martedì 10 marzo 2015

La Stampa 10.3.15
“Addio al vecchio complesso di Edipo. La neuroscienza non sa che farsene”
Saggio dello psichiatra Orbecchi: è ora di rottamare la psicanalisi di Freud
di Gabriele Beccaria


Un secolo sul lettino e stiamo così così. Ma le nostre anime non sono state abbandonate. Anzi. La psicoterapia del futuro è già tra noi. Scintillante di scoperte, ci sta esplorando e promette - lei sì - di guarirci, rivoluzionando l’idea di mente e di personalità. E facendo molto meglio del padre-padrone Freud.
A raccontare il Rinascimento della psicoterapia è il saggio Biologia dell’Anima, (Bollati Boringhieri, pp. 187, €18). E stavolta non c’entrano improbabili terapie in forma di blitz o app sospese tra il tecnologico e il miracoloso. L’universo che racconta Maurilio Orbecchi assomiglia all’albero della vita di Darwin: a partire dalla radice evoluzionistica nei rami si intrecciano tante discipline, dalla psicologia animale alle neuroscienze, proiettandoci in una dimensione inimmaginabile per la psicanalisi: dimentichiamo tabù dell’incesto e complessi edipici. Solo da poco abbiamo capito che siamo creature ibride. Complicate. Un po’ angeliche e un po’ diaboliche, altruiste ed egoiste, in cui i poli della cognizione e dell’affettività sfumano l’uno nell’altro. Freud, che credeva nel «perverso polimorfo», ne sarebbe sconcertato.
Orbecchi, da psicoterapeuta, lei delinea un’inedita «cura dell’anima»: ma funziona? E come?
«Stiamo entrando in una nuova era attraverso una concezione trasversale: invece del classico modello isolato, come quello di Freud o Jung, assistiamo alla convergenza di diverse scuole di psicoterapia su uno schema comune, che nasce dalle scienze della vita e del cervello».
Chi sono i nuovi «maestri»?
«È una psicoterapia che nasce dal “basso”, ma con il contributo di tanti studiosi: per esempio l’americano Philip Bromberg, l’australiano Russell Meares, l’ungherese Peter Fonagy, gli italiani Giovanni Liotti e Vittorio Lingiardi».
Ammetterà che si è agli albori: non è così?
«Nei saggi “standard” di psicoterapia non si trova ancora, per esempio, una relazione chiara tra l’evoluzione e i modelli interpretativi psicoterapeutici. Il mio libro vuole colmare una lacuna e dimostrare come la teoria dell’evoluzione e la psicologia animale gettano luce su aspetti importanti della psicologia e psicopatologia della mente: sono aspetti che si rivelano diversi da quelli immaginati da Freud e Jung».
Niente complesso di Edipo?
«No. Perché dobbiamo immaginare fattori di nevrosi specifici per gli esseri umani, come, appunto, il desiderio incestuoso del complesso edipico, quando le carenze affettive e i maltrattamenti spiegano le nevrosi in tutti i mammiferi sociali? Oppure: perché immaginare in noi una pulsione di morte, quando di questa non c’è traccia nei primati non umani, mentre risentiamo dell’ossessione animale della dominanza che è alla base di tanti conflitti della nostra specie? O ancora: perché pensare che cerchiamo lo status per sublimare il mancato appagamento sessuale, quando nel mondo animale la ricerca di status avviene anche per ottenere maggiore disponibilità sessuale? Non occorre più evocare narrazioni mitologiche».
E allora come si guarirà?
«Partendo dalla consapevolezza che le guarigioni non avvengono attraverso i vecchi modelli interpretativi. Alcuni vengono addirittura invertiti: il paziente non cambia perché ha capito, ma capisce perché è cambiato grazie a un rapporto empatico, prima che cognitivo, con lo psicoterapeuta».
È il contrario dell’assunto freudiano che imponeva la distanza tra medico e paziente?
«Contraddice quell’assunto. Freud sosteneva di guarire l’inconscio attraverso la coscienza con la celebre frase “Là dove c’era l’Es ci sarà l’Io”. Il suo era un approccio cognitivo. Oggi, invece, l’approccio tende a diventare affettivo».
E l’idea di mente si trasforma: in che senso ha una struttura dissociativa?
«Freud credeva nell’Io unitario, ma oggi si è dimostrata l’esistenza di tanti processi psicobiologici che collaborano tra loro, con funzioni diverse, e che nel loro lavorìo generano una sensazione solo apparente di Io unitario: come avevano intuito William James e Pierre Janet, qualsiasi scelta facciamo scontentiamo qualche parte del nostro “parlamento interiore”. Se normalmente coordiniamo le parti, la cosa non ci riesce quando ci sono dei traumi, in età infantile o da adulti, senza dimenticare il ruolo di genetica ed epigenetica».
Nel libro lei «rimuove» l’interpretazione dei sogni: perché?
«Il tema resta aperto e la scienza dà risposte diverse: se abbiano un significato o se siano solo frammenti di eventi. Personalmente li uso in senso ermeneutico: facendo lavorare il paziente sulla costruzione di un senso».

La Stampa 10.2.15
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo


Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.

Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato. Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.

Repubblica 10.3.15
”In calo le offerte alla Chiesa” Allarme della Cei


ROMA «Dobbiamo riconoscere con onestà il fallimento del sistema di contribuzione volontaria, legato alle offerte deducibili». Così il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino. Nel 2013 le offerte deducibili dalla dichiarazione dei redditi, destinate al sostentamento del clero, sono state 11,252 miliardi di euro, il 4,9% in meno (586 milioni) rispetto al 2012.
Una delle cause è la crisi economica, ma il calo sconcerta «per quell’appartenenza ecclesiale che l’introduzione di tale forma di solidarietà intendeva esprimere». Si prevede che anche le entrate dall’8 per mille per il 2015 calino di due punti percentuali.

il Fatto 10.3.15
Costituzione. ”Riforma”, seconda lettura
Oggi scassano la Carta alla Camera.
Il giurista Stefano Rodotà: “Premier padrone”
“Così stravolgono anche la forma repubblicana”
intervista di Silvia Truzzi


A Montecitorio riprende la discussione sul progetto Boschi: dalla cancellazione del Senato elettivo alla corsia preferenziale per gli atti del governo. Il giurista: “A rischio anche la forma repubblicana, l’Italia può diventare ‘democratura’...”
E dunque, nonostante i Nazareni tramontati e i mal di pancia dei dissidenti Pd, si va verso la riforma del Senato. “Questa riforma è un cambiamento radicale del sistema politico-istituzionale: cambia la forma di governo e viene toccata la forma di Stato”, spiega Stefano Rodotà, emerito di diritto civile alla Sapienza. “E dire che si sarebbe dovuto procedere con la massima cautela: questo Parlamento è politicamente delegittimato dalla sentenza della Consulta. Invece si è scelto di andare avanti imponendo un punto di vista non rivolto al Parlamento, ma a un patto privato, il Nazareno”.
Lei – come altri “professoroni” – è stato da subito molto critico.
La riforma è un’occasione perduta: la discussione che all’inizio era stata generata dalle proposte del governo, aveva determinato una serie di indicazioni che non erano tese all’immobilismo, ma partivano da due premesse. Il Titolo V è stato un disastro e il bicameralismo perfetto non può essere mantenuto: si poteva inventare – era possibile - una forma di organizzazione che concentrasse il voto di fiducia nella Camera superando il sistema attuale, creando nuovi equilibri e controlli e non scardinando la Repubblica parlamentare voluta dalla Costituzione. Ora si comincia ad avere la consapevolezza di ciò che sta accadendo: molti tra quelli che avevano detto “non esageriamo, non si dica svolta autoritaria ” stanno cambiando idea. Si parla di un’Italia a rischio “democratura”, di tendenze plebiscitarie, di deperimento del sistema dei controlli. Se ne sono accorti un po’ tardi.
L’Italia non sarà più una Repubblica parlamentare?
Formalmente resterà tale, ma ci sarà un accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo e della Presidenza del Consiglio e insieme una depressione di ogni forma di controllo. Non dimentichiamo mai che questa riforma è accompagnata da una proposta di legge elettorale che costruisce una maggioranza artificiale nell’altra Camera: Montecitorio diventerà un luogo di ratifica delle decisioni del governo.
Lei dice: “Si tocca anche la forma di Stato”: cambierà l’equilibrio tra governanti e governati?
L’ultimo articolo della Carta dice che la forma repubblicana non è modificabile. Non vuol dire solo che non si può tornare alla monarchia: si vuol dire che la forma di Stato delineata dalla Costituzione – una delle nuove costituzioni del Dopoguerra, segnata dal passaggio da Stato di diritto a Stato costituzionale dei diritti - è una combinazione tra repubblica parlamentare e repubblica dei diritti. Se si abbandona questa strada, si rischia di uscire dall’art. 139 modificando la forma repubblicana, ritenuta invece un limite invalicabile.
I richiami sulla gravità di questo passaggio sono stati trascurati?
Assolutamente sì, tanto che oggi siamo alla fine di un iter molto preoccupante perché nasce dalla cultura della decisione. In questi anni decidere è stato considerato l’unico imperativo.
Di fatto, si sono già modificati i rapporti tra governo, parlamento e partiti. Basta vedere quante leggi per decreto, o le indiscrezioni sulla riforma della Rai.
C’è già una trasformazione del sistema. L’abuso della decretazione ha una lunga storia in Italia, ma il decreto legge è stato impugnato come un’arma, dicendo “è l’unico modo che consente di decidere”. Sulla Rai c’è un punto fermo rappresentato da una sentenza della Consulta che ha esplicitamente detto che la Rai è affare di parlamento e non di governo. Comunque se il controllo parlamentare avrà le caratteristiche derivate dal combinato disposto di riforme e Italicum, quel Parlamento non sarà altro che la prosecuzione dell’esecutivo: la designazione da parte del governo di un amministratore delegato, non troverà nel Parlamento nessuna forma di controllo.
Anche sul Jobs Act, il governo non ha tenuto in considerazione il parere delle commissioni Lavoro contrarie a inserire nel testo i licenziamenti collettivi.
La crescente delegittimazione del Parlamento è evidente. Il tema del licenziamento collettivo non è un fatto marginale, cambia la qualità della disciplina del licenziamento. Il parere delle commissioni non era vincolante certo, ma la domanda è: il governo tiene conto del parere del Parlamento? La risposta è: no.
La questione centrale della riforma come dell’Italicum – sottolineata anche dai giudici della Consulta sul Porcellum - è la rappresentanza dei cittadini.
Ci sono molti dubbi anche sull’Italicum: la Corte dice chiaramente che l’obiettivo e ricostituire le condizioni della rappresentanza. Aggiungo: sei mesi prima della sentenza sul Porcellum, la Corte si era espressa a favore della Fiom contro la Fiat sulla rappresentanza dei lavoratori nelle commissioni. Voglio dire: la Consulta afferma a diversi livelli che una delle caratteristiche del nostro sistema è la garanzia della rappresentanza.
Renzi ha detto che con il referendum decideranno i cittadini.
Vorrei far notare che questo è un potere dei cittadini, previsto dalla Carta, non una concessione del governo. Ora viene adoperato per dire alla minoranza del Pd: non vi prendiamo in considerazione, decideranno i cittadini. Cioè di nuovo l’insignificanza del Parlamento.

Corriere 10.3.15
Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza
Basterà il 40% dei voti per avere il 54% dei seggi
All’eventuale ballottaggio può vincere anche una lista che rappresenti una minoranza esigua
di Valerio Onida

Presidente emerito della Corte costituzionale

Caro direttore, l’aspetto più controverso della nuova legge elettorale in discussione non è quello dei capilista «bloccati» e delle preferenze, bensì il meccanismo di attribuzione del «premio». Al primo turno basterà il 40 per cento, il che vuol dire che il 54 per cento dei seggi potrà andare a un solo partito non scelto e magari fieramente avversato dal 60 per cento dei votanti. All’eventuale secondo turno vincerà chi otterrà più voti, perché le liste in competizione saranno solo le due più votate, in qualunque misura, al primo turno. Ma la competizione sarà falsata dal fatto che tutte le altre liste saranno escluse dal voto; e quindi gli elettori che le hanno scelte al primo turno non potranno esprimere più un voto di lista «libero». La maggioranza assoluta dei seggi potrà andare a una lista che gode della fiducia di una anche ridotta minoranza degli elettori (ad esempio il 25 o il 30 per cento), essendo al secondo turno precluso ogni apparentamento e «vietato» esprimere una scelta diversa da quelle che (magari per pochi voti) sono risultate prima e seconda al primo turno. Inoltre, è possibile che al secondo turno non votino, perché non si sentono rappresentati dalle due liste in campo, molti elettori che pure si erano espressi al primo turno, e che quindi la maggioranza assoluta dei seggi venga attribuita ad una lista che né al primo, né al secondo turno abbia ottenuto la fiducia della maggioranza di coloro che hanno partecipato al voto. Il premio, insomma, sarebbe assegnato anche se la vittoria nel secondo turno (che non richiede alcun quorum di partecipazione) fosse frutto del voto espresso da una parte ridotta dell’elettorato non astensionista, e quindi di una «non maggioranza».
Si dice: ma questa è la logica del «ballottaggio». In realtà è equivoco persino parlare di ballottaggio. Questo, classicamente, è un sistema adottato per eleggere una singola persona (come ad esempio il sindaco, o come il deputato — unico — di un singolo collegio nei sistemi uninominali). Poiché uno solo è il seggio da coprire, alla fine il ballottaggio è necessario per eleggere chi fra i contendenti gode del maggiore favore dell’elettorato. Ma qui si tratta di eleggere un’assemblea, non una carica monocratica: un’assemblea che dovrebbe riflettere e rappresentare i diversi orientamenti dell’elettorato. Per questo servono i partiti, che elaborano e avanzano le diverse proposte (collettive). Non è detto (e non è così oggi in Italia) che i partiti, e perfino gli orientamenti politici di fondo, siano solo due: dunque rappresentare l’elettorato non può voler dire attribuire senz’altro la maggioranza dell’assemblea ad uno solo di essi, anche minoritario, così che questo possa impadronirsi del governo.
Per di più non è detto che l’alternativa secca proposta al secondo turno fra le due liste più votate esprima davvero la più significativa ed esauriente contrapposizione fra le forze che rappresentano gli orientamenti fondamentali dell’elettorato, come per esempio centrodestra e centrosinistra. Potrebbe accadere che gli elettori si trovino un giorno a poter scegliere solo fra il Pd e una formazione di tipo estremistico come l’attuale Lega, oppure solo fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, oppure addirittura fra un centrodestra «estremizzato» e il Movimento 5 Stelle.
Non vale invocare l’obiettivo della cosiddetta governabilità. In regime parlamentare, il governo è espressione della maggioranza delle Camere, non necessariamente formata da un unico partito (anche la vecchia Dc quasi mai governò da sola, per fortuna) e nemmeno necessariamente da un unico schieramento (di qui anche la possibilità delle «grandi coalizioni»). Le maggioranze possono nascere in Parlamento, sulla base delle convergenze e anche dei compromessi che si realizzano sui programmi. Non si può, in nome di un’esigenza di governabilità, disattendere e tradire la fondamentale esigenza di rappresentatività del Parlamento (è questo anche il senso della sentenza della Corte costituzionale che ha censurato la legge elettorale del 2005), pretendendo che in esso debba necessariamente dominare uno e un solo partito, anche se non esprime la maggioranza del Paese. Il Parlamento è assemblea, cioè voce collettiva della nazione, e non luogo di ratifica di decisioni prese al di fuori, né semplice tribuna di un dibattito pubblico predeterminato nell’esito. Per questo servono i partiti, e servono il confronto e anche le convergenze fra di essi.
In realtà, dietro queste scelte sulla legge elettorale, si rivela la tesi (già vittoriosamente contrastata nel referendum del 2006, ma ancora riaffiorante) secondo cui agli elettori deve rimettersi in sostanza solo la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranza parlamentare è una sorta di appendice (non a caso si parla di «sindaco d’Italia»). E si rivela l’altro assioma, per cui il sistema politico dovrebbe articolarsi fondamentalmente solo in due partiti, ciascuno dei quali propone un unico leader. Il bipartitismo è (quando lo è: oggi non lo è, non solo in Italia) il risultato della storia, non di una ingegneria elettorale.

Repubblica 10.3.15
Chi svilisce il Parlamento
di Massimo L. Salvadori


NON è molto che la presidente della Camera ha solennemente ammonito a non dimenticare che il Parlamento è la Casa della Democrazia. Lo ha fatto indirizzandosi particolarmente al capo del governo, “l’uomo solo al comando” che ha un’eccessiva inclinazione a restringere quando non a ignorare il ruolo delle istituzioni rappresentative per centrare i suoi obiettivi. Ciò che è emerso è un classico caso di tensione fra potere legislativo e potere esecutivo. Naturalmente l’uscita della Boldrini ha suscitato il disappunto di Renzi e l’entusiasmo del variopinto schieramento anti-renziano i cui più accesi esponenti da tempo gridano alla dittatura incombente.
Dichiarare alla luce dei principi che il Parlamento è la Casa della Democrazia è giusto e bello. Ma guardare a che cosa in concreto riducano l’attività del Parlamento e il processo democratico le continue ondate di gladiatorio e incivile ostruzionismo messe in atto da opposizioni di spuria composizione legate dall’unico scopo di bloccare l’azione dell’esecutivo è parimenti doveroso. La nobile Casa della Democrazia è gravemente malata. Vi albergano o partiti solo più ombre di partiti, divisi al loro interno in fazioni nemiche, sull’orlo della scissione, dalle leadership contestate; o partiti che, mentre gridano contro “l’uomo solo al comando”, si piegano ad essere proprietà di una persona e proprio per questo perdono pezzi; o partiti, come il Pd, il quale, pur essendo quello che maggiormente conserva l’aspetto di un partito, è a sua volta preda di affanni e divisioni che inducono la minoranza a mettere a ripetizione il bastone nelle ruote del suo segretario- capo del governo. Non interessa qui indugiare a riflettere su chi “abbia torto o ragione” in merito alle tante questioni, ma constatare il nudo fatto che il Parlamento è male abitato e serve al peggio il paese. È male abitato per la scarsa e persino scarsissima qualità di troppi deputati e senatori e inoltre perché ormai i rappresentanti del popolo — stante tutte le mutazioni avvenute dalle ultime elezioni — non rappresentano più gli italiani. Non vi è partito che non appaia più o meno gravemente usurato. Senza considerare questo quadro non si capisce il duplice motivo per cui da un lato lo scompaginato schieramento delle opposizioni al governo non abbia altro comun denominatore se non fare fronte contro il governo, dall’altro il premier sia indotto ad assumere il ruolo del decisionista che si sente investito del compito-dovere di assicurare, manovrando nelle sabbie mobili dei cambiamenti di orientamento dei gruppi parlamentari, un governo al paese e di realizzare le riforme istituzionali, a partire dell’abolizione di quel bicameralismo che più di così non avrebbe potuto screditarsi. Non cogliere il nesso tra i due aspetti significa non vedere la realtà.
Si sa che le riforme piacciono agli uni e non agli altri. È nella logica elementare della lotta politica e sociale. Sennonché in un Parlamento che voglia non solo a parole onorare la democrazia, dovrebbe valere una regola basilare, senza la quale il processo legislativo si inquina: il rispetto della regola della maggioranza all’interno dei partiti come presupposto del formarsi di una maggioranza che non balli ogni giorno. Ma ecco il problema: il generale disordine che regna nei partiti — da cui si vede quanto non sia esente anche il Pd — porta le minoranze a non voler rispettare la regola, con l’effetto che formare in Parlamento delle maggioranze dotate di una qualche stabilità diventa un lavoro di Sisifo. Da ciò l’inclinazione dell’esecutivo a far ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia, così attivando “maggioranze forzate” che suscitano le proteste. Come uscire da un simile infelice stato di cose è davvero arduo dire e immaginare. Ragionevole pensare che la via sarebbe l’approvazione, una volta decretata la fine del bicameralismo, di una decente legge elettorale e poi andare al voto. Renzi si propone di andare avanti ed evitare il voto prima del 2018; e ostenta ottimismo. Le opposizioni dal canto loro seminano mine sul percorso delle riforme. Si capisce che i più agguerriti nel farlo siano vuoi i parlamentari i cui partiti ancor più che traballare versano in pezzi e quindi hanno una paura matta delle elezioni; vuoi i leghisti e i grillini che, pur concorrenti tra loro e anch’essi con problemi di tenuta interna, puntano a fare cadere il governo di Renzi traditore-despota senza curarsi del caos politico che ne deriverebbe. L’interesse comune dell’ammucchiata dei molto diversi è di trasformare ad ogni buona occasione il Parlamento in un ring popolato da urlatori impegnati a opporre al percorso delle riforme insormontabili ostacoli. Difendere la dignità del Parlamento è dunque bello, ma vederlo per quel che è e strigliarlo come merita è un dovere nazionale.

il Fatto 10.3.15
La nuova Costituzione secondo Matteo: Come cambia la Carta
Alla Camera riprende il voto sulle riforme della corsia preferenziale per il governo al Senato dei nominati
Ecco tutte le novità del Ddl Boschi
di Luca De Carolis


Addio al bicameralismo perfetto e al vecchio Senato, trasformato (o ridotto) in un ente di secondo livello con funzioni per lo più consultive. Corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. Quorum più alti per eleggere il presidente della Repubblica e per le leggi di iniziativa popolare. Sono i punti principali della riforma costituzionale renziana, approvata in prima lettura in Senato lo scorso otto agosto. Oggi dovrebbe arrivare il sì della Camera, ma per arrivare al via libera definitivo la strada è lunga. Il ddl di revisione costituzionale, come prevede l’articolo 138 della Carta, va approvato in doppia lettura conforme da Camera e Senato, e tra una votazione e l’altra devono trascorrere almeno tre mesi. Nel secondo passaggio è richiesto il sì della maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti di ciascuna Camera). Una volta approvato da Montecitorio, che l’ha sottoposto a lievi modifiche, il ddl di riforma dovrà tornare in Senato, dove si dovrà chiudere la prima lettura (ma si voterà solo sulle parti modificate). Toccherà quindi di nuovo alla Camera (non prima di giugno) e poi a palazzo Madama, per quella che sarebbe l’ultima votazione. La Carta prevede l’obbligo del referendum qualora, in seconda lettura, il ddl costituzionale non venga approvato con la maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera. Ma il governo vuole che la consultazione popolare si svolga in ogni caso, come ribadito nelle ultime ore da Matteo Renzi.
Addio al bicameralismo perfetto
L’abolizione del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri) è il primo obiettivo della riforma, nonché il suo principale rischio a detta delle opposizioni e di diversi costituzionalisti, che temono un grave indebolimento del processo democratico di formazione delle leggi. Con il ddl costituzionale, Montecitorio diventa la Camera “forte”, mentre il Senato viene trasformato in un organo a elezione indiretta, composto da 95 tra consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali. A questi si aggiungono gli ex presidenti della Repubblica e i cinque senatori nominati dal Capo dello Stato: non più a vita, ma per 7 anni. I senatori rimangono in carica per la durata del Consiglio regionale che li ha nominati, e non percepiscono alcuna indennità parlamentare. Ma a mutare sono soprattutto i poteri dei due rami del Parlamento.
La Camera (che mantiene i suoi 630 membri) diventa l’unica a votare la fiducia al governo e a controllare il suo operato, e può approvare da sola la grandissima parte delle leggi. Con la riforma, dovranno essere approvate da entrambe le Camere solo le riforme e leggi costituzionali, le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, la ratifiche dei trattati internazionali, e le leggi sui referendum popolari. Per le altre basterà il sì della Camera. Ma il Senato può comunque intervenire, chiedendo di esaminare i ddl passati alla Camera entro 10 giorni dalla loro approvazione. Le proposte di modifica vengono inviate entro 30 giorni a Montecitorio, che deve dare il via libera definitivo al testo, e può anche ignorare i suggerimenti dei senatori. Il passaggio in Senato è obbligatorio per le leggi di bilancio. Capitolo a parte per le leggi “a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica” o a tutela dell’interesse nazionale: in questo caso, la Camera può ignorare le modifiche proposte dal Senato solo votando a maggioranza assoluta.
Corsia accelerata per l’esecutivo
Un altro punto cruciale è il “voto a data certa”, in base al quale il governo può chiedere alla Camera di deliberare che un ddl “essenziale per l’attuazione del programma del governo” venga votato in via definitiva entro 70 giorni. In pratica l’esecutivo può chiedere una corsia accelerata per i suoi provvedimenti, grazie a cui vengono dimezzati i termini per chiedere modifiche a disposizione del Senato. Il voto a data certa è escluso per pochissime leggi, tra cui quelle che vanno approvate da entrambe le Camere e quelle che concedono l’amnistia e l’indulto.
Dal Quirinale ai referendum, cambiano i quorum
A eleggere il presidente della Repubblica saranno i parlamentari, senza più l’apporto dei delegati regionali. Si alza il quorum per l’elezione, che dal quarto scrutinio richiede la maggioranza dei tre quinti dei parlamentari (attualmente basta la maggioranza assoluta) e dal settimo scrutinio in poi vuole i tre quinti dei votanti. Modifiche anche per il referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila persone, il quorum per approvarlo diventa la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni politiche (e non più degli aventi diritto al voto). Per le proposte di legge iniziativa popolare serviranno 150 mila firme, rispetto alle 50 mila attuali (altra norma contestata).
Enti tagliati e nuove competenze
La riforma incide sul Titolo V. Elimina il riferimento alle province come enti costitutivi della Repubblica e sopprime la competenza concorrente tra Stato e Regioni, ridistribuendo le singole materie tra amministrazione ed enti locali. Novità rilevante è la clausola di supremazia, che consente allo Stato, su proposta del governo, di legiferare su materie di competenza regionale a tutela dell’unità della Repubblica o dell’interesse nazionale.

Corriere 10.3.15
Se il Pd è diviso il passaggio al Senato sarà stretto
di Massimo Franco


In apparenza si va consolidando il fronte avverso a Matteo Renzi. In realtà, se ne intravedono crepe destinate ad allargarsi. Il «no» delle opposizioni alle riforme costituzionali votate oggi alla Camera sembra scontato. Il Movimento 5 Stelle continuerà a disertare l’aula per protesta: a conferma che la disponibilità seguita al colloquio di Beppe Grillo al Quirinale è stata più formale che sostanziale. Le altre minoranze rientreranno, anche se non è escluso che possano mancare una quindicina di parlamentari di Forza Italia: in dissenso col voto contrario del partito, però, non col presidente del Consiglio.
E sullo sfondo, la candidatura al governo di un gruppetto di ex seguaci di Grillo ripropone la possibilità di allargare i confini della coalizione. Insomma, Renzi ha meno problemi dei propri avversari. Per paradosso, la fronda più vistosa, seppure molto limitata, potrebbe venire dal Pd. E comunque, la vera partita tra Palazzo Chigi e la minoranza dei Democratici si giocherà dopo, quando la riforma costituzionale e quella elettorale torneranno al Senato. Lì i numeri sono meno scontati a vantaggio del governo: sempre che Silvio Berlusconi mantenga la linea dura.
La previsione è che FI lo farà almeno fino alle elezioni regionali di maggio. Così vuole l’alleato leghista Matteo Salvini, in cambio dell’accordo; e questo impone la rottura del patto del Nazareno. Ma non è un mistero che Denis Verdini, uomo di raccordo con Renzi, ora ostracizzato dai berlusconiani, preferirebbe votare ancora «sì»; e che altri, nel centrodestra, premono su FI perché sia più flessibile. È un atteggiamento che il Ncd di Angelino Alfano, oggi al governo, conosce bene. E infatti sottolinea la contraddizione degli ex alleati.
Il nostro sarà un «no convinto», ribattono da FI: una perentorietà che suona come avvertimento a chi è tentato dall’astensione o dal «sì». Ma è solo la conferma di convulsioni difficili da controllare, figlie anche dei malumori per la subalternità al Carroccio. Uno scenario verosimile è che, di fronte a questa deriva, la maggioranza cerchi di ritrovare un baricentro a cominciare dall’unità del Pd. Significa lasciare svelenire i rapporti tra premier e minoranza, rallentando la marcia in modo da arrivare ad un «sì» alle riforme non a giugno, ma a ottobre, col Pd ricompattato.
La premessa, però, è che Renzi tratti: premessa che per ora non si vede. Il premier ha fatto sapere che vuole andare avanti senza concedere nulla; e che è sicuro di trovare comunque i voti necessari all’approvazione. Se queste posizioni di partenza non cambieranno, le resistenze di chi nel Pd ritiene sbagliato cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza difficilmente rientreranno. E la guerriglia continuerà, scaricandosi sull’esecutivo. Ma il partito-perno del sistema si assumerebbe una responsabilità grave.

Corriere 10.3.15
Voto sulle riforme, strada in discesa per Renzi
di Dino Martirano

Ddl Boschi, oggi il primo scrutinio finale per la Camera: le opposizioni si presentano divise I 5 Stelle assenti dall’Aula, FI in ordine sparso, Sel e Lega contrari. Ma restano le tensioni tra i dem
ROMA Senza troppi patemi d’animo, con l’opposizione del M5S che si è autoescluso dall’Aula e quella di Forza Italia che rischia di andare in ordine sparso nonostante l’indicazione di voto contrario data da Berlusconi, la maggioranza si appresta a dare il via libera in perfetta solitudine al secondo passaggio parlamentare della riforma costituzionale Renzi-Boschi.
È vero, non ci sarà più l’Aventino innescato dalla decisione di procedere a febbraio con la seduta fiume. Ma ora dall’aula di Montecitorio sarà comunque assente uno dei gruppi più consistenti, quello dei grillini: «Peccato per il M5S — commenta il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi — per loro è un’occasione persa». Però anche Forza Italia rischia di essere presente solo in parte (gli assenti, i verdiniani, non ci stanno a votare contro la riforma). Lega e Sel, seppure per motivi diversi, saranno ai loro scranni per esprimere voto contrario: «Dopo l’incontro con il presidente Mattarella abbiamo deciso di tornare in Aula. Siamo contrari a questa riforma ma il nostro posto è in Aula», precisa Arturo Scotto capogruppo di Sel.
Per questo la maggioranza che sostiene il governo Renzi potrà contare soltanto sulle sue truppe per cambiare la Costituzione. Annullate, dunque, tutte le missioni, richiamati ministri e sottosegretari. Mobilitazione generale per il Pd, per Scelta civica (che ieri però non era in Aula a votare gli ordini del giorno), per Area popolare di Alfano e per gli altri partitini della coalizione.
Alla Camera — dove oggi si vota alle 12 — non ci sono problemi di numeri. Però la posta in gioco è talmente alta — riforma del bicameralismo paritario, abolizione del Senato elettivo, modifiche profonde nel procedimento legislativo, spinte centraliste per bilanciare il federalismo — da preoccupare non poco gli strateghi d’Aula del Pd. Tant’è che si è diffuso in casa Dem il falso allarme della maggioranza assoluta dei componenti della Camera (316 voti) che invece è richiesta solo alla seconda votazione. Eppure il bottino di voti che oggi otterrà la riforma Renzi-Boschi fornirà un dato politico non di poco conto.
Anche perché la cosiddetta Area riformista del Pd , 80/90 deputati della minoranza guidata da Bersani, si conferma l’ago della bilancia per la maggioranza. «Se Forza Italia, Lega e Cinquestelle non votano le riforme noi diventiamo determinanti», ha detto il deputato bersaniano Andrea Giorgis che in Aula ha lanciato una sfida, a nome di tutta Area riformista, al segretario Renzi: «Noi votiamo la riforma costituzionale per senso di responsabilità ma quando si tratterà di rimettere mano all’Italicum non siamo disposti a subire lo stesso trattamento. Non ci si venga a dire, ora che l’accordo con Forza Italia è saltato, che non ci sono le condizioni per approvare una legge elettorale come la desidera il Partito democratico».
Ecco, il voto di oggi è solo l’antipasto di quello che succederà a questo punto a giugno- luglio quando, pronostica il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti, la legge elettorale verrà esaminata alla Camera e la riforma costituzionale al Senato. L’esigenza del governo, ribadita molte volte dal ministro Boschi, è quella di chiudere con l’Italicum senza ulteriori passaggi nel campo minato del Senato ma l’avvertimento di Area riformista e le precedenti dichiarazioni di Pier Luigi Bersani fanno intravvedere un percorso assai accidentato per l’esecutivo. Sopratutto sui 100 capilista bloccati che Renzi ha sempre attribuito alla dote da portare a Berlusconi, quando c’era il patto del Nazareno.
Nel dibattito costituzionale, poi, ora si fanno avanti anche i monarchici che hanno scritto al capo dello Stato con una richiesta quantomeno anacronistica: «Aboliamo l’articolo 139, la norma antidemocratica che vieta di sottoporre a revisione la forma repubblicana», ha chiesto Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione monarchica italiana.

il Fatto 10.3.15
Voti a rischio
Oggi il sì, poi Renzi prende tempo
di Wanda Marra


La minoranza Dem non si smentirà neanche oggi e dirà sì alla prima lettura della Camera delle riforme costituzionali. Anatemi, minacce e critiche si esprimeranno in qualche intervento di dissenso. Solo pochissimi non la voteranno. E attenzione, non diranno di no: resteranno fuori dall’Aula.
UNO SPARUTO gruppetto, composto da Pippo Civati e Andrea Pastorino, Stefano Fassina, forse Gianni Cuperlo. Forse Alfredo D’Attorre. Forse pochissimi altri. Il resto della minoranza, trainata da Area Riformista (e da Pier Luigi Bersani) voteranno sì. Il bersaniano Andrea Giorgis, costituzionalista, in un intervento in Aula ieri tanto preciso, quanto critico, preferisce rivendicare le modifiche ottenute (l’innalzamento del quorum per l’elezione del presidente della Repubblica; l’estensione del sindacato di legittimità preventiva da parte della Corte costituzionale anche alla riforma elettorale di questa legislatura; l’eliminazione del voto bloccato alla Camera sui testi del governo). Ma poi “auspica” che cambiamenti saranno possibili anche sull’articolo 2. Più che di auspici non è possibile parlare: perché l’articolo più importante, quello sulla composizione del Senato, resterà identico a come era stato licenziato da Palazzo Madama. E a meno di improbabili appigli procedurali non più modificabile. Non ci sarà l’Aventino. Resta fuori dall’Aula solo il Movimento 5 stelle. Forza Italia (o meglio una parte) dirà di no. Peraltro se i deputati Penta-stellati fossero presenti oggi e unissero i loro voti contrari a quelli di parte di FI, di Sel e Lega, renderebbero determinanti i voti dei bersaniani. Che almeno potrebbero rivendicare la loro imprescindibilità. Altro regalo a Renzi, stavolta dall’M5S.
Nessuna opposizione è in grado di far mancare i voti. “Ma politicamente il tema esiste”, confessava ieri un renziano. Sì, perché senza il Patto del Nazareno la riforma al prossimo passaggio in Senato e l’Italicum a Montecitorio, con i voti segreti e la minoranza dem che almeno sulla carta continua a raccontarla come la madre di tutte le battaglie, sono effettivamente a rischio. Renzi però ha già escogitato una soluzione delle sue. Non se ne parla fino a dopo le Regionali, che dovrebbero essere il 30 maggio. Il decreto ancora non c’è, ma la data del 10 non è più quella da cerchiare sul calendario. Dall’esecutivo parlano di questioni tecniche e governative. Da sottolineare, però, che con 20 giorni in più, diventerebbe più facile anche il colpo di mano in Veneto a cui starebbe lavorando Tosi in prima persona: cambiare la legge regionale e introdurre il ballottaggio. Che favorirebbe Alessandra Moretti e il Pd.
IL PREMIER, insomma, si prepara a fare quello che aveva già fatto l’anno scorso, prima delle Europee: congelare tutti i dossier più delicati e sperare di avere una nuova legittimazione dalle urne. Al di là della fretta tanto dichiarata, quanto messa in pratica, con i canguri al Senato e le sedute fiume alla Camera. Le riforme, adesso, possono aspettare. Il premier spera che le Regionali siano un altro grande successo, che marginalizzi ancora di più Forza Italia e dissuada la minoranza dem anche dal protestare. Quel 41 per cento dello scorso maggio è il vessillo che il premier agita ad ogni curva difficile. Insomma, c’è da aspettarsi che da qui al 30 maggio sarà una campagna elettorale permanente.
E a proposito di rinvii, Renzi ha rimandato il Cdm su scuola e Rai previsto per oggi a giovedì. I nodi più delicati sono ancora aperti, dal timing per l’assunzione dei precari al modello di governance per Viale Mazzini.
Oggi vedrà i membri Pd della Vigilanza Rai per capire quale sarà lo strumento di legge migliore per cambiare il servizio pubblico mentre sulla scuola il premier resta convinto che il disegno di legge sia il modo migliore per mettere il Parlamento davanti alle proprie responsabilità. O per scaricargliele.

il Fatto 10.3.15
Tramonti
La Quaresima del Silvio tradito
La Santanché fa sapere che voterà per Renzi
di Fabrizio d’Esposito


Arrivati ormai alla terza domenica di Quaresima, Silvio Berlusconi potrebbe vivere oggi una delle giornate più penose e tremende del suo crepuscolo da Condannato. Un destino micidiale combina insieme il voto sulle riforme alla Camera e la sentenza della Cassazione sull’assoluzione di B. per Ruby. Nel primo caso, ancora una volta, l’ex Cavaliere assisterà all’implosione dei resti di Forza Italia. Nel secondo, l’incubo berlusconiano è quello di un rinvio in Appello del processo o di una delle sue parti (la concussione per la telefonata alla Questura di Milano e la prostituzione minorile). Non è lo stato d’animo di “un uomo libero pronto alla riscossa”, come si ostina a declamare con empito nordcoreano il Mattinale di Renato Brunetta. Anzi.
La Quaresima dell’anno del Signore 2015 presenta, per il quasi settantanovenne Berlusconi, innanzitutto una sorta di inedito referendum sulla sua persona. Quando Daniela Santanché, la Pitonessa filonazarena, annuncia al fattoquotidia  no.it   che potrebbe votare sì alle riforme “per il bene di Berlusconi” dà l’idea di un ex Cavaliere rinchiuso ad Arcore, e prigioniero del cerchio magico di Dudù e Toti, che sarebbe politicamente incapace di intendere e di volere. Allo stesso tempo, il già citato Brunetta, con i sondaggi che danno Forza Italia a poco più del dieci per cento, scrive: “Silvio Berlusconi, il leader più amato e votato nella storia della Repubblica italiana, è tornato in campo con il vigore e la motivazione di sempre”.
SONO DUE immagini opposte. Da un lato, i verdiniani e non solo loro, che credevano e tuttora credono nel Partito renzusconiano della nazione. Dall’altro, i cortigiani che invece fanno credere a “Silvio” di essere ancora il più bello e il più forte alla faccia della crudele realtà. È questo il filo conduttore di questo martedì 10 marzo. Nella tarda di mattinata, il Condannato potrebbe assistere allo spettacolo di Forza Italia spaccata a metà sul voto finale a Montecitorio alle riforme istituzionali del patto del Nazareno. Dopo il no pubblico dell’ex Cavaliere, domenica scorsa, la risposta di Denis Verdini, lo sherpa azzurro del patto, è stata quella di far disertare in massa l’assemblea del gruppo forzista alla Camera, ieri pomeriggio. Appena 25 deputati presenti su 70. Significa che oggi, in un modo o nell’altro, si consumerà uno strappo violento, tra astensioni dichiarate (a partire, forse, dalla Santanché) e assenze strategiche. Quanti saranno, insomma, i voti contrari dei berlusconiani rimasti fedeli a B.?
Nel pomeriggio, poi, ci sarà il pronunciamento dei giudici della Cassazione. Ieri ad Arcore, l’ex Cavaliere si è fatto spiegare per la centesima volta da Niccolò Ghedini, l’avvocato-parlamentare, i tre possibili esiti sul processo Ruby: conferma dell’assoluzione, annullamento con rinvio, metà conferma dell’assoluzione e metà annullamento con rinvio. Ed è quest’ultima l’ipotesi più gettonata e temuta ad Arcore. Un rinvio per la prostituzione minorile, incrociato con i clamorosi sviluppi del Ruby ter (corruzione dei testi), in cui alcune olgettine hanno deciso di pentirsi e parlare, potrebbe aprire nuovi scenari da incubo per l’ex premier. Ed è per questo che lo stesso B. ha cercato di stemperare tensione e pessimismo rassicurando i figli ieri a pranzo: “Io sono sereno perché sono convinto della mia innocenza”.
STAVOLTA l’ennesimo giorno del giudizio per Berlusconi potrebbe essere qualcosa di diverso dal passato. La conferma della sua parabola discendente in senso politico. I voti contrari di Forza Italia alle riforme daranno la dimensione e la consistenza degli azzurri rimasti fedeli. Ma fino a un certo punto. Perché dal numero bisognerà scorporare il dato dei ribelli di Raffaele Fitto, l’ex governatore pugliese da sempre contrario al patto del Nazareno. Fittiani e verdiniani, pur muovendosi in due direzioni opposte, sono consapevoli della fine della fase carismatica del loro ex capo. Sanno che ogni riorganizzazione del centrodestra passa per un B. non più leader ma al massimo padre nobile. Ad Arcore, con il sostegno del cerchio magico, l’ex Cavaliere pensa invece di giocare ancora un ruolo centrale. La partita di oggi è questa, politicamente. Il resto lo farà la Cassazione. Anche qui in un verso o nell’altro. Perché la conferma di un’assoluzione piena, potrebbe persino galvanizzare il Condannato.

il Fatto 10.3.15
Oppositori si nasce
Qui lo voto e qui lo nego Da Bersani a Fassina il fuoco e poi l’estintore
Italicum, riforme costituzionali e Jobs Act
Sono le ultime tappe del dissenso a parole che finisce al momento del voto in Aula
di Giampiero Calapà


Non è facile dire di “no” a Matteo Renzi, o meglio, c’è chi lo fa a parole, ma poi nella sostanza pigia il tasto giusto e vota tutto quello che il premier desidera. D’altra parte intenzioni di voto smentite al momento decisivo non sono una novità arrivata con il renzismo.
Prima di tutto: la lealtà verso la ditta
Partiamo dall’acerrimo nemico interno Pier Luigi Bersani: “L’Italicum va cambiato. Produce una Camera di nominati. Non sta in piedi. Il combinato disposto tra norme costituzionali e legge elettorale rompe l’equilibrio democratico. Se è deciso che la riforma della Costituzione non si può modificare, io non accetterò mai di votare questa legge elettorale senza modifiche. Ormai credo si sia vista la mia estrema lealtà verso la ‘ditta’, ma i partiti sono uno strumento. Prima viene l’equilibrio democratico. Questo combinato disposto non lo voterò mai”. E una riflessione sul jobs act: “Penso sia fuori dall’ordinamento costituzionale”. Parole pronunciate sull’Avvenire il 26 febbraio. Ma l’unica cosa che resta, per ora, è la fedeltà alla ditta appunto, perché i suoi voti su riforme costituzionali, Italicum e jobs act, nei vari passaggi parlamentari, fin qui non sono mai mancati. Che Bersani sia capace di ingoiare rospi ormai è cosa nota; nell’agosto del 2011, governo Berlusconi in carica, replicò così, in commissione alla Camera, alla lettera-diktat della Bce: “Non si parli di cose che non esistono in nessun posto al mondo. Il pareggio di bilancio in Costituzione? Noi non è che intendiamo nei secoli castrarci di ogni possibile politica economica”. La castrazione è avvenuta, con tanto di voto di Bersani, nell’aprile 2012, governo Monti.
Minoranze che si dimenano e minacciano, ma alla fine eseguono gli ordini
La minoranza del Partito democratico in epoca renziana si dimena molto, minaccia anche, come dimostra spesso Gianni Cuperlo: “Se noi licenziamo l’Italicum così com’è uscito dalla Camera, io credo che ci siano margini di rischio di costituzionalità di quella legge”. Era il luglio 2014. E pochi giorni fa ha addirittura scritto al premier una lettera: “Sul jobs act il governo ha ignorato esattamente suggerimenti e linee votati dalla direzione del Pd e poi dalle commissioni parlamentari. Sulla riforma costituzionale non avete tenuto conto neppure di un voto che avrebbe permesso, al Senato, di correggere quelle storture e incoerenze che rischiano, nei fatti, di rendere farraginosa la riforma”. Però, fino a qui, anche Cuperlo ha votato tutto.
Le barricate cedevoli del prode “Fassina chi? ”
Poi c’è “Fassina chi? ”, l’ex sottosegretario Stefano Fassina, l’unico a dire il vero che abbia alzato la voce contro Renzi in pubblico (assemblea nazionale del Pd a dicembre: “È inaccettabile la delegittimazione di chi ha posizioni diverse dalle tue, se vuoi il voto dillo”), però è anche lui molto disciplinato nei momenti che contano. A novembre avvertiva: “L’Italicum non va”. A febbraio, dopo l’elezione del capo dello Stato, i toni si sono ammorbiditi: “Visto che il Pd, unito, ha ottenuto un risultato di grande valore con l’elezione di Mattarella, approfittiamo della rottura del patto del Nazareno per migliorare le riforme, a cominciare dall’Italicum”. Ma Renzi non cambia niente, cosa farà Fassina? Annuncia sorprese, vedremo se ci saranno. A proposito di Mattarella, la corsa al Colle ha mostrato al fermezza degli alleati di governo di Ncd. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha cambiato posizione in pochissime ore: “Mattarella è una persona degnissima. Ma voteremo scheda bianca anche alla quarta votazione, non partecipando a una scelta maturata esclusivamente dentro il Pd”. Era giovedì 29 gennaio, poche ore deputati e senatori di Ncd hanno scritto compatti sulla scheda: “Mattarella”. Dalla minoranza Pd, passando per Ncd, arriviamo ai dissidenti di Forza Italia e alle loro battaglie campali, sostenute come se niente fosse, facendo finta di dimenticare il passato. Nel novembre 2014 la rivista Formiche scrive: “Le argomentazioni degli studiosi in trincea contro l’architettura monetaria europea trovano accoglienza nel ragionamento di Raffaele Fitto. Il quale ritiene che il terreno propizio all’iniziativa di Forza Italia è ‘lavorare con tutte le energie nelle istituzioni’ per mettere in discussione il Fiscal compact dal punto di vista politico e giuridico”.
Dal terribile Fiscal compact alle guerre di Libia
Già, per Fitto il Fiscal compact, misure europee in termini di bilancio, è uno degli argomenti preferiti di critica al governo e all’austerità euro-tedesca; già nel maggio 2014 Fitto dichiarava: “Bisognerà intervenire con fermezza per modificare l’impostazione del Fiscal compact e chiedere con forza una proroga nell’attuazione del programma di rientro finanziario che, così concepito, metterebbe in ginocchio il nostro Paese senza offrire alcuna prospettiva di crescita”. Era un’afosa giornata del luglio 2012, la Camera doveva votare proprio sul Fiscal compact, Silvio Berlusconi era assente, 48 deputati dell’allora Pdl si astennero o votarono addirittura contro. Fitto c’era e votò a favore. Poi c’è la guerra di Libia, nel 2015 l’ultracattolico Beppe Fioroni, per fare un esempio, è sicuro: “Per spegnere un incendio bisogna usare le sostanze giuste, sbagliare sostanza rischia di far divampare l’incendio a dismisura”. Insomma, oggi niente armi, nel 2011 votò a favore dell’intervento anti Gheddafi. Cambiare idea è lecito e, in questo caso, assolutamente doveroso.

Corriere 10.3.15
Il segnale della minoranza dem (che arretra)
Saranno cinque o sei i parlamentari che oggi in Aula diranno no: la battaglia si sposta sull’Italicum Lettera aperta di Cuperlo al segretario perché modifichi la riforma. Guerini: ci aspettiamo un voto ampio
di Alessandro Trocino


ROMA La battaglia vera è rinviata, al terzo round in Senato per le Riforme e soprattutto alla legge elettorale. La minoranza del Pd, oggi, si limiterà a dare «un segnale» a Matteo Renzi: saranno pochi — cinque o sei — i parlamentari del Pd che decideranno di non votare, uscendo dall’Aula. Il resto, compreso l’Area riformista della minoranza (che fa capo a Roberto Speranza), oggi alla Camera voterà a favore della riforma del Senato. Il premier si prepara a incassare un altro tassello delle suo percorso per le riforme e, dopo aver visto i parlamentari in un incontro sul fisco, oggi incontrerà i deputati per parlare di Rai (in particolare quelli della Vigilanza) e di scuola: incontro preparatorio, visto che giovedì, in Consiglio dei ministri, affronterà proprio questi due temi.
Renzi va avanti con sicurezza e prova a superare gli ostacoli che ancora si frappongono. Il suo vice Lorenzo Guerini è ottimista: «Sulla riforma ci aspettiamo un voto largo, anche perché sull’impianto c’è sempre stata una convergenza di massima del partito». La minoranza del Pd, incerta fino all’ultimo sull’atteggiamento da tenere, mantiene ferme le critiche alla riforma del Senato, ipotizza la stesura di un documento, ma poi decide di dare il via libera. Lo spiega Davide Zoggia: «Al punto in cui siamo arrivati è difficile non votare la riforma. Sarà un dissenso contenuto. Non la voteremo in cinque o sei: io, D’Attorre e Fassina, tra gli altri. La battaglia si sposta ora sulla legge elettorale».
Una lunga e dibattuta riunione serale — presenti tra gli altri Pierluigi Bersani e Gianni Cuperlo — ha sancito la linea da tenere. Area Riformista (che raggruppa un centinaio di deputati) aveva anticipato la sua linea favorevole al sì con l’intervento in Aula pomeridiano di Andrea Giorgis. Che ha detto sì alle riforme, pur specificando l’auspicio «che nel prossimo passaggio al Senato migliorino le condizioni e che alcune rigidità del governo siano superate».
Gianni Cuperlo, di Sinistra dem, ha però lanciato un ultimo appello al premier, con una lettera aperta: «Il segretario trovi il coraggio di rimettere ai parlamentari la possibilità di apportare i cambiamenti necessari alla riforma costituzionale nella terza lettura al Senato». Cuperlo contesta contenuti e modi: «Prima i parlamentari dovevano obbedire al Patto del Nazareno, sottoscritto fuori dal Parlamento. Ora devono obbedire in ossequio a un patto che non c’è più». Replica Guerini: «Ormai la linea è tracciata, il Senato dovrà concentrarsi sui punti che sono stati modificati alla Camera».
Tra i più duri oppositori al governo e al segretario Renzi, c’è Pippo Civati. Che appare piuttosto sconcertato dagli atteggiamenti ondivaghi dei colleghi della minoranza: «Decidano, c’è troppa ambiguità. Un giorno Bersani vota a favore, il giorno dopo fa la voce stentorea. Area Riformista non si capisce bene se fa la minoranza o la maggioranza». Una spiegazione la dà Roberto Speranza, di Area Riformista e spesso cerniera con la segreteria, grazie anche al suo ruolo di capogruppo: «Non abbiamo alternativa a stare in questo Pd e in questo governo. Il sistema è bloccato, con Grillo populista, la Lega che ci vuole fuori dall’Europa e Berlusconi che certo non è ben visto dalle cancellerie europee. Il Pd è l’architrave della democrazia e tutto quello che possiamo fare noi è provare a spostare l’asse del partito e del governo, non a farlo saltare».
Restano le spaccature e le polemiche. Come quella che coinvolge Miguel Gotor. Secondo il renziano Andrea Marcucci, che si riferisce a un intervista al Corriere della Sera , «Gotor dice che Berlusconi non è il diavolo e che le riforme della Costituzione vanno fatte anche con l’opposizione. Se abbiamo contribuito a risolvere il problema che la sinistra ha da 20 anni con Berlusconi siamo soddisfatti». E ancora: «Avversavano così tanto il Patto del Nazareno che l’hanno ricostruito». Replica Gotor: «Marcucci quando supera i 140 caratteri di un tweet diventa Pinocchio. È una bugia dire che la minoranza abbia negato in passato il dialogo con l’opposizione per le riforme».

Repubblica 10.2.15
“Tessera più cara”. L’assemblea pd contesta Orfini
di Giovanna Vitale


ROMA . Iscrizioni al Pd più care per sconfiggere i signori delle tessere. La cura, individuata dal presiedente del partito Matteo Orfini contro i “padroni di voti” che drogano i congressi e la vita degli stessi circoli, verrà sperimentata a Roma a partire da fine marzo, quando inizierà la campagna di tesseramento 2015.
«Aumenteremo la quota, che dovrà essere pari almeno a un giorno di stipendio, quindi il salario di un mese diviso 30», ha spiegato Orfini nella sua relazione di apertura all’assemblea cittadina del Pd, di cui da tre mesi è commissario. Una proposta accolta però da un brusio forte e prolungato, che ha subito scatenato la reazione di Orfini. Il quale ha prima corretto il tiro: «Saranno previste delle deroghe per chi non può pagare». Poi, incalzato dal rumoreggiare della platea, è sbottato: «Vedo che quando si va sui soldi ci si scalda: non è un bel segnale, fatemelo dire». Senza tuttavia arretrare: «Dal 30 marzo ci saranno nuove regole ».
Un cambiamento necessario per non morire, specie in una città dove il Pd è stato messo a dura prova dall’inchiesta su Mafia Capitale. «Se a Roma prendiamo 500mila voti alle elezioni ma poi abbiamo solo 9mila iscritti, vuol dire che c’è qualcosa che non va, che non rappresentiamo niente», ha attaccato il presidente-commissario. «Bisogna allora cercare di capire perché non vengono da noi. Forse non tutti si sentono a proprio agio, bisogna creare qualcosa di più accogliente». Tanto più che «girando i circoli e telefonando a tutti gli iscritti, come abbiamo fatto noi in questi mesi, è venuta fuori una realtà intollerabile e cioè che una tessera su 5 è falsa», ha rivelato Orfini. Un veleno che occorre neutralizzare: «Il tesseramento non avverrà nei circoli ma su base municipale, ciascuno con un garante in funzione di controllo. E ci si iscriverà senza più intermediari». Nessun timore di allontanare gli iscritti, magari quelli che non hanno voglia di dichiarare il proprio reddito? «Ma figurarsi, nei circoli si sa che mestiere fa tizio piuttosto che caio, e poi ci fidiamo », taglia corto il commissario. Punzecchiato dal collega Roberto Morassut: «Quattro anni fa proposi la tessera basata sul reddito per scardinare il tesseramento fasullo e pilotato a pacchetti, ma mi dissero che era impossibile. Positivo che si sia cambiato idea».

Repubblica 10.3.15
Renzi avverte i bersaniani: “No a modifiche altrimenti salta tutto”
di Francesco Bei


ROMA Nessun ripensamento, nessuna apertura. Matteo Renzi incasserà oggi il voto favorevole alla riforma costituzionale e non intende riaprire il capitolo dell’Italicum. Perché è questa la vera battaglia che si profila all’orizzonte, l’ultimo vero terreno di scontro per la minoranza dem. Che ne fa una questione identitaria o, per dirla con Bersani, di «democrazia».
Ma c’è una ragione politica precisa se il premier ha deciso di alzare il ponte levatoio e puntare su un voto blindato a Montecitorio, quando tra un paio di mesi - dopo le regionali - la legge elettorale inizierà il suo cammino in commissione. «Se il testo dovesse cambiare ancora — ha spiegato Renzi ai suoi — saremmo costretti ad affrontare di nuovo un passaggio al Senato. E non ce lo possiamo permettere». Il problema, ovviamente, non è legato ai tempi visto che il capo del governo ormai è puntato sulle elezioni nel 2018. Il fatto è che palazzo Madama, dopo la rottura del patto del Nazareno, per il governo è diventato una palude infida. Dove i 27 bersaniani che si schierarono a gennaio contro l’Italicum — resi allora ininfluenti dal voto favorevole di Forza Italia — potrebbero stavolta rivelarsi determinanti. Per questo la riforma elettorale, secondo Renzi, è un treno che deve arrivare al capolinea alla Camera. «Entro l’estate avremo la riforma», promette sicuro ai suoi. Del resto due giorni fa, nell’ultima enews, ha ribadito che nella legge ci saranno «metà preferenze e metà collegi». Quindi resteranno i cento capilista bloccati. E il passaggio alla Camera dovrà essere «l’ultima lettura, quella finale».
In realtà, anche se la minoranza di area riformista insiste nel chiedere che le preferenze vengano estese e garantite anche i partiti che non si aggiudicano il premio di maggioranza, non è su questo punto che si addensano i pericoli maggiori per il governo. Il vero elemento di fragilità politica della riforma è un altro: il premio alla lista e non alla coalizione. «Sulle preferenze i forzisti voteranno contro gli emendamenti della minoranza dem — spiega un renziano — e quindi siamo abbastanza tranquilli. L’unico elemento di saldatura fra i nostri e i forzisti può essere sul premio alla coalizione». Berlusconi infatti ha bisogno di una norma che convinca Salvini a coalizzarsi con Alfano e con Forza Italia. Una norma che gli possa consentire di rimettere in piedi un’alleanza di centrodestra con qualche speranza di arrivare al ballottaggio. Ma qui il calcolo di Renzi si affida a Grillo e Casaleggio. «Con il premio alla lista — ragiona il capo dell’ese- cutivo — il movimento 5 Stelle può andare al ballottaggio contro di noi. Con una legge elettorale che premia le coalizioni sono invece destinati all’estinzione ». Saranno quindi i deputati grillini, spera il premier, a bocciare l’emendamento forzista sul premio alla coalizione.
In questo gioco di alleanze parlamentari variabili, Renzi conta quindi sugli interessi divergenti dei suoi avversari, uniti soltanto dall’ambizione di buttare giù il governo ma divisi sul modello di legge elettorale. Ma se in uno scrutinio segreto (tali saranno la maggior parte delle votazioni sulla legge elettorale) davvero le minoranze dem riuscissero a “sabotare” l’Italicum, il premier ha già pronta l’arma del dottor Stranamore. «Per noi — scandisce un renziano della cerchia stretta — la legge elettorale fa parte del programma di governo. Se dovesse saltare, salterebbe anche il governo. E si andrebbe a votare». A favore del premier giocano anche le divisioni nei vari partiti d’opposizione. Le antenne renziane segnalano una quindicina di deputati forzisti — i verdiniani, Rotondi, Santanché, Ravetto — che già oggi potrebbero astenersi o persino votare a favore della riforma costituzionale. Mentre se Flavio Tosi andasse avanti con il suo progetto, tra i cinque e gli otto deputati leghisti potrebbero seguirlo. Tutti parlamentari che puntano a una prosecuzione della legislatura il più a lungo possibile. Tutti voti che tornerebbero utili al governo.
Certo, resta la sfida della minoranza interna. Andrea Giorgis, parlando ieri in aula a nome di area riformista (il correntone bersaniano), ha annunciato il voto favorevole alla riforma costituzionale ma ha ribadito la richiesta di modifiche sull’Italicum: «Dagli errori compiuti e dalle difficoltà incontrate nel corso di questo primo passaggio alla Camera, così come dai risultati positivi che si sono raggiunti, occorre trarre insegnamento, quando inizieremo a discutere in quest’aula della legge elettorale ». Una lunga riunione delle minoranze, protrattasi fino alle dieci di sera, ha fatto emergere posizioni più dure. A parte Civati e Fassina, che ormai non seguono da tempo le indicazioni del partito, altri hanno proposto di distinguersi ulteriormente nel voto costituzionale. Astenendosi, oppure accompagnando il voto a favore con un documento molto critico sulla riforma elettorale e sul ddl Boschi. Potrebbe essere questa la scelta di Cuperlo e D’Attorre, l’ala più intransigente dei dissidenti.

Repubblica 10.3.15
L’atto di nascita del partito di  Renzi che scompagina l’opposizione
di Stefano Folli


L’affermazione della Lega in Veneto sarà una vittoria di Pirro, incapace di produrre una destra di governo
OGGI il “partito di Renzi” rischia di dilagare in Parlamento, ossia di sbaragliare il campo dei suoi oppositori più o meno improvvisati. L’occasione è propizia: il voto sulla riforma costituzionale del Senato, una legge che finora è servita soprattutto a dimostrare l’inconsistenza degli anti-premier.
Tutto lascia supporre che a prevalere non sarà la maggioranza di governo e nemmeno il Pd. Prevarrà il “partito di Renzi”, appunto: quel singolare aggregatore che oggi funge da calamita politica e scompagina i gruppi, risucchiandone vari segmenti sotto la tenda del presidente del Consiglio. Nel Pd la riforma ha suscitato il ricorrente malessere della famosa minoranza bersaniana, ma al dunque non si capisce quale sia la strategia di questa corrente che il segretario, a ogni buon conto, ha già provveduto a indebolire e disarticolare.
Quanto al centrodestra, il “partito di Renzi” può compiacersi del trionfo. Forza Italia non esiste più. Ce ne sono alcuni frammenti che occupano i banchi parlamentari e che al momento della votazione su una riforma fondamentale per l’equilibrio istituzionale si dividono in almeno quattro sotto-gruppi: chi vota «no» per un atto di estrema obbedienza verso il vecchio leader ritornato a casa da Cesano Boscone; chi si astiene; chi esce dall’aula; chi addirittura vota a favore, dimostrando quanto sia forte ormai il «renzismo », nuovo baricentro del sistema.
È la fine ufficiale e quasi certificata, potremmo dire, del centrodestra come soggetto politico. Di più: è la conclusione senza possibilità di appello di una stagione cominciata nel 1994 e vissuta per lunghi anni nel segno di Berlusconi, anche se tale impronta si era dissolta già da qualche tempo. Se le cose andranno così, per il presidente del Consiglio sarà un punto di svolta. La riforma del Senato non è tanto significativa nel merito (permangono parecchi dubbi sulla composizione e l’utilità del nuovo organismo), quanto è essenziale come arma volta allo sfaldamento dei vecchi potentati della Roma politica.
Il “partito di Renzi” scompagina e assorbe. Intorno ad esso si esercita il trasformismo più antico e la spregiudicatezza più moderna. All’interno del Pd la sinistra soffre, ma non ha una direzione di marcia. All’esterno, sulle macerie di Forza Italia nasce persino la corrente dei berlusconiani “renziani”. E i Cinque Stelle dissidenti, o una parte di loro, sono così pronti a entrare in maggioranza da pretendere addirittura un ministero. Probabilmente non lo avranno, non subito almeno, ma già averlo chiesto dimostra come è cambiata la scena.
Il vecchio patto del Nazareno non solo è superato, è addirittura sublimato: nel senso che una parte di Forza Italia, la più intransigente, viene sospinta verso Salvini e diventa tributaria del capo leghista; mentre l’altra ala, quella rimasta fedele nonostante tutto alla logica pattizia, entra di fatto nell’orbita del premier. Una sorta di corrente esterna del partito trasversale che si avvia a dominare il Parlamento. S’intende che le trappole sono sempre possibili e Renzi dovrà guardarsi dall’eccesso di sicurezza. La storia è piena di leader politici, non meno astuti dell’ex sindaco di Firenze, che sono inciampati perché troppo sicuri di sé. Ma questo è già un altro affare.
Per il momento il renzismo può celebrare il suo vero atto di nascita. Al di là dell’orizzonte resta Grillo, che i sondaggi danno sempre in discreta salute nonostante gli errori e le defezioni. E naturalmente resta Salvini con il suo disegno alla Le Pen che contribuisce non poco a frammentare la destra post-Berlusconi. Ilvo Diamanti ha ben spiegato come la Lega vincerà in Veneto nonostante il distacco del sindaco Tosi. Vincerà trascinandosi dietro una porzione consistente di Forza Italia, ma su posizioni aspre e radicali. Sarà con ogni probabilità una vittoria di Pirro, tale da rendere più complicata qualsiasi ricostruzione in tempi ragionevoli di una destra “di governo”, fondata su una cultura moderata ed europeista.

La Stampa 10.3.15
La vera posta è la legge elettorale
di Marcello Sorgi


L’approvazione (non definitiva, mancano ancora due passaggi) della riforma del Senato alla Camera non è in discussione. Ma dalla giornata parlamentare di oggi, che vede il ritorno in aula delle opposizioni (tutte, tranne M5s), la maggioranza che sorregge il governo potrebbe uscire con nuovi e più frastagliati confini. Non ci sarà, almeno non dovrebbe esserci, la convergenza tra la minoranza del Pd, che voterà solo per disciplina di partito, scontando il dissenso di alcuni suoi esponenti come Fassina e Civati, e Forza Italia, tornata all’opposizione dopo la rottura del patto del Nazareno e pronta, come ha annunciato Berlusconi, a opporsi «all’arroganza di Renzi». Ma anche in questo caso, all’interno della settantina di deputati berlusconiani si moltiplicheranno i casi di coscienza, dato che si tratterebbe di dire no a un testo a cui al Senato Forza Italia aveva detto si.
Disobbediente, come lei stessa si è definita, sarà Daniela Santanchè; e con lei una pattuglia di parlamentari vicini a Denis Verdini, emarginato dopo la fine del Nazareno, ma non piegato alla svolta proclamata dall’ex-Cavaliere. A imporla, in realtà, è stato Salvini: per sancire l’accordo sul Veneto in vista delle regionali, il leader del Carroccio ha posto la discriminante del voto contrario alle riforme. Così Berlusconi, non solo ha dovuto accettare di non essere più il capo del centrodestra, ma anche di interrompere il processo di riavvicinamento con l’Ncd, che pure resta strategico in Campania.
Questa confusa distribuzione delle forze in campo avrà la sua leva sugli ordini del giorno, che le opposizioni non rinunciano a presentare anche se ormai il testo della riforma è stato approvato nell’articolato e va in aula per il solo voto finale. È su questi testi, mirati a sollecitare un ripensamento per i prossimi passaggi parlamentari, che potrebbero misurarsi le alleanze più imprevedibili, per esempio tra Brunetta e Vendola, come quelle che la volta precedente, dopo la decisione di Renzi di chiedere la seduta notturna per accelerare i tempi delle votazioni, portarono appunto all’Aventino.
Si tratterà insomma di una sorta di prova generale della prossima grande battaglia sulla legge elettorale, e i numeri che si presenteranno volta per volta saranno indicativi, per cercare di convincere il premier ad accettare di modificare ulteriormente l’Italicum. Qualcosa di cui a Palazzo Chigi non si vuol neppure sentire parlare, visto che comporterebbe un altro passaggio al Senato, dove stavolta la legge non potrebbe contare sull’aiuto di Berlusconi: ancora ieri all’assemblea dei parlamentari Renzi ha ribadito che l’iter dell’Italicum deve concludersi alla Camera.

Corriere 10.3.15
LA politica è inerme senza burocrazia
L’attuale governo ha rilanciato il decisionismo, ma le ambizioni di cambiamento devono poter diventare fatti
Obiettivo difficile quando non si conti sull’aiuto di una oligarchia affidabile, sull’esempio di quanto fece Giovanni Giolitti
di Giuseppe De Rita


Quando la politica traduce le sue ambizioni di primato in specifiche decisioni di sviluppo e di riforma, si ritrova fatalmente a fare i conti con la loro necessaria implementazione, con i modi cioè in cui esse possano essere trasposte in comportamenti e fatti concreti. Si ritrova quindi a doversi affidare agli ambienti tradizionalmente «specialisti» dell’implementazione: a una ristretta cerchia oligarchica; o a ristretti circuiti tecnocratici; o alla tradizionale burocrazia, titolare dei minuti poteri quotidiani. Una politica che non possa contare su una sua oligarchia, su una sua tecnocrazia, su una sua buona burocrazia, è una politica letteralmente inerme, destinata a restare su un decisionismo di massima, talvolta puro esercizio di annuncio.
Se si legge in controluce l’attuale realtà politica italiana si possono intravedere i segni di un tale pericolo di inermità. L’attuale governo si è molto speso nel ribadire e rilanciare la decisionalità della politica, ma non scattano i processi di sua implementazione: la burocrazia, tradizionale «intendenza», non segue, perché si è strutturalmente spappolata (tanto per fare un esempio, colpisce il quasi nullo contributo del ministero della Pubblica istruzione sul confezionamento del cosiddetto Piano scuola); la tecnocrazia tende a confinarsi nei propri settori elettivi senza più rischiare innovazioni su temi che tecnici non sono (in fondo scontando l’infelice esperienza di alcuni governi a forte caratura tecnocratica); e l’oligarchia non è cosa (soggetto e potere) che si formi solo concentrando le decisioni in poche persone fidate, di solito più propense a fare cerchio magico che a connettersi con la molteplicità dei poteri che è tipica della realtà italiana.
In conclusione, senza burocrazia, senza tecnocrazia, senza oligarchia è difficile governare il sistema, nelle sue diverse articolazioni. Per cui, anche chi ha nell’ultimo anno guardato con rispettoso interesse il vigoroso rilancio della decisionalità politica, non può non vedere con preoccupazione questo tendenziale pericolo di inermità di una politica che si dichiara egemonica.
In fondo, nella nostra storia unitaria ogni fase di primato della politica è stata supportata da qualche protagonista della implementazione: la fase post-risorgimentale fu gestita con il supporto della burocrazia piemontese; Giolitti governò con un legame stretto con i prefetti; Mussolini dette ampio spazio alla oligarchia di Beneduce e dei suoi uomini (Menichella, Mattioli, Saraceno, ecc.); la Dc del dopoguerra si fidò degli eredi di quest’ultima oligarchia (operante nelle partecipazioni statali e nella Cassa del Mezzogiorno) ma cooptò anche, e senza battere ciglio, la burocrazia cresciuta nel ventennio precedente; e lo stesso Craxi, il più vocato al decisionismo, si attrezzò con una sua oligarchia, anche a buona taratura tecnocratica. Solo la cosiddetta Seconda Repubblica, ubriaca di personalizzazioni verticistiche, non ha avuto attenzione alla fase di implementazione delle decisioni; e ne abbiamo tutti sofferto le conseguenze.
Il problema della implementazione operativa delle decisioni politiche è quindi aperto e verosimilmente l’intelligenza dell’attuale premier lo ha già percepito: in fondo, è nelle condizioni di non avere più paura delle estenuanti mediazioni che ha con determinazione rottamato; ma deve al tempo stesso evitare il pericolo di restare nelle grandi opzioni senza curarne la loro implementazione.
Certo dovrà superare la sua innata diffidenza per tecnocrati, burocrati ed oligarchi; ma la sua sfida per il futuro prossimo è proprio sul valico fra decisionalità politica e sua trasposizione nei fatti.

il Fatto 10.3.15
Giustizia, ancora tutto fermo nelle commissioni


È DI NUOVO STALLO, sia alla Camera che al Senato, sul fronte giustizia. A Montecitorio non sembra essere del tutto scontato l’arrivo in Aula il 16 marzo, come da calendario, del testo di riforma della prescrizione: i deputati di Ncd e Udc chiedono ancora tempo, nonostante la presidente della commissione Donatella Ferranti ricordi “che è stato approfondito tutto quello che era possibile approfondire”.
Anche al Senato si è in attesa, in questo caso dell’emendamento del governo sul falso in bilancio: il termine è domani ma quasi tutto lascia presagire che il testo, potrebbe non arrivare affatto. Il ministero della Giustizia lo ha trasmesso al ministero dei Rapporti con Parlamento il 3 marzo, ma serve ancora il consiglio dei ministri per dare il via libera definitivo alla cosiddetta tenuità del fatto: e il Cdm, da domani, è slittato a giovedì. Tradotto, significa che il ddl corruzione, con questo allungarsi dei tempi, rischia di andare in Aula, dove è atteso per la settimana dal 17 al 19, senza che la commissione Giustizia di Palazzo Madama abbia dato il mandato al relatore.

il Fatto 10.3.15
Giustizia
Riforme a costo zero, capitolo 2
di Bruno Tinti


Il 4 marzo ho scritto di 4 riforme in tema di Giustizia a costo zero che Renzi&C potrebbero adottare. Qui di seguito altre dello stesso genere.
5 - Abolizione dell’Appello. Prima di indignarsi, si sappia che:
a) I giudici dell’Appello non sono più preparati, più intelligenti, più lavoratori, più anziani dei giudici di Tribunale; si va in Appello o in Tribunale per comodità e non per merito (ci si trasferisce nella città dove c’è la propria famiglia; si pensa che – in Appello o in Tribunale – si lavori meno di dove si lavora attualmente o che si tratti una materia che interessa di più; si è litigato con il Presidente o i colleghi e si cerca un altro posto; c’è l’occasione di fare il presidente di una Sezione e si abbandona il posto precedentemente occupato) ; insomma, c’è un turn over continuo.
b) La verità processuale non è detto che coincida con quella sostanziale. L’esempio tipico è dato dalla prescrizione: si può essere colpevoli ma assolti. Ma ci sono molte altre ragioni: tra queste la valutazione delle prove; un testimone che dice il falso è creduto in Tribunale e non creduto in Appello; ma può capitare il contrario.
c) L’Appello è in flagrante contraddizione con le cosiddette garanzie processuali, oralità e immediatezza: quanto fatto nella fase delle indagini è inutilizzabile; testimoni e imputati devono essere interrogati dal Giudice, quello che hanno detto prima non vale niente; le perizie vanno rifatte etc. Poi però, in Appello, si giudica sui documenti; dell’oralità e immediatezza non importa più niente a nessuno. Sicché non è detto che l’Appello sia l’occasione di riparare un errore commesso in Tribunale; con uguale grado di probabilità, l’errore può essere commesso in questa fase e portare alla riforma di una sentenza giusta. È come tirare una seconda volta una moneta; con la stessa logica, di Appelli se ne potrebbero fare due, tre e così via. Abolendo l’Appello si recupererebbero circa 2.500 giudici; i tempi dei processi si dimezzerebbero.
6 - Se coraggio e lungimiranza per fare questa riforma non fossero sufficienti, si potrebbe almeno:
a) Abolire il divieto di reformatio in pejus. Attualmente la pena inflitta in Tribunale non può essere aumentata, anche se in Appello si confermasse la condanna e si ritenesse che la sanzione è troppo lieve. Sicché l’appello costa solo la parcella dell’avvocato. Se però ci fosse il rischio di vedersi aumentare la pena, molti appelli che hanno il solo scopo di impedire che la sentenza di Tribunale divenga definitiva non sarebbero presentati.
b) Affidare ai giudici di Tribunale la valutazione dell’ammissibilità dell’appello. Quelli presentati fuori termine, quelli privi di motivazione o con motivazioni pretestuose (la pena è troppo elevata ma è stato già applicato il minimo; non sono state concesse le attenuanti che invece sono state applicate) potrebbero essere fermati subito invece di richiedere fissazione di udienza, notifiche, sentenze etc.
7 – Abolizione delle Corti d’Assise. I giudici popolari hanno un senso negli ordinamenti anglosassoni, dove la giuria decide senza motivare la propria decisione e il giudice si limita ad applicare la pena. Ma, in un ordinamento di discendenza romanistica, dove i giudici devono comunque motivare le sentenze, la giuria mista – cittadini e giudici professionali – è priva di senso. E in effetti, nella pratica, la decisione è sempre presa dai giudici e la giuria si accoda. Si risparmierebbero soldi e tempo; e si diminuirebbe la possibilità di intimidazioni.
8 – Regolamentazione dell’accesso all’Avvocatura. In Italia ci sono 250.000 avvocati; in Francia 40.000, quanti ce n’è a Roma. A Torino ci sono tanti avvocati quanti ce n’é a Manhattan. È evidente che questa enorme massa di avvocati fomenta il contenzioso; istiga i clienti a presentare denuncie, querele, citazioni, appelli, ricorsi anche quando il torto è evidente. L’enorme numero dei processi italiani si deve, in gran parte, proprio a un’Avvocatura alla costante ricerca di occasioni di guadagno. La mancanza, in una rilevante parte di essa, di deontologia professionale (che imporrebbe di scoraggiare il cliente da cause infondate e di rifiutarle se questi insistesse) fa il resto. Occorre dunque il numero chiuso, lo stesso che si applica ai medici: limiti all’accesso alla Facoltà di legge, concorsi per diventare Avvocati con numero di posti limitati.
Tutto questo, e quanto esposto nel precedente articolo, ha – evidentemente – poche speranze di successo. Non perché sia irragionevole o inutile: nelle discussioni private concordano tutti. Poi, tra politica che teme la Giustizia e Avvocati che temono la povertà...

Corriere 10.3.15
Nella scuola pubblica si lavora di più, ma gratis
Il personale scolastico (Ata) formato per svolgere incarichi di maggiore responsabilità non riceve il corrispettivo economico. Miur e Mef temporeggiano e i sindacati sono pronti a fare ricorso.
di Antonella Cignarale

con un video, qui

Corriere 10.3.15
Scuola, la riforma slitta ancora
Il disegno di legge rinviato a giovedì
Palazzo Chigi affronterà la riforma nella riunione prevista per la Rai. Sindacati sul piede di guerra: dal 20 marzo all’11 aprile la mobilitazione
di Valentina Santarpia

qui

Corriere 10.3.15
«Più insegnanti e scuole aperte di pomeriggio»
di Claudia Voltattorni


ROMA Tutto rimandato. Ancora una volta. La Buona Scuola può attendere. Slitta a giovedì pomeriggio il Consiglio dei ministri che oggi doveva licenziare la bozza del disegno di legge sulla riforma da presentare al Parlamento. Se ne parla giovedì, insieme con la riforma della Rai. Ma oggi il premier Matteo Renzi e la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini si vedranno comunque per definire gli ultimi dettagli sulle stabilizzazioni dei precari.
Perché il nodo della questione, decreto (soluzione che il premier vorrebbe del tutto evitare) o disegno di legge che sarà, resta il numero degli insegnanti da assumere dal primo settembre 2015: partiti in 150mila lo scorso settembre, e via via scesi a 120mila fino ad una settimana fa quando il governo ha deciso di non avvalersi di un decreto legge preferendo «passare la palla al Parlamento» con un disegno di legge. Il che si traduce nel rischio di un notevole allungamento dei tempi, tra iter parlamentare e macchina amministrativa.
Ma Palazzo Chigi fa sapere che sul tema assunzioni «si sono fatti passi avanti». Il punto centrale cui tiene il premier è quello dell’autonomia dei singoli istituti. E le stabilizzazioni vanno verso questa direzione: «Più insegnanti per tenere aperte le scuole anche il pomeriggio». Si parla di 45mila precari da assumere dal primo settembre 2015 per coprire i posti vacanti e il turn over: una parte dalle Graduatorie ad esaurimento (Gae), gli altri i vincitori del concorso del 2012. Tutti gli altri in attesa, Gae e graduatorie di seconda fascia, verrebbero assunti più in là, nel 2016, ma con il concorso.
«Inaccettabile» dicono i sindacati. «Si apre la via a migliaia di ricorsi — spiega Mimmo Pantaleo della Flc Cgil —: questo balletto di cifre è indecente, è un continuo scollamento tra la realtà e i grandi annunci del governo». Nel ddl al vaglio dei ministri si rafforza anche il ruolo dei presidi, «sindaci» della propria scuola con più poteri per «farsi la squadra». «Ma così si va verso la scuola azienda con l’amministratore delegato che ha i propri mentor a cui vanno più soldi a scapito di tutti gli altri », sottolinea Pantaleo.
I sindacati non ci stanno e Flc Cgil, Uil Scuola, Cisl, Gilda, Snals annunciano una mobilitazione comune a partire dal 20 marzo all’11 aprile: sciopero bianco in cui docenti e personale Ata si asterranno da tutte le attività aggiuntive, come ad esempio la sostituzione di una collega ammalata. Poi l’11 aprile saranno a Roma in piazza a manifestare. Ma da ieri molti precari della scuola in tutta Italia hanno cominciato uno sciopero della fame: «Vogliamo essere assunti in una scuola vera che funzioni, non in una fabbrica arrugginita».
E sempre ieri il tribunale di Milano ha anche bocciato il bando del Miur (DM 353/2014) per le graduatorie d’istituto per le supplenze ritenendolo «discriminatorio» perché aperto solo a «cittadini italiani o comunitari». Tutto da rifare dunque per 500mila persone.

Corriere 10.3.15
La sentenza«I bandi per le supplenze a scuola vanno aperti anche agli stranieri»
Il Tribunale di Milano: discriminatorio il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria per entrare nelle graduatorie d’istituto
di Alessandra Coppola

qui

Repubblica 10.3.15
Il Tar boccia Alfano “Il prefetto non può annullare le nozze gay”
di Gianluigi Pellegrino


SE PARLAMENTO e politica latitano, i nodi presto o tardi vengono al pettine. I diritti e i doveri che ci si ostina a negare e disciplinare, fortunatamente irrompono per forza propria; ma con le ruvidezze e le aporie che ogni irruzione comporta.
ECOSÌ c’è voluta la necessità civile, il dovere civico avvertito contemporaneamente da sindaci di diversi e lontani orientamenti politici, di supplire come potevano ad una ignavia legislativa che è tutta italiana, decidendo pur ciascuno per suo conto, di dare riscontro all’istanza di coppie omosessuali di vedere quanto meno riconosciuto nel proprio paese ciò che erano state costrette a celebrare fuori.
E la politica nazionale ha visto bene di rispondere nel peggiore dei modi, per mano di Alfano, ministro dell’Interno. Non una spinta a colmare un vuoto legislativo ormai inaccettabile, ma l’abuso ideologico del potere con l’inammissibile ordine ai prefetti di annullare il gesto peraltro simbolico dei primi cittadini.
E così c’è in primo luogo la censura di quell’abuso di potere ministeriale, nella sentenza del Tar che ha giustamente bocciato l’ostentato fervore, che è l’opposto dell’imparziale amministrazione. Perché come i giudici hanno ricordato solo un tribunale ordinario poteva sindacare la legittimità delle trascrizioni nei registri comunali italiani di nozze omosessuali celebrate all’estero.
Ovviamente non sfugge a nessuno che Alfano nell’impartire quell’ordine non perseguisse alcun tipo di tutela del pubblico interesse, stante anche l’inesistenza di effetti sostanziali connessi alla registrazione. Aveva solo la necessità di distinguersi per un messaggio, di piantare una bandierina in ossequio ad un malinteso a priori religioso. Si ripeteva purtroppo uno schema già visto anche in passaggi più drammatici. Come quando l’allora ministro Sacconi vide bene di cercare di impedire con ordine ministeriale il rispetto della volontà di Eluana Englaro che non solo la famiglia ma i giudici della cassazione avevano certificato.
Un paese condannato allo scontro ideologico, proprio sui terreni dove nelle altre democrazie civili, vi è semplicemente pacifica regolazione di diritti essenziali. E certo il timore di essere tirato per la giacca in questo eterno conflitto deve avere avuto anche il Tar che ieri ha preferito non fermarsi alla censura per difetto di attribuzione degli unici atti impugnati, come pure avrebbe potuto sulla base delle ordinarie regole processuali. Un po’ per prudenza, un po’ per completezza ed anche probabilmente per evitare strumentalizzazioni, i giudici amministrativi hanno voluto soffermarsi anche sul fatto che in effetti in Italia non esiste la copertura normativa per assegnare il timbro del tradizionale matrimonio alle unioni omosessuali, basandosi il matrimonio sulla diversità sessuale degli sposi. Ma ciò, hanno giustamente sottolineato i giudici, sino a quando non vi sarà “un intervento legislativo al riguardo che ponga la legislazione del nostro paese in linea con quella di altri Stati europei e non”. Perché come più volte evidenziato dalle Corti europee e dalla Consulta, non è questione di forzare il concetto tradizionale di matrimonio, ma ben più semplicemente di regolare diritti e doveri di unioni etero o omosessuali, che la società e una convivenza civile impongono di regolare anche in Italia.
Come dovremmo avere imparato l’ignavia della legge sui diritti non solo è clamorosamente ingiusta ma anche del tutto inutile. L’acqua che blocchiamo, non torna in salita, ma irrompe con tutta la sua forza.

il Fatto 10.3.15
Stoccata e fuga
Nuova Rai, riformare per non cambiare
di Antonio Padellaro


È primavera, gli uccellini cinguettano, i prati sono in fiore e si riparla della riforma della Rai. Sentire, per la millesima volta “fuori i partiti” (detto dagli uomini dei partiti), può causare gravi forme di orticaria. Mentre l’ideona di nominare al vertice dell’azienda un manager scelto dal governo a garanzia d’indipendenza è come (parafrasando Benigni) far presiedere al mostro di Firenze l’ente protezione della giovane. Immutabile invece l’assoluta indifferenza che i finti riformatori mostrano nei confronti dei tanti che, in Rai, prestano il proprio lavoro (in strutture spesso fatiscenti ) sottopagati e in condizioni di precarietà. Quelli, soprattutto, che assicurano i contenuti (autori) e la messa in onda: operatori, scenografi, montatori, registi, maestranze che danno qualità al servizio pubblico radiotelevisivo che mediamente non ha nulla da invidiare alla celebrata Bbc. Certo, poi ci sono i tg eternamente inzeppati di inutili dichiarazioni di altrettanto inutili politici: ma è proprio ciò che le cosiddette riforme non intendono cambiare. Mai che nei periodici giri di valzer Rai spacciati per “rivoluzioni” si spenda una parola per chi lavora dietro le quinte, migliaia di professionisti costretti a sottostare alla regola aurea della disincentivazione: più fai, meno guadagni. Mentre resta inalterato il potere contrattuale degli “esterni”, spesso gestiti da lobby intoccabili. Davvero per cambiare le cose può bastare un amministratore delegato al posto di un direttore generale?

La Stampa 10.3.15
A Roma i primi gemelli figli della fecondazione eterologa
La gioia dei genitori: stanno benissimo, la nostra vita ora cambierà
di Grazia Longo


Desiderati, cercati e finalmente venuti alla luce grazie alla fecondazione eterologa. Andrea e Sara (nomi di fantasia, ndr) sono i primi gemelli nati in Italia grazie alla donazione di ovociti da parte di una volontaria italiana. Hanno pochissimi giorni di vita e i colori dei loro occhi e capelli è quello dei genitori, perché la donatrice è stata scelta con caratteristiche simili a quelli della mamma che li ha partoriti. Andrea è ancora in ospedale, in incubatrice, ma gode di ottima salute, mentre la sorellina è nella culla della bellissima cameretta che mamma e papà le hanno arredato con tanto amore a Roma. «Nessuno può immaginare la nostra gioia - dice la neo mamma, 47 anni -. La mia vita e quella di mio marito è cambiata per sempre grazie ai nostri amatissimi figli». Il marito, di un anno più giovane, è il padre biologico, nel senso che l’ovocita ha ricevuto il suo seme e la cura, all’Alma Res Fertility Center diretto dal professor Pasquale Bilotta, è stata possibile grazie alla sentenza della Consulta del 9 aprile scorso che ha abbattuto il divieto dell’eterologa in Italia.
Mai più all’estero
Finalmente stop, quindi, ai viaggi di migliaia di coppie italiane costrette ad andare all’estero per avere figli. Sin dal mese di giugno nella clinica capitolina Alma Res Fertility Center sono avvenute le prime gravidanze eterologhe. Ora, il parto dei due gemelli. Sono i primi a nascere in questo modo nel nostro Paese e resteranno nella storia della procreazione assistita made in Italy. Per la felicità dei neo genitori Martina e Carlo (anche in questo caso ricorriamo a nomi falsi). Una coppia di professionisti che non si è fermata di fronte alle difficoltà di avere un figlio in modo naturale, né ai problemi di salute di Martina, estranei alla maternità, che per un periodo l’hanno costretta a interrompere la terapia ormonale. Bisogna riavvolgere il nastro di questa storia a lieto fine sino ai primi mesi del 2014 quando Martina e Carlo si rivolgono al professor Bilotta dopo un lungo periodo di infertilità, durato circa 15 anni. La fertilità della donna era risultata del tutto compromessa oltre che dall’età, anche da una riserva ovarica (produzione di ovociti) drasticamente ed irrimediabilmente danneggiata da una patologia a carico delle ovaie, l’endometriosi, responsabile del 45% dei casi di infertilità femminile.
L’intervento
L’inseminazione artificiale è stata effettuata mediante tecnica Icsi, il professor Bilotta è stato coadiuvato dall’ embriologo,il dottor Luigi Muzii e dalla ginecologa Talia Capozzolo. È stato utilizzato il trasferimento in utero di due embrioni allo stadio di blastocisti, cioè mantenuti in incubatore nel laboratorio sino al quinto giorno di accrescimento. Tecnica, questa, che incrementa in modo significativo le percentuali di successo della procedura. Nel pieno rispetto delle linee guida delle società scientifiche internazionali, la donazione degli ovociti è stata realizzata con la compatibilità del gruppo sanguigno e considerando le caratteristiche fenotipiche della donna ricevente, cioè colore degli occhi e dei capelli, carnagione, corporatura. Tutte le donatrici sono state sottoposte ad analisi generali, genetiche, metaboliche ed infettive ed hanno ricevuto un rimborso spese, come indicato dalla legge. Entusiasta Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni: «Mi auguro che su questa bellissima notizia non si scatenino polemiche. I gemelli sono nati grazie, oltre che alla professionalità dei medici, alla sentenza della Consulta. Una decisione che significa libertà, rispetto della Costituzione, nuova vita».

Repubblica 10.3.15
Anna Oliveiro Ferraris
“Meglio parlare chiaro sulle differenze usando un linguaggio adatto all’infanzia”
intervista di Irene Maria Scalise


«LE differenze di genere? I bambini le
capiscono a poco più di due anni, quindi parlarne alla scuola materna è normale ». Non ha dubbi Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta ma soprattutto esperta in temi di educazione e scuola.
Ad alcuni genitori affrontare questioni di gender alla scuola materna, come nel progetto di Trieste, sembra presto. Cosa ne pensa?
«Non sono d’accordo. A quell’età i bambini sono già avanti, le loro differenze le cominciano a notare già dopo i 2 anni. È invece giusto spiegargli, fuori dagli stereotipi, come le diversità non comportino preclusioni: un bimbo può giocare con le bambole o una bimba può vestirsi da pirata senza che ci sia nulla di male».
Alcuni genitori sembrano essersi impuntati proprio sulla questione del travestimento.
«Travestirsi è uno dei giochi più amati, forse è preferibile usare degli abiti di scena come accade in teatro, perché realizzare degli scambi tra maschi e femmine può sembrare una forzatura».
Perché i genitori sono così spaventati?
«Credo sia un fatto di mentalità italiana, dovuta anche alla vicinanza con la Chiesa che non ha posizioni chiare. Il paradosso è che i nostri bimbi sono già bombardati da messaggi sessuali, ma nessuno gli spiega chiaramente come stanno le cose. Sarebbe meglio seguire l’esempio delle scuole materne in Germania o in Austria, dove ci sono corsi di educazione sentimentale e sessuale» E per quanto riguarda i controversi riferimenti agli organi genitali?
«Per i bimbi è normale notare anche quelle parti del corpo, lo fanno senza pruderie e devono avere delle spiegazioni, naturalmente fatte usando il linguaggio dei bambini».

Corriere 10.3.15
La deposizione di Mennini: «Non sono mai entrato nel covo, ma tanto non mi crede nessuno»
Dai contatti dei brigatisti ai baffi di Morucci. La versione (e gli enigmi) del prete di Moro
di Giovanni Bianconi


ROMA Assicura il testimone: «Io purtroppo non sono mai stato nella prigione di Aldo Moro, né ho confessato il presidente. La stessa signora Moro commentò con me che se ciò fosse davvero accaduto sarebbe avvenuto tramite un amico di questi mascalzoni». Cioè un prete vicino ai brigatisti. Poi il testimone sbotta: «Ma poi quel pover’omo, ma che se doveva confessà dopo tutto il martirio che aveva subito?».
Don Antonello Mennini, il «prete di Moro» che 37 anni fa era un giovane viceparroco e oggi è nunzio apostolico in Gran Bretagna, ha studiato dai gesuiti e ha fatto una brillante carriera nella diplomazia della Santa Sede. Ma di fronte alle insistenze dei parlamentari che cercano di fargli ammettere ciò che non può o non vuole dire (dopo sette deposizioni tra magistrati e commissioni d’inchiesta) tradisce le sue origini romane. E una certa rassegnazione tipica di chi è nato e cresciuto tra i vizi e le virtù della capitale: «Tanto lo so che non ho convinto nessuno, perché questa storia è diventata una leggenda non più metropolitana ma intercontinentale, visto che me la sono portata dietro anche in Africa e in Russia. Ma non ci posso fare niente. Magari avessi potuto farlo, lo direi anche se in teoria sono segreti pure i luoghi e le circostanze delle confessioni. E in tal caso non sarei stato imbelle come qualcuno mi ha dipinto, avrei cercato di individuare il covo, o addirittura proposto ai carcerieri di prendere me e lasciar andare il presidente».
C’era chi riteneva che sarebbe stata la deposizione della svolta per l’indagine avviata dalla nuova commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (marzo-maggio 1978). Invece è stata solo la ripetizione di ciò che il sacerdote utilizzato come «postino» per recapitare alcuni messaggi di Moro dalla «prigione del popolo» aveva già raccontato nelle precedenti audizioni. Forse reticenti e forse no, ma non sono domande reiterate all’infinito a poter scardinare l’eventuale cortina di omertà. L’effetto è semmai di provocare risposte che — a quasi quarant’anni di distanza dai fatti — rischiano di sollevare elementi di confusione e nuovi misteri, veri o presunti.
Per esempio quando «don Antonello» dice che nella telefonata del 5 maggio ‘78, il brigatista che lo chiamò per fargli avere l’ultima lettera di Moro alla moglie aggiunse: «Dica alla signora che non abbiamo trovato la persona da lei indicata e quindi ho dovuto chiamare nuovamente lei», cioè don Mennini. Questa, per il presidente della commissione Fioroni, «è un’importante novità che conferma l’esistenza di un canale di ritorno», dalla famiglia Moro ai sequestratori, «interrotto pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere». Può darsi. Ma può darsi pure che, come accaduto altre volte, i terroristi avessero prima cercato un altro collaboratore di Moro segnalato dallo stesso ostaggio, che non aveva il telefono sotto controllo, e non trovandolo abbiano ripiegato sul prete sotto intercettazione.
Non a caso gli portarono la busta praticamente davanti alla parrocchia dove viveva, per evitare che arrivasse prima la polizia com’era avvenuto nella consegna precedente. E del resto, se ci fosse stato un «canale di ritorno» tra la famiglia e i brigatisti, avrebbe avuto poco senso la telefonata fatta il 30 aprile dal capo delle Br Mario Moretti alla signora Moro — il cui apparecchio era controllato — per una lunga e pericolosa conversazione. Poi il sacerdote ricorda che quando andò a recuperare il primo plico di tre lettere, il 20 aprile ‘78, «vidi uno coi baffi che mi guardava, e l’anno dopo quando fu preso lo riconobbi nel brigatista Valerio Morucci, proprio dai baffi». Solo che Morucci, nel ‘78 e al momento dell’arresto, non portava i baffi.
Don Mennini non sa spiegarsi perché l’ex ministro Cossiga ha ripetuto più volte che a suo giudizio il prete era andato nel covo br sfuggendo alla polizia, «ma io dopo l’ho incontrato tante volte e non me l’ha mai detto. Strano, no?». E sui circa 10 miliardi di lire messi insieme dal Vaticano nella speranza che i brigatisti si accontentassero dei soldi dice: «L’ho saputo dopo. Paolo VI voleva che Moro fosse liberato, che si trattasse, ma il clima non era favorevole; qua c’è gente giovane, ma nun ve ricordate le manifestazioni oceaniche contro le Br e La Malfa che voleva la pena di morte? Che poteva fà ‘sto povero papa ? C’era un clima ostile, tutti per la fermezza. Che poi, per carità, siamo tutti patrioti, ma ‘sta fermezza è andata a fasse benedi’ poco dopo col sequestro Cirillo, e prima era già andata sulla luna col sequestro Sossi. Che ve devo di’ ?».

Corriere 10.3.15
Paolo VI al bivio tra mediazione e realismo
I cattolici rimasero inerti. E alla fine prevalse la volontà di non destabilizzare il governo
di Andrea Riccardi


La commissione Moro ha interrogato il nunzio Mennini: il giovane prete amico di Moro, per alcuni, confessore dello statista nella prigione delle Br. L’interrogatorio ha risvegliato l’interesse per i lavori della commissione, da cui non ci si aspettano grandi novità, dopo ben cinque processi e la commissione stragi (attiva per 13 anni). Mennini ha ribadito di non aver confessato Moro, come ha testimoniato già sette volte. In realtà queste testimonianze non sono in grado di illuminare le zone d’ombra di quei giorni drammatici. È invece il compito alla ricerca storica.
La figura di Mennini richiama il problema del mondo cattolico di fronte al rapimento di uno dei suoi figli più illustri. Il giovane prete allora dipendeva dal Vicario di Roma, Poletti, che teneva i rapporti tra Paolo VI e la famiglia Moro, impegnata a salvare la vita di Aldo. Dal carcere, Moro guardava a Paolo VI, come un attore terzo rispetto al governo della fermezza, per mediare con le Br, magari interessate a un riconoscimento. Contava sull’«umanitarismo» cattolico, sulla diplomazia e soggettività internazionale vaticana. Il suo modello era la liberazione di Giuliano Vassalli dalle SS, richiesta da Pio XII nella Roma occupata dai nazisti. Paolo VI era, invece, stretto tra l’ansia di salvare Moro e la volontà di non destabilizzare il governo. Andreotti vigilava su quest’ultimo aspetto in contatto con il segretario del Papa, Macchi: «Mai il Vaticano chiese che si trattasse» dichiarò il leader DC. Forse non è stato proprio così. Montini ha tentato di allargare al massimo lo spazio del possibile. Resta l’interrogativo di quanto il problema italiano, rappresentato da Andreotti, non abbia spinto il Papa all’autocensura nell’azione.
Il card. Confalonieri confidò al vaticanista Benny Lai: il Vaticano era diviso tra fermezza e trattativa («Il Santo Padre gradirebbe questa seconda soluzione»). Lo sperava anche Moro: «Una soluzione mediatrice» al di là della ragion di Stato. In Vaticano c’era grande angoscia — secondo lo scrittore Giancarlo Zizola, che riportava la voce di un tentato sequestro del Segretario di Stato, Villot. Era l’atmosfera surreale di Roma in quei giorni d’impotenza. Non mancarono però iniziative vaticane: i contatti con i brigatisti carcerati tramite i cappellani, un telefono alla Caritas internazionale per ricevere messaggi, la raccolta di dieci miliardi per il riscatto... Niente servì.
I cattolici erano piuttosto inerti. I Laureati cattolici, ramo dell’Azione cattolica vicino a Moro, furono per la fermezza. Non era questione di progressisti o conservatori. Lo si vede da un lettera, pubblicata su «Lotta continua» il 19 aprile 1978 (un mese dopo il rapimento), in cui si chiedeva di trattare. La firmarono il leader dell’Azione cattolica, Mario Agnes (con l’assenso vaticano), vari vescovi (tra cui alcuni ausiliari di Poletti), un gruppo di dossettiani, Carlo Bo e Turoldo. Poi venne la lettera del Papa alle Br il 22 aprile 1978, che definì la posizione della Chiesa. Un testo commovente, scritto dal Papa («Vi prego in ginocchio»), in cui c’era però un chiaro limite quando si chiedeva il rilascio di Moro «semplicemente, senza condizioni». Sul testo autografo del Papa un’altra grafia cancellò: «Senza alcuna imbarazzante condizione». Forse fu Macchi. Andreotti vide il testo prima. Nonostante il grande afflato, la posizione era chiara. Il Papa non mediava tra Stato e Br. Non lasciava solo il governo. Fu un dolente realismo di fronte alla decisione delle forze politiche italiane, che non vedevano alternative.
Moro si sentì abbandonato e scrisse a Mennini: «Il Papa non poteva essere un po’ più penetrante? Speriamo che lo sia stato senza dirlo». E ancora: «Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo». La responsabilità della morte di Moro è tutta di chi lo uccise: va ribadito. Si nota però come un cattolicesimo postconciliare così vivace, che parlava tanto di profezia, si ritrovò attonito, quasi nascosto dietro a un Papa solo e malato, stretto tra contrastanti esigenze. Gaetano Afeltra vide il Papa celebrare i funerali di Moro in Laterano e commentò con Zizola: «Ha sentito la voce? Una voce d’oltretomba. Con Moro, un poco è morto anche lui». Morì, il 6 agosto, 3 mesi dopo.

La Stampa 10.3.15
“Ho visto i miei compagni annegare”. I racconti choc dei migranti bambini
Sono sempre di più i minori che sbarcano a Lampedusa dopo mesi di viaggio
Ali e Ismail: “Tenuti prigionieri e picchiati, le donne venivano stuprate”
di Flavia Amabile

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Corriere 10.3.15
La prima causa di guerre globali? L’acqua, 343 volte
di Sara Gandolfi


La Cina monopolizza i grandi fiumi dell’Asia. L’Etiopia sfida l’Egitto sul Nilo. E le tensioni si spostano ora sottoterra. Il mondo in guerra per l’oro blu, 343 volte. Dal Medio Oriente agli Stati Uniti, dal Sudamerica all’Europa dell’Est, si moltiplicanoi rischi di scontro su falde, laghi e corsi d’acqua condivisi.

ACQUA Prove di forza e diplomazia, le 343 guerre per l’oro blu La Cina monopolizza i grandi fiumi dell’Asia. L’Etiopia sfida l’Egitto sul Nilo E le tensioni ora si spostano sottoterra
otte. «Gli impiegati sono asserragliati all’interno della diga, pronti ad aprire i cancelli d’inondazione su ordine dei militari», riferiva il testimone. Poi, l’8 settembre scorso, il governo iracheno ha ripreso il controllo dell’area intorno alla diga di Haditha, aiutato dai raid aerei statunitensi. I miliziani dell’Isis erano avanzati fino alle soglie del grande sbarramento sul fiume Eufrate, nella provincia di Anbar, a circa 200 chilometri dalla capitale. Se l’avessero conquistata, i jihadisti avrebbero avuto fra le mani una potentissima arma di guerra. L’acqua.
È il caso 343 sulla mappa cronologica dei Water Conflict, aggiornata costantemente dai ricercatori del Pacific Institute, in California. L’ultima battaglia per l’«oro blu» in ordine di tempo.
Il controllo dei fiumi è una delle più potenti tattiche belliche della storia. Lo sapevano gli americani quando nel 1972 bombardarono le dighe che controllavano le risaie nordvietnamite e lo sanno gli ucraini che hanno minacciato la costruzione di una diga al confine con la Crimea per bloccare l’erogazione dell’acqua potabile alla penisola annessa alla Russia. Succede fin dai tempi degli antichi Sumeri. La prima — e secondo alcuni unica — vera guerra per l’acqua risale al 2500 avanti Cristo. Eannatum, re della città Stato di Lagash, in Mesopotamia, costruì una serie di canali irrigui che deviarono il corso del fiume e privarono delle risorse idriche la vicina Umma, non lontano dall’attuale Bagdad. Seguirono tre giorni di aspri combattimenti che terminarono con la vittoria di Lagash, celebrata dalla bellissima Stele degli avvoltoi oggi conservata al museo del Louvre di Parigi.
«In 4500 anni, intorno all’acqua si è combattuta un’unica guerra e si sono firmati oltre 500 trattati. In realtà, l’acqua è uno straordinario strumento per costringere i politici, anche nemici, ad entrare in una stanza e cominciare a parlare. Ed è spesso l’ultimo tavolo di negoziato aperto fra due nazioni in guerra. È successo tra India e Pakistan, tra arabi e israeliani, tra armeni e azeri», commenta Aaron Wolf, professore di geografia alla Oregon State University, uno dei massimi esperti in conflitti transfrontalieri.
L’acqua, ad esempio, continua ad essere uno dei temi più controversi nei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, ma nella regione non mancano i casi di cooperazione. «Israele e Giordania avevano un accordo implicito dagli anni Cinquanta che è diventato la base dell’accordo formale del 1994», spiega Wolf. «Ogni anno, l’acqua arriva dalla Giordania in Israele d’inverno, è immagazzinata nel lago di Tiberiade e viene pompata indietro durante l’estate».
Di professione, quando non insegna, Wolf è un idro-diplomatico. Mestiere complesso e ancora poco conosciuto: sotto la generica etichetta di «consulente» cresce l’esercito di questi scienziati-mediatori che si mettono a disposizione di governi e istituzioni sovranazionali per evitare che le crisi si trasformino in qualcosa di più profondo e sanguinoso. I successi non mancano. «Il trattato sull’Indo firmato nel 1960 tra India e Pakistan è sopravvissuto a due guerre. New Delhi ha pagato quanto dovuto al nemico anche mentre al fronte si combatteva», spiega Wolf, che ora è in partenza per una missione top secret in Afghanistan. «Ma è vero che ovunque ci siano fiumi condivisi nascono focolai di tensione».
Gli hot spot sono disseminati in tutto il pianeta. Cina, Nepal, India e Bangladesh litigano intorno ai fiumi che sgorgano dall’Himalaya. In Asia centrale, Tagikistan e Turkmenistan stanno costruendo (o vorrebbero farlo) enormi infrastrutture sui corsi d’acqua che minacciano i Paesi a valle, come l’Uzbekistan. E nessuna cura è stata ancora trovata per l’agonia del Mare d’Aral. Sul Nilo si preannunciano forti tensioni ora che l’Etiopia sta innalzando la Grande diga della Rinascita, che potrebbe cambiare il destino economico del Paese ma anche la portata del fiume in Egitto. Argentina e Uruguay hanno portato alla Corte internazionale di giustizia la loro disputa sul Rio de la Plata. Messico e Stati Uniti bisticciano per i diritti sul Rio Grande e il Colorado. Siria e Iraq sono ai ferri corti per le acque del Tigri.
E poi c’è la Cina, che va assumendo un ruolo di leadership anche nella gestione delle acque internazionali. Golia vs Davide. Tutti i fiumi del Sud-Est asiatico originano in Cina, «oro blu» da cui dipendono 1,5 miliardi di persone, fuori dalla Repubblica popolare. Ma Pechino è assai riluttante a condividere le informazioni, sui flussi e sulle infrastrutture che possono alterarli. Un caso esemplare è quello del fiume Mekong che percorre ben sei Paesi: quattro Stati a valle — Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam — si riuniscono periodicamente nella «Mekong Commission», la Birmania sta valutando l’ingresso. La Cina rimane fuori: fedele alla sua tradizionale segretezza, finora ha condotto solo negoziati bilaterali. «Alla fine aderirà», prevede un diplomatico, «ma solo dopo aver inaugurato la sua diga a monte e perché otteniamo comunque le informazioni grazie ai moderni satelliti della Nasa».
A livello di diritto internazionale, esistono due strumenti dell’Onu: la Convenzione sugli usi non navigabili dei fiumi e la Convenzione sulle acque transfrontaliere dell’Unece (nata a livello europeo ma ora aperta anche agli altri Stati, attualmente presieduta dall’Italia). Entrambe vincolanti, ma solo per i Paesi che le hanno ratificate. E ne mancano molti. Come si compensa, d’altra parte, il danno provocato da una diga sul naturale ciclo idrogeologico? «A volte è solo un danno economico, a volte ambientale. Spesso è solo un gioco di potere», spiega l’ungherese András Szöllösi-Nagy, governor del World water forum, che ad aprile riunirà in Corea del Sud scienziati e ministri dell’acqua provenienti da ogni angolo della Terra. Come ieri faceva il re del Lagash, oggi ad esempio la Turchia progetta dighe immense sull’Eufrate. «Rassicura i vicini, ma rifiuta negoziati. Siria e Iraq non si fidano», commenta Andrea Merla, ex manager del Global environment fund, nato in seno alla Banca mondiale e diventato poi un fondo autonomo per le Convenzioni sull’ambiente.
Nei prossimi trent’anni, il fiume Giallo e lo Yangzi, il Gange e l’Indo, l’Eufrate e il Giordano, il Nilo e molti altri fiumi soffriranno una riduzione di portata del 25-30%, a causa dei cambiamenti climatici. E intanto crescerà la domanda di acqua per energia, agricoltura e usi domestici. Le tensioni potranno presto spostarsi dalla superficie al sottosuolo. Circa il 99% dell’acqua dolce presente sul pianeta è infatti immagazzinata negli acquiferi. E il 40% dell’umanità attinge proprio a queste riserve sotterranee per procurarsi l’acqua per vivere. In alcune zone i pozzi sono poco profondi, in altre si utilizzano le tecniche di estrazione del petrolio per arrivare all’«oro blu» fino a centinaia di metri sotto il suolo.
Spesso sono acquiferi condivisi. E nessuna norma sovranazionale regola il loro uso. Il problema è che l’acqua nel sottosuolo si muove, in modo diffuso, tentacolare, non lungo un unico canale, e non conosce confini. Se pompi nel punto A, presto o tardi, a volte anche dopo decine di anni, ci sarà una ripercussione nel punto B, magari a centinaia di chilometri di distanza. E in genere è troppo tardi per porvi rimedio.
Per colmare questo gap l’Associazione idrogeologica internazionale, assieme all’Unesco e alla Commissione del diritto internazionale dell’Onu, ha proposto una bozza di normativa, in parte già accolta dalla Convenzione dell’Unece. Ma pochi Stati sembrano propensi ad accettare una legislazione vincolante. «Il problema fondamentale è l’acquisizione dei dati», spiega l’indiano Shammy Puri, segretario generale dell’Associazione. «Noi produciamo analisi del rischio, modelli matematici di previsione, non certezze. Ma almeno diamo la possibilità ai governi di iniziare a discutere e a valutare i possibili danni».
Anche in questo caso, gli hot spot sono noti. In Sud America c’è l’acquifero del Guarani, condiviso fra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Con l’aiuto di un finanziamento del Gef, gli scienziati hanno preparato un accordo per l’utilizzo congiunto delle sue acque. Piuttosto tesa la situazione in Europa dell’Est, dove esistono, in particolare tra Ungheria e Romania, acquiferi molto estesi e profondi. L’ingresso di entrambi i Paesi nell’Unione Europea oggi li obbliga a cooperare. Più conflittuale, la condivisione dell’acquifero mesozoico fra Ucraina e Polonia, che nutre le grandi foreste dell’Europa orientale. Non va meglio in Medio Oriente o in Africa.
Sotto il deserto, in realtà, si nascondono enormi acquiferi. Quello sotto Egitto, Sudan, Ciad e Libia — l’acquifero Nubiano — vanta un quantitativo d’acqua 500.000 volte superiore al flusso annuale del Nilo. «Avrebbero acqua sufficiente per un’agricoltura rigogliosa», conclude Puri. «Ma se non si creano modelli di gestione, visto che ora non piove più su quell’area, nel giro di 200 anni non resterebbe nulla se iniziassero a sfruttare sistematicamente le acque sotterranee».

Corriere 10.3.15
E l’Onu studia lo sviluppo sostenibile delle risorse idriche
di S. Gan.


Si inaugurerà il 3 maggio, due giorni dopo Expo Milano 2015 da cui è patrocinata e di cui è evento collaterale, Aquae Venezia 2015, l’evento espositivo internazionale dedicato all’acqua, in programma a Mestre fino ad ottobre. In uno spazio di 50.000 mq affacciato sulla laguna, ospiterà un articolato programma di esposizioni, conferenze e seminari (per info: www.aquae2015.org). Tra i principali momenti, il ciclo di convegni medico-scientifici «Acqua e vita», a cura della Fondazione Umberto Veronesi, e «Pianeta acqua», organizzato da eAmbiente, che farà il punto su desertificazione, water footprint, irrigazione, bonifiche. A Venezia sarà presente anche il World Water Assessment Programme (Wwap), il Programma per la valutazione delle risorse idriche mondiali dell’Onu, ospitato e gestito dall’Unesco e finanziato dal governo italiano e la regione Umbria, che il 20 marzo, due giorni prima della Giornata mondiale dell’acqua, presenterà a New Delhi il Rapporto mondiale sullo sviluppo delle risorse idriche, voce unica dell’Onu sul tema delle acque dolci, dedicato quest’anno allo sviluppo sostenibile. «L’obiettivo principale del Wwap è fornire assistenza ai Paesi per rafforzare la loro capacità nella valutazione dello stato, l’uso e la gestione delle risorse idriche», spiega la dottoressa Michela Miletto, coordinatrice del Programma. «Tale valutazione è uno strumento cruciale per la prevenzione di potenziali conflitti».
In occasione di Expo 2015, Wwap ha messo a punto anche un originale progetto teatrale, «Le stanze dell’acqua», che alternerà cinque corti d’animazione e cinque monologhi recitati dal vivo.

Corriere 10.3.15
Migranti, la proposta italiana: tre centri di raccolta in Africa
Il piano sarà sottoposto alla Ue: campi per i rifugiati in Niger, Sudan, Tunisia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Oltre 9.000 persone approdate sulle coste meridionali in poco più di due mesi, quasi il doppio dello scorso anno. Ben 68 sbarchi dal 1° gennaio al 9 marzo, una media di uno al giorno. Alla riunione dei ministri dell’Interno europei prevista per domani a Bruxelles, l’Italia arriva con numeri che evidenziano la situazione di emergenza. Pronta a chiedere soldi e mezzi per regolare in Africa il flusso dei profughi in fuga dalla Libia aprendo centri di prima accoglienza gestiti da organizzazioni internazionali.
L’ipotesi del blocco navale per fermare le partenze e respingere i migranti non appare, almeno al momento, percorribile. E dunque si devono cercare soluzioni alternative, soprattutto tenendo conto che la crisi libica appare tutt’altro che risolta.
I dati della Direzione centrale dell’immigrazione parlano di 9.117 stranieri giunti fino a ieri mattina, mentre nello stesso periodo dello scorso anno — che alla fine è stato segnato dal record di ben 170.100 persone arrivate — erano soltanto 5.611. Di questi, soltanto 434 provengono dalla Turchia, 99 dalla Grecia, 97 dalla Tunisia e il resto dalla Libia. I tecnici insistono nel ritenere indispensabile andare avanti con Triton, potenziando il dispositivo in mare, ma appare ormai evidente che di fronte a quanto sta accadendo in Libia l’operazione predisposta da Frontex non sia sufficiente. Per questo il ministro dell’Interno Angelino Alfano solleciterà i colleghi europei ad avviare un programma di assistenza direttamente negli Stati di partenza o comunque in quei Paesi disponibili alla cooperazione.
Lo schema studiato in queste ore in accordo con l’Alto commissariato per i rifugiati e con l’Oim, l’Organizzazione di assistenza ai migranti che proprio in Africa e in particolare in Libia vanta un’esperienza decennale, prevede l’apertura di almeno tre punti di raccolta dei profughi in Niger, Sudan e in Tunisia. In questo modo chi è in fuga dalla guerra e dalle persecuzioni potrebbe indicare il Paese che ha intenzione di raggiungere aprendo direttamente la procedura per il riconoscimento dell’asilo politico. Un modo per distribuire gli stranieri in tutta l’Unione Europea tentando anche di togliere agli scafisti almeno una parte degli introiti derivanti dal traffico di essere umani.
L’accordo appare tutt’altro che scontato, difficile che si riesca ad ottenere il via libera da tutti gli Stati membri. Ma è una strada che l’Italia appare comunque determinata a percorrere evidenziando i rischi derivanti da una mancata pianificazione degli interventi. Pur essendo lontanissimi dai numeri «sparati» qualche giorno fa dal direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che aveva parlato di «un milione di persone pronte a partire dalla Libia», gli analisti sono concordi nel ritenere che nei prossimi mesi decine di migliaia di migranti potrebbero arrivare, addirittura molti di più del 2014. E questo metterebbe l’Italia e l’intera Ue in una situazione di grave affanno. Anche tenendo conto di quanto è già accaduto fino ad ora.
Il quadro di situazione fornito al ministro evidenzia come siano circa 80.000 le persone attualmente assistite dall’Italia. Stranieri in attesa di conoscere l’esito della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Nei centri del Viminale i posti sono finiti. Molti sono ospitati nelle strutture messe a disposizione dagli enti locali, altri sono in alloggi di emergenza reperiti dallo staff del prefetto Mario Morcone. Ma la capienza è al limite e anche su questo tasto l’Italia batterà per ottenere cooperazione da Bruxelles.

il Fatto 10.3.15
L’Europa blocca gli aiuti La Troika torna in Grecia
di Carlo Di Foggia


L’EUROGRUPPO BOCCIA LE MISURE DI TSIPRAS, “TROPPO GENERICHE”, E SOSPENDE I FONDI: “IL GOVERNO TRATTI CON UE, BCE E FMI”, CHE SBARCHERANNO AD ATENE

Nella partita a poker con Bruxelles, la Grecia perde un’altra mano: niente soldi finché non c’è un “accordo generale” e le riforme non partono. L’ex Troika torna ad Atene. Ieri l'Eurogruppo – la riunione dei ministri delle Finanze dell'Eurozona – ha ribadito il messaggio spedito al governo greco venerdì scorso: serve a poco inviare proposte “generiche”, dovete trattare - con numeri ed entrate certi - con le “istituzioni” creditrici (Bce, Fmi e Ue).
PER CHI NON L’AVESSE capito, prima ancora che la riunione iniziasse, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble lo ha spiegato in chiaro: “Ora i negoziati sono affare della Troika”. Prima di lui ci aveva pensato l’iperattivo presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: “La Grecia inizi a fare sul serio”. Detto fatto. La decisione viene presa in appena mezz’ora: mercoledì partono le trattative coi creditori. Ad Atene o a Bruxelles? In entrambe. Tsipras ha vinto le elezioni promettendo di chiudere con l'austerità e far sparire l’odiata task force. Come rivelato dal Financial Times giovedì il ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis ha chiesto a Dijsselbloem di trattare esclusivamente a Bruxelles per evitare la sconfitta totale. La risposta è stata lapidaria: “Caro Yanis, la discussione si svolgerà qui, ma i lavori tecnici avverranno ad Atene”. Concetto ribadito ieri dall'Euro-gruppo. Finché non si arriva a un accordo, non ci saranno anticipi sui prestiti. Eppure l'urgenza è evidente. La Grecia deve rimborsare 4,3 miliardi entro marzo (la prima tranche da 300 milioni all'Fmi, su un totale di 1,5 miliardi, è stata pagata venerdì). Nelle ultime settimane la pesante emorragia dai conti correnti (oltre dieci miliardi da febbraio) è diminuita, ma senza liquidità il governo non arriverebbe a fine mese. Dalla riunione dei ministri delle finanze è stato fatto trapelare un generico impegno a “risolvere i problemi finanziari di Atene”, ma solo se continuerà ad aggiornare la lista delle riforme. Quella che Varoufakis ha inviato venerdì, e che ieri è stata arricchita di altri tre punti per tagliare l’evasione fiscale: le vecchie dichiarazioni dei redditi verranno riesaminate, e saranno introdotti incentivi per richiedere gli scontrini (in sostanza, diventerebbero tagliandi per partecipare a una lotteria, sulla falsariga di quanto fatto in Portogallo). Ma c’è un però: come ha sperimentato l'Italia con la legge di Stabilità, i tecnici di Bruxelles non prendono mai sul serio le entrate dalla lotta all'evasione.
A Bruxelles considerano la lista una base negoziale debole. Nella lettera c’è un po’ di tutto, dalle operazioni spot come l’uso di studenti, colf e turisti come “delatori fiscali”, alla concessione di nuove licenze per il gioco d'azzardo online (da cui Atene conta di incassare 500 milioni di euro), ai tagli ai ministeri (61 milioni) e agli appalti pubblici (140 milioni) con cui finanziare la social card per fornire ai più poveri energia elettrica, un sostegno all'affitto e buoni pasto (200 milioni ). Ci sono anche riforme del Fisco e della Pa. I punti più interessati sono i primi due: l'istituzione di un “Consiglio fiscale” indipendente che monitori le politiche del governo, redigendo periodiche spending review; e modifiche alla stesura del bilancio statale con correttivi automatici (trimestrali), da attuare con piani pluriennali di revisione della spesa. Non proprio la fine dell’austerità promessa da Tsipras.
“UNA LISTA INCOMPLETA e generica”, l'ha giudicata l'Euro-gruppo: “Abbiamo perso due settimane”. Frasi che hanno scatenato la reazione dell’ala più radicale del governo. Ieri il ministro della difesa, il populista di destra Panos Kammenos ha minacciato l’Ue: “Se ci abbandona, vi sommergeremo di migranti mescolati a jihadisti”.
Il testo finale dovrà arrivare entro fine aprile. La Grecia ha poi tempo fino a giugno per mettersi in regola o prepararsi a un'uscita ordinata dall'euro, che il governo di Atene continua a smentire. Finora, però, ha ottenuto poco. Non può alzare di 15 miliardi il tetto alle vendite di bond a breve (Francoforte è contraria al finanziamento monetario del governo), né ottenere i due miliardi che la Bce ha guadagnato dai titoli greci (destinati alle banche centrali dell'Eurozona). Restano i 7,2 miliardi dell'ultima tranche del vecchio piano di salvataggio, per ora bloccati. Ormai anche la Grexit non spaventa più di tanto. Ieri l'ex ministro dei trasporti tedesco Peter Ramsauer, membro della bavarese Csu (l'ala più conservatrice del governo Merkel) l'ha definita una “grande opportunità”.

La Stampa 10.3.15
Berlino contro Atene: stop agli aiuti e fuori anche dall’area Schengen
Il greco Kammenos: manderemo in Germania rifugiati e militanti Isis
E i tedeschi minacciano: cambieremo l’intesa sulla libera circolazione

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Corriere 10.3.15
Quello che la Grecia non può fare: rinviare ancora
Un fronte di crisi interno alla Ue sul caso greco avrebbe l’effetto di disunire gli europei proprio quando hanno bisogno di mostrarsi uniti di fronte a Mosca
di Danilo Taino
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il Fatto 10.3.15
Il negoziato
La favola di Atene (e di Weimar): l’Europa deve riunirsi attorno allo slogan “Je suis grec”
di Achille Occhetto


L’antico ammonimento “de te fabula narratur” si è interiorizzato nella consapevolezza che fa dire a ciascuno di noi: “la favola parla di me”. Questo è il senso della moderna espressione di compartecipazione al dramma “je suis Charlie”. La stesso atteggiamento dovrebbe esprimersi di fronte alla tragedia Greca.
PERCHÉ JE SUIS GREC? Non dobbiamo limitarci a essere paternalisticamente indulgenti verso i greci, ma sentirci legati a un identico destino, per presentarci con maggiore chiarezza all’appuntamento di fine aprile quando severi giudici dovranno esprimere il loro verdetto sulle misure che saranno adottate dal governo greco, dopo quell’accordo del 24 febbraio, che ha concesso una boccata d’aria alla Grecia, in attesa dello show-down. Come si legge in un appello di sostegno alla Grecia, che ho avuto l’onore di firmare, finora è stato “dominante l’assunto che la Grecia, perché paese debitore, sia automaticamente tenuta a rispettare gli impegni, indipendentemente dalla sua capacità a farvi fronte e che l’Europa, perché principale creditore, sia automaticamente abilitata a dettare le politiche per il risanamento economico, giudicarne i comportamenti e deciderne il destino.
Tutto questo nonostante il fallimento delle terapie fin qui imposte alla Grecia”. Per comprendere la portata delle responsabilità di lungo periodo bisogna andare alle radici di una cultura economica, quella neoliberista, che, ormai, ha palesemente fallito. Una cultura che si fonda su una mistificazione, quella secondo cui sarebbe stata la grande inflazione del periodo di Weimar a favorire l’avvento del nazismo. In questa narrazione ideologica ci si dimentica che agli inizi degli anni trenta, poco prima dell’avvento nazista, una maggiore rilevante deflazione fu affrontata dal governo Bruning cercando di difendere l’aggancio della Germania all’oro attraverso una politica deflazionistica basata sulla contrazione del credito e su una rigida austerità.
TALE COMPORTAMENTO, e non lo spettro di Weimar, è stata la causa di quel malessere del popolo tedesco che ha aperto la strada al nazismo. Questo strabismo storico è alla base delle politiche neoliberiste delle istituzioni finanziare europee impegnate sul fronte della lotta all’inflazione proprio quando all’orizzonte si intravedeva già lo spettro della recessione. Qui sta anche il diverso approccio alla crisi tra Obama e la cosiddetta Troika. Prima della grande inflazione un governo democratico, quello della Repubblica di Weimar, invece di essere aiutato dalle amiche democrazie occidentali, fu vessato, per colpe non sue, dalla richiesta di esose riparazioni di guerra, in un momento in cui la Germania non aveva nessuna possibilità concreta di fronteggiare quelle richieste. Anche allora la Germania aveva le sue responsabilità storiche, che la Francia e l’Inghilterra, poco saggiamente, riversarono sulla giovane e brillante democrazia tedesca, favorendo, in gran parte, il disastro economico e la vittoria della dittatura. Come accadde alla repubblica di Weimar, Syriza non può pagare in toto i debiti e non potrà pagarli nemmeno domani senza politiche sociali ed economiche che puntino sulla ripresa. E questo non può farlo se rimane fedele ai protocolli e agli impegni firmati dai precedenti governi. Un ulteriore taglio della spesa pubblica trascina con sé il crollo della stessa spesa privata. Infatti le politiche di austerità, attraverso tagli lineari, innescano una catastrofica spirale verso il basso che verrebbe pagata, oltre che dalla Grecia, anche dagli stessi creditori. Al contrario una maggiore flessibilità da parte dei creditori che favorisca la ripresa dell’economia greca sarebbe nel loro stesso interesse. Questi sono i fatti, il resto è ideologia.
OGGI ALL’EUROPA spetta decidere se vuole favorire il progetto storico della comunità europea, che era quello di fondare la pace e la democrazia sulla prosperità, oppure di puntare prima sull’umiliazione e poi sulla sconfitta di Syriza, con la catastrofica conseguenza di favorire derive autoritarie e separatiste, che sono già in agguato. Per tutti questi motivi possiamo dire ancora una volta “de te fabula narratur”, gridando forte e chiaro: “Je suis grec”. Ps. Sarebbe bello che nell’imminenza del prossimo confronto l’Europa fosse attraversata da un fiume di fiaccole portate da migliaia di tedofori che indossano magliette o cartelli con la scritta: Je suis grec.

Repubblica 10.3.15
Settanta deputati: “Ok a dosi letali”
“Lo Stato aiuti a vivere, non dia la morte”
Appello congiunto dei rappresentanti delle fedi monoteiste mentre la nuova legge sul fine vita arriva in Assemblea
La riforma voluta da Hollande parla di diritto alla sedazione profonda fino al decesso
di Anais Ginori


PARIGI Un appello congiunto dei rappresentanti delle religioni monoteiste. L’esame di una nuova legge sul fine vita, che approda in questi giorni al parlamento, ha provocato un’inedita presa di posizione unitaria affinché venga preservato “il divieto di uccidere”. «Nessuna riforma deve rinunciare a questo principio fondatore: ogni vita umana deve essere rispettata, specialmente nel momento in cui è più fragile», è scritto nell’appello che lanciano, dalle colonne di Le Monde , cinque leader religiosi — un cattolico, un protestante, un ortodosso, un ebreo e un musulmano — alla vigilia dell’apertura del dibattito all’Assemblea Nazionale francese sulla legge sul fine vita e la possibilità di “sedazione profonda e continua” dei malati terminali.
«Chiediamo che questa legge civile sia civilizzatrice, ovvero che aiuti a vivere e morire, senza mai accorciare la vita, senza mai decidere di dare la morte», scrivono l’arcivescovo di Lione e primate di Francia Philippe Barberin, il presidente della federazione protestante francese Francois Clavairoly, il metropolita ortodosso di Francia Monsignor Emmanuel, il presidente del consiglio del culto musulmano Mohammed Moussaoui e il rabbino capo di Francia Haim Korsia. La sedazione, proseguono, «può essere utile e necessaria » quando si limita ad «addormentare un paziente», ma «l’uso di questa tecnica è snaturato quando si tratta non più di dare sollievo al paziente, ma di provocarne la morte». «È dallo sguardo che posa sui suoi esponenti più fragili che si misura il grado di umanizzazione di una società — recita ancora il testo — A quale titolo si pensa di legalizzare un gesto di morte? Perché la persona in causa avrebbe, si dice, perso la sua dignità? Perché avrebbe fatto il suo tempo? Gli si lascerebbe intendere che è diventata inutile, indesiderabile, costosa. L’uomo si crede in grado di assegnare — a se stesso o agli altri — dei diplomi di umanità? ».
La proposta di legge sul “fine vita” che sarà discussa dal parlamento è firmata dal socialista Alain Claeys e dal centrista Jean Leonetti, già autore della legge in vigore risalente al 2005. La riforma — chiesta dal François Hollande, come promesso in campagna elettorale — vuole mettere al centro di tutto il «diritto di ogni paziente alla sedazione profonda e continua fino alla morte». Inoltre, è passato un emendamento dei socialisti che consente ai pazienti che lo vogliano di beneficiare di una sedazione profonda al proprio domicilio, «nel proprio letto». I medici francesi, dunque, se questa legge dovesse passare anche in aula, avranno l’obbligo di informare i pazienti «della possibilità e delle condizioni della redazione delle volontà anticipate».
La battaglia parlamentare si annuncia durissima: oltre un migliaio di emendamenti sono stati annunciati. Il deputato socialista Jean-Louis Touraine ha guidato l’emendamento di una settantina di deputati affinché un malato terminale possa chiedere il ricorso a sedativi in dose letale, dopo il via libera di un collegio di tre medici. Il presidente della commissione Affari Sociali, la socialista Catherine Lemorton, da sempre sostenitrice del suicidio assistito, fa sapere che sosterrà l’emendamento Touraine: «Esercito la mia libertà di coscienza e di voto». Hollande ha lanciato un appello alla collaborazione bipartisan e a uno «spirito di rassemblement » per la futura legge, ma è molto probabile che non sarà ascoltato.

Repubblica 10.3.15
Il filosofo Pierre Le Coz
“Sì all’eutanasia ma si va avanti a piccoli passi”
intervista di A. G.


PARIGI . «Il governo procede a piccoli passi, perché la società francese non è ancora pronta a una legge sull’eutanasia». Il filosofo Pierre Le Coz è stato vice-presidente del comitato nazionale di etica, autore di libri su come parlare della morte e di un ultimo saggio pubblicato da Albin Michel, Le gouvernement des émotions , il governo delle emozioni.
Come giudica la nuova legge sul “fine vita”?
«Il governo non vuole produrre un dibattito che divida la società, soprattutto dopo quello che è già accaduto con il matrimonio gay. La legge che arriva in parlamento è tutto sommato consensuale. L’importante è prendere atto che l’attuale normativa non permette alle persone di morire degnamente, senza sofferenze».
La normativa approvata nel 2005 va cambiata?
«Ci sono delle cose buone in quel testo. La legge del 2005conferisce dei diritti ai pazienti. Ma alla fine i medici hanno comunque l’ultima parola».
Il paziente non può decidere?
«Si possono fare dichiarazioni anticipate di trattamento, una sorta di biotestamento, ma queste dichiarazioni scadono dopo tre anni: andrebbero rinnovate continuamente. Inoltre, per il medico hanno un valore solo consultivo».
Ora cosa dovrebbe cambiare?
«Le volontà espresse dal paziente rimarranno sempre valide a meno che lui stesso non decida di annullarle. E i medici dovranno seguirle».
Lei è favorevole a una legge per l’eutanasia?
«Non sono per una legge che autorizzi del tutto l’eutanasia, sappiamo che solo una piccola minoranza di persone la chiede davvero».
E così pure per il suicidio assistito?
«La società francese non è pronta. Credo che il governo faccia bene a studiare piuttosto una eutanasia progressiva, attraverso la sedazione. È una soluzione di compromesso tra quello che Hollande aveva promesso in campagna elettorale e quello che davvero si può fare».
Un riforma che spaventa i cattolici e molti credenti?
«Ma non si provoca deliberatamente la morte. Ci si avvicina molto lentamente. Serve un lungo e profondo cambio culturale per arrivare a una legge sull’eutanasia. Bisogna avvicinarsi a piccoli passi, e la proposta del governo va nella direzione giusta». ( a. g.)

La Stampa 10.3.15
Noa scrive agli elettori d’Israele
“Liberiamoci di Netanyahu”
di P. Neg.


A ottobre l’aveva fermata l’alluvione: la cantante israeliana Noa (Achinoam Nini, 45 anni) aveva cancellato il concerto previsto a Genova e aveva visitato la città colpita. Il 17 marzo nulla, se non il traffico aereo, potrà fermarla: si presenterà puntuale all’apertura dei seggi a Tel Aviv, si precipiterà in aeroporto e da lì decollerà per l’Italia. Riuscirà così a cantare nella città ligure (al Politeama) e a dare un contributo diretto affinché Benjamin Netanyahu non venga rieletto.
Molto, ma non abbastanza per lei, se in questi giorni ha diffuso una lettera aperta che ha i toni accorati della preghiera: «Dio, tra poco sarà tempo di elezioni nel mio amato Paese. Ti prego di mandare saggezza e compassione nei cuori dei miei concittadini e di far sì che si liberino del governo distruttivo, arrogante, razzista di Netanyahu e della sua schiera».
Dopo aver accusato Netanyahu e i suoi di aver «prostituito» i principi dell’ebraismo, Noa conclude: «Liberiamoci da questi uomini malvagi, che per amore del potere e del fanatismo sono disposti a farci sanguinare tutti a morte. Sono loro, non l’Iran, la minaccia più grave per il nostro futuro! Aiutaci, O Dio, a eleggere leader coraggiosi e illuminati che si dedichino al benessere di tutti i cittadini, arabi ed ebrei, e a dare a tutti uguali opportunità, e che abbiano a cuore la pace. Leader che si vogliano sacrificare per il bene comune, dalle mani e dal cuore puliti. Ti prego, Signore. Amen». [p. neg.]

Repubblica 10.3.15
Israele, non sarà assegnato il Premio letteratura 2015


TEL AVIV  Il premio Israele per la Letteratura 2015 non sarà assegnato. A dichiararlo è Jonathan Moses, dell’avvocatura di Stato, a margine dell’audizione che si è tenuta ieri mattina presso l’Alta corte di giustizia di Israele e legata alla petizione presentata da diversi artisti israeliani in cui si chiedeva per quest’anno la sospensione del riconoscimento. Il motivo è l’intervento del primo ministro Benjamin Netanyahu sulla composizione della giuria dell’Israel Prize, le conseguenti dimissioni di cinque membri e la rinuncia a partecipare di David Grossman ( foto). Dall’ufficio del premier a febbraio era infatti arrivato il veto sulla nomina di tre giudici (Avner Holtzman, Ariel Hirschfeld, Chayim Sharir), gesto considerato dagli altri membri della commissione come un’inaccettabile intromissione. In un post su Facebook, Netanyahu, costretto comunque a fare un passo indietro, annullando il veto, aveva sostenuto: «Troppo spesso sembra che membri estremisti della giuria concedano premi ai loro amici e poi ci sono troppi antisionisti, radicali, pacifisti e pochi rappresentanti delle altre componenti della nazione». Il premio è stato annullato «per circostanze tecniche».

Corriere 10.3.15
Iran, se il dialogo con l’Occidente non ferma il boia
di Viviana Mazza


Almeno 753 esecuzioni: la metà per reati legati al traffico di droga e il 32% per omicidio. Alcuni sono casi che hanno fatto scalpore, come quello di Reyhaneh Jabbari (nella foto), una ventiseienne che confessò di aver pugnalato l’uomo che voleva stuprarla; di tanti altri si conoscono soltanto le iniziali. È il quadro della pena capitale nella Repubblica Islamica nel 2014 che emerge dall’ultimo rapporto di «Iran Human Rights». Solo il 39% di queste condanne sono state annunciate ufficialmente, ma gli attivisti del gruppo con sede a Oslo assicurano di basarsi su testimonianze certe raccolte all’interno del Paese. Per numero, le esecuzioni segnano un record da 15 anni a questa parte, con un aumento notevole sotto la presidenza del riformista Rouhani. E questo succede — denuncia il portavoce Mahmood Amiry-Moghaddam — proprio ora che migliorano i rapporti tra l’Iran e i Paesi occidentali. Mentre le potenze cercano un’intesa sul programma nucleare di Teheran, 47 senatori repubblicani hanno avvertito in una lettera all’Iran che l’accordo non durerà sotto il prossimo presidente Usa. Gli attivisti di «Iran Human Rights» invece non sono contrari ai negoziati, ma spiegano che «è ora che anche i diritti umani traggano beneficio da questo dialogo».
L’Iran ha dichiarato in passato al Corriere , attraverso la vicepresidente Massoumeh Ebtekar, che la ragione di tante esecuzioni è il traffico di droga, un problema serio. Ma diverse nazioni, inclusa l’Italia — nell’ambito della «revisione universale periodica» al Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra — hanno chiesto a Teheran di «considerare una moratoria sulla pena di morte in vista di una sua abolizione, in particolare per quanto riguarda i reati di droga e per altri crimini che non rientrano tra i più gravi». La risposta è attesa il 20 marzo, e gli attivisti chiedono al mondo di tenere alta l’attenzione. Intanto, anche all’interno della Repubblica Islamica sembra crescere l’opposizione alla pena capitale: in 681 casi, tra il marzo 2013 e il dicembre 2014, i parenti delle vittime hanno perdonato il killer risparmiandogli la forca.

Corriere 10.3.15
La Cina mette in galera le attiviste anti-molestie
di Guido Santevecchi


PECHINO La stampa statale a Pechino ha appena esortato i legislatori a introdurre norme contro la violenza domestica, che secondo un rapporto colpisce quasi il 40% delle donne in Cina. Ma contemporaneamente, secondo fonti del movimento per i diritti femminili, la polizia ha arrestato almeno 10 attiviste, per evitare che partecipassero a manifestazioni non autorizzate per l’8 marzo, giorno internazionale delle donne.
Cinque delle femministe sono ancora in carcere e i loro avvocati non sono riusciti ad avere alcun contatto. La polizia può tenere in cella chiunque fino a 30 giorni senza incriminazione e poi ha il potere di prorogare la detenzione per altri mesi per motivi di sicurezza non specificati. La notizia di questi arresti è stata data alla Ap da Feng Yuan, un’attivista che si trova in questi giorni a New York. Secondo Feng le cinque ancora nelle mani della polizia sono Li Tingting, Wei Tingting, Wang Man, Zheng Churan e Wu Rongrong.
La più nota è Li Tingting, che nel 2012 organizzò una campagna contro la violenza familiare indossando un vestito da sposa macchiato di vernice rosso sangue. Li, che ha 25 anni, è un’attrice dell’Opera di Pechino e come nome d’arte usa Li Maizi. Le amiche la descrivono come molto tranquilla, timida, per niente aggressiva. Dicono che gli agenti sono andati a prenderla a casa la notte di venerdì 6 marzo e da allora non si è saputo niente di lei. Anche Wu Rongrong è stata presa il 6: Wu è impegnata nella campagna contro la discriminazione dei malati di Aids e di epatite. Altre compagne sono state arrestate nelle città di Canton e Hangzhou dove ha sede il Women’s Center.
A Pechino sono in corso le «due sessioni», le riunioni annuali del Congresso del Popolo e dell’Assemblea Consultiva, i due organismi che sono i pilastri della «democrazia consultiva» cinese: in pratica si limitano ad approvare ogni decisione presa dal Politburo del Pcc. Sabato un gruppo di deputate del Congresso aveva tenuto una conferenza stampa sull’eguaglianza di genere, sorridendo e assicurando che ogni problema femminile sarà affrontato e risolto .

Corriere 10.3.15
Un’apertura da Pechino: prove di dialogo con il Vaticano
di Gian Guido Vecchi


Con tutta la prudenza del caso, Oltretevere spiegano che da Pechino è arrivato in Segreteria di Stato un «rilancio» alle offerte di dialogo del Papa. Una disponibilità concreta a trovare un accordo tra Cina e Vaticano che non riguarda anzitutto le relazioni diplomatiche interrotte dal 1951. Prima che ambasciate e nunziature, infatti, il problema sono le parrocchie e la vita dei fedeli: si tratta di arrivare, oltre a un’intesa sulle nomine dei vescovi, a un «accordo quadro» sui cattolici in Cina. La figura chiave è il Segretario di Stato, Pietro Parolin: il cardinale ha affiancato Francesco nell’opera di riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Ora affronterà la priorità del primo Papa gesuita, confratello di quel Matteo Ricci che resta modello di dialogo tra due realtà millenarie.
I segnali non sono mancati, nei primi due anni di pontificato di Francesco, ma stavolta è qualcosa di più. Da Pechino, si spiega Oltretevere con tutta la prudenza del caso, è arrivato in Segreteria di Stato un «rilancio» alle offerte di dialogo del Papa. Una disponibilità concreta a trovare un accordo che non riguarda anzitutto le relazioni diplomatiche formali interrotte dal 1951.
Prima che ambasciate e nunziature, il problema sono le parrocchie e la vita quotidiana dei fedeli: si tratta di arrivare, oltre a un’intesa sulle nomine dei vescovi, ad un «accordo quadro» sui cattolici in Cina.
La figura chiave è il Segretario di Stato Pietro Parolin, che già lavorava alla Terza Loggia come «viceministro degli esteri» quando Benedetto XVI scrisse la lettera ai cinesi che nel 2007 riaprì il confronto. Parolin ebbe un ruolo fondamentale, per due volte guidò trattative riservate a Pechino, tutto procedeva finché nel 2009 fu trasferito come nunzio in Venezuela.
Richiamato a Roma da Francesco, il cardinale Parolin ha affiancato Bergoglio nell’opera di riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Ora si tratta di affrontare la priorità del primo Papa gesuita, confratello di quel Matteo Ricci che resta modello di dialogo tra due realtà millenarie. Le resistenze non mancano da entrambe le parti. Ma Francesco, a Manila, ha confidato al cardinale filippino (di madre cinese) Luis Antonio Tagle: «L’Asia è il futuro della Chiesa».
Dopo il 2009 la situazione si è complicata, a tratti sono riprese le ordinazioni illegittime di vescovi disposte dalla Associazione patriottica del regime. Ma la realtà non è in bianco e nero. Di recente sono stati due vescovi «clandestini», intervistati da Gianni Valente su Vatican Insider , a parlare di «dialogo necessario» con il governo cinese. Il Global Times , legato al partito, scriveva di un sistema per concordare le nomine episcopali (ma per la Chiesa l’ultima parola spetta al Papa).
Francesco ha riaperto le prospettive. La telefonata con il presidente Xi dopo il conclave, il permesso di sorvolare lo spazio aereo cinese e lo scambio di messaggi nel viaggio verso Seul, quella frase di Bergoglio: «Se andrei in Cina? Ma sicuro, domani!».
Se avverrà, sarà il compimento. Ora si tratta di «trovare insieme delle soluzioni ai problemi della presenza della Chiesa in quell’immenso Paese», ha spiegato Parolin alla rivista dei francescani di Assisi. «Le prospettive sono promettenti, speriamo che queste gemme fioriscano e diano un buon frutto, per il bene della Cina stessa e di tutto il mondo».

La Stampa 10.3.15
Cina, 57 piani in 19 giorni: il grattacielo è “istantaneo”
un video qui


il Fatto 10.3.15
Dalla Cina col pancione: i figli nascono negli Usa
L’obiettivo è far avere la doppia cittadinanza ai bambini
di Virginia Della Sala


OBIETTIVO È FAR AVERE LA DOPPIA CITTADINANZA AI BAMBINI. AGENZIE SPECIALIZZATE OFFRONO “PACCHETTI” CON COSTI FRA I 15 E I 50 MILA DOLLARI

Febbraio 2015. All’aeroporto di Los Angeles, una coppia di cittadini cinesi viene fermata per i controlli. Il marito, Wang Fei, cerca di convincere gli agenti della dogana che vuole entrare negli Usa per una vacanza. Lei è incinta, non si sa di quanti mesi. “E se il travaglio iniziasse durante la permanenza? ” chiedono gli agenti. “Resteremo a casa di mio padre a Corona, una città poco distante da Los Angeles”, spiega. Eppure la storia non convince. Gli ufficiali della dogana trovano 30 mila dollari in contanti in valigia: la coppia ne aveva dichiarati 10 mila.
La ricostruzione di El Pais sui cinesi pronti a tutto per far nascere i figli negli Stati Uniti inizia con le domande delle forze dell’ordine e si conclude in venti appartamenti della periferia di Los Angeles, dove soggiornano decine di donne in attesa del parto. La coppia in aeroporto confessa di essersi accordata con un’agenzia specializzata per far nascere loro figlio negli Stati Uniti: così, avrà la doppia cittadinanza e potrà godere di tutti i vantaggi riservati ai cittadini americani. E quando avrà 21 anni potrà richiedere la residenza permanente per la sua famiglia.
LO HANNO DEFINITO maternity tourism, turismo della maternità. Si è parlato di anchor babies, bambini àncora: il fenomeno riguarda soprattutto la classe medio - alta cinese. Nessuna corsa disperata di migranti al confine: le agenzie che si occupano di questo traffico di nascite chiedono cifre comprese tra i 15.000 e 50.000 dollari. Procurano alle donne cinesi un visto turistico, di tre mesi. Le istruiscono sul comportamento da tenere durante la gravidanza, indicano loro in quale ospedale partorire e, a seconda del prezzo, aggiungono all’alloggio anche servizi di lusso come giornate di shopping o gite a Disneyland. Si tratta di un business fondato su una pratica legale, garantita dalla costituzione americana e dallo Ius Soli: chi nasce su territorio statunitense ha diritto alla cittadinanza. Il sito web di una delle società sponsorizza gli Stati Uniti assicurando che “i cittadini americani hanno grandi opportunità di borse di studio, 13 anni di istruzione gratuita, meno inquinamento, reddito da pensione dopo 10 anni di contributi”. Raccomandano alle loro clienti di “raggiungerci tra le settimane 24 e 30 della gravidanza”. La cosa più importante per evitare domande difficili, spiegano, è che l’agente doganale non si accorga della gravidanza e perciò consigliano come vestirsi per nascondere la pancia. “Sarebbe ideale – scrivono – viaggiare in inverno per coprirsi meglio”. Un sito si definisce “pioniere del settore”, nato nel 1999 a Los Angeles. Da allora, avrebbe servito 8 mila donne in gravidanza, 4 mila delle quali cinesi. E secondo la Cnn, nel 2012 almeno 10 mila donne cinesi hanno partorito negli Usa: più del doppio rispetto al 2011.
PER IL CENTRO per gli Studi Immigrazione americano, degli oltre 300 mila bambini nati da stranieri ogni anno, 40 mila sono figli di turisti che vogliono solo fargli acquisire la cittadinanza. Tra questi, anche gli italiani. “Sono al terzo mese di gravidanza e stavo considerando l’idea di partorire negli Stati Uniti: vorrei dare al bambino un passaporto americano”: Alessandra cerca dettagli sul web. “Mi sto informando in anticipo perché sto verificando se la mia assicurazione coprirà le spese e poi vorrei chiarire in tempo dei dubbi: devo dichiarare che sono incinta al momento del viaggio? Posso partire al settimo mese? Devo andare in ambasciata per il permesso: mi hanno consigliato di portare con me il programma di un corso a cui dovrei partecipare lì, altrimenti un visto non me lo concederanno mai”. La risposta arriva da Giulia, che ce l’ha fatta. “Per i costi – racconta - il mio parto sarebbe costato più di 15 mila dollari (circa 13 mila per il parto e 3 mila per i controlli alla bimba). Ho pagato solo una piccola parte di questa cifra, il resto era coperto dall’assicurazione. Ma alcuni miei conoscenti, invece, hanno dovuto tenere la bimba appena nata in ospedale per circa una settimana a causa dei controlli: il loro conto è arrivato a 40 mila dollari”.

il Fatto 10.3.15
La confraternita sembra il Ku Klux Klan
Oklahoma gli studenti in un video cantano:
“I negri non li vogliamo, piuttosto li impicchiamo all’albero”
di Giampiero Gramaglia


C’è sempre un ponte più in là, da varcare per battere il razzismo. Il primo nero alla Casa Bianca, Barack Obama, l’ha appena ricordato all’America, nel 50° anniversario della marcia di Selma; e subito la cronaca viene a confermarlo. Un video -non si sa quando filmato, ma recente - mostra studenti e studentesse della University of Oklahoma, a bordo di un bus e vestiti con l’uniforme dell’Ateneo, intonare canzoni e scandire slogan di insulti e offese contro gli afro-americani chiamati nigger, un termine dispregiativo. Chi non canta, applaude.
I protagonisti della scena disgustosa sono soci d’una delle maggiori e più conosciute confraternite studentesche degli Stati Uniti, la storica Sigma Alpha Epsilon, fondata nel 1856 in Alabama. Siamo nel cuore dell’America allora schiavista e oggi ancora tendenzialmente e radicalmente razzista e segregazionista. I responsabili nazionali della confraternita condannano l’episodio e se ne scusano: il ‘capitolo’, come si chiamano le sedi nei diversi campus, è stato chiuso; tutti i membri sono stati sospesi, quelli che saranno riconosciuti responsabili saranno radiati. E l’Università, che ha avviato un’inchiesta, chiama i propri studenti a testimoniare il proprio anti-razzismo. La denuncia è partita da un sito d’impegno civile dell’Ateneo stesso. Durissima la reazione delle associazioni degli studenti afroamericani: chiedono severe punizioni e organizzano una manifestazione di protesta, invitando tutti a vestirsi di nero.
IL VIDEO, postato su YouTube e altri social media, è farcito di istigazioni all’odio razziale e minacce di linciaggio: esagitati urlano con i pugni alzati, altri intorno condividono. C’è chi grida che nessun nero entrerà mai nella Sigma Alpha Epsilon: altri cantano “Piuttosto potete impiccarli a un albero”.
L’Università ha sede a Norman, nell’area metropolitana di Oklahoma City, dove, il 19 aprile 1995, una violentissima esplosione distrusse un edificio di uffici federali: 168 vittime, fra cui 19 bambini d’un asilo nido, e quasi 700 feriti. Fu il più sanguinoso attentato negli Usa prima degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001. La strage fu opera di ‘supremazisti’ bianchi, fanatici razzisti e anti governo: Timothy McVeigh, veterano della Guerra del Golfo, fu condannato a morte e subì, nel 2001, l’iniezione letale nel carcere federale di Terre Haute, nell’Indiana. Le confraternite studentesche sono specie di club di studenti con riti d’iniziazioni e proprie regole di mutuo soccorso. La Sigma Alpha Epsilon, o SAE, ha oltre 15.000 membri in più di 2.000 Atenei in tutta l’Unione. Delle attuali confraternite, è l’unica fondata nel Sud prima della Guerra Civile: nacque nell’Università dell’Alabama, ma il suo quartier generale nazionale è dal 1929 nell’Illinois. La SAE ha avuto nel tempo oltre 325 mila adepti: il suo atto di fede è The True Gentleman, che bisogna recitare a memoria; il suo manuale si chiama The Phoenix, la Fenice: i riti d’iniziazione sono stati recentemente modificati, dopo casi di droghe, alcool, abusi.
Le confraternite sono forti e potenti e ben strutturate, per molti versi più simili a logge massoniche che a compagnie goliardiche. La Skull and Bones, Teschio e ossa, di Yale nel Connecticut, è la più citata in teorie del complotto, perché tra i suoi membri vi sono personaggi estremamente influenti (e due degli ultimi quattro presidenti, i Bush padre e figlio).

Repubblica 10.3.15
Il coraggio di Obama sulla medicina più giusta
di Paolo Cornaglia Ferraris


IL 20 gennaio il presidente Obama ha lanciato il programma Precision Medicine, riassumibile nel concetto: la medicina giusta, alla dose giusta, per il paziente giusto. La diversità biologica di ciascuno sarà identificata con precisione per fare scelte molto più efficaci, possibili grazie a nuove tecnologie. Progetti così ambiziosi presuppongono che molto sia ancora da inventare da parte di biologi, medici, tecnologi, analisti dei dati, associazioni di pazienti, industrie, ecc. L’interesse a competere farà crescere scambi di conoscenze e attrarrà moltissimi scienziati. L’iniziativa richiederà risorse aggiuntive. E in un contesto fiscale già difficile, lanciare l’idea di una medicina così precisa da curare ciascun individuo al meglio, te l’aspetti solo da un grande leader. Costruire la Medicina Precisa cambierà la vita di milioni di persone, abbatterà errori, effetti collaterali, inutili spese. L’Italia arriverà in ritardo? Sicuramente.
camici. pigiami@ gmail. com

La Stampa 10.3.15
Messico, una mattanza senza fine. In un blog la conta dei morti per mantenere viva la memoria
Un gruppo di volontari ha registrato quasi 55 mila cadaveri a partire dal 12 settembre 2010
di Pablo Lombo

qui

Corriere 10.3.15
L’intreccio fra due crisi Budapest e Suez nel 1956
risponde Sergio Romano


Nella crisi di Suez, quale ruolo ha svolto l’Unione Sovietica, proprio in quei giorni interessata sul fronte interno a reprimere la rivolta ungherese? La minaccia di un suo intervento a fianco degli Usa contro inglesi, francesi e israeliani aveva un fondamento reale, o era strumentale per apparire, senza aver fatto nulla, come protettrice della causa araba?
Mattia Testa

Caro Testa,
Il miglior modo per comprendere l’intreccio fra le due crisi — Budapest e Suez — è quello di tenere di fronte agli occhi un calendario del 1956. In ambedue le vicende vi è un importante antefatto. In Polonia, fra la primavera e l’estate, gli esponenti riformatori del partito, incoraggiati dal discorso anti-staliniano di Krusciov al XX congresso del Pcus, riuscirono a prevalere sulla vecchia guardia e a rinnovare l’ufficio politico del Comitato centrale fra il 19 e il 23 ottobre. Suscitarono preoccupazioni a Mosca, ma riuscirono a convincere la casa madre che non avrebbero messo in discussione i loro rapporti con l’Unione Sovietica e, in particolare, il Patto di Varsavia.
In Egitto, nel frattempo, il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, irritato dal rifiuto americano di contribuire al finanziamento della diga di Assuan, aveva annunciato la nazionalizzazione della Società anglo-francese del Canale di Suez. Era il 26 luglio. Gli inglesi e i francesi presero subito in considerazione la possibilità di un intervento militare, ma l’occasione venne alla fine di ottobre quando, nella notte fra il 29 e il 30, gli israeliani, dopo i numerosi incidenti di frontiera delle settimane precedenti, invasero il Sinai. Sappiamo ora che quella iniziativa era stata minuziosamente concordata con Francia e Inghilterra. Gli israeliani avrebbero attaccato l’Egitto. Londra e Parigi avrebbero inviato un ultimatum a entrambi i combattenti per chiedere la immediata sospensione delle ostilità. Israele avrebbe accettato l’ultimatum, ma l’Egitto lo avrebbe verosimilmente respinto. Gran Bretagna e Francia avrebbero avuto la scusa per intervenire e Israele avrebbe continuato la guerra al loro fianco. L’ultimatum porta la data del 30 ottobre.
Torniamo a Budapest, dove le manifestazioni popolari delle settimane precedenti, provocate dalle vicende polacche, erano divenute insurrezione e avevano raggiunto i loro primi obiettivi nella notte fra e il 23 e il 24 ottobre. Vi fu un primo, breve intervento delle truppe sovietiche, ma non impedì al governo Nagy di annunciare al Paese, il 31 ottobre, che l’Ungheria sarebbe uscita dal Patto di Varsavia (l’alleanza militare del blocco sovietico) e avrebbe proclamato la sua neutralità. Erano decisioni che i sovietici non erano disposti ad accettare. All’alba del 4 novembre, i carri armati dell’esercito sovietico tornarono a Budapest e conquistarono la città a colpi di cannone.
Due giorni prima, a New York, l’Assemblea generale aveva approvato una risoluzione americana che chiedeva la cessazione delle ostilità nel Sinai e intorno al Canale di Suez. Il terzetto continuò a combattere, ma i sovietici, ormai nuovamente padroni di Budapest, lanciarono a loro volta un ultimatum, il 5 novembre, con cui chiedevano a Francia, Gran Bretagna e Israele l’interruzione delle ostilità, e minacciavano l’uso di missili di nuova fabbricazione. In una fase immediatamente precedente il capo del governo sovietico Nikolaj Bulganin aveva proposto al presidente americano la creazione di una forza congiunta. Ma le campane a morto per l’operazione militare anglo-francese suonarono il 7 novembre quando il presidente Eisenhower disse al premier britannico Anthony Eden che era ora di smetterla.
Ecco un breve bilancio, caro Testa. In due frenetiche settimane, dal 23 ottobre al 7 novembre, l’Unione Sovietica riconquistò il controllo dell’Ungheria e divenne una potenza medio-orientale; la Gran Bretagna e la Francia perdettero il Canale di Suez e buona parte della loro influenza nell’Africa del nord e nel Levante; gli Stati Uniti sostituirono la Gran Bretagna in Medio Oriente; Israele dimostrò di essere una potenza militare ed è stata da allora, per molti anni, il maggiore partner degli Stati Uniti nella regione .

Corriere 10.3.15
Il Dizionario della Prima guerra mondiale (Laterza)
Ci fu anche un interventismo di sinistra
di Marco Gervasoni


Non pare che il trascorso centenario dello scoppio della Grande guerra abbia sortito grandi effetti. Ma il meglio forse deve ancora arrivare, con il prossimo anniversario dell’entrata del nostro Paese nel conflitto. Una lettura come il Dizionario storico della Prima guerra mondiale , curato da Nicola Labanca (Laterza, pagine 498, e 28), potrà quindi tornare utile.
Il volume è infatti congegnato sì come opera di consultazione, ma può, dato il numero limitato delle voci e la loro ampiezza, essere un’ottima introduzione alla Grande guerra, nei suoi diversi aspetti, militari in primo luogo, ma poi politici, sociali, economici e last but not least culturali; un deciso spazio è infatti lasciato alla letteratura, all’arte e al cinema, su cui la guerra incise in modo indelebile.
Un altro merito del curatore sta nell’aver selezionato prevalentemente giovani studiosi, freschi di ricerche spesso assai innovative, che hanno fatto giustizia di tanti luoghi comuni stratificatisi attorno alla narrazione e alla memoria della Grande guerra. Più discutibili sono invece i passaggi dedicati alla storia politica: non convince molto infatti l’insistenza sulla responsabilità dell’entrata in guerra, ascrivibile a una fantomatica «destra liberale». Se di responsabilità si deve parlare (il che peraltro non è scontato) essa va attribuita infatti anche ad altre famiglie politiche, di sinistra in primis : i radicali e i socialisti riformisti di Leonida Bissolati, uno degli attori maggiori sul piano parlamentare e ministeriale.
Né pare condivisibile il giudizio secondo cui il nostro Paese (sempre per via del dominio della «destra liberale»?) avrebbe condotto gli affari interni con mano pesante, senza rispetto delle guarentigie. Anche solo limitandosi ad altri Paesi democratici, la Francia radicale di Clemenceau fu assai più di Roma «dittatoriale» contro i cittadini tiepidi nei confronti dello slancio verso la vittoria. Salandra, Orlando e Sonnino non furono l’anticamera di Mussolini.

La Stampa 10.3.15
Mussolini & Hitler
C’eravamo tanto amati
Un libro dello storico francese Pierre Milza sul “diabolico” rapporto tra i due dittatori dell’asse nazifascista
di Mirella Serri


«Ho bisogno di una donna!»: il grido risuonò nei saloni del Quirinale nel cuor della notte. Maggiordomi e domestici, nonché Vittorio Emanuele III e la consorte, svegliati all’improvviso non sapevano che pesci pigliare di fronte a questa richiesta. Pensavano a un impulso erotico non semplice da soddisfare. Anche perché si trattava di Adolf Hitler. La realtà era diversa: il Führer, soffrendo d’insonnia, aveva bisogno di una collaboratrice domestica che gli rifacesse il letto. Questo episodio un po’ grottesco segna la visita di Hitler a Roma dal 3 all’8 maggio 1938. Un tour fondamentale: non solo consolidò la funesta alleanza tra il capo del Reich e il Duce, ma suggellò anche la nascita di un’amicizia tra due personaggi indubbiamente «mostruosi»: così, Pierre Milza definisce i protagonisti del suo nuovo e suggestivo libro, Hitler e Mussolini (a giorni in uscita da Longanesi, pp. 293, € 22).
Il Führer logorroico
Un legame durato dieci anni, dal giugno del 1934 al luglio del 1944, quello tra il ras fascista e il dittatore nazista, che si sviluppò attraverso una ventina di incontri. Lo studioso francese è andato a recuperare, negli archivi diplomatici tedeschi e italiani, i verbali e le traduzioni di questi storici abboccamenti e le testimonianze stenografate di alcuni presenti. Si delinea così un quadro fino a oggi assolutamente inesplorato della singolare relazione tra i due alleati. Un’attrazione veramente fatale collegò i despoti che esercitarono l’uno sull’altro una forte carica di suggestione. Come rivelano i documenti, Mussolini, proprio a partire dalla visita del 1938, subì tutte le decisioni del Führer. Soprattutto lo fece senza quasi mai obiettare. Da parte sua, Hitler, persino nei momenti in cui si manifestava tutta l’ignavia e l’incapacità del suo amico, per esempio nella fallimentare invasione della Grecia, lo lusingava e lo blandiva senza alcun risentimento.
Seduzione
Come si svolgevano gli incontri? Il leader nazista dettava l’agenda, il luogo e la durata delle discussioni: «Vengo considerato», osserva Mussolini, «un domestico che, al suono del campanello, non ha altra scelta che obbedire». Hitler però aveva un effetto antidepressivo, galvanizzante sul capo del fascismo. «Il Führer rovesciava addosso a Mussolini», scrive l’interprete Paul Otto Schmidt, «un diluvio di cifre sulle perdite, le riserve, l’artiglieria, le armi e l’aviazione… i grandi occhi scuri dell’italiano sembravano schizzare fuori dalle orbite».
Sedotto da una valanga di notizie, Mussolini si faceva convincere. Agli esordi della loro conoscenza, però, non era così maneggevole. Al primo incontro, a Venezia dal 13 al 16 giugno 1934, il capo fascista si mostrò gelido e indifferente nei confronti di Hitler «pallido come un cencio», malvestito in tight nero e pantaloni troppo lunghi. Il Duce si vantava inoltre di padroneggiare la lingua di Goethe. Non era così, fu un dialogo tra sordi e da allora venne impiegato un interprete. Il dittatore italiano però si indignò quando, discettando della superiorità dei nordici sui popoli mediterranei, Hitler li definì di origini «negroidi».
Un gioco mimetico
In quel periodo la subalternità del capo del nazionalsocialismo nei confronti del suo idolo era palese: «Hitler ride quando Mussolini ride, si acciglia quando lui si acciglia… un vero spettacolo di mimetismo», scrive l’ambasciatore francese a Berlino André-François Poncet. Ma poi tutto cambierà. Come mai il Duce si lascerà manipolare?
«C’era il timore di ritrovarsi il Führer come avversario», osserva Milza, «e una sorta di sentimento mafioso dell’onore nel mantenere i patti». A cui si aggiungeva il fascino della potenza industriale e militare del Reich. Ma i due compari riuscivano a dialogare veramente? Parlarono della «soluzione finale»? Come emerge da questi verbali, lo fecero quando Hitler, elencando i motivi per cui detestava gli ebrei, disse che sarebbe stato meglio deportarli in massa nel Madagascar. Ma Mussolini era già a conoscenza delle stragi di cittadini di religione israelita che si stavano verificando in Russia e in Polonia, delle sperimentazioni crudeli e della politica di «igiene razziale».
Salò
Quando infine si incontrarono a Feltre, il 19 luglio 1943, uno dei traduttori descrive Mussolini che, ancora una volta, di fronte alla logorrea del leader tedesco, è «paziente… si abbandona a un profondo sospiro». Alzerà la voce quando arriverà la notizia del bombardamento di Roma. Hitler dal canto suo urlò e picchiò i pugni sul tavolo. Il Duce venne sopraffatto. I due leader si incontrarono dopo l’attentato del 20 luglio 1944 da cui il capo tedesco si salvò per il rotto della cuffia. Ancora sconvolto per l’esplosione dell’ordigno, nel salutare Mussolini, gli disse: «Vi considero il mio migliore, e forse il solo amico che ho a questo mondo». Però il Duce, che a Salò era a capo della Repubblica Sociale italiana, di fatto era prigioniero di Hitler. Un’amicizia veramente diabolica.

Corriere 10.3.15
Helen Zimmern per il «Corriere»
Londra vista dall’amica di Nietzsche
Raccolte le corrispondenze, la presentazione in Sala Montanelli
di Giuditta Marvelli


Professione: corrispondente da Londra ante litteram per il «Corriere della Sera», quando ancora il ruolo di chi collaborava dall’estero non era codificato nel giornale appena fondato da Eugenio Torelli Viollier. Sembra già molto, ma c’è di più. Scrive una fondamentale biografia di Arthur Schopenhauer ed è una delle poche persone stimate da Friedrich Nietzsche, di cui traduce in inglese le opere. Passeggia con lui ascoltandolo e facendosi ascoltare perché era «una gran bella intelligenza». Un complimento non da poco, soprattutto se a farlo è Nietzsche, pur nella versione vacanziera di se stesso, sotto il cielo dell’Engadina, durante le estati all’hotel Alpenrose di Sils Maria.
La bella intelligenza si chiamava Helen Zimmern: era una donna, di origine ebraica, nata in Germania nel 1846, vissuta tra la Gran Bretagna e Firenze, dove abitò per quarant’anni. Scrittrice, traduttrice, giornalista, esperta d’arte, cultrice di racconti per ragazzi e leggende popolari, Helen esprime un’indipendenza ed uno stile intellettuale in grado di proiettarla avanti di almeno un secolo rispetto agli standard sociali dell’epoca. Genitori borghesi, una sorella, Alice, che si spende per i diritti delle donne nei primi movimenti femministi: la libertà era probabilmente nel patrimonio culturale di famiglia.
Non ci sono suoi archivi privati. Le lettere superstiti sono rare e laconiche: al netto di quel che è andato perduto, si può però dire che a Helen le parole servivano per vivere. E quelle scritte per i giornali dell’epoca sono arrivate fino a noi. Il lavoro di Caterina Del Vivo Helen Zimmern Corriere di Londra (1884-1910) per la Fondazione Corriere della Sera, con prefazione di Barbara Stefanelli, offre una ricostruzione della sua vita e una raccolta ragionata che sceglie tra le 180 corrispondenze dalla capitale britannica pubblicate tra il 1884 e il 1910 sul giornale italiano. Un percorso che spazia dal costume alla politica, passando per l’economia, la storia, i temi sociali, i ritratti.
Helen conosceva quattro lingue e una scorsa ai pezzi scritti per il «Corriere» mostra la padronanza di un idioma che non è quello materno. Non scrive per passare il tempo e neppure, come annota Del Vivo, perché in cerca di risarcimenti rispetto alla condizione femminile di fine Ottocento. Era una professionista, si manteneva con il lavoro intellettuale. Le prime giornaliste del «Corriere» firmavano con pseudonimi, spesso occupandosi di temi considerati adatti al genere femminile. Zimmern scrive di tutto per quindici anni, con nome e cognome, e i suoi articoli vengono pubblicati in posizioni «nobili». La sua bella prosa tradisce a stento gli anni che ha, anche per la sorprendente attualità di alcuni temi. «Spazzatura e progresso» (2-3 settembre 1902) fa i conti in tasca ad un innovativo smaltimento dei rifiuti: invece di ammorbare l’aria dei vicoli in riva al Tamigi, vengono bruciati e trasformati in energia. E le riflessioni su «Le nuove migrazioni dei Popoli» (22-23 dicembre 1888) possono valere adesso, davanti agli sbarchi e alle morti nel Mediterraneo: «Una crisi… il passaggio di una procella, prodotta nel mondo dell’economia politica internazionale dalle variazioni di pressione che avvengono nei vari mercati del lavoro del globo».
Le piacciono i numeri. Li usa volentieri per le sue cronache e, come testimonia l’archivio storico del «Corriere», sa farli lavorare per lei. Svolgeva un mestiere che era appannaggio maschile e riusciva, a volte, a farsi pagare più degli uomini. Il compenso di paragone è quello di Luigi Einaudi, a cui, in quello stesso autunno del 1902, per un articolo toccano 40 lire, mentre lei si era accordata per averne 50.
Zimmern sa cavalcare l’onda del successo, seppur in una cerchia ristretta di intellettuali, e sa scendere con invidiabile saggezza ed eleganza. Le corrispondenze con il «Corriere» si diradano e scompaiono dopo il 1910, mentre al timone del giornale c’è Luigi Albertini. Nel 1926, intervistata da Oscar Levy, lo studioso allievo di Nietzsche a caccia di notizie sul maestro, rivela che, giunta alla sua età (ha ottant’anni), si sente sorpassata: a che cosa sto lavorando? Mi occupo delle mie rose: coltivo il mio giardino, come consiglia Voltaire.
Di lei restano, oltre alle parole, un ritratto seppiato, che restituisce la luce di occhi scuri in grado di vedere parecchio avanti, e l’omaggio di Levy ad un fascino che offuscava la vecchiaia: «Era un sorriso molto giovanile quello che illuminò il suo volto, un volto che l’età aveva soltanto in minima parte segnato, perché reso brillante e terso dall’intelligenza».

La Stampa 10.3.15
Potere e pathos, a Firenze i bronzi ellenistici più celebri


Dal 14 marzo al 21 giugno Palazzo Strozzi a Firenze sarà la prima sede della grande mostra Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico, concepita e realizzata in collaborazione con il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la National Gallery of Art di Washington e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Dopo la tappa fiorentina l’esposizione si sposterà al J. Paul Getty Museum di Los Angeles dal 28 luglio al 1 novembre 2015 per poi concludersi alla National Gallery of Art di Washington, dal 6 dicembre 2015 al 13 marzo 2016. La rassegna vedrà riuniti, per la prima volta a Firenze, alcuni tra i maggiori capolavori del mondo antico provenienti dai più celebri musei del mondo. Attraverso 50 capolavori in bronzo, Potere e pathos racconta gli straordinari sviluppi artistici dell’età ellenistica (IV-I secolo a.C.), periodo in cui, in tutto il bacino del Mediterraneo e oltre, si affermarono nuove forme espressive che, insieme a un grande sviluppo delle tecniche, rappresentano la prima forma di globalizzazione di linguaggi artistici del mondo allora conosciuto.

Repubblica 10.3.15
La ferocia delle conquiste i primi governi “tecnici” la sensazione di fine del mondo
Il saggio di Glauco Maria Cantarella
Perché siamo ancora sospesi in un eterno Medioevo
di Siegmund Ginzberg


«SONO arrivati. Sono sanguinari, sono selvaggi… Uccidere e massacrare è il loro divertimento». Tagliano teste, arrostiscono, cavano occhi, amputano mani, piedi, nasi. Sono d’oltremare. Ma non vengono dall’altra sponda del Mediterraneo. Vengono dal Nord. Non sono islamici. Anzi, sono il terrore dei musulmani. La ferocia è il loro biglietto da visita, ne fanno un deliberato uso mediatico. Un loro capo militare, Ruggero (non l’assai più tardo Ruggero di Sicilia ma Ruggero di Toeni), attorno agli anni Venti del Primo secolo riconquista ai Cristiani la Spagna terrorizzando i Saraceni: ogni giorno fa squartare e cuocere nei calderoni un prigioniero musulmano, ne dà da mangiare la metà agli altri prigionieri e si riserva il resto per sé e i suoi.
Poi fa di tutto perché si risappia: ne fa scappare alcuni apposta perché vadano a raccontarlo. Testimonianza di Ademaro di Chavannes, cronista aquitano quasi loro contemporaneo. Ci tengono alla loro fama di “crudelissima gente”.
Sono i normanni. Inutilmente Carlo Magno aveva proibito i commerci di armi con loro. Si erano specializzati nel ruolo di strumenti e cani dei potenti in lotta tra di loro. Si erano resi indispensabili. Un ramo si sarebbe impadronito della parte della Francia che si affaccia sulla Manica, poi di tutta l’Inghilterra, restando vassalli del Re di Francia. Un altro ramo era approdato da tempo in Sicilia. Poi, passando per la Puglia, erano arrivati in Campania, chiamati dai signori longobardi di Salerno e Capua, infine si erano insediati in un loro castello a Canossa. Controllavano le vie di comunicazione, non un territorio preciso e delimitato. Un po’ come l’Is a cavallo di Iraq, Siria e Libia. Si facevano chiamare marchesi ma non avevano nemmeno una marca. Eppure nel giro di pochi decenni avrebbero finito col dare origine dal nulla all’invenzione statuale di più lungo periodo della storia italiana sin dalla Repubblica romana, il regno dell’Italia meridionale.
È uno dei quadri, anzi delle “cerniere”, su cui fa perno l’ultimo lavoro di Glauco Maria Cantarella, il Manuale della fine del mondo, sottotitolo Il travaglio dell’Europa medievale , pubblicato da Einaudi. La “fine del mondo” temuta al volgere del primo millennio, a dire il vero non c’entra. Se ne discettava da molti secoli e ne riparlavano ogni volta che le cose sembravano andar peggio. Ma allora non esisteva nemmeno il concetto di secolo, che sarebbe stato inventato molto più tardi. Anche il “Medioevo” sarebbe stato inventato più tardi, solo nel ‘500. Oggi gli storici concordano nel considerarla «un’età né più buia né più luminosa di altre ». Semmai, leggendo questo libro, che segue gli innumerevoli altri che questo studioso gli ha dedicato, si potrebbe parlare di “Medioevo continuo”. Che ci evoca qualcosa del nostro presente. O forse addirittura del nostro futuro.
Non bisogna fraintendere. Cantarella, colonna degli studi di storia dell’Europa medievale e delle Istituzioni politiche medievali all’Università di Bologna, è uno storico serissimo, non gli si possono imputare “attualizzazioni” ad effetto, trasposizioni tirate, analogie superficiali. Semmai pignoleria quasi maniacale sulle “fonti” e sugli aggiornamenti continui nel campo di cui si occupa da moltissimi anni. In quell’epoca lui è di casa. Frequenta i protagonisti e ne conosce a menadito le complicate vicende, il modo di far politica, di ragionare, di giustificare, di far propaganda. Sbircia persino nelle loro camere da letto. Il suo “manuale” è una summa da grande specialista. Che però evoca anche nel lettore non specialista o per mestiere schiavo dell’attualità una gragnuola di suggestioni.
Il secolo di cui parla questo libro non è quello della fine del mondo, ma degli stratagemmi per non farlo finire. Dai Papi che si facevano notare solo per la “cieca cupidigia” (fagiano, oppure gallo veniva soprannominato Giovanni XVIII, boccadiporco Sergio IV) si passa a quelli che invece fanno politica per venire ad un nuovo modus vivendi con l’Imperatore e i nuovi regni in formazione e a nuovi ingegnosi compromessi sulle investiture, cioè le nomine dei vescovi, insomma a chi dovesse far capo chi incassava i tributi ed esercitava poteri di polizia, oggi diremmo le nomine tout court . Fu una riforma istituzionale infinitamente più complessa di quelle su cui si discute e si litiga oggi, che impegnò i migliori specialisti e per la quale, tra alti e bassi, rotture e ricomposizioni, colpi di scena e ripensamenti ci volle più di un secolo.
Era anche l’epoca in cui si affacciavano in scena veri e propri “professionisti del governo”. «Oggi forse li chiameremmo tecnici», nota Cantarella. Solo molto, ma molto più tardi sarebbero arrivati quelli che chiamiamo “politici”. Molti di questi “tecnici” erano di grande levatura. I Normanni, che pure avevano esordito come feroci mercenari e briganti, in Sicilia avevano messo in piedi una cancelleria coi fiocchi, in cui si governava in tre lingue, arabo, greco e latino, e si impiegavano non solo musulmani ma anche “tecnici” di valore internazionale importati dall’Inghilterra come Thomas Brown (o Le Brun). Erano stati loro a inventare lo “Scacchiere”, la tavola su cui si computavano, con procedimenti matematici d’avanguardia, rendite e cespiti delle baronie, e che ancora oggi dà il nome al ministero dell’economia britannico. Palermo quasi come Bruxelles. Ma forse non funzionava così bene, se poi il Mezzogiorno arrivò tanto disastrato all’Unità, come un agglomerato di feudi inespugnabili, impervio al senso dello Stato. Colpa degli Angioini, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Borboni (e magari degli intoccabili Svevi)? O di troppa tecnica e poca politica?
Quanto alle città, apprendiamo che prosperano grazie alle loro turbolenze. «Comune, nome nuovo e pessimo», lamentano i cronisti dell’epoca. I cives hanno la mala consuetudo di ribellarsi ai loro vescovi (e quindi alla potestas imperiale, quindi alle prerogative del governo) negandogli le imposte, «l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case», e tagliano i boschi e demoliscono «la città vecchia per costruirne una più grande». Pretendono persino che i contadini paghino i tributi a loro… Succede in Lombardia, ma anche in Francia, in Castiglia, in Renania… il disordine investe tutta l’Europa. Finché zona per zona, caso per caso, per fronteggiare l’emergenza, dovranno inventarsi nuovi compromessi istituzionali differenziati…