da dove salpano la gran parte dei barconi di migranti. I sofisticati sistemi di controllo e sorveglianza delle navi militari consentirebbero di individuarli tempestivamente, fermarli, imbarcare i migranti, soccorrere chi avesse bisogno di cure e reimbarcarli sui mezzi da sbarco. Reparti dei Fucilieri di Marina potrebbero assumere il controllo temporaneo un tratto di spiaggia ove sbarcare i migranti.
La sicurezza del tratto di litorale e la deterrenza contro eventuali attacchi di miliziani verrebbero garantite dai cannoni delle navi, dagli elicotteri e dai jet da combattimento decollati dalle portaerei Cavour o Garibaldi o dalle basi dell’aeronautica di Trapani e Pantelleria. Un’iniziativa che favorirebbe un intervento umanitario dell’Onu per soccorrere e rimpatriare i migranti sulla falsariga di quanto attuato nel 2011 coi lavoratori stranieri fuggiti in Tunisia durante la guerra libica. Facile prevedere che lo stop ai flussi di immigrati clandestini non verrebbe digerito senza reazioni dalle organizzazioni criminali e jihadiste che le gestiscono tenuto conto che il mese scorso alcuni miliziani hanno sparato contro una motovedetta della Guardia Costiera senza nessuna reazione da parte italiana.
Le forze armate sono però in grado di condurre azioni preventive individuando sulla costa i barconi pronti per l’uso e distruggendoli con raid aerei, bombardamenti dal mare o incursioni di forze speciali e unità anfibie. Reparti e mezzi che, con adeguate regole d’ingaggio, potrebbero effettuare azioni mirate contro le organizzazioni criminali e terroristiche. Qualcosa di simile alle operazioni condotte dagli statunitensi in America Latina contro i cartelli dei narcotrafficanti. Al di là delle stime sui migranti pronti a partire è infatti evidente che i flussi verso Lampedusa dipendono dalla disponibilità di imbarcazioni e dalla capacità dei trafficanti di gestire indisturbati i loro sporchi affari.

Repubblica 8.3.15
Da uno scarabocchio sulla lavagna al disastro di Hiroshima storia dell’arma che gli scienziati non osavano identificare con il suo nome
Come imparammo a chiamarla bomba
di Massimiano Bucchi


LA BOMBA iniziò a prendere forma con uno scarabocchio sulla lavagna del fisico Robert Oppenheimer nel 1939. E prima ancora in un piovosa mattina londinese del 1933, all’incrocio tra Southampton Row e Russell Square. Qui il fisico di origine ungherese Leó Szilárd ebbe l’intuizione di una reazione nucleare a catena. Fu lo stesso Szilárd a far visita ad Einstein in villeggiatura a Long Island. Da qui partì la celebre lettera con cui Einstein sollecitava il presidente degli Stati Uniti Roosevelt «a stabilire un contatto permanente tra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che lavorano sulle reazioni a catena in America » e lo metteva in guardia sulla possibilità che la Germania stesse facendo passi avanti nella stessa direzione. Sei anni dopo, alle 8:15 del 6 agosto 1945, il pilota Paul Tibbets sganciava la bomba che distrusse la città di Hiroshima, provocando centomila morti. In mezzo c’è una storia che coinvolge i più grandi fisici del secolo (da Enrico Fermi a Oppenheimer, che del progetto americano fu una delle figure chiave); due presidenti (lo stesso Roosevelt e Truman, che dette poi l’ordine di sganciare la bomba); spie del KGB; partigiani nor- vegesi capaci di sabotare la produzione tedesca di acqua pesante.
Steve Sheinkin la racconta con il passo del thriller, pensando soprattutto al pubblico giovanile e spesso sorvolando sui numerosi dubbi e dibattiti storici ancora aperti. Riesce tuttavia a dar conto della fragilità e della complessità di un percorso che fu tutt’altro che lineare. L’“arnese”, the gadget — così i fisici di Los Alamos, per evitare il termine “bomba”, chiamavano il primo prototipo testato nel New Mexico — restò infatti in bilico fino all’ultimo tra numerosi problemi risolti non di rado in modo quasi artigianale utilizzando perfino materassi e trapani da dentista. Ma quello che fa correre i brividi sulla schiena sono i numerosi momenti in cui la storia avrebbe potuto cambiare corso: se Oppenheimer fosse stato escluso dal progetto sulla base dei sospetti di simpatie comuniste da parte dell’FBI o se il KGB fosse riuscito nei propri tentativi di carpirgli informazioni strategiche; se i sabotatori norvegesi avessero fallito una missione condotta in circostanze proibitive; se le condizioni meteo sul New Mexico o su Hiroshima fossero state diverse nei momenti cruciali.
Oggi si può giudicare a posteriori, sapendo che dopo quel giorno d’agosto il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Ma resta difficile immaginare sensazioni e motivazioni degli scienziati fotografati in posa accanto all’“arnese”: patriottismo, incoscienza, curiosità o la “grandissima esaltazione” che provò il fisico Richard Feynman apprendendo le notizie dal Giappone? Forse il drammatico stupore di fronte al proprio sapere fattosi micidiale potere era già tutto nelle parole con cui Einstein accolse, nel 1939, il resoconto di Szilárd: «Non ci avevo proprio pensato».
L’ATOMICA di Steve Sheinkin IL CASTORO TRADUZIONE DI NELLO GIUGLIANO PAGG . 272 EURO 15,50

La Stampa TuttoLibri 8.3.15
Franco Battiato
“Chi fa soldi, va dritto nella spiritualità”
Dai monaci tibetani ai sufi, a santa Teresa d’Avila un viaggio tra i mistici per imparare a morire
intervista di Maurizio Assalto


«L’unità primordiale è spazio e saggezza», «il senso della nostra esistenza terrena è quello di crescere, diventare esseri completi, e ritornare all’unità».
C’è la vertigine metafisica, lama tibetani che camminano sulle acque e escono incolumi dalle fiamme, che nascono al centro di un fiore di loto e muoiono ridendo, le storie di Padmasambhava e di Milarepa, le voci di rinpoche buddisti ma anche di teologi cristiani, monaci benedettini, fisici quantistici e psichiatri, raccolte dall’Italia fino a Kathmandu, nel cofanetto di libro + dvd che Franco Battiato intitola Attraversando il Bardo, ossia Sguardi sull’aldilà (Bompiani, pp. 69, € 22). Nella concezione buddista il Bardo è lo stato intermedio tra la vita passata e la vita futura, quando per l’anima separata dal corpo si tratta di scegliere in quale forma di esistenza reincarnarsi, e dal karma di quelle precedenti dipende se la scelta sarà in meglio o in peggio. Cantante, compositore, regista, autore di opere liriche, pittore, artista proteiforme, in questo lavoro Battiato sollecita a fondo la sua indole mistico-sincretistica, per interrogarsi sul senso della morte, che è correlativamente anche il senso della vita. «Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati».
La morte come passaggio, come ritorno a casa. Quali letture sono alla base di queste idee?
«Ma la letteratura non basta... Ho iniziato nel 1970 con i mistici indiani e da lì in avanti ho portato a casa tutte le vette che hanno raggiunto i tibetani, i sufi, gli indiani. Con il tempo mi sono abbeverato a tutte le fonti. E poi ho avuto delle esperienze mistiche...».
Del tipo?
«Beh, non posso dirglielo. Solo questo: abitavo in un piccolo paese della Sicilia, che quando sono nato si chiamava Jonia [dal ’45 è tornato a dividersi nei due comuni di Giarre e Riposto, ndr], e ho avuto delle esperienze che poi ho ritrovato sui libri dei tibetani. Identiche! Cosa dice: curiosa questa storia, no?».
Mi citi almeno un libro che l’ha segnata.
«Per esempio quello che ha scritto quel monaco benedettino tedesco, Willigis Jäger, quel libro che si chiama L’essenza della vita. Ogni tanto lo riprendo, e scopro cose che prima non avevo colto».
Mi dica di Willigis Jäger.
«Faccio una piccola sintesi. Questo monaco benedettino a un certo punto della sua vita ha conosciuto un maestro zen e ha vissuto sei anni in Giappone. Finché il maestro un giorno gli ha detto: torna in Europa e scrivi un libro. Quando Ratzinger, all’epoca non ancora Papa, ha letto il manoscritto, voleva impedirgli di pubblicarlo».
Cosa c’era di così scandaloso?
«È quello che non si può capire. Quel libro è pienamente occidentale, ci sono santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, Meister Eckhart... tutti trattati in una forma magnifica, indimenticabile».
Nel backstage del suo viaggio a Kathmandu, nel dvd allegato al volume, risuona l’auspicio che questo cofanetto finisca «nelle mani giuste». Quali sono le mani giuste? O, all’inverso, quali sarebbero le mani sbagliate?
«È chiaro che un ateo è inutile che lo legga, è inutile che lo veda. Qui c’entra Platone: se la ricorda la storia degli uomini incatenati nella caverna? Gli atei sono così, sono prigionieri che non possono girare la testa né a destra né a sinistra. Se vedesse santa Teresa d’Avila che levita in chiesa, un ateo le direbbe “Ma cretina, che fai? Scendi giù, ti stai dimenticando che c’è la legge di gravità…”».
Lei in cosa crede?
«Se credo in Dio? Se no non potrei fare questa strada».
Voglio dire: in quale tipo di divinità?
«Siccome sono stato molto fortunato in questo mio viaggio terrestre, terribilmente aiutato, mi viene in mente una canzone che ho scritto all’inizio degli anni 90, Sui giardini della preesistenza in cui descrivevo la nostra situazione “prima della caduta sulla terra, / prima della rivolta nel dolore”, con una chiarezza che io come essere umano non avrei potuto avere… Insomma noi abbiamo avuto una caduta e la dobbiamo pagare: quindi stiamo riprendendo la salita».
Che rapporto c’è tra questi pensieri «pesanti» e la leggerezza scintillante di canzoni comeCuccurucucùoL’era del cinghiale bianco? Detto altrimenti: il successo commerciale aiuta nella scelta che si è chiamati a compiere nel Bardo?
«Eheh… Lì qualche influenza l’ho avuta da Gurdjieff, che diceva: uno che riesce a fare i soldi va dritto nella spiritualità. E effettivamente è andata così».
Cosa ha rappresentato per lei Gurdjeff?
«Ho vissuto sette anni nei gruppi gurdjieffiani, sette anni magnifici. Sono entrato nel ’76, quando hanno aperto per la prima volta in Italia, a Milano, con Henri Thomasson, e ho trascinato tutti i miei amici in quest’avventura. A parte la meditazione, imparavamo per esempio quelle terribili danze dove fai quattro cose contemporaneamente, con la testa che gira da un lato, le mani dall’altro, i piedi dall’altro ancora. Oppure certi esercizi in cui bisognava dividere il cervello in due, da sinistra discesa in giù, da destra salita in su, pari da sinistra, dispari da destra…».
Per Gurdjieff è diventato anche editore.
«Ho pubblicato una quindicina di volumi con un marchio mio, L’Ottava. Vendevamo 9-10 mila copie per ogni titolo. Ci distribuiva Longanesi, che allora - metà degli anni 80 - era diretta da Mario Spagnol. Quando gli avevo presentato il mio progetto mi aveva chiesto in cambio di scrivergli un libro. Non l’ho fatto, non me la sentivo».
Che cosa ha pubblicato?
«Di Gurdjieff Vedute sul mondo reale e I racconti di Belzebù. Più un paio di titoli di Thomasson. Ma ho fatto anche libri di esoterismo africano, Her-Bak. Cecio e Her-Bak. Discepolo di Isha Schwaller de Lubicz. E poi testi sufici, come Il segreto dei segreti di Abd al-Qadir, un mistico musulmano del XII secolo, che ho trovato per caso in una libreria esoterica di Bath, in Inghilterra, quando ero impegnato a registrare nello studio di Peter Gabriel. Io negli anni 70 ho studiato l’arabo per tre anni all’Ismeo, avevo anche preso una borsa di studio per andare a affinarmi a Tunisi all’Istituto Bourghiba, però poi ho scelto di fare L’era del cinghiale bianco, e ho fatto bene…».
Un aspetto poco noto della sua personalità è che ama le barzellette. Ce ne racconta una?
«Devo pensarci un po’. Ne conosco un mare, ma adesso… Aspetti, ce n’era una siciliana… ah sì, sì-sì-sì. Non è granché, però… si deve accontentare. Allora: c’è un barbiere tipico della nostra isola, con la tendina per le mosche sulla porta. Arriva un tizio che la scosta e si mette a contare: “Uno due tre quattro cinque: ce la faccio”. Tutti si guardano, dicono ma chi è questo qui, boh… Dopo cinque o sei giorni il tizio di nuovo apre la tendina: “Uno due tre quattro cinque: oh, ce la faccio!”. Allora il barbiere dice al suo garzone: “Salvatore, questo non mi sta piacendo, se viene un’altra volta tu ti levi il camice, lo segui, mi devi dire chi è”. E succede così, quello fa di nuovo ’sta scena, se ne va, Salvatore gli va appresso, torna dopo un’ora. “E allora”, gli chiede il barbiere, “che è successo?”. “Eh, cosa è successo… che è andato a casa sua e ha fatto l’amore con sua moglie”. “E a me che minchia me ne frega?”. “Principale”, fa il garzone, “posso darci del tu per una volta? Con tua moglie!”.
«Così, cose tipiche siciliane».

Corriere 8.3.15
Psichiatria
C’è una correlazione fra le malattie organiche e i disturbi psichici?
Gli effetti negativi dello stress, dei lutti, delle difficoltà coniugali sulla salute fisica e mentale sono noti fin dall’antichità
di Daniela Natali

qui

Corriere Salute 8.3.15
Lo screening che può salvare le neomamme dalla depressione
Un test individua i sintomi e permette di avviare subito le cure adatte
di Maria Giovanna Faiella


Diventare mamma comporta cambiamenti nella vita quotidiana e nuove responsabilità. Dopo la nascita del bambino può capitare di vivere momenti di depressione, che la maggior parte delle neomamme riesce a superare in breve tempo ( vedere box e infografica ). Ma per alcune non è così.
Prevenire la depressione post partum e alleviarne i sintomi grazie a trattamenti precoci è possibile, come conferma un recente studio italiano, STRADE (Screening e Trattamento precoce della Depressione post partum), coordinato dal reparto di Salute mentale del Cnesps-Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità, con il supporto del Ccm-Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie del Ministero della Salute.
L’indagine, durata due anni, ha coinvolto circa duemila donne, contattate in strutture di Campobasso e delle province di Treviso e Bergamo, alle quali si sono poi aggiunte volontarie arruolate in tre Centri di Roma: Policlinico Gemelli, Ospedale San Giovanni Calibita-Fatebenefratelli e presidio ospedaliero Grassi.
Nella prima fase, alle donne che frequentavano i corsi di preparazione al parto e i reparti di ginecologia è stato proposto lo screening per individuare eventuali fattori di rischio per la depressione post partum. Hanno aderito 1558 volontarie, contattate poi per lo screening tra la sesta e la dodicesima settimana dopo il parto. Per tutte è stato usato il test EPDS, Edimburg Postnatal Depression Scale (Scala di Edimburgo), che mira a indagare, per esempio, se la donna si è sentita triste o infelice, preoccupata e ansiosa, se ha avuto momenti di paura o panico senza un valido motivo, o se ha problemi a dormire.
Al test sono risultate positive 110 donne (7,1%): di queste, 83 hanno accettato di svolgere un colloquio clinico e altri test per la conferma della diagnosi entro la settimana successiva allo screening. Spiega la responsabile dello studio del Cnesps, Gabriella Palumbo: «È stato proposto un trattamento psicologico, di dimostrata efficacia, messo a punto da Jeannett Milgrom, tra i maggiori esperti mondiali in tema di depressione post partum, docente all’Università di Melbourne, in Australia, dove già da tempo si è adottato un programma nazionale di screening sulla depressione post partum».
«Il metodo Milgrom — aggiunge Antonella Gigantesco, coordinatrice del reparto Salute mentale del Cnesps — consiste in un intervento con approccio cognitivo-comportamentale di gruppo (ma si può condurre anche individualmente) che sfrutta le potenzialità dell’auto-mutuo aiuto tra donne e coinvolge anche i partner». Circa i due terzi delle mamme sottoposte al trattamento hanno riportato «miglioramenti clinicamente significativi», valutati subito dopo l’intervento, durato circa tre mesi, e a distanza di sei mesi.
«STRADE è il primo studio multicentrico italiano sugli esiti di un trattamento psicologico di provata efficacia — fa notare Angelo Del Favero, direttore generale dell’Istituto Superiore di Sanità — . Contribuisce a far luce sulla conoscenza del problema da parte sia degli operatori sanitari, sia delle donne che vivono con angoscia questi disturbi non sapendo che c’è una risposta per risolverli. La sensibilizzazione delle future mamme che possono presentare fattori di rischio già durante i corsi di preparazione al parto favorisce l’intervento precoce».
Diverse le figure professionali coinvolte nello studio: dai ginecologi alle ostetriche, dagli psicologi agli psichiatri. «Un intervento multidisciplinare per prevenire e gestire la depressione post partum è fondamentale, specie in Centri di riferimento per gravidanze ad alto rischio» sottolinea Giovanni Scambia, direttore del Dipartimento tutela della salute della donna e del bambino al Policlinico Gemelli di Roma.

Corriere Salute 8.3.15
Segnali di rischio da cogliere già durante l’attesa
Condizioni individuali ed eventi stressanti aumentano la fragilità della donna
di M. G. F.


L’ansia di non essere all’altezza del futuro ruolo materno, il timore di non farcela a prendersi cura del bimbo in arrivo. Insicurezze che, se associate ad altri eventi stressanti, possono compromettere l’equilibrio psicologico di chi è già vulnerabile.
Dallo studio STRADE ( vedi sopra ) è emerso che delle puerpere intervistare circa il 14% si è sentito giù di morale, abbattuto o depresso per almeno due settimane già durante la gravidanza, il 7% ansioso o depresso. Hanno influito sulla sofferenza delle donne in attesa anche eventi stressanti verificatisi nei precedenti 12 mesi: per il 13,2% la morte o una grave malattia di una persona cara, per l’8,5% la perdita del lavoro.
«I sintomi depressivi possono manifestarsi già nel periodo della gravidanza, per questo vanno tenuti sotto controllo fin dagli inizi — dice Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze e salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano —. Già la presenza di un fattore di rischio nella donna in attesa, come aver già sofferto di ansia e depressione o avere un familiare con problemi psichiatrici o aver vissuto recenti eventi stressanti quali un lutto e un licenziamento, dovrebbe far avviare il monitoraggio fin dalle prime visite dal ginecologo».
Uno dei primi ambulatori in Italia ad occuparsi di depressione perinatale (in gravidanza e dopo il parto), è stato, dal 2004, quello dell’ospedale Melloni di Milano (oggi si chiama “Psiche donna”), che si avvale della collaborazione di specialisti dei Dipartimenti di salute mentale del Fatebenefratelli e di salute materno-infantile della stessa Azienda ospedaliera.
«Ci sono alcuni fattori di rischio che il ginecologo non sempre riesce a riscontrare nell’anamnesi, come, per esempio, l’abuso di stupefacenti o di alcol, che la donna tende a nascondere — spiega Mauro Busacca, direttore dell’Unità operativa di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale Melloni — . Fin dagli inizi, oltre a curare la depressione delle donne in attesa, si è cercato di individuare in anticipo i fattori di rischio per ciascuna donna in attesa, così da intervenire subito, anche per evitare conseguenze sul bambino in arrivo».
Le neomamme, poi, vorrebbero poter contare su un aiuto pratico in caso di necessità. Dallo studio risulta che più di una donna su dieci ha riferito di non avere sostegno familiare e sociale: carenza anch’essa associata al rischio di depressione post partum.

il Fatto 8.3.15
Correggio, cupole e sensualità dipinte a testa in giù
di Dario Fo


AD ANTONIO ALLEGRI SI DEVE L’INVENZIONE DELLO SCORCIO PROSPETTICO (DIECI ANNI PRIMA DELLA CAPPELLA SISTINA)

Torna domani sera, alle 21,15, su Rai5 l’appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è dedicata a “Correggio che dipingeva a testa in giù”. Eccone un’anticipazione.
Avete mai visitato gli affreschi dipinti dal Correggio sulla cupola del Duomo di Parma, dieci anni prima che Michelangelo dipingesse quelli della Cappella Sistina a Roma? Ebbene, vi voglio svelare che salendo là in cima, il particolare che sconvolge ogni visitatore è l’invenzione dello scorcio prospettico, cioè ogni figura sospesa nel vuoto è riprodotta sempre come vista dal basso. Ma, soprattutto, a sorprendere fino all’incanto è la magia con cui si muovono le figure che galleggiano nell’aria, come se facessero parte di un gioco metafisico d’alta scienza geometrica. C’è subito da chiedersi: da dove ha acquisito una tale sapienza d’analisi proiettiva, questo pittore? Era forse ingegnere o architetto laureato in qualche università di Parma o Bologna insieme a Keplero e Copernico? Ma per carità! È ben risaputo che Antonio Allegri era di umili origini. Venne al mondo nel 1489 a Borgovecchio di Correggio in una angusta dimora. Il padre s’arrangiava battendo la piana del Po nei panni di una specie di venditore ambulante di stoffe rustiche e altri manufatti di basso valore e prezzo: insomma, una specie di “vo cumprà” dell’epoca!
Anche Giorgio Vasari testimonia dello stato di difficoltà in cui vivevano Allegri e la sua numerosa famiglia. La vistosa presenza di ragazzini, maschi e femmine, figli dei vari fratelli e sorelle del padre, in quella casa, la vediamo spesso proiettata nei suoi dipinti.
Lo zio Lorenzo era pittore e Antonio ragazzino di certo imparò i primi rudimenti della pittura da quel maestro di casa, un maestro in verità di doti minime tant’è che il nipote, ancora giovanissimo riuscì a sorpassarlo ben presto nell’abilità e nel talento.
Una dote rara: la coscienza del valore della vita
Due secoli dopo, alla fine del ‘700, un grande scrittore francese, Stendhal, si trovò a vivere a Parma e rimase tanto affascinato da quella città che la elesse a propria patria. Qui ebbe l’occasione di conoscere molte fra le più belle opere del Correggio e se ne innamorò. Ma il sentimento di stima e ammirazione per l’artista crebbe in modo incontenibile quando, compiendo un’inchiesta storica sul pittore, scoprì l’incredibile svolgersi di quella vita: “Com’è possibile”, si chiedeva, “che un ragazzo riesca, partendo socialmente e culturalmente da così in basso, addirittura da zero, quasi analfabeta, a rimontare a livelli così alti di capacità, sapienza e genialità? ”
Di certo, la massima dote di Correggio fin da ragazzo era la costanza, unita a un desiderio di emergere inarrestabile e a una sete di conoscere e sapere ineguagliabile. Ma il nucleo portante che di certo l’Allegri teneva come il maggiore era senz’altro la coscienza del valore della vita: un dono da campare come un incanto.
Il vantaggio nell’apprendere le basi del sapere regalatogli dalla sorte, per il Correggio era determinato dal fatto di trovarsi nel pieno della sua infanzia a vivere in una famiglia povera di mezzi, ma dotata di un grado di alfabetizzazione piuttosto avanzato per una comunità di ambulanti.
Infatti uno dei figli dello zio pittore, maggiore del Correggio, in quel tempo si laureò a Bologna nel collegio degli studi poveri… bellissimo nome per una scuola popolare: “Il collegio degli studi poveri”! E questo giovane esercitò la professione medica. Inoltre due suoi parenti, Cristoforo e Giacomo, erano insegnanti. Da questa favorevole condizione, e a dimostrare che l’esser nati da uno stesso seme non è cosa indifferente, ha vita la straordinaria predisposizione dell’Allegri per il sapere, da quello umanistico, scientifico a quello filosofico e poetico.
Ancora in tenera età, il ragazzo ha la fortuna di incontrare due grandi umanisti: Giovanni Berni e Battista Marastoni, che gli procurano i primi rudimenti della scrittura e delle scienze letterarie, nonché dell’eloquenza e della retorica.
A 14 anni, il Correggio va a Modena. In quella città conosce il medico Gianbattista Lombardi docente all’università di Ferrara che lo istruisce sulla medicina, la dialettica e la logica. Come dice un antico proverbio: “Le occasioni girano intorno ad ognuno come una giostra che non si ferma di certo ad aspettarti. Se non gli salti subito sopra al volo a costo di spaccarti le gambe è come se non ti fosse mai passata appresso”.
Di certo è il DNA ereditato dal padre ambulante, che lo porta a cambiare spesso luoghi e maestri. Infatti di lì a poco il giovane Allegri, che ha appena compiuto 15 anni, si trasferisce a Mantova, città del Mantegna, dove dipinge con Francesco, figlio del grande maestro dello scorcio, mancato proprio qualche anno prima.
Il Cristo del Mantegna: un gioco di prestigio
Nella casa dello stesso Mantegna ha l’occasione di vedere per la prima volta da vicino il Cristo deposto dalla croce, visto dal basso – uno dei più grandi capolavori del ‘500. Il quadro è lì, davanti a lui, con il corpo di Gesù disteso di scorcio, con i piedi grandi in primo piano e in sequenza, schiacciati, gli arti del corpo senza vita: ginocchia, bacino, ventre, pettorale e, in fondo, il volto inerte del figlio di Dio.
Nessuno aveva mai dipinto un Cristo defunto così morto! Correggio ne rimane a dir poco folgorato. Quel dipinto sembra tutto un gioco di prestigio e invece è solo talento e scienza pura.
In quel tempo conosce, direttamente o attraverso le stampe e i dipinti, i più grandi maestri del Cinquecento in Italia, da Leonardo a Michelangelo e Raffaello, e attraverso quelle pitture sviluppa le sue doti come il famoso racconto della pianta di fagioli che va crescendo fino a raggiungere la luna.
Antonio Allegri detto il Correggio al tempo in cui viveva e operava – cioè a dire, dal 1515 al 1534 – era ritenuto da tutti gli amatori d’arte e i maestri di pittura e scultura più importanti d’Italia e d’Europa di quel tempo uno dei più grandi pittori viventi.
I dipinti dell’Allegri godevano di una quotazione molto alta nel mercato dell’arte. Oltretutto era considerato un genio della pittura a fresco su cupole di dimensioni straordinarie come quelle di San Giovanni e del Duomo di Parma.
Ma, come succede spesso nella storia di grandi artisti di fama eccelsa, per uno strano sconvolgimento del mercato, dopo un secolo ecco che all’improvviso Correggio perde di quota fino a diventare quasi uno sconosciuto.
L’orgia delle opere regalate ad altri
E – beffa incredibile! – appena dopo un secolo e mezzo la sua immensa produzione di opere viene letteralmente smembrata dagli studiosi e dai critici del tempo, e regalata, o meglio, attribuita, ad altri noti pittori. Così, una tavola straordinaria come L’educazione di Cupido, con Venere ignuda, viene attribuita a Giorgione. Un’altra Venere, quella spiata dal satiro, è regalata a Lorenzo Lotto... Giove che si tramuta in nube per godersi la splendida Io, una ninfa carica di sensualità, addirittura viene ceduta a Tiziano.
E per finire, Leda ed il cigno, se lo pigliano i fratelli Carracci. Insomma, un’orgia.
Ad ogni modo, per restituire il maltolto al legittimo autore si è dovuto aspettare addirittura fino alla metà del Novecento. Grazie all’entrata in campo di Roberto Longhi, Federico Zeri, e di altri studiosi di talento, si è riuscita a imporre una vera e propria rivoluzione critica. In verità, il tentativo più forsennato di cancellare le opere più importanti del Correggio, si realizzò negli ultimi anni della sua vita – quando i fabbricieri responsabili dei monumenti più prestigiosi della città di Parma programmarono di sbiancare letteralmente tutte le pareti da lui dipinte ad affresco nella grande cupola del duomo. È proprio il caso di ricordare che, secondo alcune fonti storiche, il salvamento fu determinato dalla presenza a Parma in quei giorni, di un estimatore del Correggio di indiscussa autorità. Si trattava nientemeno che di Tiziano Vecellio, il quale, venendo a conoscenza del progetto a dir poco criminale in corso, si rivolse ai responsabili della diocesi, e chiese: “Scusate, ma voi avete la minima idea del valore in moneta di ciò che vi accingete a distruggere? Sappiate che se volete una giusta misura di quello che valgono questi affreschi dovreste riempire con una valanga di monete d’oro l’intera vasca capovolta della cupola! ” E sotto quella valanga bisognerebbe seppellire anche voi!, questo l’ho aggiunto io, ma ci sta bene…
È così che pare si sia salvato quel preziosissimo affresco. Ma non è stato sufficiente l’impegno di Longhi, Zeri e di molti altri studiosi a divulgare e a ridare ad ognuno la coscienza della grandezza di questo pittore.

Corriere La Lettura 8.3.15
Dilaga il rito dell’intimità pubblica
Addio incontri riservati con prete e analista
Domina l’esibizionismo digitale di massa


«A partire dal Medioevo, le società occidentali hanno posto la confessione fra i riti più importanti da cui si attende la produzione della verità». Tanto che l’uomo «è diventato una bestia da confessione». L’affermazione di Michel Foucault, del quale ora Feltrinelli pubblica le lezioni del 1971 per il corso al Collège de France, è ancora fatalmente attuale. Il dispositivo della confessione, come forma di autodenuncia, volontà di espiazione, liberazione dal senso di colpa e desiderio di condivisione pubblica, si è però adattato ai tempi, utilizzando i nuovi media come sostituti del sacro. Una tra le forme di spettacolarizzazione dell’intimità che la postmodernità ha introdotto, spingendo l’individuo a mostrarsi, ad autopromuoversi con disperata invadenza nel tentativo di affermarsi. E se per questo non basta Facebook, la Rete offre siti specifici (Erba del vicino, PostSecret, Insegreto, Sfoghiamoci.com) in cui rivelare il proprio intimo attraverso la sottomissione al giudizio collettivo.
Si prefigura una società a intimità diffusa, dove la condivisione della vita privata si fa valore espositivo che si misura nella quantità di like : è sempre più trendy confessare le colpe e gli episodi imbarazzanti della propria sfera personale.
Il dispositivo della confessione, inizialmente formulato dal cristianesimo come ricerca della verità del sé, fondamentale ai fini della propria salvezza, si è poi fatto strumento terapeutico nella psicoanalisi e procedimento laico riservato alla letteratura. Nel Tropico del Cancro Henry Miller dichiarava la sua motivazione alla scrittura promettendo: «Mi stenderò sul tavolo operatorio e metterò in mostra le budella». Solo all’autore era concessa la libertà, in nome dell’arte, di svelarsi in pubblico senza ritegno; agli altri conveniva esercitare la pratica della confessione privatamente. Dal sacerdote, nell’anonimato del confessionale, o sul lettino dello psicoanalista. Colloqui strettamente riservati, la cui funzione era penitenziale o terapeutica. Ma comunque sempre di fronte a un interlocutore singolo, un ascoltatore con il potere di assolvere, alla cui mercé ci si affidava nella consapevolezza che solo quella ritualità permette il sollievo. Perché la confessione è sempre una sorta di assoluzione, anche quando prevede un castigo, poiché contiene in sé il desiderio di espiare. Non a caso in tutte le legislazioni il reo confesso ottiene una riduzione della pena.
Ma come è stato possibile rompere i limiti del privato e riversare in pubblico, senza remore, ciò che appartiene alla sfera più intima dell’individuo?
Secondo Norbert Elias il «muro invisibile posto tra mondo interiore e mondo esterno» è soprattutto una questione «specifica di formazione della coscienza». Fa parte del nostro retaggio, è un fatto culturale. Come tale il mondo interiore dovrebbe restare segreto, un tabù insuperabile. Invece è stato travolto dall’imprevista corsa all’esibizione di sé, vero selfie dell’anima che si fa sempre più generalizzato e invadente. Supera i confini della decenza e, in video come sul web, appare più un coro di voci dissonanti che reclamano attenzione e chiedono con forza di essere ascoltate e riconosciute. È proprio il riconoscimento, l’attesa di una rivalutazione pubblica del sé, che muove alla confessione. Rispondere alla domanda «perché l’hai fatto?» significa a un tempo rivivere l’azione e, traducendone il fatto nelle parole, darne una spiegazione razionale per redimersi. Più che a soddisfare il bisogno inconscio di liberarsi del proprio senso di colpa e cercare la punizione, come sosteneva Theodor Reik, sulla scorta di Freud, qui si assiste alla purificazione della colpa attraverso la pubblica condivisione. Non si cerca la verità, la razionalizzazione dell’errore commesso, la sua trasposizione sul piano della parola che sostituisca l’azione e la rimuova.
L’ammissione, lo svelamento dei propri errori, delle colpe, dei tradimenti, del disamore, degli egoismi, ricerca l’approvazione pubblica, il riconoscimento della propria umanità e debolezza. Diventa una modalità di partecipazione, un rito di passaggio che sancisce l’appartenenza alla comunità. Si dissolve così ogni rapporto di potere, da quello che costringe a confessare, persino sotto tortura, a quello che s’instaura col confessore. L’assoluzione non è più data da un singolo, sia esso il giudice, il prete o il medico analista, ma da una moltitudine di pari che assorbe, ingloba il nuovo e se ne rafforza.
L’odierna pratica della confessione pubblica attraverso i media si potrebbe allora configurare come una riammissione nel corpo della comunità, quasi un aggiornamento dell’ exomologesi , cioè di quella drammatica rivelazione di sé attraverso la quale il peccatore chiede di essere riaccolto nella Chiesa.
Resta l’ambiguità che nella confessione risieda il vero, quale presupposto della libertà: invece della liberazione c’è il rischio di essere presi in trappola da un potere senza volto, la cui forza può essere distruttiva. Converrà, in fondo, seguire il suggerimento dello stesso Foucault, espresso un decennio più tardi in Mal fare, dir vero , e che suona come un tentativo di difesa a oltranza dell’individualità: «Non confessare mai!».

Corriere La Lettura 8.3.15
François Villon è diventato un rapper
La Parigi stremata del ’400 e la rabbia del Bronx di oggi Il gesto sovversivo del «briccone» unisce mondi lontani
di Sandro Modeo


François Villon come antefatto remoto dei rapper? Il legame, accennato en passant nella folta introduzione di Aurelio Principato a Il testamento e altre poesie (Einaudi) può suonare spericolato. In effetti, ci si domanda, c’è qualcosa che possa avvicinare paesaggi tra loro alieni come la Parigi di metà Quattrocento — la stessa di Notre-Dame di Hugo — e il South Bronx di metà anni Settanta, fucina dell’hip-hop? Qualcosa che vada oltre il semplice rispecchiarsi depressivo tra una capitale stremata dalla guerra dei Cent’anni, dalle epidemie e dal gelo — le case circondate da lupi che «si nutrono di vento» — e un ghetto nel ghetto, concentrato di degrado e di violenza? Ed è davvero possibile sentire risuonare nelle rime baciate di certi rapper quel «germe di deviazione e provocazione» contenuto in quelle alternate di un poeta molto più sofisticato di quanto vorrebbe la rilettura romantica, tesa a esaurirlo solo nella matrice «maledetta»?
Per provare a rispondere, bisogna risalire alla fonte del fiume-Villon e vederne le sterminate ramificazioni globali, estese a ogni campo: alla letteratura (Stevenson e Osamu Dazai ne fanno personaggio di racconto); alla scultura (la Bella Elmiera di Rodin); al teatro (le ballate nell’ Opera da tre soldi di Brecht); al cinema hollywoodiano (che vede Villon interpretato da attori opposti come John Barrymore o Errol Flynn); alla musica «alta» (il libretto operistico di Ezra Pound) e a quella folk-rock (dalle influenze su Bob Dylan agli omaggi di Brassens e De André); fino ai recenti richiami in giochi di ruolo e serial tv, che collocano Villon — un po’ come succede a Dante — lungo le tante location falso-medievali.
Di tutte queste ramificazioni, la più interessante — non solo in ottica italiana — è forse quella di De André, in quanto anche la più efficace per seguire quel «germe di deviazione e provocazione». Autore di un’intensa prefazione all’edizione Feltrinelli delle Poesie (’66), De André fa di Villon la stella polare della propria visione, molto oltre la ripresa esplicita della Ballata degli impiccati in Tutti morimmo a stento , disco del ’68, lo stesso anno in cui porta in musica anche S’i fosse foco di Cecco Angiolieri, il «gemello» toscano di Villon. Certo, non si può negare che quel contesto storico-sociale faciliti e acuisca un’interpretazione anarco-ribellista come quella del Villon di De André; né che questo rientri in parte in quell’uso «ideologico» del Medioevo analizzato da Tommaso di Carpegna Falconieri nel recente Medioevo militante (Einaudi) e pronunciato tanto a sinistra (vedi Dario Fo) quanto a destra (le caricature leghiste), pur con evidenti asimmetrie di livello culturale. Ma è altrettanto indubbio che la componente anarco-ribellista sia carattere oggettivo e «in lunga durata» della poesia di Villon; così come il fatto che De André ne colga — con intuito «filologico» — anche il rigore della sottostante tessitura ritmico-metrica.
La chiave di quella componente consiste nell’incidenza di due figure-archetipi, sfumanti l’una nell’altra. La prima è il fowl (il fool shakespeariano, il francese sot ), cioè il «buffone»: a questa figura, Villon non delega solo una denuncia-irrisione contro la borghesia ascendente (commercianti, usurai, evasori) che ricorda la furia dantesca contro «la nova gente e i subiti guadagni»; ne fa anche il campo di tensione tra piacere e angoscia, tra un vitalismo da Carmina Burana (taverne, dadi, puttane) e la permanente danza macabra che corrode corpi e oggetti: un memento mori che ha impressionanti coincidenze con quello delle Stanze di Jorge Manrique, contemporaneo spagnolo di Villon. Da questo campo di tensione se ne irradiano molti altri, come quello tra la vera fede (vedi la toccante Ballata alla Vergine Maria , dove il poeta si immedesima nella madre che prega) e una Chiesa così ottusa da rinsaldare le tentazioni di una latente miscredenza (se davanti ai nonsense della vita, «Nostro Signore se ne sta ben zitto/ Che a rispondere avrebbe la peggio»).
La seconda figura è il trickster (il «briccone»), archetipo mitico-religioso universale (dio come Loki, titano come Prometeo, animale come la volpe Renart) che si declina anche in «tipi» del folklore (da Pulcinella al Malandro brasiliano) accomunati da astuzia, inganno e strategie amorali, sempre nel segno dell’insubordinazione all’ordine costituito. Spesso, il trickster è anche un ladro, ma in accezione «redistributiva» (vedi Robin Hood): così come ladri sono Villon stesso o Geordie, il giovane bracconiere portato alla forca (nonostante l’intercessione dell’amata) in una ballata inglese del Cinquecento che De André volge in una struggente versione italiana modulata su quella di Joan Baez.
Non solo. Il trickster riesce anche a riportarci al rap. Una delle sue molte incarnazioni è infatti l’Anansi, il dio-ragno dell’Africa occidentale che accompagna gli schiavi in Giamaica; e il big bang dell’hip-hop nel South Bronx si realizza proprio partendo da ritmi e riti giamaicani. Se quindi tra Villon e certo rap (per esempio i Padri Fondatori Public Enemy) risaltano analogie esterne (i nomi propri nelle invettive, il gergo criptico, più di un’ombra di misoginia) il nucleo comune consiste nel gesto amorale e sovversivo del trickster : nella «grande povertà» — dice Villon — che «poco si impegola con l’onestà» e osa «parole sferzanti». In quest’ottica, il «germe di deviazione e provocazione» trova senz’altro una sua continuità.
Dopo di che, la suggestione deve essere filtrata da differenze e distinzioni. Sul piano formale, sia Villon che i rapper lottano con le forme chiuse dei loro codici: ma è incolmabile la distanza tra un contrappunto di ottave che converte anche l’osceno e il blasfemo in geometrie rarefatte da Messa di Josquin e le soluzioni segmentate-sincopate della ritmica hip-hop. Così come, sul piano delle implicazioni sociali, l’insofferenza individuale del «bon follastre» è lontana anni luce dalle rivendicazioni collettive (prima di razza, poi di classe) che innervano il ribellismo rap.
Anche se, resta inteso, leggere Villon non significa ripiegarsi sulla rivolta come semplice testimonianza. Se «il mondo è un’illusione», altrettanto lo è la possibilità di correggerlo («questo mondo, sappiamo, è una prigione/ per chi coltiva pazienza e virtù»); e un’illusione, alla fine, è anche la poesia, come quella di Villon, che pretende a ogni verso di contrastare quell’impossibilità. Ma il modo in cui la contrasta — anche solo con una rima o un’assonanza — ne fa una delle poche illusioni davvero necessarie, una di quelle illusioni di cui — scrive Proust — «vorremmo essere le vittime».

Corriere La Lettura 8.3.15
Non un rivoluzionario Forse una maschera


François Villon è una leggenda. Il poeta eretico e vagabondo, il poeta delle taverne, dei bordelli, dell’umanità più bassa, calda, oscura, il poeta degli impiccati e condannato, lui pure, all’impiccagione; il primo dei poeti maledetti, il poeta assassino... Del resto, la più convenzionale delle arti, la poesia, ha sempre avuto fame di realtà e d’innesti irregolari, di annettersi il sangue caldo e non ancora addomesticato della vita. Nel caso di Villon tutto sembra aver favorito la creazione del mito, dalla fortissima caratterizzazione tematica e ambientale all’incertezza di molti riferimenti o allusioni a personaggi e fatti dell’epoca, dalla natura a volte criptica dell’ argot (il gergo, nel Medioevo chiamato jargon ) alla problematicità della tradizione testuale, con le relative attribuzioni, all’incertezza dei dati biografici e del nome stesso del poeta.
Nato verso il 1430 e laureatosi a Parigi, ha frequentato la corte di Charles d’Orléans. Fu condannato a morte nel 1463, ma la pena venne commutata in una messa al bando. Da quel momento di lui non si sa più nulla. Ammesso che si tratti di dati affidabili, è comunque tutto qui. Leggendo la nuova edizione dei componimenti più significativi di Villon, Il testamento e altre poesie , uscita da Einaudi a cura di Aurelio Principato (la traduzione, che mi sembra notevole, è di Antonio Garibaldi), si viene posti una volta di più di fronte all’immagine del poeta che credo molti portino con sé fin dalle prime letture scolastiche: un’immagine che sembra inscalfibile e che coincide perfettamente con quella che la tradizione poetica ha definito via via attraverso i suoi tanti, spesso autorevoli lettori. Di conseguenza la frase con cui ho aperto queste considerazioni ritorna subito a porsi come un problema. Quella di Villon, poeta in ogni senso eslege, fuori dalla legge, è davvero una leggenda?
Giustamente, allora, il curatore ha sottolineato come in questa poesia sia ancora attivo il tipico procedimento allegorico medioevale «che impedisce di prendere i riferimenti troppo alla lettera», o anche, d’altro canto, come la stessa, inusuale ricchezza degli autoriferimenti faccia nascere il sospetto che si tratti di un Io non autobiografico ma stilizzato, convenzionale, come una specie di maschera poetica. Villon, insomma, sembrerebbe un caso rarissimo, forse unico, in cui filologia e poesia, senso dei fatti e immaginazione, si sconfessano a vicenda.
Eppure, come sempre accade, è vero il contrario. Proprio perché è un poeta, e quale poeta, Villon non fa eccezione alle nozze, sempre feconde, tra poesia e filologia. L’estrema padronanza dei mezzi espressivi, la capacità di governare registri, linguaggi, convenzioni formali e figurative, la piena consapevolezza dell’artificio poetico, l’intelligenza della doppiezza e del gioco che la messa in forma della vita inevitabilmente comporta, costituiscono infatti per Villon un formidabile strumento di comprensione e di rappresentazione della figura umana e del suo destino.
Erich Auerbach definì addirittura Villon come «il primo poeta unicamente tale» (Pasolini rettificherà poi questo giudizio sostenendo che in realtà il primo poeta-poeta, manco a dirlo, è stato Dante). Siamo dunque agli antipodi rispetto a una dimensione d’immediatezza espressiva. Se nei versi di Villon prende vita una sorta di grande commedia umana tardo-medioevale — una commedia che comprende il sarcasmo, la rabbia, l’irrisione, l’esuberanza dei sensi, il dolore, il grottesco, la caricatura, la gioia, la pietà, la malinconia, il compianto —, questo accade perché non vi si trova nulla di diretto, di non filtrato dall’intelligenza e dal cuore, e dal mestiere di poeta.
Quanta complicità, quanto distacco, quanta passione e quanta saggezza si trovano anche solo, ad esempio, nella prima quartina di questa Canzonetta ? «Appena uscito di dura prigione/ dove quasi ho lasciato la mia vita,/ se Fortuna si vuole mia nemica,/ ditemi voi se lei non ha ragione». A me pare insomma che se la leggenda di Villon ha ben motivo di esistere, questo non sia affatto per la sua presunta esistenza di fuorilegge o di ribelle alle convenzioni del tempo; quanto invece proprio per la sua eccellenza nell’arte poetica e, di conseguenza, in quella particolare, obliqua relazione tra convenzione e innovazione, tra regolarità e irregolarità che questa comporta. Non a caso proprio Auerbach ha visto a ragione come nel «realismo creaturale» di Villon non vi sia alcuna traccia «di forza rivoluzionaria, anzi nessuna volontà di foggiare il mondo terreno diverso da qual è». Ma è vero altresì che proprio la sua capacità di aderire, penetrare e, detto nel senso più pieno, di sentire la materia sensibile del mondo e della vita, esce e anzi rovescia tutto ciò che poteva apparire prescritto: «Qui ci vedete in cinque o sei appesi:/ la nostra carne anche troppo nutrita/ da un pezzo è divorata e imputridita,/ e cenere noi, le ossa, siamo e polvere».

Corriere La Lettura 8.3.15
Sul fronte con la penna, in Manciuria
di Dino Messina


A 110 anni dalla guerra russo-giapponese (8 febbraio 1904-5 settembre 1905) non esistono ancora studi che analizzino complessivamente l’atteggiamento della nostra stampa durante il primo conflitto moderno, al punto da essere definito World War Zero . Un fatto epocale: non soltanto perché l’umiliante sconfitta dell’esercito zarista diede origine alla prima rivoluzione russa, ma perché segnò uno spartiacque nell’atteggiamento occidentale verso il Giappone. Su questi e altri elementi riflette Nicola Bassoni, dell’Università di Genova, nel suo saggio sul nuovo numero di «Mondo Contemporaneo»: Port Arthur è caduta. La guerra russo-giapponese nella stampa italiana e tedesca . Quel conflitto coincise anche con l’affermazione definitiva del giornalismo moderno, che dispiegava inviati sui campi di battaglia e faceva commentare i fatti da esperti che si rivolgevano a una opinione pubblica sempre più attenta. Il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini era presente con il principe degli inviati, Luigi Barzini senior, mentre le analisi erano affidate ad Arturo Colautti. Non di solo «Corriere» vivevano i lettori italiani, poiché sull’ampio teatro di guerra in Manciuria, al seguito dell’esercito zarista, «La Stampa» di Torino aveva mandato Guido Pardo, che tuttavia fu cacciato perché ritenuto dai russi poco affidabile. Mentre «Il Mattino» di Napoli aveva a Tokyo Alberto Troise, che si muoveva poco dall’albergo e lavorava in collaborazione con i colleghi inglesi e americani. Fu quindi Barzini a realizzare gli scoop migliori, a raccontare con efficacia la caduta di Port Arthur e poi il continuo e sorprendente affermarsi della potenza giapponese, non solo sui mari, ma anche sulla terraferma. L’altra notizia, accanto alla scoperta di un Giappone guerriero fuori dagli stereotipi dell’orientalismo, era lo sfaldamento della flotta e dell’esercito dello zar Nicola II. All’inizio del conflitto tutti i commentatori, nonostante l’iniziale e vittorioso attacco giapponese, prevedevano che alla lunga l’orso russo avrebbe avuto la meglio nella lotta per il controllo della Manciuria e della Corea. Invece non fu così. Con il trattato di Portsmouth (New Hampshire) fu certificato l’inizio di una nuova era.

Corriere La Lettura 8.3.15
Roma 846, l’Isis è già arrivato
Uno dei periodi meno noti della storia della Penisola
La jihad investì l’Italia con lo sbarco di mille saraceni La basilica di San Pietro fu saccheggiata e distrutta
Profanazioni e massacri. Soltanto i contadini seppero resistere
di Amedeo Feniello


Bisogna fare attenzione alle minacce dell’Isis e non fermarsi alla superficie. Dietro di esse c’è qualcosa di più profondo della semplice propaganda. C’è una consapevolezza, un richiamo continuo a una legittimità che ha radici profonde nell’idea del califfato, globale e pervasivo. Con obiettivi e nemici chiari e condivisi dai loro confratelli: Israele, i «crociati» occidentali, la cristianità in genere. E, naturalmente, il suo maggiore simbolo, Roma. Con un sogno: prenderla e distruggerla.
Oggi, la minaccia crea turbamenti e timori. Ma anche, fortunatamente, ironie: «Come perdere Roma? Impossibile: ci si perde, ma sul Grande Raccordo anulare…». Eppure c’è stato un momento nella storia in cui la città fu quasi a un passo dal diventare musulmana. Tutto accade molto tempo fa, più di mille anni fa, nell’846. In quegli anni la Penisola fu investita dalla jihad , con una lunga e terribile contabilità fatta di centinaia di raid, tanto sulle coste quanto nell’interno. La Sicilia era stata appena invasa. La Sardegna e la Corsica erano soggette ad attacchi continui. I tratti tirrenici e adriatici — fino a Genova; fino a Grado e alle coste dalmate — sotto scacco. E nell’interno le scorrerie toccarono gli Abruzzi, Spoleto, la Lunigiana, il Piemonte. Episodi che fecero scalpore. Ma niente fece tanto scalpore come l’assalto a Roma.
«Nel mese di agosto 846 — scrive Prudenzio di Troyes — i saraceni e i mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro principe degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore Lotario furono empiamente tagliati a pezzi». Da Harun ibn Yahya sappiamo quale fosse la loro provenienza: venivano dalla Spagna. Mentre il Liber pontificalis riporta come fosse composta la flotta e quanti gli armati: arriva ad Ostia un gruppo di 63 navi, da cui scendono cinquecento cavalieri e altrettanti fanti.
I fatti si svolsero così: i saraceni, dapprincipio, risalgono il Tevere, senza trovare alcuna resistenza. Indisturbati, assaltano le sedi dei forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi. Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le basiliche di San Pietro e San Paolo. Le locuste, si disse, sono arrivate a distruggere le messi. L’unica reazione arriva dai contadini romani: respingono la truppa saracena, che scappa via, scompaginata. Il gruppo di predoni, una volta lasciata la città, però si riunisce di nuovo. Si avvia lungo l’Appia. Arriva a Fondi. A settembre comincia ad assediare Gaeta. Da Amalfi e da Napoli partono dei rinforzi, guidati dal console Cesario. Un contingente dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma, ma cade in un agguato. Vengono trucidati tutti. I saraceni allora si dirigono verso l’abbazia di Montecassino, un boccone ghiottissimo. Per strada bruciano e rapinano tutto quello che trovano, chiese, cappelle, villaggi. Li blocca solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno. Per i razziatori è il momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di Gaeta si spegne. Scatta, giocoforza, la tregua.
È la fine del raid, ma l’evento che ha colpito Roma lascia una profonda ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII secolo, come nella Destruction de Rome , sorta di proemio alla Chanson de Fierbras . Ma la città non cadde. Fu quasi per cadere ma non cadde. Comunque, si resta colpiti da come andarono le cose. Appare, per noi, quasi inconcepibile che, nel corso di questo rapido e tumultuoso attacco, non sia esistito alcun meccanismo organizzato di difesa della città santa, salvo da parte dalla popolazione. Eppure, il gruppo saraceno non era enorme né invincibile: basta un nubifragio a fermarlo, un po’ poco. Allora che cosa lo rese quasi imbattibile? Diversi fattori: la capacità di sorpresa dei saraceni; l’effetto psicologico, legato a una fama (e a una propaganda) che li rendeva tanto più potenti di quanto non fossero; la mancanza di una reale forza di dissuasione cristiana, considerata la lontananza del potere imperiale e l’incertezza dell’atteggiamento degli alleati locali, in special modo delle città tirreniche di Napoli e Amalfi, spesso ondivaghi e favorevoli ai musulmani. Fatto sta che essi rimasero a stazionare, praticamente indisturbati, per quattro mesi, tra Roma e il basso Lazio. E posero a repentaglio la periferia della capitale della cristianità, misero alle strette Gaeta e ridussero in macerie tutta la zona tra Fondi e Montecassino.
Dopo l’incursione, a Roma la vita riprende a fatica. La prima cosa da fare è ricomporre un tessuto connettivo, per far fronte a un futuro che si presenta, per molti versi, oscuro e con poche speranze. Nell’assenza del potere imperiale, il ruolo di promotore viene preso da Papa Leone IV. Bisognava coordinare le forze, riassestare le difese, operare con una forte e persuasiva opera di propaganda che rianimasse le popolazioni avvilite, rinvigorire lo zelo religioso e, in ultimo, ricorrere all’aiuto dell’allora potente impero bizantino. Intanto un’onda di commozione fa il giro d’Europa. Era stato violato il centro della cristianità, i suoi luoghi più sacri che neanche gli unni avevano profanato. Bisogna far presto. Muoversi. Riorganizzarsi.
Che cosa fare? Il destino, oltre che nelle mani del Papa, è in quelle dei signori del circondario, dei principi longobardi come delle città di mare tirreniche. E si opera in due modi, seguendo modalità entrambe idonee, in chiave difensiva locale e in chiave militare, con la creazione di una rete di alleanze. Su questa base, Papa Leone dà avvio alla costruzione delle mura leonine, che sorgono tra l’848 e l’852 a protezione del colle Vaticano e della basilica di San Pietro: un bastione che permette la difesa del corpo più sacro di Roma. Nell’849, invece, le città tirreniche, con l’ausilio del Papa, riportano la vittoria navale di Ostia: un momento simbolico più che una vera svolta, che comunque riduce per un po’ la pressione delle incursioni sulla costa. Un fatto è certo: dopo questi due momenti, nessuna incursione tocca più direttamente la città pontificia, sebbene il suo hinterland continui a essere sottoposto a frequenti aggressioni saracene, fino agli inizi del X secolo.
Questa la storia dell’assalto a Roma, al tempo in cui in Italia ci fu la jihad : il periodo forse meno conosciuto della nostra storia, quando la Penisola, punto di giunzione delle tre grandi civiltà franco-latina, bizantina e musulmana, divenne teatro di uno scontro di civiltà duraturo, dai caratteri spesso terribili e apocalittici. Un tempo in cui la minaccia di un califfato senza confini che spazzasse via la città di Roma sembrò essere davvero dietro l’angolo, quasi sul punto di avverarsi.

Corriere La Lettura 8.3.15
Parigi 1937, Picasso va all’Expo
L’ultima Rsposizione internazionale prima della grande catastrofe
I padiglioni nazista e sovietico esaltavano l’arte totalitaria
L’Italia fascista schierò l’architetto Piacentini
Ma la Spagna repubblicana portò «Guernica», l’antidoto
di Pierluigi Battista


Si chiamava esattamente Exposition Internationale des Arts et Techniques dans la Vie Moderne . Ed Expò poteva essere solo una comoda abbreviazione; non come ora, cioè con la sigla che oramai tutti usano per una manifestazione del genere, tipo quella che quest’anno sta per aprire i battenti a Milano. Era il 1937, a Parigi, e tutto si svolgeva nei pressi della Tour Eiffel (progettata e nata alla luce di un’altra Esposizione, quella tenuta nel 1889, centenario della Rivoluzione francese) e certo si parlava come è naturale di commercio e di invenzioni, di turisti e di monete. Ma quell’Expo fu soprattutto una straordinaria concentrazione di conflitti ideologici e artistici, il teatro di una grande e intensa guerra culturale.
C’erano gli scienziati e gli imprenditori, come sempre. Ma l’attenzione di tutti era monopolizzata dal genio di Picasso, dal destino di Vasilij Kandinskij, dall’opera dei grandi architetti al servizio dei regimi totalitari, da Louis-Ferdinand Céline. In primo piano spiccavano l’arte, l’estetica, la politica, la guerra. Perché quel 1937 fu un anno pieno di paradossi e di coincidenze. E Parigi fu lo scenario rutilante di uno spietato corpo a corpo ideologico, il «prologo in cielo» della gigantesca guerra che di lì a pochissimo avrebbe incendiato l’Europa e il mondo.
Tutte le immagini tramandate di quel 1937 raccontano il fragore di un urto spettacolare. Sullo sfondo la Tour Eiffel, testimone prestigiosa e memoria storica. Poco distante, di fronte l’una all’altra come promessa di una minaccia vicendevole, due costruzioni massicce, ciclopiche, imponenti, manifestazioni di due opposti progetti di volontà di potenza. La prima era il padiglione tedesco, che doveva celebrare il nazismo trionfante. Un gigantesco parallelepipedo in marmo bianco, sormontato da un’enorme aquila e da un’immensa svastica. Hitler aveva voluto che a costruirlo fosse Albert Speer, l’architetto più amato del regime, che aveva ideato per il Führer i giochi di luce e le suggestioni scenografiche delle grandi adunate naziste e che progettava di fare di Berlino la città santa del Reich millenario. Ma proprio di fronte a quel simbolo della potenza tedesca si ergeva il padiglione sovietico, un colosso di pari dimensioni, di uguale, schiacciante imponenza. Anche in questo caso Stalin aveva voluto un grande architetto, Boris Iofan, il demiurgo che aveva dato prestigio e forza architettonica al comunismo staliniano e che anche per Parigi aveva scelto il gigantismo marziale come contrassegno della potenza totalitaria del regime.
L’altezza dei due padiglioni, 25 metri, era più o meno la stessa. In quello sovietico al posto dell’aquila e della svastica c’erano due fieri lavoratori, forti, invincibili, proiettati nel radioso futuro dell’umanità nuova, secondo i canoni della più scontata iconografia staliniana. Ma i due padiglioni contrapposti, simbolo di un’antitesi politica radicale, di una lotta mortale che non poteva prima o poi concludersi senza la distruzione di uno dei due contendenti, sembrano esteticamente identici. Nemici, ma gemelli: la stessa ostentazione del monumentale, l’adesione alle norme più scontate del neoclassico, le forme quadrate, l’idea dell’arte come qualcosa che deve esaltare un regime e non mostrarne mai le ombre e le debolezze. Tutto questo rendeva straordinariamente simili, sul piano dell’estetica ufficiale, i due poli dell’antagonismo ideologico. Talmente simili che, proprio nel 1937, sia il nazismo che il comunismo raggiunsero l’apice nella guerra contro l’arte «decadente», contro la seduzione delle avanguardie, dell’estetica irregolare e non propagandistica.
Per questo, proprio a Parigi, proprio nel cuore di quell’Esposizione, nel padiglione spagnolo si ritroverà il simbolo di tutto ciò che i due regimi odiavano: Guernica di Pablo Picasso, che segnava un’epoca e che tra i suoi principi compositivi aveva proprio le linee spezzate e stravolte, l’antimonumentalità, l’anticlassicismo.
Sono fiorite tante leggende su Guernica di Picasso. Guernica era la città-martire, rasa al suolo dagli aerei di Hitler, della guerra civile che infuriava in Spagna e che vedeva contrapposte sul campo proprio le due potenze i cui padiglioni si fronteggiavano con tanta minacciosa somiglianza. Quando i repubblicani spagnoli chiesero a Picasso un’opera che nell’Esposizione di Parigi portasse all’attenzione del mondo la causa del governo legittimo spagnolo, Picasso si mise subito al lavoro. Ci sono le fotografie scattate da Dora Maar nell’atelier dell’artista che documentano l’attività febbrile del pittore per arrivare all’appuntamento. Nascono in quei mesi le figure che impegneranno generazioni di studiosi intenti a decifrarne i simboli: il toro emblema della prepotenza, il significato della lampada, il grigio che assomiglia alle foto in bianco e nero di Guernica distrutta, il cavallo che è il popolo oppresso, e così via.
I maligni e i detrattori politici dell’artista hanno detto e continuano a dire che Picasso avrebbe riciclato un lavoro che aveva già in massima parte compiuto e che era stato realizzato en muerte del grande torero Joselito. Ma le fotografie della Maar documentano con molta precisione l’evoluzione convulsa del lavoro di Picasso. Che irruppe con la sua opera all’Esposizione di Parigi, mentre i colossi totalitari si fronteggiavano con le dimensioni monumentali delle loro macchine architettoniche da guerra. Il padiglione spagnolo divenne il rifugio dell’arte libera, che non segue i canoni imposti dai regimi.
Proprio nell’anno 1937 la Germania nazista e l’Unione Sovietica di Stalin avevano stretto le viti della repressione nei confronti dell’arte «astratta», «decadente» e che rappresentava esattamente quello che si voleva cancellare con quei padiglioni giganteschi. A Monaco i nazisti allestirono quella che sarcasticamente è stata definita la più bella mostra di arte contemporanea e che Goebbels decise di battezzare come Mostra dell’arte degenerata : oltre 650 opere confiscate, da Otto Dix a Paul Klee, da Kandinskij a Piet Mondrian, da Oskar Kokoschka a Max Ernst, allo stesso Picasso. Doveva essere la galleria vituperata dello spirito «ebraico», antitedesco, «prodotto di menti malate» e il primo anno, ironicamente, venne visitata da oltre due milioni di persone (mentre quella sull’arte ariana, sponsorizzata dal regime, non raggiunse i 500 mila visitatori).
Nell’Urss di Stalin la scomunica dell’astrattismo di Kandinskij raggiunse invece nel ’37 il suo apice, con il definitivo anatema per un artista che pure aveva vissuto con speranza l’avvento della rivoluzione, ma era riparato ben presto in Germania con il Bauhaus e poi, con il trauma del nazismo, a Parigi, dove, negli ultimi anni della sua vita, scrisse: «È davvero curioso che i nazisti e i comunisti abbiano dimostrato la stessa cecità riguardo all’arte astratta».
Imperava il dogma cupo del «realismo socialista» che doveva imporsi sulla letteratura, sull’arte, sulla musica, conformandosi all’idea che la cultura è solo «un’arma nell’arsenale della lotta della classe lavoratrice». Il ’37 è l’anno in cui Dmitrij Šostakovic con la Quinta Sinfonia cercò di riconciliarsi con le autorità del regime attraverso affermazioni di totale sottomissione («il nostro dovere è il giubilare»). Due anni prima, Stalin era uscito disgustato da Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk rappresentato al Bolshoi, e la «Pravda» partì all’attacco del «formalismo» con un titolo che suonava come una condanna senza appello: «Caos invece che musica». Il «formalismo» era un delitto, la pena il Gulag.
Ecco perché l’arte «libera» di Picasso acquistò una valenza ideologica così spiccata contro i due colossi totalitari nemici dell’arte decadente o degenerata, che si sfidavano con le stesse armi dai rispettivi padiglioni (quello italiano fu invece progettato da Marcello Piacentini, l’architetto più in linea con il fascismo). Uno scontro che calamitò tutte le tensioni, i fanatismi che di lì a poco si scateneranno nella Seconda guerra mondiale. In quell’orribile monumento all’antisemitismo rappresentato da Bagattelle per un massacro , Céline rovesciò sull’Esposizione parigina del ’37 tutto il suo virulento odio per gli ebrei: «La grande giuderia 1937. Tutti quelli che espongono sono ebrei. Tutto quello che comanda, che dirige, che ordina, architetti, grandi ingegneri, direttori, incaricati, tutti ebrei, o mezzi ebrei, o peggio andare massoni. Occorre che la Francia intera venga ad ammirare il genio ebraico. Occorre che la Francia intera si eserciti a morire per gli ebrei». Un condensato di paranoia antisemita che però racconta di come le passioni politiche si fossero scatenate all’ombra della Tour Eiffel, dei due padiglioni totalitari e dell’arte di Picasso.
Certo, c’era la «tecnica» (il padiglione francese esibiva un magnifico aereo che mimava il volo). Ma il tono era di una grande e feroce battaglia politica sull’arte. Picasso contro l’arte totalitaria, in primo luogo. Ma soprattutto un’esibizione di forza. La prova generale per quello che sarebbe accaduto di lì a pochi anni: quando i colossi architettonici diventeranno giganteschi carri armati.

Il Sole Nova 8.3.15
Personaggi, visioni, computer
La rivoluzione di Mario Tchou
di Andrea Granelli


Figlio di diplomatici cinesi entrò in Olivetti su precisa indicazione di Enrico Fermi
Mario Tchou è una figura chiave eppure poco conosciuta della storia olivettiana. Fu lui a guidare l’iniziativa di ricerca e sviluppo di Olivetti nel campo dell’elettronica e fu il suo team a progettare e realizzare l’Elea 9003, «il primo computer a transistor commerciale italiano e uno tra i primi al mondo». Egea ha appena pubblicato un libro – scritto da Giuditta Parolini – che restituisce il merito a questo brillantissimo ingegnere italocinese che a 28 anni era già professore associato di ingegneria elettrica alla Columbia University di New York. Figlio di diplomatici cinesi e nato a Roma – anche se si è sempre considerato fieramente cittadino cinese in viaggio per il mondo anche nelle fasi più buie della storia di quel Paese – entrò in Olivetti nel 1955 sembra su precisa indicazione di Enrico Fermi.
La sua morte improvvisa – in un incidente d’auto – nel 1961, ad appena un anno dall’altra infausta morte improvvisa – quella di Adriano Olivetti –, mise fine a un sogno, quello dell’elettronica dei grandi sistemi. Per fortuna, però, una parte di questo sogno rimase, nonostante lo smembramento e cessione della Divisione elettronica causato dalla crisi finanziaria del 1964. Un piccolo team – capitanato da Pier Giorgio Perotto – rimase in azienda e incominciò a lavorare a un nuovo progetto: un congegno elettronico da tavolo, l’evoluzione naturale – nel mondo dell’elettronica – delle tradizionali macchine da scrivere e da calcolo. E nel 1965 nacque la Programma P101 – il primo computer da tavolo del mondo: “desk-top computer” venne chiamato dalla riviste americane quando venne presentato – con grandissimo e insperato successo, al Bema Show di New York. Torniamo però a Tchou; con lui fu possibile continuare nell’elettronica quei successi straordinari ottenuti nella meccanica. Era un uomo colto innamorato della scienza, dalla curiosità continua, dalla voglia di sapere. Era un’autentica mente indagatrice; ricorda sua moglie: «Per Mario la scienza era un grande gioco, prima che un lavoro. Non smetteva mai di scrivere, prendere appunti, pensare, ma non per produrre il calcolatore, bensì per capire». E questa mente curiosa e incontenibile ben si sposò con un’altra mente versatile e irrefrenabile: quella di Adriano Olivetti, «produttore di idee, oltre che di cose». Tchou portò in Olivetti non solo competenze tecnico-scientifiche, ma anche una grande abilità nell’organizzare il lavoro, nel coordinare squadre di ricercatori verso obiettivi quasi impossibili ma pianificabili. Fondamentale fu anche il metodo adottato per la scelta del team. Giuseppe Calogero – che si occupava di selezione del personale – ricorda che l’Ufficio personale della Olivetti allestì un gruppo di studio per tracciare il profilo dei programmatori: «... persone molto creative, ma al contempo anche problematiche, non perfettamente inserite nella società. Era dunque meglio cercarli tra quanti non erano stati in grado di concludere il proprio percorso di studi, piuttosto che tra laureati e diplomati a pieni voti».
La sfida dell’elettronica fu immensa per una società come Olivetti, che si conquistava le risorse finanziarie vendendo i propri prodotti sui mercati internazionali – pur mantenendo il cuore a Ivrea (vera azienda glocal) – senza nessun aiuto dallo Stato. Ricorda l’autrice le relazioni gestionali di Ottorino Beltrami, a quei tempi direttore della neonata Divisione elettronica: il primo anno è in perdita e il secondo anno raggiunge il pareggio. «Ma si tratta di un risultato fittizio: i costi centrali (servizi, amministrazione eccetera) e il 40% dei costi totali del laboratorio di Pregnana venivano addebitati a Ivrea». Tutto ciò è normale per un’azienda che investe... ma i capitali richiesti erano sempre più ingenti e lo sono ancora di più oggi. Basti pensare che a luglio 2014 Ibm ha annunciato di investire 3 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni in due vasti programmi di ricerca e sviluppo, che si propongono di identificare la tecnologia dei chip necessaria per soddisfare i requisiti posti dal cloud computing e le applicazioni Big data.

Il Sole Domenica 8.3.15
Profumo di donna nei Vangeli
di Gianfranco Ravasi s. j.


«L’importanza sta nel tuo sguardo, più che nella cosa guardata». Penso che questa battuta dei Nutrimenti terrestri di Gide sia il migliore approccio all’uso di un nuovo e imponente commentario ai quattro Vangeli, tradotti e interpretati da altrettante donne esegete, la pugliese Rosalba Manes per Matteo, la campana Annalisa Guida per Marco, la marchigiana Rosanna Virgili per Luca e per l’intera cornice e curatela dell’opera e, infine, la siciliana Marida Nicolaci per Giovanni. Parlo di “sguardo” – che, tra l’altro, etimologicamente suppone anche una custodia amorosa (emblematico il derivato inglese to ward) – perché, strettamente parlando, a prima vista non sembra rilevante che l’esegeta biblico sia maschio o femmina (cosa ovvia anche per le altre discipline storico-critiche o scientifiche).
Infatti, non è forse oggettivamente uguale lo statuto epistemologico dell’approccio alla “cosa guardata”, cioè al testo evangelico? In realtà, c’è un elemento ermeneutico particolare che è appunto lo “sguardo”. Certo, esso – come accade per i filtri visivi – può deformarsi per eccesso o per difetto o per differente morfologia. Così, si è configurata un’esegesi (e una teologia) femminista che ha “guardato” le Scritture Sacre con una lente molto colorata di rosa, già a partire dall’Ott ocento: basti sfogliare The Woman’s Bible in due volumi, apparsi a New York rispettivamente nel 1885 e nel 1898. Ma da lì è fluita anche una corrente vivace, spesso tumultuosa, che ha inondato il territorio esegetico-teologico che era considerato riserva di caccia degli studiosi maschi, soprattutto ecclesiastici.
Qual è, dunque, questo “sguardo”, o se si vuole, il taglio specifico di questi commenti a quei quattro libretti che cumulano nell’originale greco solo 64.327 parole, ma che hanno prodotto intere biblioteche e le 1.700 pagine del tomo che abbiamo ora tra le mani? Diciamo subito che anche queste letture femminili variano ovviamente secondo i diversi stili personali delle autrici. Tuttavia il metodo generale è abbastanza omogeneo e rivela alcune opzioni generali. Preferisce innanzitutto «la lettura sincronica che ha il grande vantaggio di dare un’interpretazione dei macrotesti evangelici». Le mappe iniziali, preposte a ogni Vangelo, fanno subito balenare questi “macrotesti”: l’esegesi si fa, così, “narrativa” (non però, nel senso stretto narratologico) e, quindi, fluente, segnata già da un discorso continuato nel quale sono frammisti i significati teologici, gli spunti tematici e soprattutto le attualizzazioni esistenziali o pastorali.
Si depone in tal modo il manto classico delle “note in calce”, certamente più puntuali e ficcanti ma meno adatte a rivelare l’unità delle pagine, del loro discorrere e della loro comunicazione vitale. Un’altra caratteristica derivata è l’indubbia funzionalità del commento al tenore globale del testo, operando un passaggio dalla mera “informazione” sul messaggio alla scoperta della viva “performatività” dello stesso. Si guadagna, cioè, anche in freschezza, lievità ed efficacia, pur col rischio che talora sia in agguato qualche stilla di enfasi esistenziale. Un esempio preso a caso dal commento a Luca 23 sulle donne lamentatrici che seguono Gesù verso il Calvario. Già il titolo «Lacrime a primavera» è più da “fiction”, ma anche la pur intensa lettura della pagina sconfina nell’eloquenza: «Le donne hanno il coraggio di un altro esodo. Con un segno di croce nell’anima: i figli sciupati, disprezzati, giovinezza di vita al massacro. Snaturamento. Orrore. Le donne sono il resto d’Israele che si accosta pietoso alle brecce della città distrutta, per trasformarle in altari di speranza».
Certo, è lo scotto necessario da pagare anche al fatto che i Vangeli non sono testi asettici, e il loro Cristo – per usare un’espressione del famoso teologo martire sotto il nazismo Dietrich Bonhoeffer – «non è solo per sé ma nel suo riferimento a me. Il suo esser-Cristo è il suo esser-pro me». Legittimo è, perciò, anche il vibrare del dettato di queste pagine, il loro essere ardenti e attraenti, anche adottando i canoni dell’attualità linguistica. Esemplari sono i titoli dei vari brani. Anche qui scegliamo a caso. La «banalità del male», ad esempio, rubrica il processo a Gesù, quando egli va a finire pure «nella tana del lupo», cioè nell’assise sinedrale, mentre si consuma «la triplice amnesia» di Pietro nei confronti del Maestro, alla quale però succedono «il ricordo e il pianto del risveglio». Significativa è l’evocazione della regalità paradossale del Cristo condannato, il «re che non ama i cavalli» (ma gli asini), soprattutto nel quarto Vangelo: «La passione e la morte del Re» approda alla scena finale quando «il corpo del Re viene accolto e deposto». Da allora c’è l’alba di Pasqua ove «discepoli e discepoli sono con le ali ai piedi» e ormai si apre «il cielo sopra Betania» dell’ascensione, mentre la stupenda scena di Emmaus è scandita da una trilogia simbolica incisiva: «la strada, la casa, la mensa».
Tuttavia, anche in questo caso, il tenere sempre vivace, vigorosa e fin briosa la titolatura esplicativa, rispetto alle scialbe didascalie dei soliti commenti, può debordare in qualche ingenuità, come nel denominare il Battista The forerunner o nell’accompagnare l’affacciarsi di Gesù sulla ribalta pubblica col suo battesimo al Giordano con un «Ladies and Gentlemen!» O ancora nel definire lo Spirito divino come «marker d’identità» per Gesù che viene spinto sul «setting esotico» delle tentazioni sataniche, oppure titolare il c. 14 di Luca con un canoro «sapore di sale». Resta, comunque, coraggioso questo costante riavvicinamento del dettato antico alla “periferia” odierna del lettore, liberando l’esegesi e l’approfondimento dalle volute d’incenso, dai lessici inamidati, dalle categorie autoreferenziali degli esegeti tradizionali.
Naturalmente specifica di questo sguardo è l’attenzione alle molteplici pagine “femminili” dei Vangeli che acquistano fragranze inedite nelle riletture qui proposte. In questa linea, Rosanna Virgili, in finale, traccia un bellissimo excursus sulle «presenze femminili nei Vangeli», i cui capitoli – contrariamente all’opinione corrente – sono appunto affollati di donne, anziane e ragazze, madri, suocere e figlie, ebree e straniere, prostitute e borghesi, naturalmente a partire dal volto femminile più intenso, Maria, la madre di Gesù. Il titolo, a prima vista provocatorio, è giustificato da un evento evangelico reiterato che non è necessario citare: «Profumo di donna». Ma anche qui nell’immaginario di molti esso resta forse inchiodato nella memoria piuttosto il rimando all’omonimo film di Dino Risi con Vittorio Gassman o del “remake” Scent of Woman di Martin Brest con Al Pacino, entrambi derivanti dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino... Rimane, comunque, genuina la necessità di varcare i confini del linguaggio stereotipato di stampo ecclesiastico.
A questo punto sarebbe interessante puntare il microscopio sulle scelte specifiche di traduzione e di esegesi, aprendo confronti con esperimenti paralleli. Non dimentichiamo, infatti, che lo scorso anno sono apparsi almeno due commenti integrali ai Vangeli, quello più essenziale e discorsivo curato da Camille Focant e Daniel Marguerat (Dehoniane) e quello più filologico-critico di Klaus Berger (Queriniana), dei quali abbiamo dato conto in queste pagine. Non potendo qui inoltrarci in un orizzonte così specifico, concludiamo ricorrendo a una considerazione di Péguy, giustamente assunta da una delle quattro autrici quasi a vessillo di questo “sguardo” sui Vangeli: «Gesù non ci ha dato affatto parole morte da chiudere in piccole scatole e conservare in olio rancido... Ci ha dato parole vive da nutrire, le parole di vita non si possono conservare che vive... ed è da noi che dipende di farle intendere nei secoli dei secoli, di farle risuonare».

I Vangeli a cura di Rosanna Virgili. Traduzione e commenti di Rosalba Manes, Annalisa Guida, Rosanna Virgili, Marida Nicolaci, Ancora, Milano, pagg. 1.700, € 55,00

Il Sole Domenica 8.3.15
A colloquio con Luciana Castellina
L’uguaglianza? Le donne puntino sulla diversità
«Negli anni Settanta emancipazione voleva dire uguali diritti. Ma non siamo neutri: le differenze vanno valorizzate»
intervista di Eliana Di Caro


Poche case parlano come quella di Luciana Castellina. Attraversarne il lungo corridoio è come infilarsi nel Novecento e percorrerlo dal suo punto di vista. Accanto a libri, enciclopedie, anche in edizioni rare, raccolte (soprattutto di arte, di cui è grande appassionata), si susseguono foto, riproduzioni di manifesti, gigantografie di cortei, comizi, immagini che la ritraggono con capi di Stato, compagni, nel senso sentimentale e in quello politico del termine. C’è l’area cinema, l’altro suo grande amore, e quella della tribù – visto «che “famiglia” è un termine riduttivo» per la combriccola allargata e unita. «Naturalmente c’è Rossana (Rossanda, ndr), che è come una sorella».
Una lunga storia, con i punti di riferimento (Gramsci, Marx, Lenin sulla parete rossa della stanza in cui si raccoglie a scrivere) e le battaglie di una vita. «Quella dell’emancipazione femminile l’abbiamo combattuta per tutti gli anni Settanta in un modo che oggi ritengo sbagliato. Cercando cioè l’uguaglianza, e quindi sopprimendo la diversità femminile. La mia generazione ha passato anni a nascondere di essere donna, a mascherarsi, letteralmente. Il problema non è solo avere dei diritti ma avere un’identità. E questo è il punto che si pone oggi, che cosa si celebra l’8 marzo: vogliamo uguali diritti ma l’espressione è ambigua, perché tra uomini e donne, malati e sani, giovani e vecchi ci sono enormi differenze e la nostra democrazia deve tutelarle, e non far finta che non esistano. Lo si è capito negli anni Ottanta, quando c’è stata una valorizzazione della femminilità e si è riconosciuto che la diversità non era un segno di debolezza». Non è un discorso semplice da accettare, proprio ora che sembra stia nascendo una nuova consapevolezza delle possibilità di affermazione delle donne nel mondo del lavoro, dove le differenze restano ma sempre a loro svantaggio. «Le donne fanno i magistrati, i medici, escono la sera, fanno l’amore quanto gli pare, ma non si è vinta la sfida della modifica della società. L’organizzazione sociale e il modello di essere umano non è neutro, c’è l’uomo e c’è la donna: e invece la donna si è sempre più virilizzata. Quanti sono gli uomini manager? Circa il 90 per cento. E tra le donne quante diventano manager? Il 30. Perché l’idea del lavoro è tutta calcata sul modello maschile: e invece la condizione non deve essere paritaria, come l’organizzazione che deve tener conto delle differenze di genere. Ma è un passo in avanti che possono compiere solo le donne. Del resto, se penso a ciò che abbiamo ottenuto in Italia, alla battaglia dell’Udi e della Cgil nel 1950, con la legge Teresa Noci sulla maternità (diritto di stare a casa 5 mesi, periodi di riposo per l’allattamento), beh l’abbiamo fatta noi: era la legge più avanzata d’Europa», conclude con foga.
Eppure, a quei tempi, anche a sinistra non c’era un’atmosfera di grande apertura verso le donne e le tematiche femminili. «Il Partito comunista era una forza tradizionale, c’era una massiccia presenza contadina con un forte conservatorismo al suo interno. Ricordo la spaccatura negli anni Sessanta con i Radicali sul divorzio, a cui il Pci era contrario: ma Pannella e gli altri non capivano che per le donne borghesi era un conto, per quelle delle altre classi sociali era un altro, il divorzio non era economicamente sostenibile, andava prima cambiato il diritto di famiglia».
Certamente l’ambiente del «Manifesto» lo si immagina più paritario ed egualitario, dal punto di vista delle relazioni e del rispetto delle posizioni espresse da una collega. «Al “Manifesto” erano tutti più giovani, l’approccio era diverso, le donne contavano di più, erano più ascoltate, benché anche lì Lotta Continua – per esempio – pensava che temi femministi o ecologisti distraessero dalla lotta di classe, fossero un tradimento delle questioni più serie». Un linguaggio che suona obsoleto e quasi strappa un sorriso, se non fosse che siamo costretti a ricorrere a espressioni come “quote rosa”, nel 2015. «Le quote andrebbero bene se fosse applicata l’indicazione della Cina Rivoluzionaria: il codice che favorisce le donne per compensare secoli di oppressione e che, quindi, garantisce una quota maggioritaria. Ma altrimenti sono offensive. Hanno comunque un valore simbolico, aiutano a pensare che le donne non sono handicappate. D’altro canto trasmettono un’idea sbagliata perché sono assimilate a una struttura politica propria dell’essere umano maschio».
Nella fase che stiamo vivendo, Luciana Castellina deve sentirsi sola, o comunque trovare difficile riconoscersi in una delle forze politiche del nostro Paese. «No, non mi sento sola, l’Italia ha una società dinamica con molteplici iniziative e associazioni. Sono la presidente onoraria di una cosa che si chiama Arci, organizzazione laica meravigliosa. Certo, viviamo una crisi profonda della democrazia, del modello di democrazia garantito dai grandi partiti di massa. Vince Facebook, con un “mi piace” o un “non mi piace”, possibilmente in inglese. La democrazia è uno spazio deliberativo, ma non interessa più ai giovani. La sfida è cominciare a ricostruirla, rendendo il cittadino deliberante e non solo giudicante alla stregua del poliziotto che accusa “quello è un ladro”».
Quando le si chiede qual è stata la battaglia della sua vita, questa elegante signora di 85 anni riesce ancora a sorprendere: «Quella pacifista della crisi dei missili negli anni Ottanta. Una mobilitazione contro la loro installazione da parte dei Paesi della Nato e del Patto di Varsavia che davvero fu europea, perché noi protestammo a Comiso, ma si attivarono i tedeschi nelle loro basi,così i belgi e gli altri. Eravamo in contatto con i dissidenti dell’Est... Ne ho un ricordo forte, di una grande lezione della società civile d’Europa».

Il Sole Domenica 8.3.15
Women studies
Emancipate... e disincarnate
di Lucetta Scaraffia


Per la prima volta il pensiero femminista è analizzato, da un punto di vista originale, ponendo al centro il problema della dialettica fra privato e pubblico. A farlo, con lucidità e precisione, sin dalle origini ottocentesche, è Camille Froidevaux-Metterie, brillante studiosa di scienze politiche.
L’autrice tiene ben presente un’evidenza finora non ammessa dagli women studies, e cioè che il movimento femminista ha costituito una svolta determinante, una “nuova era antropologica”, perché «segna l’affermarsi di una nuova condizione umana nel quadro di una completa riorganizzazione della vita comune». Il processo che segna questa svolta è la desessualizzazione dei ruoli e delle funzioni, uno dei cambiamenti più importanti nella storia umana. Si può quindi affermare senza paura che il movimento femminista ha dato origine a un mondo nuovo, anche se non si può arrivare a dire che gli individui sono esonerati dal doversi concepire come soggetti incarnati e sessuati. In questo senso, il femminismo ha attivato invece – con la teoria del gender – una potente dinamica di disincarnazione, secondo la quale le donne, per liberarsi, devono considerare il loro corpo come il luogo per eccellenza della dominazione maschile. Ma costringere le donne a negare la propria corporeità, afferma Froidevaux-Metterie, vuol dire privarle di un rapporto semplice e positivo che serve loro come principale mediazione con il mondo e con gli altri.
L’autrice ricostruisce il formarsi di una gerarchia naturale fra l’uomo e la donna, che costringe quest’ultima a chiudersi nel privato, sin dalla filosofia greca. Questa è la parte più debole del libro, soprattutto quando tratta delle radici cristiane, ricorrendo a una conoscenza inadeguata della tradizione religiosa a cui si riferisce. Molto ben riuscita invece è la storia di come la nascita del pensiero democratico e dell’individuo trascuri completamente la cittadinanza femminile, senza neppure sentire il bisogno di spiegarne la ragione: la modernità nasce senza le donne. Il pensiero liberale e il primo femminismo (che da questo deriva) non mettono infatti in discussione la separazione tra privato e politico, chiedendo il diritto delle donne a partecipare alla vita pubblica solo in quanto madri.
Sarà solo la seconda ondata della rivoluzione femminista, negli anni Settanta, a mettere in discussione la separazione fra pubblico e privato, scegliendo come obiettivi il controllo della fecondità, l’uguaglianza nel matrimonio e la libertà sessuale. Proclamando che il privato era politico, le nuove femministe hanno posto le basi per un inedito ordine sociale. La famiglia diventa allora il luogo per eccellenza dei rapporti di potere, l’ultimo bastione della supremazia maschile: per sconfiggerla bisognava allora liberare le donne dall’obbligo di essere madri, proponendo modelli alternativi di vita, fino al rifiuto dell’eterosessualità.
Dopo avere distrutto di fatto – con la legalizzazione dell’aborto e la diffusione degli anticoncezionali – l’obbligo alla maternità, le psicanaliste femministe si impegnano a dimostrare che anche l’attitudine materna alla cura nasce da una identificazione in un ruolo non naturale ma imposto dalla società.
Nella post-modernità la famiglia inoltre perde il suo ruolo di punto di contatto fra l’individuo e la società, per diventare solo dominio della vita privata, e questo indebolisce ancora di più il ruolo maschile: il padre, non più capofamiglia, «si presenta ormai come un semplice associato all’interno della coppia». Mentre alle giovani donne niente sembra più impossibile: oggi infatti il mondo sociale è divenuto misto, e anche se questo non vuol dire che sia egualitario, uguale è la spinta irresistibile alla realizzazione individuale.
Oggi non c’è riflessione su come venga vissuto nelle donne l’accumulo dei ruoli pubblico e privato. Se non si ha paura di generalizzare, scrive l’autrice, si può «affermare che le donne apprezzano la loro condizione domestica», cioè amano essere madri e vivere in famiglia, lo scelgono liberamente. Anche se si assiste a un deprezzamento continuo dei compiti domestici e di cura, perché si dimentica come questi possano comportare gratificazioni e piaceri ai quali le donne non vogliono rinunciare, e che anche gli uomini possono desiderare. Con la conseguenza di una defemminilizzazione della sfera intima.
Con le nuove tecniche biomediche la divisione dell’umanità in due sessi perde poi la sua giustificazione biologica: anche se la prospettiva di un utero artificiale è ancora lontana, il fatto di poterlo pensare ha già delle ripercussioni immediate.
In sostanza la logica dell’emancipazione, che vuole cancellare del tutto la componente naturale, induce a una svalorizzazione del corpo femminile. L’autrice propone invece alle donne – e agli uomini – di vivere liberamente il loro essere soggetti incarnati e sessuati, sostenendo che questa è la sfida principale della loro esistenza. La sparizione dei modelli di comportamento sessuale tradizionali fa sì che ognuno oggi sia solo davanti alla necessità di definire la sua singolarità sessuale. Fatto certo inquietante, ma anche fonte di una libertà vertiginosa rispetto alla quale le donne – sempre considerate soggetti concreti e non individui astratti – possono diventare una guida per gli altri.

Camille Froidevaux-Metterie, La révolution du féminin , Gallimard, Parigi, pagg. 384, € 23,90

Il Sole Domenica 8.3.15
I diritti delle donne nel mondo islamico
La speranza dei riformisti arabi
di Sebastiano Maffettone


Il tema dei diritti delle donne è particolarmente delicato e importante nel mondo islamico. La ragione di ciò è semplice. Questi diritti sono rispettati in maniera controversa e parziale in tutto il pianeta, ma sembra che il mondo islamico abbia una speciale difficoltà nell’accettare la parità delle donne sia nel privato sia nel pubblico.
La differenza tra Ovest e Medio-Oriente in proposito risulta del resto evidente se guardiamo alle reazioni critiche che provengono dai “women studies”. In Occidente, il pensiero femminile si forma intorno alla critica del paradigma dominante liberal-democratico. Come è naturale, in un orizzonte così vasto troviamo sia studiose fortemente alternative al paradigma dominante, come Mackinnon e le femministe storiche francesi e italiane alla maniera di Luce Irigaray, sia altre, come per esempio, Okin e Nussbaum, più inclini a riconciliare criticamente il liberalismo politico con i diritti delle donne. Gli stessi studi in Medio Oriente prendono invece una piega diversa. Se leggiamo le più note femministe islamiche, come ad esempio Fatima Mernissi, Ziba Mir-Hosseini, Amina Wadud ci accorgiamo che la loro polemica ha altri obiettivi. Il loro argomento centrale sembra consistere in un’interpretazione critica delle fonti islamiche a partire dalla Sharia. Lo scopo di questo lavoro, che talvolta appare profondo e assai complesso, consiste nel sostenere la tesi che in alcuni Paesi è possibile riscattare la condizione femminile solo all’interno dell’Islam. Se si considerano tesi oramai classiche all’interno del pensiero arabo contemporaneo, come quella del filosofo Al Jabiri, la cosa non sorprende: la “ragione araba” si muove entro l’Islam. La conseguenza è che, per ogni cambiamento rilevante nella società, noi dobbiamo sperare in quelli che io chiamo “riformisti islamici”. Le femministe arabe, di cui ho parlato, rientrano tra costoro. Fin qui, nulla di nuovo. Un dubbio però sorge anche accettando questa pregiudiziale. Le femministe arabe riformatrici di cui ho parlato spesso scrivono per dimostrare la coerenza tra testi islamici e diritti delle donne. Ma questo lavoro richiede un pedigree specialistico che la maggioranza di noi non ha. Inoltre, i testi islamici sono nel complesso generici e ambivalenti (come tutti quelli del genere). Il risultato è che in Occidente, nella maggior parte dei casi, si prendono per buone le conclusioni di complesse investigazioni critiche del pensiero islamico a favore delle donne perché tali conclusioni somigliano all’opinione dominante da noi. E non perché si valuta a fondo l’argomento interpretativo principale.
Simile questione è sovente analizzata nella prospettiva dei diritti umani, considerando tra questi quelli delle donne. Sono note le resistenze dei Paesi arabi ad accettare quegli articoli, che dalla Dichiarazione dei diritti umani Onu del 1948 al CEDAW (acronimo per Convention to Eliminate all forms of Discrimination Against Women), propongono modifiche del diritto e della tradizione islamica in materia di rapporti tra i generi sessuali. La situazione da questo punto di vista è abbastanza chiara. Le costituzioni di quasi tutti i Paesi arabi hanno nel complesso recepito i diritti umani fondamentali che riguardano le donne. La resistenza perciò non viene dalle costituzioni, ma piuttosto dalla legge e dalla cultura tradizionale. Non stupisce così che sia stato scritto molto, nella dottrina internazionale, sui rapporti tra diritti umani riguardanti le donne e le resistenze opposte loro da legge islamica e tradizione culturale. Semplificando al massimo, si può dire che esistano due modi per affrontare la questione: uno “esterno” e l’altro “interno”.
Il modo esterno affida la soluzione del problema alla comunità internazionale. Il modo interno, invece, si basa sull’evoluzione interna al costume e al diritto islamico.
Sono convinto che il modo esterno non sia di regola adoperabile nei confronti di Paesi post-coloniali. Resta il modo interno. Sarebbe a dire la nostra fiducia che il passare del tempo risolverà il problema. Come del resto è avvenuto (in parte) in Occidente. Questa è la soluzione coerente anche con il riformismo islamico di cui si è detto. Il problema con questa soluzione è però abbastanza evidente. Che cosa succederebbe se l’evoluzione del costume e del diritto nei Paesi islamici non andasse nella direzione da noi auspicata? La speranza che un esito negativo non abbia luogo è riposta sia nel lavoro critico cui abbiamo prima accennato sia nella maturazione della società civile dei Paesi islamici in un mondo globalizzato.

Il Sole Domenica 8.3.15
Historia magistra?
Dannate crociate!
di Carlo Carena


Niceta Coniata era figlio di piccoli nobili, nato a metà del XII secolo nella piccola cittadina di Cone in Asia Minore nell’immenso impero bizantino. La sua vita trascorse attraverso gli alti e bassi del suo tempo catastrofico per chiunque, imperatore o contadino, militare o letterato. Fu oratore a corte, alto magistrato e burocrate, finché nella primavera del 1204 il turbine della Quarta Crociata travolse tutto e tutti e il povero Coniata come Enea alla caduta di Troia si carica in braccio i figlioletti e assieme agli altri familiari migra verso Nicea, dove i Bizantini cercano di ristabilire le loro forze. E a Nicea morirà, sessantenne, nel 1217, lasciando un racconto storico e una testimonianza diretta impressionanti – per forza di cose e di fantasia – del suo secolo: «Una delle opere storiche più significative del Medioevo» suggerisce Alexander Kazhdan, bizantinista alla Harvard University, nell’Introduzione all’edizione critica greco-italiana che ne dà la Fondazione Valla-Mondadori. Coniata, ci spiega ancora Kazhdan, «fu un uomo onesto e coraggioso, un grande storico, un grande scrittore, con una capacità tutta sua di afferrare le emozioni della massa e un vocabolario immensamente ricco» La vastità della sua opera è attestata dall’impegno richiesto e profuso in questa stessa edizione, che iniziata nel ’94 si conclude ora col terzo volume, anch’esso curato da Anna Pontani: 200 pagine di greco, 200 di italiano, 200 di note.
La catena degli avvenimenti che si snoda in tutto il corso dell’opera come un turbine ininterrotto culmina in questi ultimi libri, XV-XIX, col racconto autoptico della catastrofe finale, la presa e devastazione della capitale dell’Impero d’Oriente e il destino dei suoi abitanti, quando vi si avventano i crociati occidentali. Francesi e veneziani, partiti per la Palestina su esortazione e con la benedizione di Innocenzo III, essi deviarono verso terreni più pingui e proficui; verso il vacillante e ricco impero dei Romani, come i Bizantini si definivano di fronte a questi europei, spregevoli Latini.
Niceta sciorina una tale quantità di dettagli sull’assedio e sulla loro irruzione nella città del Bosforo da meritare l’entrata ai primi posti in un’antologia dell’horror che, iniziata con gli Edipidi, sembra non avere mai fine. In verità non occorrevano nemmeno doti di scrittore per tracciare pagine imbarazzanti. Lo stesso Innocenzo III nei suoi Gesta accusò i Crociati di non aver rispettato nella loro libidine né età né sesso né religione commettendo in pieno giorno «le azioni delle tenebre». Anche il bottino materiale fu immenso, ori sete velluti arricchirono quegli «stallieri e bovari» trattenuti a stento dai loro capi. Dalla cattedrale di Santa Sofia fu asportato ogni fregio, paramento, reliquia. A loro volta, gli intrecci di parentele e gli intrighi alla corte dei “Romani” si susseguono regolarmente a ogni morte e assassinio di sovrano con poche amene e geniali variazioni negli strumenti e nelle citazioni della Bibbia. Esemplare nel secondo tomo la storia dell’ascesa al trono di Andronico Comneno nel 1181, che nel fasto della regalità e nella sacralità della basilica cristiana, dopo essersi comunicato col corpo e col sangue di Cristo, tesse le lodi del nipote Alessio e poco dopo lo fa strangolare prendendo a calci nell’inguine il cadavere prima di farlo gettare in mare e citando un verso di Omero per cui «non è bello il comando di molti». Alessio aveva quindici anni ed era fidanzato con una principessa francese di undici. Andronico la sposa, lui «un vecchione incestuoso aggrinzito e cadente» e lei «una ragazzina dai seni diritti»: che però ci sta. Niceta, col suo greco massiccio, è altrettanto formidabile nell’uso delle metafore per descrivere tutti questi stati d’animo e questi atteggiamenti, o le rivolte popolari e le danze nelle piazze. In coda a questo terzo volume della Cronaca “di Niceta Coniata Buonanima” si trova anche un suo supplemento di poche pagine dal titolo Le statue: un prospetto riassuntivo dei saccheggi, distruzioni e profanazioni operati in occasione di quella Crociata dai Veneziani a Costantinopoli, «secondo chissà quale disegno del Signore che ha allestito e guida questa nave che è il mondo» e sotto la guida del nuovo patriarca imposto da Venezia, un personaggio bieco «di statura media e più pingue di un maiale all’ingrasso». Gruppi statuari in bronzo della più varia bellezza e fantasia, di dèi e animali furono fusi per farne monete. Così un’Elena splendida come sempre, sorridente con gli occhi vaghi e la chioma al vento; un Ercole di Lisimaco enorme, seduto sulla pelle del leone Nemeo il quale anche nel bronzo lanciava sguardi terribili, e col braccio mancino appoggiato sul ginocchio non come un atleta ma come un filosofo e come un qualsiasi mortale piangendo sulle proprie sventure... Ultimo sfregio a una civiltà, compiuto «da barbari analfabeti», impazienti perfino per la lentezza con cui Dio ritardava le loro conquiste. Quando parla di loro Niceta ha il vigore e lo sdegno mutuati dagli antichi profeti, e come un antico profeta piange ad alti toni per la desolazione di chi un tempo illustre è ridotto senza città e senza focolare.

Niceta Coniata, Grandezza e decadenza di Bisanzio, 3 volumi, Fondazione Valla-Mondadori, € 30,00

Il Sole Domenica 8.3.15
Conquiste dell’Illuminismo
Liberi di pensare apertamente
Patrizia Delpiano racconta l’ostilità religiosa e politica (soprattutto in Italia) nei confronti della libertà di parola
di Massimo Firpo


Il primo paese europeo ad abolire la censura preventiva fu l’Inghilterra, nel 1695, all’indomani della «gloriosa Rivoluzione» che, con la cacciata gli Stuart, aveva visto l’affermarsi di un sistema politico molto diverso rispetto all’assolutismo dei re per diritto divino imperante sul continente. Era passato mezzo secolo da quando nel 1644 l’Areopagitica di John Milton aveva rivendicato la libertà di stampa nel crogiolo di un’altra e più sanguinosa rivoluzione, conclusasi con la decapitazione di Carlo I e con il Commonwealth cromwelliano. Proprio con lo sguardo volto al modello inglese, alle sue libertà, al suo pluralismo religioso nel 1733 Voltaire pubblicò a Londra le sue Letters concerning the English Nation, apparse in francese l’anno dopo con il titolo di Lettres philosophiques, che evoca l’emergere di nuovi protagonisti – i philosophes appunto – di una cultura nutrita dei succhi deisti, libertini e radicali che avevano innervato la crisi della coscienza europea tra Sei e Settecento: una crisi maturata sullo sfondo del definitivo esaurirsi delle guerre di religione, del cupo tramonto del lungo regno del re Sole Luigi XIV, della dirompente ascesa politica e culturale dell’Inghilterra di John Locke, Isaac Newton, John Toland, Anthony Collins e delle Province Unite di Baruch Spinoza, Jean Leclerc, Pierre Bayle. L’Illuminismo francese avrebbe sviluppato tali tensioni intellettuali in direzioni molteplici, fino ad approdi esplicitamente atei e materialisti, dando ad esse una sempre più consapevole dimensione politica nell’affrontare questioni che implicavano l’affermarsi di diritti umani sottratti al controllo del potere, politico o religioso che fosse. Per questo Denis Diderot, l’ideatore e animatore di quel vero e proprio monumento delle Lumières che fu l’Encyclopédie (1751-1772), ripeteva che se gli fosse stato impedito di parlare di politica e religione non avrebbe avuto più niente da dire. Al primato di uno spirito critico fondato sulla ragione, insomma, non tardò ad affiancarsi la rivendicazione del diritto al suo uso pubblico, al libero confronto delle idee, con un decisivo passaggio dalla libertà di pensiero alla libertà di espressione. Proprio per questo, com’è noto, molti di quei philosophes, tra i quali gli stessi Voltaire a Diderot, sperimentarono le durezze del carcere.
Non stupisce che la questione della censura diventasse cruciale in questo turbine di rinnovamento intellettuale, né che a difesa di essa si schierassero le autorità politiche e religiose, pur in conflitto giurisdizionale tra loro in merito al controllo della stampa. Furono solo re Gustavo III di Svezia nel 1766 e in parte l’imperatore Giuseppe II nel 1787 a seguire l’esempio inglese, non certo Luigi XVI di Francia, né Federico II di Prussia o Caterina II di Russia, che pure si erano atteggiati ad ammiratori di Voltaire e Diderot. Ed è in questa vicenda storica che Patrizia Delpiano guida il lettore, studiando il dipanarsi di discussioni e polemiche in Francia e in Italia attraverso le voci sia degli illuministi sia dei loro avversari, laici ed ecclesiastici, consapevoli dell’importanza della questione per il controllo dell’opinione pubblica (una nuova e dirompente realtà settecentesca) e per l’educazione della gioventù. Numerosi furono per esempio i romanzi volti a dimostrare come dalle eversive dottrine degli esprits forts illuministi, non più frenate dai necessari argini della censura, fosse scaturita una cultura neopagana e libertina, convinta di poter fare a meno di Dio, priva di ogni freno morale, dissolutrice della famiglia, della religione, della società e dello Stato. Tutt’altro che unanimi furono peraltro le voci degli antiphilosophes, con i giansenisti – per esempio – pronti a denunciare nel probabilismo e nel lassismo dei gesuiti una delle cause del relativismo che aveva finito con il mettere in discussione i fondamenti più sacri della Rivelazione e della fede cristiana.
È significativo che siano gli avversari dei Lumi a farla da padrone nelle pagine dedicate all’Italia, sede del papato, con la sua pretesa di esercitare un supremo magistero universale, e sede dell’Inquisizione romana, il tribunale istituito nel 1542 per combattere la diffusione delle eresie protestanti, il cui potere era peraltro limitato alla sola penisola. Il che contribuisce a spiegare non solo la netta prevalenza delle voci ecclesiastiche nel coro degli antiphilosophes, ma anche la tenace, irriducibile convinzione di molti tra questi ultimi che le matrici di quelle idee anticristiane risiedessero ancora nelle eresie di Lutero e Calvino: di qui il tentativo di esorcizzarne le eversive novità inglobandole in schemi già noti e limitandosi quindi a ribadire condanne già formulate e a esecrare l’empio «tollerantismo», con una sorta di pregiudiziale rifiuto di riconoscere nella filosofia dei Lumi quella modernità che pure essi erano chiamati a contrastare e battere in breccia, e di cui si ostinavano a denunciare – come già Bellarmino alla fine del ‘500 – le origini forestiere e la dipendenza da «oltramontani ingegni», incompatibili con le salde tradizioni cattoliche degli italiani, cui ardivano insegnare «a pensare, a parlare, et anche operare liberamente», come denunciava nel 1766 un corrucciato inquisitore. Anche in Italia, tuttavia, i tempi stavano cambiando, come indica il fatto che nel 1770 si potesse deridere in versi sulfurei un autorevole polemista e consultore del Sant’Ufficio come il domenicano Tommaso Maria Mamachi, delle cui censure «ognuno prendane / giuoco e sollazzo: / Mamachio è un asino, / Mamachio è un pazzo».
Certo, nella Milano di Pietro Verri e Cesare Beccaria si poteva scrivere che ben pochi ormai si curavano di quel che si condannava a Roma, ma resta il fatto che dal Cinquecento al Novecento gli Indici dei libri proibiti continuarono a susseguirsi uno dopo l’altro, offrendo un sempre più nutrito catalogo di tutto il pensiero moderno, e che ciò influì profondamente sulla cultura italiana. Non solo e non tanto per l’effettiva efficacia di quegli scontati divieti, facilmente eludibili ed elusi, ma per l’implicita sollecitazione all’autocensura, alla prudenza, al conformismo che essi comportavano. Proprio questo, d’altra parte, essi intendevano essere, come spiega Patrizia Delpiano nel rispondere a quanti hanno invece sottolineato il continuo processo di negoziazione tra autori e censori, depotenziando il vigore della polemica illuministica per la libertà di stampa: «Tra l’etica del silenzio, che tendenzialmente implicava un’adesione (convinta o subita) alla norma proibitiva, e la libertà di scrivere, si trova il vasto campo occupato dalla pratica dell’autocensura e della sofferta autocorrezione dei propri testi». Ed è su questi crinali sfuggenti e talora ambigui che teoria e prassi della libertà disegnano, ieri come oggi, i propri mutevoli e spesso aggrovigliati percorsi storici.

Patrizia Delpiano, Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, pagg. 206, € 22,00

Il Sole Domenica 8.3.15
Medicina narrativa/1
Bambini chiusi in sé stessi
Cause genetiche e cause ambientali concorrono nell’autismo: che va «raccontato» in tutti i suoi aspetti
di Fabrizio Benedetti


L’interazione sociale rappresenta sicuramente una delle chiavi del successo evolutivo della specie umana. La comunicazione tramite il linguaggio parlato e scritto, l’apprendimento per imitazione, nonché comportamenti quali l’empatia e l’altruismo, sono tutti espressione di una socialità che ha da sempre pervaso la storia dell’uomo. Dall’interazione e comunicazione sociale è nato l’uomo moderno, i suoi complessi comportamenti prosociali, come la compassione e la valorizzazione dei diritti umani, ma anche la velocità della diffusione delle informazioni per una migliore cooperazione fra differenti individui e differenti culture. È per questo motivo che le alterazioni del comportamento sociale sono oggi di grande interesse per comprendere la natura dell’uomo e la sua evoluzione. Spicca fra queste l’autismo, meglio definito come «disturbi dello spettro autistico», in cui il punto centrale è l’assenza di socialità, l’incapacità di interagire con gli altri, la parziale o totale assenza di comunicare.
Il termine «disturbi dello spettro autistico» rivela la moltitudine dei sintomi e dei comportamenti che possono essere presenti, ma che hanno come elemento comune l’asocialità. Il bambino autistico può mostrare un deficit della comunicazione verbale, oppure una mancanza di apprendimento per imitazione, o anche un rifiuto della relazione con gli altri. Possono essere presenti anche atteggiamenti ossessivi, nonché comportamenti stereotipati con una spiccata resistenza ai cambiamenti. Insomma, in una singola frase si potrebbe dire che il bambino autistico è un bambino chiuso in se stesso, restìo all’apertura col mondo che lo circonda.
Secondo l’ipotesi del cervello sociale, la dimensione dell’encefalo è correlata alle dimensioni del gruppo sociale e alle relazioni sociali. Le relazioni affettive sono assai impegnative dal punto di vista cognitivo, e ciò produce un grande aumento di sviluppo della corteccia cerebrale. Ciò è particolarmente evidente nei primati non umani, dove il volume della corteccia cerebrale è correlato al grado di complessità sociale, per esempio al tipico comportamento di spulciamento fra un individuo e l’altro. Per tale motivo, le neuroscienze considerano oggi l’autismo come una delle sindromi più interessanti per comprendere come e da dove origina il comportamento sociale. Nonostante l’interesse e gli sforzi compiuti dalle neuroscienze per capire l’origine dell’autismo, i meccanismi cerebrali sono oggi poco conosciuti. Sono state avanzate molte ipotesi, da un’alterazione dei neuroni specchio, responsabili dell’osservazione e imitazione degli altri, al coinvolgimento di diverse regioni cerebrali, come il cervelletto, fino al ruolo dei geni, considerando che la frequenza di autismo in gemelli monozigoti (dallo stesso uovo, quindi con uguale Dna) è del 92% contro il 10% in gemelli eterozigoti (da cellule uovo differenti, quindi con Dna non identico).
Tuttavia, così come avviene in molte patologie neuropsichiatriche, anche l’ambiente gioca certamente un ruolo fondamentale. Per esempio, mentre un Dna simile è responsabile di una frequenza di autismo del 38%, vivere in un ambiente simile aumenta la frequenza al 58%. L’ipotesi oggi più probabile sulla natura dei disturbi dello spettro autistico vede quindi coinvolti sia fattori genetici che ambientali che, nella loro globalità, sono in grado di modificare il cervello e quindi il comportamento sociale.
Ma l’autismo può essere anche narrato, come dimostra il recente Il bambino che parlava con la luce di Maurizio Arduino, uno dei massimi esperti italiani sull’autismo. In questo libro l’autore ci mostra la realtà di quattro bambini autistici, ci racconta le loro percezioni, e ci fa entrare nel loro mondo con una narrazione discreta ed efficace al tempo stesso. Silvio è un bambino affascinato dalle luci. È sufficiente il riflesso del sole su di un granello di polvere per isolarlo dal mondo esterno,per racchiuderlo in un suo mondo interiore senza alcun contatto con gli altri. Invece Cecilia è attirata dai movimenti. Un nastro si muove, rotea, oscilla nell’aria. Cecilia lo osserva e si estranea dall’ambiente che la circonda, si chiude in se stessa e continua ad osservare quell’oscillazione con ossessione. Elia ha una spiccata sensibilità agli stimoli sensoriali. I suoni, i colori, le voci, gli odori li affronta muovendosi, agitandosi, correndo. Solo così riesce a trovare la calma interiore. Matteo non interagisce, non parla, non gioca con gli altri bambini, ed è bravo in matematica. Sa fare bene le quattro operazioni e le radici quadrate. I suoi amici non riescono a fare la divisione ma sanno giocare. Matteo invece, pur con le sue abilità numeriche, non sa farlo.
Accanto a queste squisite storie, il libro ci racconta le fatiche, le frustrazioni e le rinunce di chi vive accanto a questi bambini, dai genitori a tutte le loro famiglie. E non si risparmia neppure nel racconto dei tentativi, dei successi, dei fallimenti degli operatori sanitari alla disperata ricerca di trattamenti efficaci che in qualche modo possano essere d’aiuto. La comprensione di una sindrome così complessa, affascinante e misteriosa può forse venire solamente da un connubio fra scienza e narrativa, dove i meccanismi cellulari fanno da complemento alla realtà soggettiva del bambino malato, e viceversa. L’autismo è solo un esempio di una serie di patologie neuropsichiatriche dove tale connubio dovrebbe essere la regola. La scienza non deve negare l’utilità della narrativa in medicina, né la narrativa deve negare le scoperte della scienza. Sebbene ciò possa sembrare abbastanza ovvio, purtroppo non è sempre così, e i due approcci rimangono spesso arroccati nei loro torrioni, sordi e ciechi ad altre realtà. Penso che abbattere questo muro sia una priorità per la scienza e la cultura moderna, la sola che può portare alla comprensione di patologie complesse e a trattamenti efficaci. E penso che il libro di Maurizio Arduino sia un eccellente tentativo di fare ciò.

Maurizio Arduino, Il bambino che parlava con la luce, Einaudi, Torino, pagg. 292, € 18,00

Il Sole Domenica 8.3.15
Medicina narrativa/2
Il bravo dottore che ascolta
di Gilberto Corbellini


La medicina narrativa va di moda. Ma cos’è? Si tratta, in sintesi, dell’idea che il racconto in chiave personale o soggettiva della malattia e della salute concorra a migliorare l’efficacia della medicina. C’è un modo discutibile e uno buono di valorizzare la dimensione narrativa in medicina. Fa un cattivo servizio alle persone e alla loro salute pubblica chi, attraverso varie forme di letteratura e insegnamento, diffonde o accredita le narrazioni di cure irrazionali, spontaneistiche o pseudoscientifiche. Lasciando da parte chi mette l’omeopatia o la psicoanalisi sullo stesso piano epistemologico della farmacologia, rimane il fatto che una critica non ponderata del cosiddetto modello biomedico della malattia può aprire la strada a incursioni da parte di idee pseudoscientifiche. Lo si è visto con i casi Di Bella e Stamina.
La medicina narrativa che si è meglio radicata nel mondo medico è quella che presuppone l’uso delle migliori conoscenze e tecnologie mediche, lavorando con il paziente per adattarle anche alla biografia e alla psicologia di quest’ultimo. In questo modo, per esempio, l’intende il cardiologo Alfredo Zuppiroli, che inizia il suo libro raccontando di una paziente che ha sviluppato una fibrillazione atriale a partire anche da condizioni personali di ansia e depressione dovute a sentimenti di inadeguatezza. La storia contiene effettivamente più informazioni sull’episodio clinico di quante se ne possano ricavare dall’elettrocardiogramma: «Sentivo per la prima volta il mio cuore, mi sembrava un uccello ferito, come se un’ala battesse normalmente, ma l’altra non seguisse lo stesso ritmo... quest’uccello ogni tanto planava, si riposava, ma dopo poco il battito delle ali riprendeva violento e non coordinato». Le riflessioni di Zuppiroli ruotano intorno al problema che i medici sono formati per raccogliere fatti depurati da qualunque soggettività. Quando, invece, tutto dimostra che la soggettività, cioè le risposte comportamentali psicologiche o culturali, agli stimoli dovuti al disturbo o al contesto nel quale quel disturbo è vissuto, sono una componente ineliminabile della storia clinica di una malattia.
«Da molti anni sappiamo come il medico concentri la sua attenzione sui dati oggettivi e tenda a trascurare quella parte della storia che sembra trascendere il fatto. Non si spiegherebbe altrimenti come il medico intervenga a interrompere il racconto del paziente in media dopo sedici secondi e che meno del due per cento dei pazienti, una volta interrotti, riesca a completare il racconto che aveva in mente». Sono ormai diverse le ricerche da cui si evince che quasi mai il paziente ha tempo di raccontare perché si è recato dal medico, esponendo le ragioni che si era preparato. E ci sono prove che questa abitudine del medico di indirizzare il colloquio, invece di ascoltare, è all’origine della perdita di informazioni utili per la diagnosi, il trattamento e la prognosi.
Esiste una letteratura empirica cospicua da cui si evince che i tempi che scandiscono una visita medica e le variabili comportamentali leggibili dal paziente come attenzione e rispetto, cioè ascolto e simpatia/empatia, migliorano il soddisfacimento del paziente, senza alcun detrimento per la professionalità e l’efficienza medica. Anzi. Da diversi anni negli Stati Uniti e anche presso alcune scuole mediche europee si è valorizzata una formazione avanzata dei medici che migliori le capacità comunicative in generale o da applicare in contesti specialistici.
Ma perché il medico che comunica meglio appare, e spesso è più efficace? Perché come sosteneva Michael Balint nel lontano 1957: il medico stesso è il primo e principale farmaco per il paziente. E anche questa è una vecchia storia, che affonda le radici nell’antropologia evoluzionistica della malattia e della cura. Balint, psicoanalista ungherese, è stato il primo a studiare empiricamente il rapporto-medico paziente, partendo da gruppi di medici di medicina generale che si incontravano regolarmente negli anni Cinquanta alla Tavistock Clinic di Londra, per discutere le esperienze di consultazione e quindi riflettere sul loro lavoro e su come gestire i sentimenti e le reazioni psicologiche suscitate da tali esperienze. I risultati di quello studio sono diventati in un libro molto influente presso la cultura medica anglosassone, e che oggi può essere attualizzato senza che il suo messaggio sia percepito come una limitazione per il rafforzamento dello statuto scientifico della medicina. La nuova edizione del libro, pubblicata da Giovanni Fioriti, è arricchita e aggiornata da opportune note di Francesco Benincasa, che riconducono molti dei fenomeni descritti da Balint a processi neurobiologici sottostanti alle espressioni psicologiche delle condizioni cliniche, così come a processi che modulano i comportamenti del medico in termini di cosiddetta empatia.
Le dimensioni psicologiche e culturali della malattia sono mediate da comportamenti che mettono in atto predisposizioni cognitive ed emotive umane che possono essere ricondotte a schemi di funzionamento del cervello, e che si attivano anche in rapporto alle storie personali, in rapporto alle quali quelle predisposizioni evolutive sono modulate e trovano una loro funzionalità benefica. Le narrazioni sono utili, quando lo sono, perché lavorano attraverso il funzionamento integrato dei processi di comunicazione, e fanno leva sul bisogno spontaneo di trovare un senso alla minaccia che un disagio o che una malattia rappresenta. Ma non sono giustificati compromessi con dottrine pseudomediche, che attraverso la critica al riduzionismo o la segnalazione dei limiti del modello biomedico della malattia aspirano a legittimare delle superstizioni.

Michael Balint, Medico, paziente e malattia, a cura di Francesco Benincasa e Mario Perini,
Giovanni Fioriti Editore, Roma,
pagg. 388, € 34,00
Alfredo Zuppiroli, Le trame della cura. Le narrazioni dei pazienti e l’esperienza di un medico per ripensare salute e malattia, Maria Margherita Bulgarini, Firenze, pagg. 142, € 14,00

Il Sole Domenica 8.3.15
Il futuro del cervello
La mappa delle connessioni
di Arnaldo Benini


Nel 1996 il campione del mondo di scacchi Garri Kasparow sconfisse con un po’ di fatica il computer Deep Blue. L’Ibm investì 20 milioni di dollari per arricchire di 600.000 partite la memoria del super-calcolatore. L’anno dopo Deep Blue sconfisse Kasparow. Il filosofo John R. Searle considera la vicenda tutt’altro che banale (New York Review of Books, 9 Ottobre 2014).
Kasparow giocava cosciente delle possibili mosse e con l’intelligenza di combinarle. Deep Blue lo sconfisse senza essere cosciente di nulla. A che cosa serve allora la coscienza? Searle dice che la coscienza serve, ad esempio, per costruire un marchingegno come Deep Blue, che non sarebbe mai in grado di costruirsi da solo e le cui capacità sono diverse da quelle del cervello: esso reagisce alla mossa dell’avversario perché la coscienza di chi l’ha costruito gli ha messo nella memoria mosse e contromosse, che altrimenti non sarebbe stato in grado di combinare. I meccanismi di Deep Blue non hanno nulla in comune con quelli della coscienza. I supercalcolatori giocano a scacchi meglio del più grande dei campioni, scrive lo scienziato Anthony Zador, ma non sono in grado di caricare una macchina lavastoviglie. L’apporto dell’informatica allo studio del cervello è uno dei temi cruciali delle neuroscienze contemporanee e di esso il libro curato dallo psicologo G. Markus e dal neuroscienziato J. Freeman si occupa con contributi interessanti e in parte contrastanti. Esso raccoglie le opinioni di 20 neuroscienziati e di un filosofo che conosce le neuroscienze (Ned Block) su che cosa verosimilmente si saprà del cervello e dei meccanismi della coscienza fra circa 20 anni. Christof Koch e Gary Marcus si spingono fino al 2064, immaginando di scrivere allora la storia delle neuroscienze a partire dal 1964.
Altro tema ampiamente trattato nel libro è l’apporto delle varie tecniche della visualizzazione cerebrale (risonanze, tomografie computerizzate, elettroencefalo e magnetoencefalografie) allo studio dei meccanismi cognitivi, sulle quali due anni fa è uscito un libro eccellente (cfr. Sole 24 Ore Domenica del 18 agosto 2013). Il neuroscienziato David Poeppel ribadisce, nel libro di Markus e Freeman, l’ammonimento circa i limiti dell’informazione (per altro preziosa) della visualizzazione cerebrale: essa consente la localizzazione delle aree corticali attive in ogni evento, e ciò è un dato indispensabile per capirlo, ma non ne fornisce la spiegazione.
Se si ascolta musica, si attivano particolari centri che rivelano, ad esempio, se essa piace, ma non si capisce se è Mahler, Verdi o Armstrong. Si correlano aree cerebrali attive in eventi della coscienza, senza poterne afferrare il contenuto. «Localisation» dice Poeppel, «is not explanation». Circa l’apporto dell’informatica allo studio dei meccanismi della coscienza, essa dovrebbe, innanzitutto, raccogliere l’immensa quantità di dati della ricerca neuroscientifica, non applicando loro un’etichetta, ma distribuendoli secondo criteri che Krishna V. Shenoy, in un brillante contributo, chiama «Levels of Abstraction».
Essi dovrebbero distribuire e selezionare pubblicazioni e dati secondo ciò che è indispensabile sapere dell’evento cerebrale che si studia. La causa della limitata conoscenza del funzionamento generale del cervello è vista da alcuni autori nella scarsa documentazione circa le strutture intermedie fra le aree corticali, specie della neo-corteccia, e i neuroni che le formano. I neuroni, ad esempio, sono di migliaia di tipi, anche se apparentemente impiegati nella stessa funzione, e altrettanto vale per i molti miliardi di sinapsi, che impiegano oltre cento neurotrasmettitori. Si rivela importante il ruolo delle innumerevoli cellule della glia, supporto alle sinapsi e alla neurogenesi e capaci di deboli potenziali d’azione del cui significato e funzione si sa poco. La simulazione al computer di aree corticali e dell’intrico delle loro connessioni nella forma di atlanti aiuta la comprensione del funzionamento del cervello, senza comunque poter risolvere, avverte Ned Block, il problema di come la mente funzioni. La mappa delle connessioni del cervello umano è una delle sfide scientifiche più ardue. La simulazione, anche parziale, di un cervello dei più piccoli comporta la formazione di modelli di proteine, cellule, sinapsi, circuiti intra-ed extracellulari e di aree complesse, in gran parte ancora poco conosciuti. Le cellule sono studiate fino al livello dei loro organuli. Come trasferire tutto ciò, di cui si ha una conoscenza incompleta e continuamente rivista, nel cervello-computer? Il cervello non è in grado di costruire il suo duplicato artificiale perché non sa quasi nulla di come funzionano i suoi meccanismi della coscienza e quante migliaia di tipi di neuroni siano attivi. Inoltre molti dati sperimentali provengono da cervelli di animali, spesso di topi, che forniscono molte informazioni, ma verosimilmente non tutte esaurienti, sul cervello umano. Particolarmente pregevoli sono i contributi dei coniugi May-Britt e Edward Moser sulla ricerca dei meccanismi nervosi della categoria dello spazio, premiata con l’ultimo Nobel, e di Andrea Carandini sulla necessità di trovare «il ponte» fra la miriade dei circuiti nervosi e percezione, pensiero e com-portamento. Pregevole il saggio sulla neurolinguistica di Daniel Poeppel. Gli autori sono presentati come neuroscienziati leaders nel mondo: di protagonisti ne mancano diversi che avrebbero avuto cose interessanti da dire. È ignorato il lavoro relativamente recente della neuroetologia, che acquisisce dati importanti sui meccanismi cognitivi studiando con metodologia ingegnosa il comportamento di animali (anche piccolissimi) e dell’uomo. Pur con questi limiti, il libro è informativo e conferma che la ricerca neuroscientifica procede con una strategia condivisa che consentirà di raccogliere dati rilevanti, senza per altro che ci si possa aspettare eventi rivoluzionari. Forse riuscirà a costruire calcolatori in grado di simulare alcuni circuiti nervosi, ma non l’intero cervello. Non c’è traccia, nel libro, dell’irritante neuromitologia di tante pubblicazioni divulgative. Qui hanno la parola scienziati che, pur con opinioni talora divergenti, non hanno difficoltà a riconoscere i limiti della loro disciplina. Niente fantasie, per intenderci, circa la possibilità di capire il pensiero altrui o di misu-rare lo stato di coscienza. Del cervello si saprà di più, anche se la comprensione di come la sua attività elettrochimica diventi un contenuto della coscienza non sembra alla portata dei meccanismi cognitivi della coscienza che si studia.
ajb@bluewin.ch

G. Markus, J. Freeman (Curat.), The Future Of The Brain Essays By The World’s Leading Neuroscientists, Princeton University Press, Princeton Oxford, pagg. 284, € 33,00