lunedì 9 marzo 2015

Corriere 9.3.15
Viaggio negli ospedali psichiatrico giudiziari
Gli ultimi internati della nostra storia
Così finisce un’idea di detenzione
Viaggio tra i folli che tornano a noi
Il 31 marzo è prevista la chiusura degli Opg
Le incognite sul futuro
Per i soggetti considerati gravi nuove «residenze» affidate alla Sanità
di Paolo Giordano

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Corriere 9.3.15
Che ci fanno ancora qui?
Dentro l'ospedale giudiziario di Aversa. Uno dei sei rimasti in Italia
Dovevano chiudere entro il 31 marzo 2013 e invece sono ancora funzionanti
di Fulvio Bufi

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La Stampa 9.3.15
Italicum, Giustizia e unioni civili
Il percorso a ostacoli dei renziani
di Francesca Schianchi

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Corriere 9.3.15
Le parole del leader e il popolo sovrano (atto secondo)
di Antonio Polito


Quando Berlusconi era in auge soleva ritorcere contro i suoi avversari, come ha fatto ieri Matteo Renzi, che «la sovranità appartiene al popolo»: intendendo, più o meno, che apparteneva a lui in quanto vincitore delle elezioni. Tant’è che l’allora presidente Napolitano dovette ricordargli che il primo articolo della Carta va letto nella sua interezza: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Contrapporre la «volontà del popolo» al Parlamento non è infatti nello spirito della Costituzione. Del resto oggi il popolo viene invitato a esercitare la sua sovranità per ridursela, visto che con la riforma perderà il potere di eleggere una delle due Camere. E alla fine del calvario delle riforme ci sarà sì il referendum popolare promesso da Renzi, ma solo perché in Parlamento non si sono raggiunti i due terzi richiesti dalla Costituzione.
È dunque più utile chiedersi perché, a partire da domani alla Camera, quella maggioranza ampia mancherà ancora una volta. E qui si esce dal campo della razionalità costituzionale e si finisce in quello ben più caotico della lotta politica. Il Berlusconi che ha ieri annunciato il suo voto contrario ha votato a favore fino all’altro ieri. La metamorfosi da padre delle riforme a suo accanito oppositore ha dunque solo una spiegazione contingente. A Berlusconi sta succedendo con il Pd di Renzi ciò che succedeva al vecchio Pd quando faceva accordi con Berlusconi: un’emorragia di voti. E siccome tra qualche settimana ci sono le Regionali, a Montecitorio andrà in scena un complicato tentativo di fermarla.
Il fatto è che tre anni sono troppi per tenere insieme una maggioranza costituzionale. Le riforme avviate alla metà del 2013 vedranno il referendum, se va tutto bene, alla metà del 2016. Un’era geologica, in cui interi partiti fanno in tempo a nascere, a morire, o a cambiare radicalmente idea. Ragion di più per dire, se davvero Matteo Renzi ce la farà ad arrivare fino in fondo e qualsiasi sia il giudizio di merito, che si sarà trattato di un miracolo.

il Fatto 9.3.15
Essere fedeli al partito o all’Italia?
Ministri, onorevoli e dirigenti Pd e la paura di dissentire
di Ferruccio Sansa


Ministri, onorevoli, dirigenti. Tanti nel Pd dissentono. Ma non agiscono. Conta, però, più la fedeltà al partito o ai propri ideali e ai programmi? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e di coraggio anche a costo di un sacrificio personale?

Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono”. Vero, ha ragione l’alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D’Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso. Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme - quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi. E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell’assessore Anna Marson.
Perché fanno così? Certo, c’è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C’è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C’è chi è sinceramente convinto che l’unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?

Corriere 9.3.15
Miguel Gotor, minoranza Pd
«Votare con Forza Italia? Non è un problema Renzi pensi a unire il Pd»
Gotor: Italicum e Senato, intervenire si può
intervista di Alessandro Trocino


ROMA «Basta con le schermaglie, con la propaganda e i puntigli. Renzi metta da parte la retorica dei gufi e dei frenatori e cambi passo. Prenda atto che il patto del Nazareno è finito e unisca il Pd per cambiare riforma del Senato e legge elettorale». Miguel Gotor è uno degli esponenti della minoranza del Pd più agguerriti.
Ma il patto del Nazareno è finito davvero?
«Sussiste un ambito economico-finanziario, che tutela gli interessi di Berlusconi: si è capito quando ha votato l’Italicum, in modo politicamente irragionevole, 24 ore prima delle urne per il presidente. Ma dal punto di vista politico, il patto ha subito un colpo».
Con che conseguenze?
«Il patto è stato usato, da una parte come una clava contro di noi, per dare le botte in testa alla minoranza pd; dall’altra, come spauracchio per Berlusconi. Renzi ci ha sempre detto: sono d’accordo con voi, ma l’accordo con Berlusconi mi impedisce di intervenire sulle riforme. Bene, ora decida: o recupera il patto oppure, se questo è finito, non può pensare di riformare la Costituzione facendo a meno di noi e raccattando i voti sparsi dei verdiniani».
Se l’accordo non si trova, voi vi trovereste a votare, contro la riforma, insieme a Berlusconi. Un patto del «diavolo», altro che del Nazareno. Non sarebbe imbarazzante votare al suo fianco?
«Ma non c’è nessun serio riformista in Italia che pensa che Berlusconi sia il diavolo. Questa è una caricatura: c’è il massimo rispetto per la persona e la storia politica. Le riforme della Costituzione vanno fatte coinvolgendo l’opposizione: è l’idea di patto che non andava. Quindi il punto non è votare insieme a Berlusconi, a favore o contro la riforma. Il punto è che il Pd deve essere unito e deve essere all’altezza delle sue responsabilità».
Però Renzi, Boschi e Serracchiani non lasciano aperti spiragli.
«C’è ancora spazio per riprendere l’iniziativa politica e trovare una sintesi».
Cosa si deve cambiare?
«Riforma del Senato e legge elettorale vanno viste nell’insieme, perché modificano gli equilibri democratici e la forma di governo. Non può funzionare un Senato composto da eletti di secondo grado e una futura sola Camera politica composta a maggioranza di nominati. È inutile che Renzi continui a sparigliare per nascondere questa relazione. Per questo diciamo che se non cambia la riforma del Senato, l’Italicum così com’è non si può votare».
Ma se la Camera cambia la legge elettorale, poi deve tornare al Senato e rischia.
«È un ragionamento falso e offensivo nei nostri confronti. Intervenendo sui capilista nominati, ci sarebbe tranquillamente l’unità del Pd e una buona maggioranza».
La minoranza si riunisce il 14, con Area Riformista, e poi il 21 marzo. Lo spauracchio della scissione c’è ancora?
«No, sono voci assurde. La sinistra del Pd deve restare dentro il partito per evitare un possibile esito del disegno di Renzi».
Quale disegno?
«Quello di un Pd neocentrista pigliatutto, con due minoranze radicali urlanti: Salvini da una parte, Landini dall’altra. Un Pd così, diventerebbe un luogo consociativo e un fattore di trasformismo: alla fine, di conservazione. La democrazia respira con due grandi polmoni, non con un grande centro che pensa di prendersi tutto».

Corriere 9.3.15
Legge elettorale fatta a misura Pd
La Regione Umbria ha stabilito un premio di maggioranza alla coalizione vincente senza soglia minima di voti
Decisione forse incostituzionale, comunque un brutto segnale
di Giovanni Belardelli


Ci si può fare una legge elettorale su misura? È proprio quel che sembra essere successo in Umbria dove il Pd, a meno di tre mesi dalle elezioni regionali del prossimo maggio (e ancora sotto lo shock della sconfitta a Perugia nelle comunali 2014), ha appena approvato una nuova legge che assegna il 60 per cento dei seggi alla lista vincente ma senza alcuna soglia minima di voti. E questo pur sapendo che, dopo la sentenza della Consulta del 2014 sulla legge elettorale nazionale, un premio di maggioranza che non preveda una soglia è probabilmente incostituzionale. Di sicuro politicamente indifendibile. Intanto vinciamo le elezioni e garantiamoci il seggio, si devono essere detti gli artefici della nuova legge, poi si vedrà.
Che ciascun consiglio regionale si faccia la sua legge elettorale è diventato possibile dopo che quindici anni fa una riforma costituzionale ha stabilito che spetta alle Regioni, sia pure entro principi generali stabiliti dallo Stato, scegliere la propria forma di governo e il proprio sistema elettorale. Con un risultato che assomiglia molto al vestito di Arlecchino. Una molteplicità di regole che, nella percezione del comune cittadino, è amplificata dal fatto che invece, a livello comunale, è in vigore da tempo e con piena soddisfazione di tutti un sistema a doppio turno. Se il diavolo, come si dice, ama nascondersi nei dettagli, questo è soprattutto vero per le materie elettorali. Le differenti leggi regionali prevedono premi di maggioranza senza soglia di accesso; ma questo era appunto consentito prima che un anno fa intervenisse la Consulta pronunciandosi sul Porcellum. Non a caso la Regione Toscana ha varato in settembre una nuova legge elettorale che saggiamente prevede la soglia minima del 40 per cento per accedere al premio e, se nessuna coalizione la raggiunge, il ballottaggio.
I consiglieri umbri non potevano copiare la legge toscana? Probabilmente lo hanno evitato perché oggi come oggi una coalizione raccolta attorno al Pd umbro avrebbe difficoltà a superare quella soglia, con il rischio di perdere poi all’eventuale ballottaggio. Perdere fa parte della democrazia. Ma questa possibilità è ancora difficile da metabolizzare in una regione in cui la sinistra è abituata a vincere sempre e non ha ancora assorbito il trauma della perdita del Comune di Perugia. Se, nell’Italia repubblicana, il lungo periodo dei governi democristiani è stato definito un «regime», non sarebbe improprio usare allora lo stesso termine per il caso umbro. Naturalmente in questo piccolo «regime» regionale, un po’ come avveniva nella prima Repubblica con il Pci, c’è posto anche per accordi di tipo consociativo con l’opposizione. Il centrodestra infatti, dopo essersi opposto alla nuova legge elettorale, l’ha poi approvata (attraverso il voto di alcuni suoi esponenti) ottenendo in cambio un trattamento da minoranza privilegiata in termini di seggi, nel caso probabile che perda alle regionali. Risparmio ai lettori i dettagli del meccanismo che colpisce le altre opposizioni; comunque, secondo una simulazione dei radicali, l’8-9 per cento potrebbe non essere sufficiente per avere almeno un consigliere.
L’Umbria è una regione che non raggiunge il milione di abitanti e dunque, si potrebbe dire, possiamo interessarci in proporzione (cioè poco) della sua legge elettorale. Sennonché il caso di questa norma su misura, aggiungendosi a vicende recenti come le primarie campane vinte da Vincenzo De Luca, segnala un fatto di rilievo, invece, nazionale. Segnala la difficoltà o l’incertezza del nuovo corso renziano, saldamente installatosi a Palazzo Chigi, a separarsi da vecchi potentati locali, soprattutto se e quando questi si sono proclamati renziani. Per questo se il governo — che ha 60 giorni di tempo per impugnare o meno la nuova legge umbra — scegliesse di non vederne l’incostituzionalità, non sarebbe un buon segno.

Repubblica 9.3.15
Il piano di Renzi aprire ai bersaniani tutelando la ditta
Il premier accetta l’idea di un partito strutturato ma avverte che sulle riforme non si torna indietro
di Stefano Folli


IL voto contrario annunciato per domani da Berlusconi sulla riforma del Senato cambia lo scenario politico. Era atteso, anzi ormai scontato dopo la rottura del famoso patto del Nazareno. Ma è comunque un passaggio che incrina il castello di carte della legislatura. Si può certo immaginare che nulla è per sempre e che la convergenza di interessi produrrà prima o poi un riavvicinamento fra il centrosinistra renziano e quel che resta del partito berlusconiano. Intanto però la realtà è un’altra.
Nel giorno in cui finisce di scontare la sua pena ai servizi sociali, il fondatore di Forza Italia cerca di riconquistare un ruolo abbracciando le tesi più radicali. Inseguendo il leghista Salvini sul suo terreno nel «no» intransigente a tutto. Contraddicendo tutto quello che il centrodestra ha fatto nell’ultimo anno in sintonia con l’amico Renzi, oggi apparente arci-nemico: a cominciare dalla legge che supera il bipolarismo paritario e dal nuovo modello elettorale. Berlusconi ritiene che attraverso questa giravolta, cioè il voto di domani, emerga «l’unità del centrodestra », ma nemmeno questa consolazione è fondata. Come chiunque può verificare, il centrodestra non è mai stato così frantumato, al punto che uno spezzone (i centristi di Alfano) se ne sta al governo con Renzi e un altro spezzone, la nuova Lega, non lo vuole come alleato nemmeno alle regionali. L’operazione ha quindi poco senso sul piano politico. È una forma di radicalizzazione rabbiosa e frustrata che si spiega con l’essersi ritrovati all’improvviso senza politica e senza un alleato che non sia l’emulo italiano di Marine Le Pen, il quale peraltro fa corsa a sé.
Tutto bene per Renzi, allora? Non proprio. E non tanto per una questione di numeri, che probabilmente sulla riforma del Senato ci saranno: più esigui ma sufficienti. Il problema è di natura politica. L’intesa con il centrodestra aiutava Renzi a dare equilibrio alla legislatura, in una chiave che si può definire «costituente ». Lasciava intravedere una prospettiva in cui, dopo Berlusconi, avrebbe preso forma un’alternativa moderata e conservatrice al «renzismo». Ora invece comincia una storia diversa, non necessariamente più vantaggiosa per il presidente del Consiglio. Il quale è obbligato a disinnescare le piccole e grandi mine di cui la minoranza del Pd costella il cammino del governo e il percorso delle riforme. Un’intesa di lungo periodo con gli avversari interni è consigliabile e forse anche indispensabile, prima di qualche incidente in Parlamento.
Ma è evidente che Renzi cercherà innanzi tutto di dividere il fronte, così da non dover pagare prezzi troppo alti. Ecco allora l’importante intervista all’»Espresso». In cui da un lato il premier annuncia l’intenzione di andare avanti senza tentennamenti, cioè senza concedere alcuna correzione alla riforma elettorale. E dall’altro apre a una diversa organizzazione del Pd. La ragione? «Un partito che punta al premio di lista — parole di Renzi — deve essere meno leggero di quanto io immaginassi in origine. Serve una strada nuova rispetto al vecchio modello di partito ormai superato, ma anche rispetto al partito all’americana che era il mio sogno iniziale. Un partito che non sia solo un comitato elettorale. Se nel Pd si vuole discutere di questo sono pronto. Anche se so che una parte dice di no a tutto per principio ».
In altri termini, chi crede ancora nel partito strutturato, radicato nel potere locale dei «quadri», sarà accontentato. Il messaggio è chiaro: c’è uno spazio a disposizione degli oppositori che vogliono collaborare. Uno spazio che significa posti nelle liste elettorali e in Parlamento. La «ditta» viene garantita, anche se attraverso un modello meno tradizionale di quello a cui pensava Bersani. Solo un trucco di Renzi timoroso che le sue riforme non passino? Può darsi. Forse invece il premier comprende che un eccesso di arroganza è deleterio, soprattutto se Berlusconi si ritira dal tavolo da gioco. Una qualche intesa con la minoranza è inevitabile, come già è accaduto nell’elezione di Mattarella. Non tutto può risolversi con il referendum finale sulle riforme, già oggi impostato dal premier come un plebiscito su se stesso.

Corriere 9.3.15
Rebus giustizia: dieci giorni per decidere
Il presidente del Senato e l’anticorruzione: non si va oltre il 17 marzo
Ma serve l’emendamento entro domani
di Flavio Haver


ROMA Il presidente del Senato, Pietro Grasso, non ha alcuna intenzione di tornare sulle sue decisioni, fin troppo si è aspettato per portare in Aula la legge sulla corruzione. «È messo un paletto, la data del 17 marzo. Resta quella, oltre non si può andare», confermano a Palazzo Madama: non ci saranno nuove deroghe.
Si aprono dieci giorni decisivi sul fronte delle riforme per la giustizia, tema contraddistinto negli ultimi anni da un clima infuocato e da scontri durissimi tra centrodestra e centrosinistra, e non solo. In ballo, tra Palazzo Madama e Montecitorio, le modifiche alle norme anti-mazzette, ai tempi della prescrizione, al falso in bilancio. Temi su cui anche all’interno della maggioranza di governo ci sono state divisioni e contrapposizioni, con Ncd apparentemente ferma su posizioni non «negoziabili» ma sulle quali — a sentire esponenti di primo piano del Pd — c’è ora la disponibilità a trovare un punto d’incontro per dare la spinta decisiva ad un varo il più possibile condiviso delle riforme.
«Il rischio è che, dopo due anni di lavoro, si vada in Aula tornando alla fase iniziale con tutti i disegni di legge presentati: sarebbe una complicazione. Spero che il Governo, come promesso, presenti il suo emendamento sul falso in bilancio in commissione Giustizia e che la commissione, come mi ha assicurato il presidente Nitto Palma, possa concludere i lavori in tempo per portare in aula il testo con il relatore», ha osservato ancora Grasso, circoscrivendo i confini temporali. Che non possono prescindere da un’altra scadenza: il Governo deve presentare l’emendamento entro domani, altrimenti non ci sarebbero i tempi tecnici per il 17 marzo. Con una conseguenza: si tornerebbe al disegno di legge Grasso di due anni fa.
Alla Camera la scadenza è invece fissata al 16 marzo. Un intreccio di date che rende la partita ancora più complessa. A Montecitorio è previsto l’approdo in Aula del disegno di legge sulla prescrizione: dovrebbe essere «congelata» dopo la sentenza di primo grado e ci saranno due anni di tempo per il processo d’appello e uno per quello in Cassazione.
Resta il conflitto nella maggioranza sul limite massimo di 18 anni prima che cadano in prescrizione gli episodi di corruzione, ma le diplomazie di Ncd e Pd sono al lavoro per cercare un’intesa.

Corriere 9.3.15
Gli standard europei che la nostra scuola non sa raggiungere
di Lorenzo Bini Smaghi


La decisione di rinviare al Parlamento la proposta di riforma sulla cosidetta «Buona scuola» può essere l’occasione per aprire una più ampia discussione su alcuni aspetti essenziali (dopo l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia pubblicato ieri dal Corriere ) sul ruolo dell’istruzione in una società avanzata. In un mondo globalizzato, in cui i ragazzi che escono dalla scuola si confrontano con i loro coetanei di tutto il mondo, l’accesso a pari opportunità è essenziale. Nel confronto internazionale, il sistema italiano presenta due gravi svantaggi.
Il primo è connesso alla durata del ciclo scolastico, più lunga degli altri Paesi europei di ben un anno. Ciò significa che un ragazzo italiano finisce gli studi in media a 19 anni, contro i 18 dei suoi coetanei europei, arrivando dunque più tardi all’università o sul mercato del lavoro. Peraltro, questo anno aggiuntivo non sembra tradursi — secondo i test internazionali — in una maggior capacità di apprendimento. La questione è stata sollevata da tempo.
La Germania, che aveva un sistema simile a quello italiano, ha recentemente adottato una riforma. In Italia il cambiamento si scontra contro due ostacoli. Il primo è la proposta avanzata da alcuni gruppi di pressione di mantenere immutata la durata del ciclo ma di cominciare la scuola un anno prima, a cinque anni, diversamente da quanto fatto negli altri Paesi. Il secondo ostacolo è di tipo organizzativo. La riforma deve essere programmata per tempo, 4 anni prima se il liceo viene ridotto da 5 a 4 anni (come in Germania). Inoltre, nell’anno del passaggio definitivo al nuovo sistema deve essere organizzata una sessione di esami di maturità per un numero doppio di esaminandi.
L’incapacità di programmare una tale transizione in Italia sembra essere il vero problema, o la foglia di fico dietro la quale si nasconde la conservazione.
Il secondo problema è il modo in cui il ciclo scolastico viene organizzato nel corso dell’anno. L’Italia è l’unico Paese ad avere un periodo di vacanze estive di circa 3 mesi, e invece vacanze più brevi e meno frequenti durante l’anno. Eppure, importanti studi scientifici dimostrano che periodi lunghi di interruzione riducono l’efficacia dell’istruzione scolastica. Ad esempio, uno studio del 2007 di Alexander, Entwisle e Olson, della John Hopkins University, intitolato proprio Le conseguenze durature del divario di apprendimento estivo , dimostra, sulla base di una serie di valutazioni empiriche, che il gap educativo tra studenti di diversa estrazione sociale tende a ridursi durante il periodo scolastico, ma aumenta nuovamente nel periodo delle vacanze estive. In altre parole, la scuola riesce a ridurre le disuguaglianze sociali, ma tale risultato viene poi vanificato durante i periodi di vacanza protratti. Più lunghe sono le vacanze, meno efficace è la scuola nel dare pari opportunità agli studenti più poveri. Il motivo è evidente. Le famiglie facoltose possono permettersi vacanze che consentono di sviluppare il capitale umano acquisito durante l’anno, con viaggi di studio, visite a musei o altre attività intellettuali che invece non sono accessibili alle fasce più deboli della popolazione. L’effetto distorsivo è ancor maggiore per gli studenti che vengono rimandati a settembre, date le diverse risorse a disposizione per poter accedere a corsi di ripetizione privati. Anche questo è un sistema che esiste solo in Italia, e contribuisce ad accentuare le disuguaglianze tra i ragazzi che vengono da famiglie povere rispetto a quelle benestanti.
La ricerca mostra peraltro che è difficile per i ragazzi mantenere una concentrazione elevata a scuola per un periodo superiore a due mesi. Questo è il motivo per cui nella maggior parte degli altri sistemi educativi europei il trimestre viene interrotto a metà da una settimana di vacanza, in autunno, inverno e primavera, oltre alle vacanze di Natale e Pasqua. L’Italia non si è invece adeguata.
Il motivo per non cambiare sistema sembrerebbe essere che in Italia fa più caldo ed è difficile tenere i ragazzi in classe a fine giugno a ai primi di settembre. Tuttavia, per i numerosi istituti stranieri che operano in Italia — internazionali, inglesi, francesi, tedeschi o svizzeri — e finiscono l’anno scolastico a fine giugno e cominciano il nuovo ai primi di settembre, con un mese in meno di vacanze estive rispetto all’Italia, il caldo non sembra essere un ostacolo così insormontabile. Come non lo è in altri Paesi europei, inclusi quelli mediterranei.
Per essere davvero «buona», la scuola italiana richiede profondi cambiamenti, alcuni dei quali riguardano l’organizzazione e la struttura del ciclo scolastico che non sono considerati nell’attuale progetto di riforma. Rifiutare questi cambiamenti significa continuare a penalizzare i ragazzi e le ragazze italiane, soprattutto quelli delle famiglie meno abbienti.

Repubblica 9.3.15
La riforma della scuola
Ecco il disegno di legge, via i precari in due anni
di Corrado Zunino


ROMA La riforma della scuola è diventata questione fortemente politica e il premier dice che, davvero, non vuole ricorrere al decreto d’urgenza. Neppure per assumere i precari — 150 mila, le ultime indicazioni dal ministero — da sei mesi annunciati in cattedra per il prossimo settembre. Sulla enews periodica di governo Matteo Renzi scrive: «In settimana concludiamo l’esame in Consiglio dei ministri e presentiamo il disegno di legge al Parlamento chiedendo di discuterlo velocemente». Ancora: «Se le opposizioni non fanno ostruzionismo, ma provano a dare una mano anche migliorando il testo, non ci sarà nessun provvedimento d’urgenza da parte nostra».
Renzi non esclude la possibilità del decreto, ma la vuole evitare. E, infatti, ai suoi spiega che delle due ipotesi tecniche che il ministro Stefania Giannini gli ha sottoposto sabato scorso, per ora prevale — e questa dovrebbe annunciare al cdm — la meno impegnativa. Ovvero, iter parlamentare rapido del disegno di legge “La buona scuola” e, di fronte a difficoltà sui tempi d’approvazione, solo un decreto ministeriale che porti in cattedra i primi 50 mila insegnanti: diecimila vincitori del concorso 2012 (soltanto i vincitori, non gli idonei come invece chiedevano gli uffici del ministero) e altri 40 mila presi dalle Graduatorie a esaurimento. Le restanti 130 mila assunzioni arriveranno nel 2016: metà con un’altra infornata di supplenti che hanno la classe di concorso (la materia) adeguata ai bisogni della scuola e metà con un nuovo concorso pubblico che sarà incardinato quest’anno. I “cinquantamila subito” sono un po’ più di un “turnover d’annata” (pensionamenti), ma sono un terzo degli assunti promessi.
L’effetto delusione sarebbe inevitabile. È per questo che il ministro Giannini, il sottosegretario Faraone e il corpo scuola del Pd chiedono a Renzi “150 mila subito”, cosa possibile solo se dopo il 15 aprile, a fronte di un disegno di legge che in Parlamento non procede, Renzi sceglierà l’arma del decreto d’urgenza. Ad oggi il disegno politico del premier lo esclude.

Corriere 9.3.15
Il Papa spiega l’inferno a una bimba «Dio perdona tutti, sei tu che scegli»
Francesco celebra l’8 marzo: le donne ci danno la capacità di vedere oltre
di Gian Guido Vecchi


ROMA «Se Dio perdona tutti, come mai esiste l’inferno?». Nel cortile accanto al campo da calcetto d’una parrocchia di Tor Bella Monaca, all’estrema periferia romana, tra i fazzoletti verdi e arancioni che sventolano all’arrivo del Papa, i bambini non fanno domande di circostanza. E Francesco, davanti alla piccola scout che gli pone un problema «così difficile», sorride e spiega che cos’è davvero, l’inferno: «Dio perdona tutto o no? È buono o no? Ma voi sapete che c’era un angelo molto orgoglioso e intelligente, e lui aveva invidia di Dio, ne voleva prendere il posto. Dio ha voluto perdonarlo ma quell’angelo diceva: “Io non ho bisogno di perdono, io sono sufficiente a me stesso”. Ecco, questo è l’inferno».
Risposta dostoevskijana, quella del Papa. Come si legge ne I fratelli Karamazov , romanzo caro a Bergoglio: l’inferno è «la sofferenza di non essere capaci di amare». Non è Dio che manda all’inferno, dice Francesco: «All’inferno non ti mandano, ci vai tu, sei tu che scegli. L’inferno è volere allontanarsi da Dio perché io non voglio l’amore di Dio. Il diavolo è all’inferno perché lui ha voluto. Va all’inferno solo chi dice a Dio “non ho bisogno di te”, come ha fatto il diavolo, l’unico che siamo sicuri ci stia». Parole che ricordano quanto Francesco disse nel 2013, dopo la sua prima Via Crucis : «Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato: non da Lui, ma da me stesso. Perché Dio non condanna, solo ama e salva». Tor Bella Monaca non ha buona fama: droga, delinquenza. Ma c’è «tanta brava gente», ricorda il parroco. E il Papa dice: «La gente qui è buona, ha solo un difetto, lo stesso che avevano Gesù, Giuseppe e Maria: essere poveri. Ma loro avevano un lavoro». E parla dei «mafiosi che sfruttano la gente povera per farle trovare il lavoro sporco» finché «se la polizia li trova, trova la povera gente e non i mafiosi che pagano la loro sicurezza». Nell’omelia torna sugli «ipocriti» che simulano devozione: «Non possiamo ingannare Gesù. Se sono un peccatore, Gesù non si spaventa. Lo allontana la “doppia faccia” degli ipocriti». Quando i ragazzini chiedono al Papa della morale cristiana, Francesco spiega che non è fatta di precetti e divieti: «”Fare questo, non fare quest’altro”, da solo non è cristiano, è una filosofia morale ma non è cristiano. Cristiano è l’amore di Gesù che ci ama per primo. Guardare a Gesù nel momento della tentazione. Rialzarsi se si cade, ma sempre con Gesù. Come quel bel canto degli alpini che dice: l’importante non è non cadere, ma non restare a terra».
All’Angelus Francesco ha ricordato la festa dell’8 marzo: «Un mondo dove le donne sono emarginate è sterile, perché le donne non solo portano la vita ma ci trasmettono la capacità di vedere oltre — vedono oltre, loro — e di capire il mondo con occhi diversi, di sentire con cuore più creativo, più paziente, più tenero».

il Fatto 9.3.15
Due anni dopo, dal 13 marzo 2013
Francesco, la Chiesa millenaria che vorrebbe tornare giovane
Una ventata di cambiamento
L’approccio nuovo con la gente, l’attenzione per le donne, l’apertura su celibato e unioni gay. E l’impegno per la pace
di Marco Politi


Due anni dopo la sua elezione Francesco ha già reso irreversibile il volto nuovo del pontificato. Tornare ad un pontefice-icona, dottrinario, monarca assoluto, non sarà più possibile: pena una drammatica perdita di contatto con la società contemporanea, credente o non credente.
Linguaggio
È stato rivoluzionato il linguaggio. Quando Francesco dice che i cattolici non devono figliare “come conigli” o spiega al clero di Roma (giorni fa) che ci sono “persone disturbate che si rifugiano nelle istituzioni forti: Esercito e Chiesa”, usa il linguaggio di un parroco in grado di farsi ascoltare da tutti. Un papa-prete capace di parlare anche agli atei come nessun altro prima di lui.
Papa Bergoglio ha aperto la transizione verso una Chiesa più comunitaria e partecipata. “Sinodale”, secondo l’espressione degli Ortodossi. Un modello di Chiesa in cui il capo non decide in solitudine imperiale, ma insieme ai vescovi. Il concilio Vaticano II lo ha chiamato “collegialità”, indicando l’immagine di “Pietro insieme agli apostoli”.
Collegialità
L’avvio di questa riforma si è tradotto nella creazione di un consiglio cardinalizio, coordinato da Oscar Rodriguez Maradiaga e formato da otto porporati di tutti i continenti, cui si aggiunge il segretario di Stato. È il cosiddetto C9, incaricato di “consigliare (il Papa) nel governo della Chiesa universale”. Un embrione di collegialità. All’ultimo concistoro del febbraio scorso l’assemblea dei cardinali di tutto il mondo ha ribadito la necessità di un “sano decentramento” delle competenze, sin qui esercitate esclusivamente dalla Curia romana. E negativo però il ritardo della riforma del governo centrale della Chiesa.
Il secondo passo in direzione della collegialità è rappresentato dalla nuova funzione del Sinodo dei vescovi (il parlamentino di Santa Romana Chiesa), non più destinato a rimanere una semplice arena di opinioni, ma – grazie a Francesco – diventato titolare di un potere propositivo per trovare soluzioni ai problemi pastorali più urgenti. L’avere scelto il vescovo teologo Bruno Forte come segretario speciale delle due sessioni sinodali dedicate ai problemi familiari segnala la volontà di “aggiornamento”, per usare lo slogan felice di Giovanni XXIII.
Divorziati e gay
Concedere democrazia – libertà di parola e di voto come durante il Concilio – significa tuttavia fare i conti con le opposizioni e la possibilità di perdere qualche battaglia: è accaduto al Sinodo del 2014. Francesco ha aperto su temi sin qui tabù: la comunione ai divorziati risposati, le convivenze, le coppie omosessuali, la transessualità ma le resistenze interne al mondo ecclesiastico hanno impedito finora un cambio ufficiale di atteggiamento della Chiesa. L’appassionato intervento sinodale del cardinale di Vienna Christoph Schoenborn sulla solidarietà di due partner gay non ha ricevuto – almeno per il momento – il consenso della maggioranza dell’episcopato.
Due anni dopo l’elezione si avverte un solco tra Francesco e quella parte della gerarchia in Vaticano e all’estero, rimasta attaccata alla visione di un papato sacrale, giudice dottrinale inflessibile delle “deviazioni” dai comandamenti del catechismo. Il cardinale americano Francis George (ex arcivescovo di Chicago), quando chiede se “Francesco si rende conto dell’effetto di certe sue parole? ”, evidenzia un’offensiva in atto contro il pontefice argentino. Un solco netto esiste anche tra la fascia di sacerdoti – spesso giovani – imbevuti di spiritualismo, dogmatismo e ideologia del potere sacerdotale, che resistono alla declericalizzazione auspicata da Francesco, e invece quei preti, secondo i quali annunciare il Vangelo nella società urbana globalizzata esige di fare i conti con la mescolanza delle culture e – come invita a fare il segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino di considerare il mondo “brutto, sporco e cattivo”.
Il ruolo delle donne
Francesco ha avuto il merito di mettere sul tavolo un argomento tabù come il ruolo delle donne nei luoghi decisionali della Chiesa, ma non ha incontrato una risposta entusiastica da parte degli episcopati nel mondo. Nemmeno le donne dell’associazionismo cattolico si sono per ora mobilitate. Colpa di una “certa sfiducia e un’antica abitudine a tacere”, commenta la storica Lucetta Saraffia, che vorrebbe vedere le donne partecipare ai sinodi.
Non è detto che in tutti questi campi, su cui si è fatto sentire Francesco, si realizzino cambiamenti concreti già durante il suo pontificato. Lui è un seminatore, i sassi sul suo cammino sono tanti e i suoi avversari – nota il segretario della pontificia Commissione per l’America latina, professor Guzman Carriquiry – si comportano alla pari dei farisei che seguivano Gesù “con animo incattivito, scandalizzati dei suoi incontri con prostitute e peccatori, sempre male interpretando, sperando di poter intravvedere qualsiasi minima deviazione riguardo alla Legge, per giudicarlo e condannarlo…”.
Lotta alla pedofilia
In tre ambiti precisi il pontefice argentino ha già voltato pagina. Per la prima volta ha destituito, processato ecclesiasticamente e degradato (ridotto allo stato laicale) un vescovo pedofilo: l’ex nunzio nella Repubblica Dominicana Jozef Wesolowski. Per volontà di Francesco subirà inoltre un processo penale in Vaticano. Tuttavia nel comitato anti-abusi, da lui creato, sono emerse resistenze a proposito di nuove Linee guida internazionali più stringenti.
La banca vaticana
La banca vaticana è stata sottoposta ad una drastica ripulitura dei conti correnti, sono stati firmati accordi di cooperazione giudiziaria con Italia, Germania, Stati Uniti, è stata creato un comitato anti-riciclaggio e una Segreteria per l’Economia, guidata dal cardinale George Pell, che vigilerà sugli appalti e la regolarità dei bilanci delle varie articolazioni della Santa Sede e che ha portato alla luce fondi riservati (benché regolari) di alcuni organismi, che non erano stati inseriti nel bilancio consolidato del Vaticano. Il presidente delle Ior, il francese Jean-Baptiste de Franssu, spinge per una gestione unica del patrimonio finanziario e immobiliare della Santa Sede.
Il terzo settore in cui Francesco ha mostrato una forte impronta è quello geopolitico.
Politica estera
Ha ridato slancio alla presenza del Vaticano sulla scena internazionale, impedendo una catastrofica invasione occidentale della Siria, indicando a Israele e Palestina la via di una pace dei coraggiosi, denunciando il traffico di armi dietro ai conflitti in corso, impegnandosi contro le “moderne schiavitù” (la tratta sessuale, quella dei migranti, le fabbriche clandestine). Suo obiettivo, discusso con il presidente Barack Obama, è far dichiarare dall’Onu la tratta degli esseri umani un “crimine contro l’umanità”.
I suoi interventi contro la corruzione, la criminalità organizzata, l’ideologia neoliberista del profitto senza regole, il primato assoluto del mercato che produce “scarti” vecchi o giovani, alimentando il precariato permanente, hanno suscitato un’eco vastissima a livello internazionale, ben al di là del mondo cattolico, ma le leadership politiche ed economiche non hanno mostrato nessuna intenzione di elaborare un modello economico ispirato al “bene comune”.
Per molti aspetti Francesco è applaudito, ma resta solo. Dentro e fuori la Chiesa. La sua – benché non lo mostri – è un’autentica lotta contro il tempo. L’anno prossimo compirà già ottant’anni e i suoi amici latino-americani non dubitano che quando la vecchiaia si farà sentire, anche Jorge Mario Bergoglio sarà pronto a dimettersi come Benedetto XVI (magari tornando in Argentina). Lo ha anticipato lui stesso ai giornalisti, durante un viaggio. Il papato a termine è l’ultima (silenziosa) riforma di questo pontificato.

il Fatto 9.3.15
Fenomeno mediatico
Un giornale tutto per lui pubblicato in sei paesi
di Caterina Minnucci


Con una media di circa centomila copie vendute, a poco meno di un anno dalla sua nascita in Italia, Il mio Papa, il primo settimanale al mondo - edito da Mondadori - interamente dedicato alla figura di Papa Francesco, dalla fine di marzo sarà stampato anche in altri sei Paesi. Abbiamo chiesto al direttore Aldo Vitali, che guida anche Tv Sorrisi e Canzoni, di raccontarci il segreto di questo successo.
Come è nata l’idea di un settimanale dedicato al Pontefice?
È nata una notte passeggiando col mio cane Bobo. Riflettevo sull’enorme presa di Francesco su credenti e non. C’era chi dubitava sulla possibilità di riempire un settimanale, ma la realtà è come l’avevo immaginata: il Papa è talmente attivo che è addirittura quasi impossibile “coprirlo” con un settimanale.
Che cosa cambierà con l’arrivo delle edizioni internazionali del vostro “diario settimanale”?
La nostra linea editoriale, che è quella di adesione al lavoro del Papa, non cambierà. Sarà pubblicato in Germania (con distribuzione anche in Austria, Svizzera tedesca e Liechtenstein), Polonia e Brasile con particolare attenzione al Centro e Sud America.
Come sono i conti del giornale, si auto-sostiene?
Certo. Si auto-sostiene. Speriamo che le edizioni internazionali ci aiutino ad entrare nella fase due del nostro progetto: aiutare le onlus e le associazioni che si occupano dei bisognosi.
E il lavoro nella vostra redazione?
Consultiamo l’agenda del Papa e allertiamo i nostri giornalisti. I cambi di timone con Francesco sono all’ordine del giorno: è imprevedibile. Usciamo in edicola il mercoledì: raccontiamo sempre la domenica del Papa e l’Angelus. Poi ci sono i nostri servizi sulle abitudini quotidiane di Francesco, i lettori li amano molto: dagli occhiali ai vestiti che indossa, da ciò che mangia alla musica che ascolta. Raccontiamo della sua passione per il calcio. Ma non si dica che facciamo gossip vaticanesco.
Che spazio date ai moniti di Papa Francesco contro gli scandali vaticani?
Diamo voce a Francesco, alle sue parole e non facendo sintesi giornalistiche che semplificano i problemi, facendolo apparire di volta in volta o rivoluzionario o reazionario (a seconda di quel che serve alla testata...). I nostri lettori amano quando è duro con pedofili, affaristi, mafiosi, politici. E noi anche.
Direttore, il Papa le ha donato, autografandone una copia, i diritti per un suo libro di preghiere da allegare al giornale. Che mandato sta portando avanti?
Per me è un eroe. All’interno del Vaticano c’è chi non lo ama per la volontà di riportare la Chiesa al suo vero mandato: l’attenzione per gli ultimi. Disapprova gli aspetti mondani della Curia, la sua forza viene dal popolo che lo sostiene.
Il Pontefice è un vostro fan?
Conosce bene il giornale, l’ultima volta che sono stato da lui gli abbiamo dato tre numeri arretrati che mancavano alla sua collezione. L’unico appunto che mi ha fatto: “Ogni tanto mi trattate da primadonna”.

il Fatto 9.3.15
Non solo Roma
Lontano dal Palazzo e dal pantano italiano
di Fabrizio d’Esposito


Francesco è un papa che non si offende se lo chiamano “marxista” anche se poi specifica che lui, ovviamente, non lo è e non lo è mai stato e infine aggiunge: “Conosco tanti marxisti che sono persone perbene”.
Nelle banali categorie teopolitiche, papa Bergoglio sarebbe inquadrato come un pontefice progressista. Ma liquidarlo così è troppo superficiale. Del resto, ogni capo della Chiesa ha una personalità complessa. E Francesco non è da meno. È un gesuita, tanto per cominciare, che si è imposto come nome quello del santo che fondò i nemici storici della Compagnia di Gesù, i francescani. E in passato è stato un fiero avversario, dall’altra parte del mondo, della teologia della liberazione. In ogni caso, la sua Chiesa non è quella violentemente anticomunista di Giovanni Paolo II: il pontefice polacco che foraggiò con milioni di dollari Solidarnosc e le dittature militari sudamericane, nel cortile di casa degli americani, come rivelò Roberto Calvi, il banchiere “suicidato” a Londra, in una delle sue ultime lettere minatorie al Vaticano. All’alba degli anni ottanta, tra le mura leonine prese il sopravvento la potente corrente, questa sì di destra pura, dell’Opus Dei, la prelatura fondata da Josemaría Escrivá.
Così come, quella di Bergoglio, non è la Chiesa di Ratzinger, il papa teologo che scelse il nome di Benedetto in omaggio al pontefice della Grande Guerra, Benedetto XV. Il pontefice teutonico è stato protagonista di un evento inimmaginabile ai giorni nostri: le dimissioni dal trono di Pietro. Se proprio si vuole trovare un segno politico forte in Francesco è questo: la discontinuità, in senso anti-curiale e anti-italiano, rispetto all’interventismo dell’era ratzingeriana. Un nome per tutti: quello dell’invadente Tarcisio Bertone, disastroso segretario di Stato amante dell’opulenta mondanità filo-berlusconiana. Una scena per tutte, che risale a una sera estiva del 2010. Il cardinale Bertone si ritrova alla ricca mensa di Bruno Vespa e consorte per mettere a punto il progetto di una nuova Dc. A tavola ci sono: i banchieri Cesare Geronzi e Mario Draghi, Silvio Berlusconi (in quel momento presidente del Consiglio) e il suo fedelissimo Gianni Letta, Pier Ferdinando Casini. Una riunione che mette a nudo l’esaurimento della cosiddetta dottrina Ruini, dal nome del presidente della Cei in carica per più di tre lustri, dal 1991 al 2007. Una dottrina che dopo la fine dell’unità politica dei cattolici, rappresentata dallo Scudocrociato, si è affidata a un trasversalismo totale, testimoniato dai guerrieri teocon e da un robusta militanza ciellina nel centrodestra e dall’elezione di Paola Binetti dell’Opus Dei nel Pd.
Ecco, l’elezione dell’argentino Bergoglio al soglio pontificio ha significato la rottura della contiguità con la politica italiana e un cambiamento radicale di prospettiva della Chiesa: dall’ossessione per i valori non negoziabili su vita e matrimonio alla prevalenza della questione sociale. Con questa chiave vanno decifrate alcune dichiarazioni di monsignor Nunzio Galantino, vescovo della più piccola diocesi calabrese e scelto da Bergoglio come segretario generale della Cei. Dichiarazioni tipo: “Tenendo l’orecchio appoggiato alla storia comune della gente vediamo i limiti di certe agende politiche” oppure “Non è questione se Renzi piaccia a noi o no. Bisognerebbe chiedere alla gente se sta trovando le risposte”. Rispetto a due anni fa è una rivoluzione copernicana, che non distingue più tra partiti amici e no e tenta di stare a una distanza di sicurezza dal Palazzo. Una delle prime immagini di Bergoglio, nella visita lampo a Lampedusa, lo mostra tutto solo, senza ministri intorno per sua esplicita richiesta. L’unica suggestione concreta tra Bergoglio e la politica italiana è il filo gesuitico che lo lega al nuovo capo dello Stato, il palermitano Sergio Mattarella. Nonostante alcune ombre familiari, Mattarella forgiò la sua formazione di democristiano di sinistra nel laboratorio che diede vita alla cosiddetta Primavera di Palermo, esperienza voluta dalla Civiltà Cattolica, rivista della Compagnia, ancor prima che da Leoluca Orlando. E i due sono stati già accostati per il frugale stile di vita. Non a caso la battuta di un ministro di fede ciellina dopo l’elezione di Mattarella è stata questa: “Dopo Bergoglio, ci tocca pure Mattarella”.

il Fatto 9.3.15
Oltre San Pietro
“Il Conclave scarnifica sempre i favoriti”
di Carlo Tecce


Velasio De Paolis per quarant’anni ha insegnato filosofia morale e diritto canonico nelle università cattoliche. Il 13 marzo 2013 era in quel Conclave che ha votato per Papa Jorge Mario Bergoglio. Fu ordinato cardinale da Joseph Ratzinger: “In Vaticano si parlava di imminenti dimissioni di Benedetto XVI, non pensavo che fossero notizie valide. Ratzinger attraversava un periodo difficile per la Chiesa, sotto molti aspetti. Non sentiva in sé la forza per affrontarli, la salute non c’entra. Forse occorreva una carica di energia. C’è stato qualcuno che ha tentato, ma senza esito, di farlo desistere?”.
Bergoglio ripeterà la scelta di Ratzinger?
Non credo, i due sono molto diversi.
Adesso la temibile Curia sembra più disciplinata.
I giornalisti erano ossessionati dagli scandali in Vaticano, ridotti per entità e numero, diciamo che con Francesco le attenzioni sono rivolte altrove.
Non esiste più la lotta di potere?
Chi per una vita ha servito la Chiesa può avere legittime ambizioni di carriera, ma tali ambizioni non possono essere sostenute a ogni costo. Quel che va condannato sono i sotterfugi e l’arroganza di chi pensa a se stesso e ignora la propria missione.
Dopo il Papa polacco e il Papa tedesco, non era il momento per un italiano?
Al Conclave eravamo 115, molti di noi neanche si conoscevano. L’idoneità di un cardinale a essere Papa non dovrebbe riguardare la nazionalità o il continente o l’ambito culturale, bensì la sua capacità di aiutare la Chiesa universale.
Il cardinale Angelo Scola era il candidato favorito.
Il vecchio adagio dice: entri Papa ed esci cardinale per un motivo elementare.
Quale?
Il nome che viene pronunciato in anticipo sollecita le riflessioni. Quel cardinale viene esaminato, si scoprono dei limiti, viene scarnificato fino a essere ritirato dalla competizione.
Con l’argentino Bergoglio non è andata così.
Era una possibilità fra tante. Al quarto o quinto scrutinio, non ricordo bene, è risultato eletto Papa Francesco. Si vede che era una possibilità diffusa.
Papa Francesco ha rispettato le attese?
Bergoglio stesso ha più volte affermato che sta attuando il messaggio ricevuto dal Conclave.
Il Sinodo non ha seguito Francesco sui progetti di apertura ai divorziati risposati. A che punto siete arrivati?
Siamo ancora al tempo degli approfondimenti. Il tema nodale sta nel fatto che i conviventi, sposati civilmente o meno, mentre sono legati con un matrimonio contratto davanti alla Chiesa, non osservano un comandamento di Dio. Perciò non possono ricevere l’eucarestia.
Il Papa ha ammesso di non poter giudicare le coppie omosessuali. Vuol dire che il Vaticano le accetterà?
Io sono d’accordo con il Papa, non possiamo esprimere un giudizio di condanna. Il giudizio appartiene a Dio. Ma non possiamo omettere le valutazioni di tipo oggettivo per comprendere se sono conformi a una legge morale, a una visione cristiana della vita, all’insegnamento della Chiesa. Cito la Genesi: Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina. I bambini devono crescere con l’amore materno e paterno.
Cosa pensa del sacerdozio femminile?
La Chiesa ha sempre affermato, con particolare insistenza, che il sacerdozio non può essere conferito alle donne. A giustificazione porta la volontà di Gesù. Non si vede in prospettiva un cambiamento. Le ragioni che vengono portate per comprendere tale volontà divina sono molteplici. Certamente non sono quelle che mettono in questione la dignità della donna. La dottrina della Chiesa sulla pari dignità dell’uomo e della donna è altrettanto ferma e risalente allo stesso Signore.
Il sacerdote dovrà restare celibe?
Questa è più che una semplice convenienza, non un dogma. Non è un dogma perché in alcuni casi la Chiesa non lo esige. E non è una semplice convenienza perché risale ai primi tempi della Chiesa, che ne ha sempre ribadito la validità. Il problema è il rapporto tra il sacerdote e i parrocchiani. Il prete è sempre a disposizione giorno e notte, la sua famiglia è quella dei fedeli. Come dovrebbe vivere se avesse una moglie e dei figli? I sacerdoti sono utili perché ci sono i fedeli, non viceversa.
Dai divorziati agli omosessuali, perché la Chiesa esclude: non è anacronistico?
Il relativismo mette qualsiasi cosa in sospeso, e la Chiesa non può seguire questa strada. Ogni comunità ha le proprie regole danno risalto al senso di appartenenza. Proprio per adempiere a questa sua missione di salvezza eterna, la Chiesa non può non richiamare il fedele inadempiente.
E il rapporto tra il Vaticano e la politica è mutato?
La Chiesa non deve fare politica, almeno in maniera diretta. Il nostro compito è quello di annunciare il Vangelo e avrà riflessi anche nella politica.
Oggi com’è la politica italiana vista da qui, da una finestra che sporge sul colonnato di San Pietro?
È frettolosa, è indecifrabile. Parla sovente di riforme senza specificare la direzione. Alla politica mancano i riferimenti etici. Viene data più importanza ai sondaggi che a un’idea di società.

il Fatto 9.3.15
Gli avversari
La potente Curia non è sconfitta
di Carlo Tecce


Jorge Mario Bergoglio ha sempre manifestato distacco verso la Curia, il governo vaticano, ma non ha commesso l’errore di sottovalutare le insidie che si celano dietro le mura leonine. E che per Joseph Ratzinger furono fatali. Con il cambio a palazzo apostolico, seppur l’argentino dimori a Santa Marta, i prefetti di Curia sono cambiati. E quelli che hanno resistito, papa Francesco li ha commissariati. Bergoglio ha creato il dicastero per la gestione economica, affidato all’australiano George Pell, proprio per ridurre il potere di Domenico Calcagno all’Apsa, l’ufficio che amministra l’immenso patrimonio immobiliare. Il cardinale ligure, famoso per la sua passione per le armi da fuoco, è legato a Tarcisio Bertone, l’ex segretario di Stato che s’è ritirato in un attico in Vaticano. Anche Giuseppe Versaldi, prefetto per gli affari economici, è un bertoniano. E rimanda a quel gruppo, ridimensionato con l’avvento di Bergoglio, capitanato dai cardinali Mauro Piacenza e Raymond Burke. La prima crepa, però, è emersa a ridosso del Sinodo di ottobre convocato per discutere di famiglia. Il cardinale Gerhard Ludwig Muller s’è opposto a qualsiasi ipotesi di apertura nei confronti dei divorziati risposati.
Il cardinale tedesco è il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il luogo in piazza Sant’Uffizio dove s’è stagliato per 24 anni il teologo Ratzinger. Muller ha arruolato accanto a sé una minoranza di porporati che soffrono la versione riformista di Francesco. E allora il dissenso è sfociato in una diatriba, neanche troppo a distanza, con l’altro tedesco Walter Kasper. Il papa emerito Ratzinger ha provato a mediare per redimere il conflitto fra i due connazionali. Ma l’intervento non ha consentito a Bergoglio di scardinare l’opposizione dei conservatori. Il fronte vescovi italiani, poi, è una questione irrisolta. Bergoglio non ha un buon rapporto con Angelo Bagnasco, il presidente Cei destinato a lasciare l’incarico tra un paio di anni. Fu Bergoglio, e non il capo dei vescovi italiani, a inaugurare l’assemblea annuale Cei. Il discorso di Francesco fu ruvido e non ci fu entusiasmo in platea. I vescovi sono già pronti a blocchi, già formano cordate per la successione a Bagnasco. Non sarà facile preservare quel territorio di potere. Francesco ha dimostrato di sapere ammaliare le folle e di colpire con ardimento il vecchio sistema. Non sempre vince senza cedere qualcosa. A Bertone, salesiano, consigliò di trascorrere la pensione al Don Bosco di Torino-Valdocco. Ma l’ex primo ministro ha preferito una terrazza su Roma.

il Fatto 9.3.15
Fuori dal coro
Non indica un inizio ma è il segno della fine
di Pietrangelo Buttafuoco


L’effetto Marziano a Roma è già alle sue spalle. Francesco Bergoglio, il Papa che piace a tutti, ha già esaurito la metafora di Ennio Flaiano. Le Città eterna, infatti, ha più che digerito la novità. Non c’è, Diocenescampi, la pernacchia all’angolo di Via Veneto ma ciò che compete a questo Pontificato è solo reiterazione del popolaresco. Perfino Sergio Mattarella (uno che col cattocomunismo ci campa), prendendo il tram, ricalca l’effetto torpedone del Papa ma tutta questa estetica della sottrazione del fasto curiale, in Bergoglio, non è sottrazione mondana e non è neppure il jihad del francescanesimo. È solo tristo poveraccismo.
L’elezione di papa Francesco è seguita alle dimissioni di papa Benedetto XVI. Non è con la morte di una papa che se n’è fatto un altro e la presenza di due pontefici, quella che in altri tempi avrebbe determinato uno scisma, nella beata epoca dei beoti ha assunto un tono easy. Il vecchio è sceso dalla Croce per sparire dalla scena e chiudersi – confortato da musica, studi e preghiere – in un eremo. In circostanze solenni, invece, i due – il bavarese e l’attuale regnante, l’argentino – hanno raddoppiato l’effetto bianco: due di un trono doppio, quello di mistificazione e rinuncia.
L’elezione di Bergoglio sorge dalla rinuncia dell’ultimo successore di Pietro. Un segno più che un lapsus. Un potente scrittore, Sergio Claudio Perroni, con Renuntio vobis (edizioni Bompiani) ha saputo ricostruire in un dialogo (con le parole delle Sacre Scritture), l’incontro tra il vecchio che getta l’Anello del Pescatore e il suo unico interlocutore possibile, la verità del Sacro.
È venuto dalla fine del mondo, Papa Francesco. Ecco, il lapsus. Ha preso un nome che gli ha permesso di numerare col principio ma tutto il suo teatro è un ammiccare alla fine. Ogni suo gesto – dalla valigetta ventiquattrore all’appartamento di Santa Marta, svuotando il Vaticano – è un prologo al finale. Attento, in ogni sua azione, a ricavarne il plauso dello spirito del tempo, volge tutto in parodia. Chiama Marco Pannella durante uno dei suoi digiuni quando prima di questa scenetta, con altra tempra, e con più rovente battaglia, Giovanni Paolo II scriveva una lettera a Bobby Sands, l’eroe della libertà d’Irlanda. Lo supplicava d’interrompere il digiuno e gli inviava – certo di non poter smuovere dal proposito di lotta quel guerriero – la Croce d’oro con cui i fedeli di San Patrizio avrebbero poi aperto il corteo funebre di Bobby Sands, combattente dell’Esercito repubblicano irlandese.
Piace alla gente perché fa arrestare un vescovo pedofilo, alza i lai contro l’omertà e le complicità della Chiesa ma, forte della buona coscienza proprio dell’Inferno, fa un errore blu in punto di caritas se non di pietas: non combatte il peccato, mette le manette ai peccatori. Papa Francesco, perfetto per i souvenir delle bancarelle, sembra sparlare da una centuria di Nostradamus. È nel finale di partita perché sacralità e carisma, con lui, sono optional. Non è un Papa, è solo il direttore generale di un Cda la cui ragione sociale è umana, troppo umana.

Corriere 9.3.15
Il ricatto al Vaticano su una lettera di Michelangelo rubata nel 1997


Una lettera firmata da Michelangelo è stata trafugata quasi vent’anni or sono dall’Archivio della Fabbrica di San Pietro. Ed è stata poi al centro di un tentativo di estorsione nei confronti del Vaticano. I contorni della vicenda, riportati dal quotidiano Il Messaggero , restano avvolti nell’ombra. La Gendarmeria ha avviato contatti con le competenti autorità italiane, ma all’epoca non ci sarebbe stata denuncia. «Anni fa, nel 1997, si era constatata la mancanza dall’Archivio della Fabbrica di San Pietro di alcuni documenti (forse tre, ndr ), tra i quali una lettera firmata Michelangelo. Ne fu informato il cardinale Virgilio Noè, presidente della Fabbrica. Non risulta che allora ci fosse stato seguito», ha detto ieri il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «Più recentemente, il cardinale Angelo Comastri — ha spiegato ancora Lombardi, riferendosi all’attuale presidente della Fabbrica di San Pietro — ha avuto una proposta di recupero dei documenti, però a pagamento. Cosa che lui ha rifiutato perché si tratterebbe di refurtiva, di cose rubate, il che darebbe luogo alla ricettazione». La somma richiesta sarebbe stata di 100 mila euro, ma non c’è conferma.

Repubblica 9.3.15
La democrazia deve chiedere l’esilio di Dio
Chiesa o Stato, sacro o razionale: ecco perché il principio di legittimità delle nostre leggi non può che essere “umano e solo umano”
E la sfera personale in interiore homine. Al fedele restano i luoghi di culto
di Paolo Flores d’Arcais


LA laicità è diventata una questione di vita e di morte, alla lettera. Costituisce, non a caso, la questione cruciale della democrazia. Anche se lo avevamo dimenticato, se avevamo dato la laicità per acquisita, al punto che anche il pensiero “laico” prestigioso ne teorizzava il superamento come inveramento (l’immancabile Aufhebung hegeliano): la società post-secolare. Il 7 gennaio il terrorismo islamico ha riportato le democrazie alla realtà: la strage della redazione di Charlie Hebdo è una dichiarazione di guerra alla libertà d’espressione, alla laicità, al disincanto, alla modernità, cioè alle stratificazioni logiche e storiche via via più lontane e più profonde che fanno da fondamenta della democrazia. Che questa progressione di fondamenta fosse la posta in gioco lo ha capito la passione illuminista e repubblicana delle masse di Parigi e dell’intera Francia, con la più grande manifestazione di piazza mai registrata dai tempi eroici della Liberazione.
L’emozione popolare — ancora più significativamente se inconsciamente — ha rappresentato il massimo di lucidità e comprensione razionale dell’evento: i terroristi hanno voluto mirare al cuore delle libertà “occidentali” in quanto libertà tout court: la coerenza del disincanto. Uno scontro di civiltà che non contrappone islam a mondo giudaico-cristiano, ma che divide e mette in conflitto all’interno di entrambi e di ogni altra costellazione cultural-geo-politica. Non la guerra santa tra religioni, infatti, ma la guerra del Sacro contro l’autosnomos, il “darsi da sé la legge”, la sovranità di Homo sapiens su sé stesso, che sostituisce su questa terra l’eterosnomos, la sovranità di Dio, come fonte di legittimità nel dettare gli ordinamenti, i valori, i diritti e i doveri di ciascuno.
Una guerra che divide il laico intransigente dal laico accomodante assai più che il credente dal non credente, ed evidenzia i due grandi “partiti” storici che percorrono l’Occidente, quello della coerenza o dell’ipocrisia rispetto al disincanto e alla sua logica. La laicità è un corollario del disincanto, e la libertà fino all’irrisione di ogni potere è il corollario di entrambi, lo svolgimento pieno dell’ autosnomos, il cui culmine è dunque quello libertario (e libertino) che proclama: ni Dieu ni maître .
*** Se la religione nella sfera pubblica è addirittura un valore agra giunto, come ripete da anni Habermas in un crescendo, l’“argomento Dio” deve avere piena legittimità nella discussione politica, nei comizi elettorali, nei dibattiti televisivi.
Di conseguenza, questo stesso argomento ha pieno titolo per risuonare nelle aule parlamentari quale motivazione per avanzare, approvare, rifiutare una proposta di legge. Sarebbe paradossale e incongruo che una giustificazione valida per decidere, nel dialogos tra cittadini, chi scegliere quali rappresentanti della propria sovranità, fosse poi bandita dal confronto con cui i “deputati” di quella stessa sovranità arrivano a decretare la legge. Se però la volontà di Dio costituisce una buona ragione democratica per statuire le misure normative che vincolano tutti i cittadini, a maggior ragione varrà come motivo da invocare nelle aule dei tribunali e nelle relative sentenze, con cui si applica la norma generale e astratta alle fattispecie concrete dei casi singoli.
Ma c’è qualcuno, che si proclami laico (e non importa con quali aggettivi limitativi), disposto ad ammettere che si condanni o assolva un imputato perché “Dio lo vuole”? Le pretese teocratiche ne sarebbero perfettamente soddisfatte. La sfe- pubblica è una e indivisibile, anche e proprio per la ricchezza e la pluralità delle sue articolazioni, che la rendono una complessità circolare di ambiti comunicanti. Se il nomos di Dio è ammissibile in uno di essi non può essere escluso dagli altri. L’alternativa perciò è secca. O l’esilio di Dio dall’intera sfera pubblica, o l’irruzione del Suo volere sovrano — dettato come sharia o altrimenti decifrato — in ogni fibra della vita associata. Aut aut.
Ecco perché è inerente alla democrazia l’ostracismo di Dio, della sua parola e dei suoi simboli, da ogni luogo dove protagonista sia il cittadino: scuola compresa, e anzi scuola innanzitutto, poiché ambito della sua formazione. Al fedele restano chiese, moschee, sinagoghe, e la sfera privata “in interiore homine”.
*** Il “darsi da sé la legge”, anziché obbedire a quella eterna di Dio, che fa di Homo sapiens il creatore e signore della norma, possiede una logica incontenibile. Una volta assunta, cioè scatenata dai ceppi dell’ eteros divino, deve incarnarsi progressivamente nelle successive conquiste storiche di universalizzazione dell’ autos umano: dalla laicità di “etsi Deus non daretur” per i sovrani, che per i sudditi suona “cuius regio, eius religio”, alla spartizione di sovranità con parlamenti rappresentativi censitari, alla “liberté” intrecciata a “égalité” e “fraternité” del primo suffragio “universale”, alla sua implementazione con il voto alle donne. Oppure regredire e dileguare nella restaurazione di etero- nomia del Sacro. Fino alla feccia, eventualmente: la teocrazia.
Ma quale eteros, se l’Unico Dio è diventato plurale? Dopo che i monoteismi hanno soppiantato i tolleranti pantheon “pagani”, ibridabili e interscambiabili, la volontà di Dio, per funzionare da ordinatore sociale, deve essere Una. Il Nomos cui si deve obbedienza, per essere da tutti riconosciuto quale fonte tranquillizzante di senso e di sicurezza, deve essere incontrovertibile, dunque necessariamente Uno. L’eresia, se non viene cancellata sul nascere dal rogo e si afferma come interpretazione alternativa, lo mina irrimediabilmente. L’Altro e Alto, se non resta Uno, se ormai scisso, diventa polemos, consegnato a un’ordalia interminabile.
Ma il giudizio di Dio è visibile solo come verdetto del campo di battaglia. Per non distruggere nelle guerre di religione le società che deve governare, la sovranità del Nomos divino deve dunque essere neutralizzata. L’istinto di sopravvivenza ha forzato l’Europa dei sovrani ad accogliere l’empia invasione della laicità, che vedrà infine i barbari — terzo stato e sanculotti — impadronirsi della sovranità tagliando la testa ai Sovrani.
Una volta istituita la sfera pubblica in forma democratica, rilegittimarvi Dio vuole dire inocularvi il virus che rende incombente e in agguato l’intero percorso a ritroso, fino alla guerra civile di religione, potenziale e permanente. *** Perciò. La religione è compatibile con la democrazia solo se disponibile e assuefatta all’esilio di Dio dalle vicende e dai conflitti della cittadinanza, solo se pronta a praticare il primo comandamento della sovranità repubblicana: non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico.
La religione è compatibile con la democrazia solo se addomesticata, cioè convertita all’autonomia assoluta della norma civile rispetto alla legge religiosa. Solo se persuasa che la sanzione spirituale del peccato non può pretendere il soccorso del braccio secolare che lo renda reato. Di più, la religione deve accettare la libertà del peccato come diritto di ogni cittadino: il peccato mortale garantito e protetto dalla legge, se così ha deciso la sovranità dell’ autosnomos. Accettare e interiorizzare.
Le religioni compatibili con la democrazia sono dunque religioni docili, che hanno rinunciato a ogni fede militante (di sharia e martiri o di legionari di Cristo e altre comunioni e liberazioni) che intenda far valere nel secolo la morale religiosa. Sono religioni sottomesse, che hanno interiorizzato l’inferiorità della “legge di Dio” rispetto alla volontà sovrana degli uomini su questa terra. Sono religioni riformate, perché avvezzano il fedele a una vita serenamente scissa tra l’ordinamento della salvezza e l’ordinamento della convivenza, tra l’obbedienza personale ai comandamenti divini e la doverosa promozione della libertà di ciascun altro di violarli.

il Fatto 9.3.15
Cacciari: “Io denuncio dei disastri, ma è inutile”
intervista di Alessandro Ferrucci


È l’una e trenta, c’è il sole, pochi turisti tra canali, ponti e piazze. È l’una e trenta “ma non ho fame, non mangio quasi mai. No, non sto attento, non ho mai avuto lo stimolo, salto sempre il pranzo. Vuole un bicchiere di vino? ”. Meglio evitare. Meglio mantenere intatte le facoltà cerebrali quando si ascolta Massimo Cacciari dissertare di politica, di Venezia, gli scontri con Massimo D’Alema su Silvio Berlusconi, i dubbi su Matteo Renzi, la presunta love story con Veronica Lario. I quadri di Emilio Vedova e i contrasti con il fratello. Fino ai suoi testi, alcuni dei quali talmente complessi da inibire le recensioni dei critici: “Davvero? ”, sorride sornione, “è vero, spesso non sono semplici. Ma non sempre, ne ho scritti alcuni meno complessi”. Iper borghese, ma di sinistra, iper critico verso il Pd, ma sempre democratico, iper impegnato (“do una mano per le primarie”), ma quando si discute non guarda mai l’orologio nè il cellulare. La sua casa sembra la sintesi morettiana di un intellettuale impegnato: libri ovunque, quadri anche in bagno. Ordinata senza esagerare, vissuta, lo stendino carico di panni, il letto tirato su al volo.
Professore, ha più volte definito le primarie una “farsa”, però continua a dare il suo contributo.
(Alza la voce, da semi sdraiato in poltrona si metti in punta di cuscino) M’hanno apparecchiato questa condizione, devo salvare qualcosa! Se la situazione di lotta è questa, lotto, spero che Renzi sbaracchi lo strumento, tanto gli è servito enormemente una volta, primarie concesse da questi deficienti. Adesso cerchiamo di diventare responsabili.
In che modo?
Con un minimo di ragionevolezza, con l’albo degli elettori presentato con congruo anticipo, e solo gli iscritti possono votare. Mettiamo dei limiti.
Teme l’arrivo di truppe “straniere” anche a Venezia?
Qui siamo persone serie.
Anche a Genova e Napoli lo dicevano.
In Liguria erano Regionali. Vede, diventare sindaco è da matti, devi affrontare solo mega-grane con strumenti debolissimi. Le regioni sono potere, sono un mostro, sono dei catafalchi, enti che prendono risorse e le distribuiscono. Non hanno alcuna finanza autonoma, nessuna responsabilità, e potere assoluto. È chiaro che fanno a coltellate per venir eletti.
Anche lei ci ha provato nel 2000.
Nel momento top del berlusconismo e di colata a picco del centro-sinistra. Venne Berlusconi in nave a San Marco per un ricevimento con Galan e famiglia.
Galan ora è agli arresti domiciliari per il Mose.
E mi dispiace, ci sono situazioni molto più scandalose e gravi rispetto alla sua, a partire dal comportamento dei burocrati di Stato. Nessun Galan avrebbe mai potuto fare quello che ha fatto senza l’avallo dei poteri competenti dello Stato, a partire dai Magistrati alle Acque che hanno patteggiato. Erano loro a dire: ‘Il progetto Mose va bene’. E parlo della signora Piva e dell’ingegner Cuccioletta.
Le persone chiave della vicenda.
Per non parlare della Corte dei Conti, gli denunciai tutto. Una volta mi hanno convocato per tre minuti, ma guardavano altrove, non mi ascoltavano. Mentre si appassionarono al filmino promozionale dell’ingegner Mazzacurati. Ma vogliamo parlare di Prodi? di Berlusconi? dei presidenti del Consiglio?...
Cosa in particolare?
Tutti hanno avuto le mie carte, i documenti, i faldoni, i progetti alternativi, i dubbi. Niente. Ribadisco: tutto il Mo-se è, da sempre, in mano ai livelli più alti dello Stato, non fermatevi a Galan.
Resta il punto: lei accusa da sempre la politica, ma dalla politica non può stare lontano.
Si tratta di Venezia, la mia città, il posto dove ho speso gran parte della vita, già nell’89 ero quasi sindaco, poi mi sono presentato nel ’90 con una lista che si chiamava ‘Pci il ponte’, con il simboletto poi ripreso dal Pds e una lista con la metà di non iscritti al partito ma scelti da me.
Lei era occhettiano alla Bolognina.
Certo, ma non iscritto, ero uscito dal partito nel 1984, ma avevo buoni rapporti con tutti, meno che con D’Alema. Nel 1990 ero la sinistra dei club con Paolo Flores d’Arcais.
D’Alema non le è mai piaciuto.
Mai. È sicuramente intelligente e preparato, ma tradito dall’arroganza, per questo fa errori clamorosi.
“D’Alema intelligente” è oramai un assioma. Ma quando l’ha dimostrato?
Quando parla, quando fa un’analisi politica. Lo dimostra perché è un uomo che ha letto due libri, è un uomo colto.
Va bene, ma nei fatti?
Politicamente è travolto dalla presunzione: lui, solo lui, ma allo stesso tempo è anche un uomo di partito, non è Renzi, non è un demagogo. Poi, quando si tratta del suo destino, dove ‘io posso prevalere’, ‘ io posso vincere su di te’, va nel pallone.
L’errore più grande di D’Alema?
Venne qui durante la Bicamerale e mi permisi di manifestargli dei dubbi. E lui utilizzando il mio cognome, disse: ‘Cacciari... Cacciari... ancora non hai capito: Berlusconi è un prigioniero politico’. Con lo stesso metro hanno affrontato Renzi, convinti di essere i più fighi.
Bersani sulla scia di D’Alema...
Un tipino molto modesto, perbene, molto consapevole dei propri limiti. È incredibile come hanno generato Renzi, questi sbarramenti, queste primarie, lo hanno legittimato convinti che avrebbero vinto. Perché loro hanno la struttura, l’apparato, loro... Ma sono loro ad aver sbaraccato ogni forma di partito e si sono affidati a questa farsa di primarie.
Si aspettava il risultato di Bersani nel 2013?
No, mi aspettavo che sarebbe stata dura, ma non una catastrofe simile.
Il giorno dopo del voto, al Fatto disse: “Non hanno capito un cazzo, dovevano schierare Renzi”.
Piuttosto che andare a una competizione con la vecchia guardia, ci saremmo risparmiati questi due anni... ” Forse il primo anno, quello di Letta, in quest’ultimo non mi sembra in grandi difficoltà. Ora invece è debole. Poi lui copre i limiti con la super presenza, con la super volontà di potenza. È chiaro che se si fosse affermato con le elezioni, tutto sarebbe andato prima e meglio.
Non sembra così debole...
Gli resta il vizio di fondo, un vizio che pesa e che potrebbe portarlo a sbattere in ogni momento”.
Non ha opposizione.
Ma nei sistemi attuali l’opposizione non è tanto quella che vedi e che fa casino nelle piazze e in Parlamento. La chiave è un’altra: bisogna capire se è forte solo lui o se è riuscito a conquistare settori importanti, anche della burocrazia. In generale si ha una visione ridicola della politica, come una forza autonoma, mentre la politica conta sempre meno ed è destinata a contare ancor meno. Vede, per capire la forza di un uomo politico, o di una forza politica, bisognerebbe sapere come si ingrana con i veri sistemi di potere.
E Renzi non sa se li ha ingranati.
Questo è il punto. Conosco i sistemi di potere, ma non so come ci si configura Renzi, non so quanto sia dentro.
Per alcuni Renzi è espressione dei poteri forti, per altri no.
Appunto, lo vede? Ed è la domanda decisiva per capire quanto è solida la sua tenuta. Anche i suoi oppositori non lo capiscono, a partire da Cuperlo e Civati con i quali spesso mi confronto. Non inquadrano il personaggio, ed è la loro debolezza.
Lei prima ha parlato di D’Alema, e D’Alema non è un politico in grado di dire “ho sbagliato”. Lei cosa si rimprovera?
Non capire che se uno fa politica, deve fare solo politica. Non può nel frattempo andarsene da un Consiglio comunale perché ha un libro da leggere, deve dedicarsi totalmente. Purtroppo non ho pazienza, quando uno dice troppe cazzate, quando la riunione dura troppo, mi sale l’angoscia di tornare a casa”.
Secondo Cesare De Michelis lei è un uomo in grado di dire “ti aspetto di sotto e ti picchio”, ma di non aver mai partecipato a una rissa.
No, non mi offendo mai. Posso mandare affanculo, ma dopo due secondi me ne sono dimenticato.
Celebri le sue urla ai talk shaw, ma si diverte ancora?
Non tanto, ma è un modo per dire due cose, poi mi invitano sempre, dire sempre di no pare brutto. Mi piace andare dalla Gruber, mi è simpatica.
Rispetto a Venezia, rivendica tutte le scelte?
Ho avuto qualche casino con il ponte di Calatrava, una grandissima opera di architettura, solo che è costata un’ira di Dio.
Non mi dirà “per colpa di scelte altrui”.
Da me una frase del genere non la sentirà mai: se uno assume una carica, si deve far carico anche dei padri. In quel caso sono stati sbagliati gli appalti, però ci passa più gente che al ponte di Rialto. Lo rifarei tale e quale... o non lo rifarei viste le grane che ho subito.
Cosa non ha realizzato per Venezia?
Un piano di mobilità acqueo. Non ci sono riuscito. E comunque lei deve parlare di Venezia e Mestre, e su quest’ultima sono stati conclusi degli interventi straordinari, è totalmente cambiata, e in bene.
Lei è molto magro.
Però non pratico alcuno sport, nè dieta. Sicuro che non vuole niente? Ma neanche un caffè; un bicchiere di vino...
No, grazie. Senta, il suo stato da single le ha procurato qualche chiacchiera su un rapporto con Veronica Lario...
Pazzia. Non so chi possa essere stato il matto a tirarla fuori. La voce circolava da tempo, ma non l’ho mai vista, alcuni sono convinti ancora di questa relazione, ma è una leggenda incredibile. Seguivo solo la figlia Barbara all’università.
Per lei Barbara è meglio di Marina in politica.
Di Marina mi parlano come di un manager bravissimo, Barbara l’ho conosciuta in due corsi ed è molto spigliata, parla bene.
Torniamo all’esperienza da sindaco. In quel periodo lei faceva parte di un bel gruppo: Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli e altri. Di quella stagione cosa resta e perché si sono persi un po’ tutti?
Sì, non è rimasto nulla, solo tanti inizi e nessuna conclusione. Eravamo troppo diversi. Il problema è stato l’innesco con un processo costituente a livello nazionale, bisognava modificare l’assetto dello Stato, ma ci fu il blocco totale dei partiti, a partire dalla Lega.
Si è parlato e si parla di eccessiva personalizzazione della politica da parte dei sindaci.
Specialmente nel secondo mandato. Negli anni Novanta avevi un successo anche maggiore: è chiaro che in quel caso le aspettative crescevano e ti chiedevano “la qualunque”. Attese strepitose. Mi chiamavano in continuazione, pretendevano risolvessi qualunque problema.
Ha parlato molto di D’Alema, mai di Veltroni.
Uno debole caratterialmente, è l’opposto di Renzi. Come idee politiche è forse la personalità che sento più vicina a me.
Lui non si è mai definito comunista. Lei è mai andato a Est prima della caduta del Muro?
Due volte, esperienza orribile. Ma peggio in Cina durante la rivoluzione culturale, posto tremendo, ho visto l’inferno. Guardi che tra gli anni Sessanta e Settanta, quasi tutta la dirigenza del Pci era antisovietica, anche i capi, ma furbescamente tacevano.
Diceva della Cina?
Ci sono stato un mese, ti portavano a visitare dei lager convinti di celebrare la loro capacità produttiva. Degli schiavi. In mezzo a condizioni di totale inquinamento.
Le piace Landini?
Mi sembra una persona onesta, anche simpatica, ma non va da nessuna parte. Lo avrei apprezzato di più se fosse partito dal cambiare il sindacato, prima si lavora in casa propria, poi si guarda fuori. E comunque le sue idee non tengono conto del cambiamento dei tempi, a partire dal mercato del lavoro.
Squilla il cellulare, lo vengono a prendere. “Mi scusi, ora devo andare, come le dicevo ho degli appuntamenti per le primarie”. Si alza dalla poltrona. Ma quello appeso è un Vedova? “Sì, aspetti che le mostro gli altri... ” E continua a chiacchierare, senza fretta. Come diceva prima, la politica è molto, ma non è tutto.

Corriere 9.3.15
La Nato non basta, Juncker vuole un esercito Ue
di Luigi Offeddu


Potrebbe essere un’altra idea per il «Piano Juncker», quello degli investimenti da 315 miliardi che dovrebbe rianimare l’economia dell’Ue? O più banalmente un’altra voce di spesa in tempi di crisi, con rischi geopolitici annessi? Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, propone «un esercito europeo, anche per far comprendere alla Russia che facciamo sul serio nel sostenere i valori europei». L’idea viene affidata al settimanale tedesco Welt am Sonntag. E non è certo un’idea leggera, buttata lì. Anche perché foriera di molte domande, e forse polemiche: missioni militari sotto l’egida Ue operano già a rotazione in varie parti del mondo (foto: soldati Eufor in Ciad). Ma Juncker si riferisce evidentemente a qualcosa di diverso, una struttura unitaria con comandi operativi, nuclei strategici e armamenti centralizzati. «Un esercito così — spiega infatti — mostrerebbe al mondo che non ci sarà più una guerra fra Paesi europei, e ci aiuterebbe anche a formare una politica comune degli affari esteri e della sicurezza, in modo che l’Europa possa assumere la sua responsabilità nel mondo». La Nato sembra restare sullo sfondo, non viene per ora coinvolta nel discorso. La nuova struttura europea, argomenta ancora Juncker, servirebbe come un deterrente e «avrebbe potuto essere utile durante la crisi ucraina: con un suo esercito proprio, l’Ue potrebbe reagire più credibilmente a ogni minaccia». Altre parole foriere di perplessità: anche perché una politica degli affari esteri, della sicurezza e della difesa, Bruxelles l’ha già ufficialmente da tempo ed è affidata proprio alla Commissione Europea, cioè a Juncker e alla sua vicepresidente Federica Mogherini. Anche il «far comprendere alla Russia che facciamo sul serio» può essere insieme un ottimo proposito e un germoglio di equivoci. Oggi, infatti, mentre la Ue conferma le sanzioni commerciali e diplomatiche contro Mosca e gli Usa pure, alcuni Stati chiedono una linea più dura, e qualcun altro — l’Italia su tutti — ottiene da Putin lo status di «partner privilegiato», e chiede il suo sostegno per un’eventuale futura azione nei confronti della Libia. Santa Europa: disuniti alla meta, con o senza l’esercito .

Corriere 9.3.15
Siamo noi l’America
Sul ponte della storica marcia per i diritti civili

E Barack «patriota» stavolta piace anche alla destra
Ha ridefinito l’identità di un popolo. Spiegando i segreti della sua «eterna giovinezza»
Pubblichiamo i brani più significativi del discorso che il presidente Usa ha pronunciato sabato a Selma (Alabama) a 50 anni dalla marcia per i diritti degli afroamericani organizzata da Martin Luther King nel 1965


È un raro onore, nella vita, poter seguire l’esempio dei nostri eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Tuttavia, immagino che quando il giovane John Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si avviò verso la Brown Chapel, di certo non pensava all’eroismo. C’erano ragazzi con zaini e sacchi a pelo accorsi da ogni dove. Un dottore spiegava gli effetti dei gas lacrimogeni, mentre i manifestanti scrivevano su un foglietto come contattare i parenti in caso di necessità. L’aria era carica di tensioni, dubbi e timori. I partecipanti cercavano conforto nell’ultimo verso dell’ultimo inno intonato assieme: «Qualunque sarà la prova, Dio ti proteggerà;/ Poggia il capo, se sei stanco, sul Suo petto, Dio ti proteggerà».
Ci sono luoghi in cui è stato sancito il destino della nostra nazione. Selma è uno di questi.
Un pomeriggio di cinquant’anni fa, gran parte della storia travagliata di questa nazione – la vergogna della schiavitù e lo strazio della guerra civile; il giogo della segregazione e la tirannide delle leggi razziali; la morte di quattro bambine a Birmingham e il sogno di un predicatore battista – si è raccolta in questo luogo.
Dall’Alabama all’Ucraina
Gli americani che hanno attraversato questo ponte non avevano un fisico possente, eppure hanno saputo infondere coraggio a milioni di persone. Non erano stati eletti a nessuna carica di governo, eppure hanno saputo guidare una nazione. Si sono messi in marcia come cittadini americani che avevano sopportato centinaia d’anni di brutali violenze e innumerevoli umiliazioni quotidiane, ma non reclamavano privilegi, bensì di essere trattati con giustizia ed uguaglianza, come era stato promesso loro quasi un secolo prima (...). Lo spirito americano che ha spinto giovani, uomini e donne, ad afferrare la fiaccola e attraversare questo ponte è lo stesso spirito che ha spinto i patrioti a scegliere la rivoluzione per sottrarsi alla tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati, dall’altra sponda degli oceani e del Rio Grande; lo stesso istinto che ha spinto le donne a lottare per il voto e i lavoratori a organizzarsi per combattere le ingiustizie; lo stesso istinto che ci ha portati a piantare la bandiera a Iwo Jima e sulla Luna.
È l’idea condivisa da generazioni di cittadini che vedono l’America come una realtà in continua evoluzione, per i quali amare il proprio Paese significa non solo osannarlo o scansare verità scomode, ma saper trovare addirittura il coraggio di causare disordini, la volontà di alzare la voce per difendere ciò che è giusto, ribaltare lo status quo.
È questo ciò che ci rende unici e cementa la nostra fama di Paese delle opportunità. I ragazzi dietro la Cortina di Ferro hanno assistito agli eventi di Selma e un giorno anche loro hanno rovesciato un muro. I giovani di Soweto hanno sentito parlare Bob Kennedy di quel piccolo raggio di speranza e alla fine sono riusciti a cancellare la vergogna dell’apartheid. Dalle strade di Tunisi a piazza Maidan in Ucraina, la nostra generazione di giovani potrà trarre ispirazione da questo luogo, dove coloro che erano senza potere hanno saputo cambiare la più grande potenza mondiale e costringere i suoi governanti ad allargare gli orizzonti della libertà (...).
Una conquista gloriosa, avrebbe detto Martin Luther King. Quale immenso debito di riconoscenza ci lega a loro. Ma la domanda è d’obbligo: come esprimere la nostra riconoscenza?
Rendiamo un cattivo servizio alla causa della giustizia insinuando che pregiudizio e discriminazione siano immutabili, o che le divisioni razziali siano connaturate in America. Se pensate che nulla sia cambiato nell’ultimo mezzo secolo, chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a Chicago o a Los Angeles negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne dirigenti d’impresa, che allora sarebbero state relegate a mansioni di segretarie, se nulla è cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più facile vivere la propria sessualità oggi in America rispetto a trent’anni fa. Negare questo progresso – che è il nostro progresso – equivale a negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità nel fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare l’America.
La musica della libertà
Certo, un errore più comune è suggerire che il razzismo non esiste più(...). Basta tenere aperti occhi, orecchie e cuori per capire che la storia razziale di questo Paese getta ancora la sua lunga ombra su di noi. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la partita non è ancora vinta (...). Con i nostri sforzi congiunti, possiamo tutelare le fondamenta della nostra democrazia, in nome della quale tante persone attraversarono questo ponte, e questo si chiama il diritto di voto. Oggi, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, esistono leggi in questo paese che ostacolano il diritto di voto dei cittadini, anzi, nuove leggi vengono proposte in questo senso (...).
Siamo nati dal cambiamento. Abbiamo infranto le antiche aristocrazie, riconoscendo la nostra nobiltà non nel sangue, ma nei diritti inalienabili concessi dal Creatore. Abbiamo stabilito quali sono i nostri diritti e doveri tramite un sistema di governo autonomo, del popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Per questo siamo pronti a misurarci e a discutere con passione e convinzione, perché sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è quella che noi costruiamo giorno dopo giorno (...).
Siamo noi gli immigrati che arrivarono da clandestini sulle navi, le folle accalcate impazienti di respirare la libertà, i superstiti dell’Olocausto, i dissidenti sovietici, gli orfani sudanesi. Siamo noi i migranti pieni di speranza che attraversano il Rio Grande per dare ai loro figli una vita migliore. Così è nato il nostro Paese. Siamo noi gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e arricchito l’economia del sud. Siamo i braccianti e i cowboy che hanno spalancato il West, e un’infinità di operai che hanno costruito le ferrovie, innalzato i grattacieli e combattuto per i diritti dei lavoratori.
Siamo noi i soldati che hanno fatto la guerra per liberare un continente (...). Siamo i vigili del fuoco accorsi alle Torri Gemelle l’11 settembre, siamo i volontari andati a combattere in Iraq e in Afghanistan. Siamo noi gli omosessuali che hanno versato il loro sangue nelle strade di San Francisco e di New York, proprio come il sangue versato su questo ponte. Siamo noi gli inventori del gospel, del jazz e del blues, del bluegrass e del country, dell’hip-hop e del rock’n’roll; è questa la nostra musica, con tutta la malinconica tristezza e la gioia scatenata della libertà (...).
La nostra marcia
È questa l’America. Non foto di repertorio o storia edulcorata, né tiepidi tentativi di definire alcuni di noi come più americani degli altri. Rispettiamo il passato, ma non lo rimpiangiamo. Non abbiamo timore del futuro, anzi, lo anticipiamo. L’America non è qualcosa di fragile: siamo grandi e, nelle parole di Whitman, sappiamo accogliere le moltitudini. Siamo chiassosi, variegati e pieni di energia, sempre giovani. Ecco perché qualcuno come John Lewis, all’età di 25 anni, si mise alla testa di una marcia storica.
Perché Selma ci dimostra che l’America non è il progetto di questo o di quello. Perché la parola più potente della nostra democrazia è «noi». We The People . We Shall Overcome . Yes We Can . Questo spirito appartiene a tutti.
Cinquant’anni dopo quel Bloody Sunday, la nostra marcia non è ancora finita: ma il traguardo è vicino. Duecentotrentanove anni dopo la nascita della nostra nazione, la nostra unione non è ancora stata perfezionata. Ma il traguardo è vicino. Il nostro compito è reso più facile, perché qualcuno ci ha aiutato a superare il primo miglio. Quando pensiamo che la strada sia troppo difficile, ricordiamo questi primi viaggiatori per trarre forza dal loro esempio, ripetendo le parole del profeta Isaia: «Quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
Onoriamo coloro che hanno camminato, e che ci hanno permesso di correre. Oggi tocca a noi correre, affinchè i nostri figli possano spiccare il volo. E non ci stancheremo, perché crediamo nella grandezza di Dio e crediamo nella sacra promessa di questo Paese.
Che Dio benedica quei combattenti per la giustizia che ci hanno lasciato, che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 9.3.15
“Solo così vinceremo la battaglia”
Selma e mio padre Martin Luther King. La nonviolenza resta l’unica strada
Cinquant’anni dopo la “Bloody Sunday” la figlia del leader del movimento
per i diritti civili invita a seguire l’esempio di quanti marciarono nel 1965
di Bernice A. King


La filosofia di King va oltre il gesto di un attivista che rinuncia alle armi È un modo di essere e una disciplina
Consapevoli che la lotta continua onoriamo quanti diedero la loro vita sfidando la schiavitù razziale

IN TUTTO il pianeta oggi si ricorda Selma. Selma. Il nome stesso evoca immagini di persone diseredate, tuttavia coraggiose, che marciarono valorosamente lungo il ponte Edmund Pettus affrontando poliziotti ostili, gas lacrimogeni e cani feroci. A loro, ai neri, si unirono molte altre persone che non condividevano lo stesso colore della pelle, ma i valori di giustizia e uguaglianza. Attivisti dei diritti civili, leader, giovani e anziani marciarono insieme, decisi a ottenere per i neri d’America il diritto al voto a lungo atteso. Era il sette marzo 1965, culmine della storica Campagna per il diritto al voto del 1965. Quel giorno sarebbe passato alla storia come Bloody Sunday: Domenica di sangue.
Cinquant’anni più tardi, ricordiamo la sofferenza e i sacrifici di coloro che quel giorno si incamminarono da Selma verso Montgomery. Rendiamo onore a coloro che diedero la loro vita sfidando con coraggio l’oppressione razziale durante la Campagna. Il 18 febbraio Jimmy Lee Jackson, nipote di uno dei più cari compagni di liceo di mia madre, fu ucciso dalla polizia a Marion, in Alabama, mentre tentava di proteggere sua madre dalla violenza delle forze dell’ordine durante una manifestazione organizzata nei pressi del carcere in cui era detenuto il reverendo James Orange, uno degli organizzatori della Southern Christian Leadership Conference. Jackson morì otto giorni più tardi. In seguito, durante un attacco di matrice razzista, due sostenitori bianchi del Movimento per il diritto al voto, il reverendo James Reeb e Viola Liuzzo, furono assassinati per essersi uniti alla lotta. I nomi di questi martiri saranno custoditi per sempre negli annali del Movimento americano per i diritti civili e il loro eroico sacrificio non verrà mai dimenticato. Così, ricordiamo. E nel ricordare e rendere onore, dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che la lotta continua. Come affermò tanto incisivamente mia madre, Coretta Scott King, «La lotta è un processo senza fine. La libertà non è mai definitivamente conquistata: ogni generazione deve guadagnarsela e ottenerla». Adesso, nel mezzo della lotta, ci spetta lo straordinario compito di valutare a che punto eravamo il sette marzo del 1965 e adesso.
A che punto siamo adesso? «La lotta è un processo senza fine», è vero, ma perché l’umanità è ancora alle prese con molti degli stessi problemi di cinquant’anni fa? Cosa animava gli eroi della Bloody Sunday che noi dobbiamo coltivare oggi a maggior ragione?
Nei cinquant’anni trascorsi dalla Bloody Sunday ci siamo ripetutamente scontrati con gli stessi problemi perché ancora non abbiamo adottato una filosofia condivisa, la stessa alla quale aderirono gli organizzatori della marcia: la nonviolenza. Questa filosofia, che ha permeato il pensiero, i preparativi e l’implementazione di molte fasi del moderno Movimento per i diritti civili, è da molti attribuita ad alcuni dei movimenti e delle iniziative dei nostri giorni. Ma stiamo davvero testimoniando e abbracciando la filosofia della nonviolenza, la stessa che animò la Bloody Sunday?
La filosofia nonviolenta di mio padre non si limita a pianificare una risposta organizzata a eventi tragici, violenti e razzisti. Va oltre il gesto di un attivista che rinuncia alle armi e alla lotta. Come affermava mia madre, la nonviolenza è «una disciplina spirituale che richiede molta forza, crescita ed espiazione dell’individuo perché uno possa superare quasi ogni ostacolo per il bene di tutti senza preoccuparsi della propria incolumità ».
Abbiamo fatto passi avanti, fisicamente e cronologicamente, ma abbiamo lasciato indietro questa disciplina spirituale. La filosofia nonviolenta che animò la Campagna per il diritto al voto e la Bloody Sunday è inestimabile e fondamentale se vogliamo smettere di sentirci come dei pompieri che accorrono da un’emergenza all’altra. La nonviolenza è uno stile di vita e una strategia perpetua che ci permetterà di porci sull’offensiva anziché mantenerci continuamente sulla difensiva. Saremo in grado di portare il pallone sino a metà campo grazie a decisioni condivise e gioco di squadra invece di preoccuparci delle mosse dei rivali.
La nonviolenza ci fornirà gli strumenti per portare generazioni di individui al tavolo delle trattative e unire le nostre conoscenze, talenti e entusiasmo. Come mio padre scrisse nel suo libro Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità? , riusciremo a organizzare «la nostra forza sino a renderla un potere convincente», a essere consapevoli del fatto che dobbiamo dare la precedenza al potere sui programmi? Se così non fosse, i programmi si rivelerebbero impotenti.
È vero, «la lotta è un processo senza fine», ma non dobbiamo vagare senza meta quando abbiamo l’esempio fornitoci dai coraggiosi e nonviolenti fanti della Domenica di sangue. Essi compresero l’obiettivo, s’impegnarono per una causa comune e si attennero con tenacia e passione alla filosofia, un’ideologia galvanizzante, che era alla base del Movimento.
La nostra battaglia continua e, mentre ricordiamo Selma e la Bloody Sunday, andiamo avanti nella filosofia della Nonviolenza. Credo fermamente che lo dobbiamo a coloro che quel sette marzo del 1965 marciarono verso la violenza e la furia razzista. La loro determinazione e resilienza ci impone di elevare l’umanità con i principi che innanzitutto trasformano noi stessi. Sono questi gli echi che mi giungono da Selma.
(Copyright The Huffington Post. Traduzione di Marzia Porta)

Corriere 9.3.15
Dai Budda di Bamiyan ai siti degli assiri:
Così scompare il patrimonio dell’umanità
La mappa di quanto abbiamo perso
di Lorenzo Cremonesi

qui

Corriere 9.3.15
Un furore (poco religioso) distrugge i capolavori
di Roberto Tottoli


Nimrud, Ninive e Hatra, dove per decenni hanno scavato anche missioni archeologiche italiane, sono l’ultimo capitolo della barbarie dell’Isis. Neppure la Siria, e città millenarie come Dura Europos o Mari, sono state risparmiate: distruzioni e furti fuori controllo le stanno cancellando per sempre.
Il presunto fondamento religioso è quello di distruggere ogni raffigurazione, anche monumentale, che possa ispirare tentazioni idolatriche. Eppure questo furore ha ben poco a che vedere con la storia islamica passata, che le ha conservate, ma riguarda purtroppo quel tradizionalismo di matrice salafita che negli ultimi tempi ha ricevuto sempre più ascolto presso molti musulmani. L’Isis, purtroppo, non è un caso isolato su questo terreno. Caso emblematico sono i ricorrenti attacchi verbali a piramidi e sfinge. Ci aveva provato un salafita egiziano nel 2012, Salem al-Gohari, a dire che la legge islamica ingiungeva la distruzione di piramidi e sfinge, e pochi giorni fa un imam del Qatar ha rilanciato l’anatema da un sito online, con una fatwa che ha avuto una certa risonanza anche in Egitto. Per fortuna, senza seguito. Ma anche qui, nulla di nuovo: il wahhabismo saudita è nato promuovendo la sistematica distruzione di monumenti storici. Alla conquista di Mecca nel 1926 seguì la distruzione dello storico cimitero di al-Baqi‘ a Medina e di altre costruzioni monumentali di ogni genere. Persino negli ultimi anni, per innalzare costruzioni per il pellegrinaggio, non ci si è fatti alcun problema a cancellare testimonianze storiche.
L’Isis ci aggiunge una sadica mediatizzazione e un poco nobile commercio sottobanco per rimpolpare le proprie casse. Ma la rigida applicazione del principio religioso, seppure rigettata dalla maggioranza dei musulmani, tocca una sensibilità ben più ampia. E lo fa in nome di un deformato tradizionalismo che, per rispettare alla lettera un’ingiunzione religiosa, cancella millenni di storia.

Repubblica 9.3.15
Appello dell’Unesco “In Iraq cancellano l’arte dobbiamo agire subito”
Ieri colpito un altro sito archeologico a nord di Mosul Bagdad alla coalizione internazionale: “Serve la forza aerea”
La direttrice Irina Bokova: “L’obiettivo degli estremisti è annullare qualsiasi traccia che testimoni l’importanza del dialogo fra le culture”
intervista di Anais Ginori


Dobbiamo proteggere i monumenti con gli stessi mezzi che usiamo per i civili
È un tentativo di uccidere la libera espressione, che è parte dell’umanità

PARIGI «I gruppi terroristi in Iraq vogliono cancellare la memoria, le radici della nostra umanità, per annullare qualsiasi traccia di dialogo tra culture». Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, lancia un appello per arginare la furia dell’Is contro il patrimonio storico e culturale iracheno. Dopo Mosul, Nimrud, Hatra, ieri è stato colpito il sito archeologico di Khorsabad, nel nord del paese. Il governo di Bagdad ha chiesto alla coalizione internazionale di usare la forza aerea per impedire nuove distruzioni. «E’ urgente intervenire subito — spiega Bokova — Non bisogna scegliere tra vite umane e patrimonio. La strategia dei gruppi armati è la prova che si tratta di una sola e unica battaglia».
E’ una nuova guerra contro la cultura?
«Provo un sentimento di orrore e rabbia davanti a un fanatismo abietto, l’estremismo della più perfetta ignoranza. La barbarie colpisce luoghi simbolo della civiltà mondiale — Mosul, poi Nimrud, città dell’antica Mesopotania, capitali dell’impero assiro — che accompagnano la storia e la memoria dei popoli da oltre tremila anni».
Cosa si può fare per proteggere il patrimonio storico iracheno?
«Non dobbiamo restare paralizzati, in stato di choc, perché è esattamente ciò che vogliono gli estremisti. La protezione della cultura deve imporsi con gli stessi mezzi della protezione dei civili. Gli ultimi crimini contro il patrimonio culturale iracheno dimostrano quanto tutto sia legato: è l’estrema negazione di qualsiasi umanità».
E’ giusto parlare di “crimini di guerra”?
«Lo statuto della Corte penale internazionale definisce crimini di guerra gli attacchi al patrimonio culturale, insieme alla distruzione di scuole e ospedali».
Perché l’Is colpisce non solo persone ma anche opere e monumenti?
«E’ una tappa dentro a un vasto programma di pulizia culturale. I gruppi armati utilizzano l’istruzione e i manuali scolastici per indottrinare i più giovani. Intanto sfruttano anche moderni strumenti di comunicazione e informazione per diffondere il loro velenoso proselitismo, vietano alle bambine di andare a scuola, uccidono i giornalisti, saccheggiano i musei e tutto ciò che può rappresentare la libertà di pensiero e la diversità. Nel colpire la cultura e le sue espressioni, vogliono cancellare la memoria e il patrimonio comune dell’umanità».
La cultura fa paura agli estremisti dell’Is?
«Da quando esistono le nostre società, esiste anche la volontà di creare. Non è un lusso, è l’essenza della nostra umanità. I gruppi armati in Iraq vogliono semplicemente uccidere la libera espressione, facendo tabula rasa del passato. La cultura porta sempre la traccia del dialogo tra i popoli, è nella diversità che le società crescono e si arricchiscono. Ma questo disturba gli estremisti dell’Is. I Buddha di Bamiyan erano rispettati da tutti i viaggiatori che passavano lungo la Via della Seta. E così era per le statue assire di Nimrud, ammirate da milioni di musulmani come parte di un’eredità storica comune. E’ il dialogo tra cultu- re e identità diverse che è inaccettabile per i terroristi».
Avete già calcolato i danni provocati dagli attacchi?
«Aspettiamo conferme precise dai nostri esperti nel paese. Siamo anche in relazione con altre istituzioni locali per raccogliere il maggior numero di informazioni. Sappiamo che dei camion sono stati visti uscire da Nimrud carichi delle opere saccheggiate».
Com’è possibile fermare questo scempio?
«Chiediamo che venga applicata immediatamente la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che vieta qualsiasi commercio di opere e reperti archeologici provenienti dalla Siria. Per l’Iraq la stessa decisione esiste dal 2003. L’Unesco lancerà ora una coalizione mondiale per fronteggiare quest’emergenza. Infine, se il fanatismo è una deviazione intellettuale, dobbiamo rispondere con armi dell’intelletto. Quando la cultura è sotto attacco, bisogna proporre ancora più strumenti culturali, spiegando per esempio l’importanza del patrimonio assiro, ricordando che è un’eredità comune. Mi rivolgo a intellettuali, giornalisti, professori, scienziati: tutti dobbiamo mobilitarci per difendere un patrimonio che è dell’intera umanità».

Corriere 9.3.15
Le Cassandre occidentali che inquietano la Cina
di Guido Santevecchi


Le relazioni tra Cina e Russia sono forti e stabili, la nuova cooperazione si svilupperà intorno a un enorme contratto per portare 400 miliardi di dollari di gas siberiano verso Pechino e si fonda su comuni interessi strategici, ha detto ieri il ministro degli Esteri cinese presentando la politica internazionale della Repubblica popolare per il 2015. È seguito un invito poco diplomatico al premier giapponese Shinzo Abe a venire a Pechino per la parata che celebrerà i 70 anni dalla fine della guerra mondiale: «Benvenuto a condizione che sia sincero, perché 70 anni fa il Giappone ha perso la guerra». Poi la rivendicazione del diritto a costruire isole artificiali nel Mar cinese meridionale: «Non accettiamo critiche, è il nostro cortile di casa». Infine un messaggio a Washington: «Vogliamo riformare l’ordine internazionale, portare idee innovative per andare verso la giusta direzione». Insomma, un ragionamento da grande potenza emergente che ostenta sicurezza.
Ma dagli Stati Uniti arrivano analisi piuttosto diverse. Sul Wall Street Journal il professor David Shambaugh, della Brookings Institution, ha appena scritto: «La fine del partito comunista cinese è cominciata». Secondo Shambaugh la campagna anticorruzione e la stretta contro il dissenso ordinate dal presidente Xi Jinping negli ultimi mesi sarebbero solo la prova della debolezza del sistema e della paura della leadership cinese di fare la fine dell’Urss. Il professore ritiene possibile anche un colpo di palazzo contro il presidente. In effetti, qualcuno ha fatto filtrare un discorso allarmante di Xi: «Quelli che lanciano minacce dicono che dobbiamo aspettare e vedere ciò che è stato preparato per noi. Io dico semplicemente: chi ha paura di chi? Io non mi curo della vita né della morte».
C’è poi il fronte economico del quale parla Roy Smith, che quando era a Goldman Sachs nel 1990 previde la caduta del Giappone (e non fu creduto) e ora dice: «Le debolezze della Cina oggi sono simili a quelle del Giappone allora, la Cina passerà alla storia come l’aspirante superpotenza che non fu».
Avranno ragione le cassandre occidentali o il tranquillo ministro Wang?

Corriere 9.3.15
E la Cina scopre la lingerie (molto costosa)
La campagna anticorruzione del presidente cinese ha un effetto imprevisto: il boom di acquisti di lingerie, perché ciò che sta «sotto» sfugge al dictat della «nuova sobrietà». Crescita a doppia cifra per tutti i brand: da La Perla a Agent Provocateur
di Enrica Roddolo

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Corriere 9.3.15
Un convegno a Firenze
L’intervento del 1915 che cambiò la storia


Poche scelte hanno inciso in modo tanto profondo nella storia d’Italia come quella di intervenire nella Prima guerra mondiale, assunta un secolo fa dal governo guidato da Antonio Salandra. A quella decisione e alle sue molteplici conseguenze è dedicato il convegno «Niente fu più come prima. La Grande guerra e l’Italia cento anni dopo», che si tiene a Firenze il 13 e il 14 marzo: il primo giorno presso l’Auditorium «Cosimo Ridolfi» (via Carlo Magno 7) e il secondo a Palazzo Incontri (via de’ Pucci 1).
L’appuntamento, coordinato da Francesco Perfetti, è promosso dalla Fondazione Biblioteche della Cassa di Risparmio di Firenze: affronta il tema generale dell’intervento nel conflitto, ma ne approfondisce anche l’impatto specifico sulla società fiorentina dell’epoca.
Nel dibattito Sergio Romano si occuperà degli effetti di lungo periodo della guerra, Ernesto Galli della Loggia ne esplorerà il rapporto con le grandi fratture storiche dell’Italia novecentesca, Francesco Margiotta Broglio analizzerà l’atteggiamento dei cattolici verso un conflitto che il papa Benedetto XV definì «inutile strage». Tra gli altri relatori: Cosimo Ceccuti, Valerio Castronovo, Dino Cofrancesco, Massimo De Leonardis, François Livi, Luigi Lotti, Sandro Rogari, Maurizio Serra.
Ai partecipanti sarà donata l’edizione anastatica del libro L’Intervento , pubblicato nel 1930 da Salandra. Per informazioni segreteria@bibliocrf.it.

Repubblica 9.3.15
La concorrenza globale che sconfigge i libertini
di Maurizio Ferraris


I MIEI nonni, sebbene vissuti nella belle époque, ma probabilmente sprovvisti dei mezzi finanziari per goderne appieno, potevano deplorare la decadenza dei costumi nelle generazioni successive. E ancora un libro come Lasciarsi andare, di Philip Roth, uscito nel 1962, narrava di giovani americani schiantati in tenera età da obblighi immensi: sposarsi, avere dei figli, mantenere la famiglia. Ma la vita (e l’opera) successiva di Philip Rorth, così come quella di parecchie generazioni successive, è stata di tutt’altro tipo: progressivamente emancipata dagli imperativi della costruzione della famiglia, della monogamia, della vita morigerata e finalizzata alla riproduzione della forza-lavoro.
Già trent’anni fa, Georges Wolinski (che sarebbe caduto sotto i colpi di una forma particolarmente sinistra di neo-puritanesimo) aveva dipinto, nel personaggio di Junior che appariva su L’Écho des Savanes , un capovolgimento dei ruoli. Il padre (una sorta di alterego di Wolinski), in giubbotto di cuoio e capelli lunghi, viveva in totale un disordine amoroso e dietetico, il figlio (Junior, appunto) era in forma, ben pettinato e ben vestito, e non aveva troppo tempo da perdere in galanterie: il lavoro lo attendeva.
Junior non era propriamente un puritano, era uno yuppie, un giovane professionista urbano incantato dal denaro, che forse aveva messo a frutto le riflessioni di Herbert Marcuse sulla “desublimazione repressiva”, per cui il capitalismo trasformerebbe l’umanità in una massa amorfa di consumatori, e in cambio offrirebbe una certa libertà sessuale, come parte integrante del pacchetto consumistico. Perché non prendersi il grosso del capitale invece che accontentarsi delle briciole?
A trent’anni di distanza le cose sono ancora cambiate. Nel momento in cui Strauss-Kahn si deve appellare al libertinismo settecentesco per giustificare i propri comportamenti (probabilmente perché il loro risvolto venale rende poco credibile uno scenario neohippie), e in cui Michel Houellebecq riscopre il fascino reazionario di Huysmans e di Péguy, la probità dei giovani, oggi generalmente poco inclini al libertinaggio, non ha, con ogni probabilità, le motivazioni arrivistiche degli yuppies d’antan.
Più semplicemente, la globalizzazione ha abolito ogni rendita di posizione, e i giovani dell’Occidente in altri tempi decadente e crapulone devono confrontarsi con altri giovani probissimi e infaticabili di tutto il resto del mondo. Per esempio, si confrontano con orientali che nella famiglia trovano la spinta e il sostegno per diventare scienziati o manager, o magari violinisti iper-virtuosi perché capaci di sacrifici inauditi, e che risultano straordinariamente avvantaggiati rispetto alle famiglie occidentali spesso spezzate e ricomposte, e dunque con minore potere economico.
Schopenhauer amava citare il detto di un inglese (che viveva nei tempi eroici del capitalismo coloniale): «Non sono abbastanza ricco per permettermi una coscienza ». Nel momento in cui la globalizzazione ha esteso la competizione su scala mondiale, la coscienza, o almeno un certo puritanesimo, sembrano un buon investimento, e se non altro una strategia di sopravvivenza, per un Occidente che non è più abbastanza ricco per permettersi il libertinaggio.

Repubblica 9.3.15
Il romanzo criminale del patrimonio artistico
Il saggio di Tomaso Montanari sull’ingerenza e le storture dei privati nei beni culturali
di Adriano Prosperi


PRIVATI del patrimonio siamo stati e continuiamo a essere tutti noi, cittadini italiani, vittime per lo più distratte ma spesso cieche e consenzienti di quello che Tomaso Montanari definisce il “romanzo criminale” dei depositi pubblici della cultura e dell’arte. Che però non è un romanzo: è la storia dell’Italia nell’epoca della Grande Trasformazione. Nell’Italia povera e devastata del dopoguerra si entrava gratis agli Uffizi e negli altri grandi luoghi d’arte. E il restauro era un’attività di alta qualificazione soggetta a rigorose norme pubbliche. Quando Totò voleva far ridere inventava lo sketch della vendita della fontana di Trevi. Oggi non c’è più niente da ridere: l’idea di vendere il patrimonio pubblico per ripianare i debiti del paese è l’opinione “mainstream”. Intanto le opere d’arte viaggiano freneticamente, qualche volta periscono in viaggio (vedi gesso del Canova): fanno lo spogliarello in sfilate di moda. Si è costituito un jet set dell’arte che vede in prima classe i Bronzi di Riace, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e pochi altri. L’ignoranza trionfa. Montanari racconta di mandrie di visitatori migranti verso la mostra strombazzata ignorando il grande capolavoro nella vicina chiesa. E chi fa ballare i burattini sono enti privati, fondazioni sedicenti “no profit” a cui gli enti pubblici — regioni, comuni, ministeri — pagano rimborsi a piè di lista o affittano la riscossione dei biglietti. Si fanno mostre assurde, culturalmente ignobili. Si fanno cose chiamate “eventi”: e si pronunzia con unzione devota la detestabile parola. Gli studi e il restauro non esistono quasi più. Perché accade questo? Ce lo spiega molto bene Tomaso Montanari in Privati del patrimonio , che meriterebbe di essere letto come un manuale di storia contemporanea nelle scuole italiane.
Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ne ha tradito e deformato il linguaggio. Alla “tutela” ha sostituito la “valorizzazione”. Nel contesto del liberismo selvaggio trionfante senza resistenze nel paese del più grande partito comunista d’Occidente , valorizzare ha significato privatizzare. L’arte e il paesaggio sono stati abbandonati ai privati. Un tradimento della Costituzione. Chi è stato? Il suo nome è legione. Basta vedere nell’elenco di Montanari quanti hanno rivenduto la micidiale metafora inventata da un mediocrissimo ministro piduista della cultura, quella del patrimonio artistico come “petrolio italiano”. Si fa prima a dire chi non lo ha fatto, per esempio il presidente Ciampi. Sul lato opposto è d’obbligo la presenza dei ministri della cultura (tutti quelli succeduti a Pedini, fino a oggi). Qualcuno ha ricamato intorno all’immagine: così ad esempio tale Giovanna Melandri passata direttamente dalla politica al governo del Maxxi, che immaginò l’Italia come una bella signora femminilmente seduta sul suo tesoro. Più efficace e diretta nella sua rozzezza la definizione che il grande comunicatore Matteo Renzi ebbe a dare degli Uffizi: una macchina da soldi. Ma, come dimostra in maniera inappuntabile Montanari, quella macchina funziona a rovescio: prende soldi pubblici e li trasferisce a privati. Se al Colosseo ancora non si fanno le battaglie di gladiatori auspicate dal giornale della Confindustria, basterà la gestione ordinaria a garantire al privato capitalista che se n’è assunto il restauro di lucrare per anni in pubblicità e soldi. E intanto la Società Autostrade ha messo le mani sull’Appia Antica. Roma e Firenze unite nel disastro: a Firenze, capitale del Rinascimento antico e della nuova controriforma, tutto si merca: ponti storici, sale di musei, Cappellone degli Spagnoli, saloni di Palazzo Vecchio. Il “bel San Giovanni” di Dante forse non arriverà al centenario della morte di Dante in mano pubblica. Intanto si è visto impennacchiare da una ditta di moda come il cavallo di una scuderia privata. E da Firenze la rete dell’associazione “no profit” Civita, presieduta da Gianni Letta, con la sua “Civita cultura”, dove spicca il nome di Paolucci, si allunga come una piovra.
La verità è amara, la libertà d’opinione è a mal partito. Montanari si prepari a pagare per le sue campagne. Come quella che in questi giorni lo oppone a un Pd toscano che sta preparandosi a espellere dal governo della Regione l’assessore Anna Marson, colpevole di aver tentato di difendere le Apuane dallo sfruttamento selvaggio favorito dal partito del mattone e delle pietre. E delle privatizzazioni. Nello Stato privatizzato e servile del “jobs act”, tutti coloro che vivono di lavoro, intellettuale o manuale, stanno imparando sulla loro pelle che non è dello Stato che debbono avere paura: del resto, lo scriveva profeticamente Giuseppe Dossetti, un padre della Costituzione nel cui nome Montanari chiude il suo libro.
IL LIBRO Privati del patrimonio di Tomaso Montanari ( Einaudi, pagg. 172, euro 12)