lunedì 16 marzo 2015

La Stampa 16.3.15
Landini avvisa: io e i lavoratori cambieremo l’Italia più di Renzi
“Non faccio un partito, ma il sindacato deve essere un soggetto politico” La Cgil lo gela: non eravamo informati dell’iniziativa, da noi nessun appoggio
di Roberto Giovannini


«Ancora non mi credono - dice - non voglio creare un partito e non esco dal sindacato. Ma il sindacato deve essere un soggetto politico, deve discutere alla pari». Maurizio Landini, intervistato da Lucia Annunziata a «In mezz’ora» ribadisce che non ha nessuna intenzione di far nascere «Podemos» in Italia attraverso la sua «coalizione sociale» anti-Renzi. E successivamente, sentito da «La Stampa», il leader della Fiom chiarisce che il suo orizzonte è più che mai sindacale. «Mi chiedete se voglio scalare la Cgil? Penso che sia in corso una discussione, penso anche che il sindacato debba cambiare profondamente. Ne parleremo alla Conferenza di organizzazione Cgil».
Certo che per osservatori, amici e avversari talvolta è difficile capire Landini. Normalmente o si fa sindacato o si fa politica; ma per il capo dei metalmeccanici per «discutere alla pari» il sindacato deve agire come un soggetto politico. A maggior ragione ora, con un governo nemico: «siamo in una situazione straordinaria - afferma - e dunque non ci si può limitare all’ordinaria amministrazione». Il risultato è che Landini, così, può usare due «cappelli» diversi: nei prossimi giorni la Fiom (e non la «coalizione», ancora mai formalmente fondata) incontrerà le delegazioni dei partiti per illustrare le ragioni della manifestazione Fiom del 28 marzo. La manifestazione però la Fiom l’ha «offerta alla coalizione sociale e a tutti quelli che condividono questo percorso». Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, ma non solo lui, si dice convinto che «proprio dalla piazza di Roma possa decollare il percorso verso la nascita di un vero soggetto politico.» Ad aprile, spiega in ogni caso Landini, potrebbe esserci una giornata di «approfondimento e di studio».
In ogni caso per il leader Fiom solo «chi è in malafede tenta di descrivere questa iniziativa dentro la logica politica. Io non sto dentro il perimetro che vuole qualcun altro, perchè io e i lavoratori il Paese lo vogliamo cambiare più di Renzi». Nel mirino c’è proprio il premier, il cui governo «non è vero che ha il consenso, sono balle». Tanto è vero che «le decisioni che sta prendendo se le fa votare in Parlamento con la fiducia. Il governo non è andato dai giovani, dai precari e dai dipendenti per sapere se erano d’accordo sul togliere lo Statuto dei lavoratori».
Intanto però si pone un problema (grosso come una casa) di rapporti tra la Fiom e la Cgil. E ovviamente tra Maurizio Landini e Susanna Camusso. «Siamo d’accordo sulla “coalizione sociale”, ne parliamo da tre mesi», dice il primo; ma Camusso fa sapere di non essere stata informata dell’iniziativa. E quando Landini parla della «necessaria riforma, di un cambiamento radicale del sindacato» si capisce che ce l’ha con il segretario generale. Il leader Fiom ricorda che è stata proprio Camusso «ad aprire a una discussione sulle nuove regole per eleggere i segretari generali a tutti i livelli. Io penso - conclude il numero uno della Fiom - che per queste cariche bisognerebbe far votare almeno i delegati Cgil nei luoghi di lavoro, che sono l’anima del nostro sindacato». Potrebbe essere la via giusta per conquistare la poltrona più importante del sindacato di Corso d’Italia.

Corriere 16.3.15
«Con i lavoratori cambierò il Paese» Ma Camusso gela Landini: ero all’oscuro
La Cgil non sostiene il progetto del leader Fiom. Legge sulla rappresentanza, sigle divise
di Francesco Di Frischia


ROMA «Il sindacato non deve essere un partito. Io non voglio farne uno, né uscire dal sindacato», ma «riunificare il mondo del lavoro». Il leader della Fiom, Maurizio Landini, intervistato a In 1/2 ora su Rai3 torna a parlare della «coalizione sociale» e dei suoi obiettivi.
Si tratta di «una aggregazione sociale con una funzione politica» per battere le iniziative di governo e Confindustria «che hanno tolto diritti a tutti — sottolinea —. E la nostra iniziativa sta dentro la strategia della Cgil». Susanna Camusso, però, sabato non era presente al primo appuntamento della coalizione: «Con lei sono tre mesi che stiamo parlando alla luce del sole — replica Landini —. Siamo insieme nella battaglia contro il Jobs act e per un nuovo statuto di tutti i lavoratori». Ma il portavoce di Camusso precisa che il segretario della Cgil non era stato informato dell’iniziativa di Landini.
Il segretario della Fiom propone poi «una riforma del sindacato e anche della Cgil», e non lesina attacchi al governo: «Renzi se n’è “strasbattuto” degli scioperi e ha cancellato i diritti». E commentando il consenso dell’esecutivo nei sondaggi dice: «È una balla, tanto che si fa votare le cose mettendo la fiducia». Poi rilancia: «Io e i lavoratori cambieremo il Paese più di Renzi», ribadendo però che lui non ci pensa proprio a candidarsi. E le critiche da parte del mondo politico? «Queste reazioni mi fanno sorridere — replica —. Se uno deve stare in Parlamento solo per dire “sì”, io faccio altro».
Dalla parte di Landini si schiera il leader di Sel, Nichi Vendola: «Tutti hanno diritto a fare politica e Renzi si deve abituare anche all’idea che il dissenso e l’opposizione sociale cresceranno». Sul fronte opposto, invece, Federico Gelli (Pd): «Landini gioca con le parole: non fonda un partito, ma una coalizione. Non si candida (per ora), ma il sindacato deve fare politica. Roba da Prima Repubblica».
Ma i movimenti a sinistra non finiscono con le iniziative di Landini. Sabato le minoranze del Pd hanno organizzato un’assemblea («A sinistra nel Pd») alla quale parteciperanno, secondo Alfredo D’Attorre (pd), anche esponenti della Cgil e di Sel. Ma «non sarà un cartello anti Renzi», assicura.
Mentre il premier frena sull’ipotesi di una legge sulla rappresentanza sindacale, Cisl e Uil sono critiche. Possibilista la Cgil. Il portavoce di Camusso, spiega che la legge va bene «se garantisce effetti erga omnes ai contratti». Giovanna Ventura (Cisl), invece, si dice «perplessa» e chiede di «verificare prima se l’accordo già raggiunto funzioni». E Carmelo Barbagallo (Uil) sbotta: «Basta riforme annunciate sui giornali. Non c’è l’esigenza di una legge» .

La Stampa 16.3.15
Cacciari: è un simpatico tribuno ma non mette d’accordo la sinistra
“Cuperlo, Barca e Civati dovrebbero far fuori D’Alema e Bersani”
di Francesco Maesano


Massimo Cacciari sta andando a votare per le primarie veneziane. E, neanche a dirlo, non è entusiasta. «Potrebbero essere un grande strumento se ci fosse un albo degli elettori. Così invece ce le facciamo in casa. Campania, Liguria, ognuno con le proprie storture: è il bricolage più assurdo».

E l’iniziativa di Landini? L’ha entusiasmata?
«Dovrebbe?»
Lei ha rivolto un appello alla sinistra Pd perché si accordi con lui. Non sembra indifferente.
«Mica sono d’accordo con loro, che appello vuole che faccia? Dico solo che se non trovano l’accordo tra di loro che razza di opposizione fanno? Diventano patetici».
Con Landini per fare cosa?
«Innanzitutto cambiare il sindacato, garantire che al suo interno si svolga un’autentica vita democratica».
Magari proponendo una legge sulla rappresentanza sindacale?
«Forse. Purché però non la faccia Renzi sulla loro testa. Dovrebbe essere il sindacato a fare una proposta, non aspettare che dei partiti che si sono liquefatti gli dettino le regole».
Landini è la persona giusta?
«Landini mi è molto simpatico. E poi quando parla della classe operaia mi scatta una nostalgia irresistibile. Ma non ha capito che il mondo è cambiato».
In che modo?
«Il mondo prima era più semplice, ma non bisogna averne nostalgia. Fare le previsioni in questo mondo è diventato impossibile, troppe variabili, nessun valore conosciuto. ».
Non le chiediamo tanto. Pensa che finirà per candidarsi?
«Fintanto che non si mettono d’accordo tutti gli oppositori di Renzi, Landini non si muoverà».
Manca il collante?
«Ho consigliato ai miei amici Civati, Cuperlo e Barca di istituire un triumvirato per fare fuori i Bersani e i D’Alema».
Scusi, e Speranza?
«Ma dai, per carità».
Cosa gli manca?
«Ma cosa vuole? È il bersaniano che media con Renzi. Non c’è più possibilità di politiche di compromesso. La gente ha bisogno di posizioni chiare e leadership definite, i pontieri non servono più».
E cosa serve?
«L’opposizione non si fa con uno stillicidio di no a Renzi. Occorre organizzarsi in modo organico, non resistendo a chi comanda ma andando oltre chi comanda, mettendo in piedi una strategia che superi colui al quale ti opponi. Altrimenti diventa vana resistenza.
Landini ce l’ha?
«Per ora porta avanti una tipica attività tribunizia. È un tribuno della plebe, in senso romano, non dispregiativo. Poi però deve mettersi d’accordo col Senato. È depositario di un certo potere, ma da solo non basta».
Non crede che ci sia una componente di «tribunicia potestas» in tutti i nuovi leader?
«Certo! A partire da Salvini, passando per Tsipras e questi di Podemos»
Anche nel presidente del Consiglio?
«No, Renzi è un uomo di potere, un senatore fatto e finito».
Però si rivolge spesso al popolo senza intermediari.
«Vero, ma conosce tutti i giochi del Senato, li ha imparati in quattro e quattr’otto. È un animale senatorio, culturalmente diverso dal tribuno: è nato Cesare».
Tra i tribuni della plebe non ha nominato Grillo.
«Appartiene a una generazione ormai passata. Non esiste, cronologicamente parlando. I suoi in Parlamento sono destinati a sciogliersi o a rifluire su posizioni renziane».

La Stampa 16.3.15
Moderati, arrabbiati di lotta o di governo
La carica degli antirenziani
Il capo della Fiom l’ultimo di una vasta tribù
di Mattia Feltri


Maurizio Landini darà le «vere risposte»: fin qui erano tutte finte. Coalizione sociale nasce perché occorre «qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Fa nulla se mezzo mondo è già persuaso di essere «qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Per esempio il capogruppo pacatamente antirenziano del Pd, Roberto Speranza, ritiene che all’antirenzismo non serva «una sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive». La dottrina è quella del leader di riferimento, Pierluigi Bersani: bisogna discutere perché «discutere è la possibilità di convincere». Quale sarà il vero antirenzismo? Quello bersanianamente pacato o quello landinianamente incazzato? Sarebbe niente se la questione finisse qui. Invece la categoria politica dell’antirenzismo è la più diffusa e articolata d’Europa. Per esempio la mattina in cui si è votata a Montecitorio la riforma costituzionale, i deputati forzisti tendenza Fitto si erano alzati in aula per spiegare che i deputati forzisti tendenza Berlusconi si erano appena convertiti all’antirenzismo, per cui erano antirenziani a metà, mentre gli antirenziani veri erano loro, antirenziani da sempre. Intanto qualche forzista tendenza Verdini osservava che non c’era niente di meno antirenziano dell’antirenzismo che lascia a Renzi il monopolio delle riforme. Ma come non farsi venire il dubbio al broncio dei grillini, usciti dall’aula e accampati sui divani? L’opposizione autentica al renzismo, spiegavano, è non dare alibi alle sconcezze di Renzi: sull’Aventino e che i posteri sappiano.

L’infittirsi del dibattito fra gli antirenziani insiste su una premessa: il mio antirenzismo è più antirenziano del tuo. Il vero antirenziano fra i renziani, Pippo Civati, quella stessa mattina ironizzava sui compagni antirenziani che avevano votato con Renzi per senso di responsabilità: «Dicono sempre che sarà per la prossima volta». Sono amarezze condivise nel centrodestra, dove i potenziali alleati di antirenzismo non sono mai abbastanza antirenziani. Matteo Salvini per esempio sostiene che quella di Forza Italia «non è opposizione». È un antirenzismo sempre un po’ troppo sospetto di renzismo, tanto che il capogruppo forzista al Senato, Paolo Romani, ha rassicurato il collega alla Camera, Renato Brunetta: «Noi siamo all’opposizione». Certo, è un’opposizione «intelligente», ma figuriamoci se Brunetta si è accontentato, Brunetta è uno che su twitter ha scritto: «D’Alema? Se l’opposizione è questa, viva Matteo Renzi». A questo punto niente vieta a Giorgia Meloni di autonominarsi «la vera alternativa», notata qualche «infatuazione» fra Sel e Renzi e fra Renzi e cinque stelle. Ora al gruppo si è aggiunto Flavio Tosi perplesso dall’antirenzismo chimerico di Salvini, visto che un antirenzismo serio - dice - non promette stupidaggini tipo l’uscita dall’euro. E dunque ogni giorno si aggiungono ricercatori dell’antirenzismo in purezza. Si è visto rispuntare il leggendario capo dei Cobas, Piero Bernocchi («la vera opposizione sociale siamo noi»), ma se ancora non avete trovato l’antirenziano adeguato al vostro antirenzismo, provate a giocarvi quest’ultima carta: «Siamo noi la vera opposizione», ha detto Corrado Passera.

il Fatto 16.3.15
Landini, Camusso dice “no”


Maurizio Landini morde ma non strappa: “La Cgil deve cambiare o è fuori. Con Susanna Camusso sono tre mesi che parliamo di ‘coalizione sociale’, e abbiamo intenzione di continuare assieme”. Camusso morde e basta, tramite portavoce: “Nè il segretario nè la segreteria della Cgil erano stati informati dell’iniziativa organizzata venerdì dalla Fiom, nè tantomeno hanno espresso appoggio a quel progetto”. Non marciano uniti da tempo, il segretario della Fiom e quello della Cgil. E a ribadirlo sono contenuti e conseguenze dell’intervento di ieri di Landini a In mezz’ora, su Rai Tre. Che innanzitutto ripete: l’iniziativa di venerdì scorso a Roma con Fiom e associazioni per una coalizione sociale non ha battezzato un nuovo partito: “Il sindacato non deve essere un partito e io non voglio farlo nè uscire dal sindacato. Deve essere un soggetto politico, e deve avere una rappresentanza, altrimenti diventa aziendale o corporativo”. D’altronde, sostiene pungendo il suo primo avversario, lui è partito da una frase rivolta da Renzi ai sindacati: “Finora dove siete stati?”.
E ALLORA ecco il progetto di Landini, severo anche con il suo mondo: “C’è un problema di riforma anche della Cgil, il sindacato deve cambiare o è fuori”. Nell’attesa il segretario Fiom pensa già a includere nuove forze: “Nella mia testa una coalizione sociale non è fatta solo con quelli che c’erano ieri, si deve allargare. Va costruito un progetto di mobilitazione e di azioni dove il lavoro sia centrale, e su questa base dialogare con tutti”. Con un primo obiettivo, fermare Renzi “perché sta cancellando i diritti per legge”. E la Camusso? Sa tutto, assicura Landini. Eppure il portavoce del segretario Cgil, Massimo Gibelli, diffuse un gelido tweet quando a fine febbraio il numero uno della Fiom annunciò sul Fatto i suoi progetti politici. “Se Maurizio vuole scendere in politica tutti i nostri auguri, ma il sindacato è un’altra cosa”. “Mi hanno detto che era una posizione personale” argomenta Landini in tv. In serata però il portavoce sostiene che la Camus-so del varo della coalizione sociale non sapeva nulla, nè l’ha mai appoggiata. Apertura invece dal bersaniano Alfredo D’Attorre: “Non ho condiviso tutto quello che ha detto, ma Landini è un interlocutore”. Proprio D’Attorre annuncia per sabato prossimo a Roma “A sinistra nel Pd”, assemblea delle minoranze dem con rappresentanti della Cgil e di Sel. Landini invece sarà a Bologna, per un’iniziativa di Libera.

Repubblica 16.3.15
 “Cambiamo o siamo finiti” Landini sferza il sindacato Gelo Cgil: si muove da solo
Il capo Fiom sfida Renzi: falso il suo consenso, cambieremo più noi il Paese Apertura sulla legge della rappresentanza. “Ma vediamo cosa vogliono fare”
di Paolo Griseri


ROMA Il dado è tratto: «La Fiom e i lavoratori cambieranno il paese più di Renzi». Maurizio Landini lancia il guanto di sfida al governo di centrosinistra «che ha scelto di cancellare lo Statuto dei lavoratori e di schierarsi dalla parte delle imprese». Per questo la coalizione sociale lanciata dal segretario della Fiom «non è un’operazione partitica » ma «una proposta di riforma radicale del sindacato che rischia di scomparire sotto i colpi delle leggi del governo Renzi». Landini nega di voler fare un partito: «Chi lo dice lo fa per denigrarci». Non sarebbe la prima volta: l’accusa alla Fiom di voler fare politica è stata un refrain della Fiat negli ultimi anni.
Ma anche se la “coalizione sociale” non è l’embrione di un partito, il nuovo modello sindacale proposto da Landini crea sussulti e irritazione. La più clamorosa è quella dei vertici della Cgil che, con una nota hanno smentito le affermazioni del leader della Fiom a «In mezz’ora »: «Né il segretario Susanna Camusso, nè la segreteria della Cgil erano stati informati dell’iniziativa organizzata dalla Fiom per l’avvio di una ‘coalizione sociale’, né tantomeno hanno espresso appoggio». La Camusso non interviene direttamente. Dopo i mesi del dialogo diretto tra Landini e Renzi, rapporto che tendeva a saltare i vertici di Corso d’Italia, il silenzio del segretario generale della confederazione è un messaggio indiretto a entrambi. Che l’operazione lanciata da Landini possa cambiare la natura del sindacato è dimostrato dalla curiosità con cui dai partiti si guardava ieri all’iniziativa della Fiom di chiedere incontri a tutti i gruppi parlamentari in vista della manifestazione del 28 marzo per i diritti del lavoro. Landini fa le consultazioni? «Ma quali consultazioni? La Fiom ha incontrato tutti prima delle manifestazioni importanti ».
Eppure, il governo lascia filtrare una mossa che finirebbe per andare incontro alle proposte della Fiom, quella di regolamentare per legge la rappresentanza sindacale. Cavallo di battaglia di Landini perché certificare quanti iscritti ha davvero un sindacato significa dare il diritto di trattare con le controparti a chi è rappresentativo e non a chi firma accordi più o meno graditi alle aziende. «Ma bisogna vedere quale legge sulla rappresentanza vuole varare il governo», risponde guardingo il leader della Fiom. Un accordo tra Cgil, Cisl e Uil con Confindustria era stato firmato a gennaio 2014. E ieri la Cgil ha ripetuto che quell’intesa «potrebbe essere la base per la nuova legge». A suo tempo la Fiom aveva criticato quell’accordo. Contraria a regolamentare la rappresentanza per legge è la Uil, come ripete il segretario Barbagallo.
Al di là degli aspetti tecnici, una legge sulla rappresentanza finirebbe per favorire quel sindacato di movimento, basato sulla democrazia diretta, che la Fiom propone da tempo. E che avrebbe conseguenze anche nella maggiore delle tre organizzazioni sindacali: «Immagino una Cgil in cui il segretario generale sia eletto direttamente dai delegati degli uffici e delle fabbriche — dice Landini — penso a un sindacato che confronti le sue piattaforme con la coalizione sociale che proponiamo di formare. Perché la piattaforma degli edili non deve essere discussa insieme alle organizzazioni ambientaliste o a chi vigila sulla legalità negli appalti? ». Perché il sindacato deve modificare a tal punto la sua natura? «Perché quella natura è già cambiata. Abolire il ruolo dei contratti nazionali, come si sta facendo consentendo alle aziende ogni sorta di deroga, significa far prevalere il modello di un sindacato d’azienda, frantumato in tante realtà diverse. La coalizione sociale dovrebbe sopperire a quella frammentazione, rimettere insieme associazioni, lavoratori e disoccupati », risponde Landini. Che annuncia per aprile «due giorni di discussione con le associazioni della coalizione». Una Leopolda della Fiom? «Non diciamo stupidaggini ». Per ora l’unico appuntamento è quello del 21 marzo con le minoranze del Pd, a cui andranno anche esponenti di Sel. Ma in quell’occasione per il sindacato ci sarà la Cgil, non la Fiom.

Repubblica 16.3.15
Una nuova sinistra extra parlamentare
di Ilvo Diamanti


MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque.
NON una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei — destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extra-parlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%).
Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino.
Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti.
Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare.
Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%).
La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito — almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier.

Repubblica 16.3.15
Alfredo D’Attorre
“Su Europa e lavoro può aiutarci a correggere la linea del Pd”
intervista di Giovanna Casadio


Parla D’Attorre, bersaniano della corrente Area riformista “Renzi sbaglia a delegittimare”
ROMA «Facciamo con Landini battaglie comuni su singoli punti: su lavoro, democrazia, Europa». , dem della corrente “Area riformista”, bersaniano, lancia un ponte verso il segretario della Fiom e il suo progetto di “Coalizione sociale”.
D’Attorre, nell’assemblea nazionale della vostra corrente sabato a Bologna, Roberto Speranza ha definito quelle di Landini “urla in tv”. Condivide?
«È stata estrapolata una singola frase del discorso di Roberto. Non ho condiviso quando Landini ha commentato in modo sprezzante il voto del Parlamento sul Jobs Act. Io non ho votato la riforma del lavoro ma ritengo si debba avere rispetto per chi ha lavorato a una strategia di “riduzione del danno” e, alla fine, ha espresso un “sì” sofferto».
Landini è un interlocutore, quindi?
«Penso che Landini vada preso sul serio quando dice di non volere fare un partito. Penso che Renzi sbagli a utilizzare questo argomento per delegittimare le ragioni di merito che Landini solleva. E penso anche che su diversi temi in una limpida distinzione di ruoli tra forze sociali e forze politiche, Landini sia un interlocutore importante. Con lui non credo vada fatto un nuovo partito ma ci possono essere su singoli punti — lavoro, democrazia, rapporto con l’Europa — battaglie comuni che saranno anche utili per correggere l’attuale linea politica del Pd».
Chi ha organizzato la convention dem a Roma di sabato prossimo?
«È un’assemblea delle diverse minoranze del Pd. Sarà un confronto».
Nascerà il “correntone” anti Renzi?
«No, non è che lì nascerà il “correntone” anti renziano; nessuno di noi pensa a un fronte delle opposizioni a Matteo. Vogliamo piuttosto cominciare a individuare i punti condivisi di una nuova proposta per il Pd e l’Italia, a partire dal tema della democrazia ».
Avete invitato Sel e la Cgil?
«Sì e interverranno come ospiti, non so se Scotto o Fratoianni per Sel e esponenti della Cgil. I leader dem presenti saranno Pierluigi Bersani, Speranza, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Pippo Civati, Francesco Boccia e molti altri. Rafforziamo la voce della sinistra nel Pd».
Ma da che parte state lei e la corrente bersaniana?
«A sinistra nel Pd. La nostra è l’idea di rafforzare l’autorevolezza e la credibilità della sinistra dentro il Pd, anche per evitare il definitivo snaturamento in senso moderato del partito e il suo distacco dal mondo del lavoro. Da questo punto di vista con le differenze che pure ci sono all’interno delle stesse minoranze dem, ci deve essere tra di noi un obiettivo comune e questo è nell’interesse dello stesso progetto di Pd».
Rischiate di essere né carne né pesce?
«La strada di far vivere un punto di vista critico su alcuni temi nel Pd è oggi più difficile, però continuo a credere che sia anche la più necessaria. Non si difende il mondo del lavoro e non si rafforza la sinistra, mettendola nel cantuccio di un partito di testimonianza. Lo si fa correggendo la rotta del più grande partito italiano del centrosinistra ».
State tentando una scalata del partito o gettate le basi di una scissione?
«L’alternativa al Pd renziano abbiamo il dovere di costruirla nel Pd, ma non con scorciatoie organizzative bensì con una proposta più innovativa e riformatrice davvero rispetto a quella di Renzi».

il Fatto 16.3.15
Povero Renzi, troppo amato
di Ferruccio Sansa


Il sondaggio parlava chiaro: il 99% degli italiani erano renziani. Matteo Renzi si aggirava per i corridoi di palazzo Chigi con le mani screpolate, quasi sanguinanti, tanto se le era sfregate. Qualche dubbio poteva sussistere, pure i sondaggisti erano renziani. Un tarlo comunque lo rodeva: chi era quell’uno per cento che si ostinava a resistere?
Ma qui il principe si fermava, cominciava a intravvedere all’orizzonte il vero ostacolo: se tutti gli italiani erano diventati renziani, come fare per sceglierne uno piuttosto che un altro? Sulla scrivania ecco il foglio per la nomina del nuovo amministratore Rai. Era tutto pronto, mancava solo il nome. Ma chi premiare, se tutti stavano dalla sua parte? Il più ossequioso , il più obbediente, il sostenitore di più lungo corso? Scartò il più capace, gli pareva che la scelta potesse nascondere delle insidie. No, non riusciva a decidere, prese il telefono per chiedere consiglio agli uomini di cui si fidava di più. Ma di nuovo si arrestò. Gli avrebbero dato ragione, tutti, comunque, perché erano senza eccezione renziani. Erano d’accordo con il capo, più d’accordo di quando non fosse lui stesso. Non andò meglio quando pensò di scegliere i responsabili dei tg: Rai1, vabbé, era il canale filo-governativo. Ma Rai2, l’emittente dell’opposizione? Stava per chiedere a Verdini, ma si fermò. Renziano pure lui. E Rai3? Gli veniva quasi da rimpiangere i vecchi tempi del pentapartito, le trattative, il tentativo di ogni partito di mettere il proprio uomo. Ma adesso? Di sinistra, destra, centro, erano tutti renziani.
Lanciò via dalla scrivania i fascicoli con le altre pratiche: Ferrovie, Poste, Finmeccanica. Niente da fare. Era sempre lì. E i grandi quotidiani? D’accordo, non era compito suo, in teoria. Ma cambiava poco: tutti renziani. Quello che aveva scritto libri con lui, l’altro che gli aveva dedicato un’agiografia (troppo, perfino per lui?) o magari il cantore del neo-ottimismo (renziano). Scese in cucina, aprì il frigo: che cosa di meglio di un po' di squacquerone di Eataly, renziano doc. Accese la televisione, una piccola distrazione - anche il premier ne ha bisogno ora che non ci sono più i bunga bunga - ecco il solito talk show: due signori che litigano a chi è più renziano. L’argomento? Che importa.
Ah, c’è la gara della Ferrari. Ecco Marchionne ed Elkann. Renziani pure loro, renziana anche la Ferrari. Era quasi tentato di rimpiangere quelle serate passate da ragazzo a chiacchierare “a cinci sciolto”, nei bar di Firenze. Qualcuno allora c’era che lo contraddiceva. A volte si ritrovava solo. Contro tutti. Già con quel suo carattere un filino arrogante. Bastiancontrario, proprio come adesso. Fu allora che capì: c’era davvero quell’uno su cento che non li sopportava più tutti quei renziani leccaculo. Era proprio lui.

il Fatto 16.3.15
Ricordare Danilo Dolci: la nonviolenza italiana
di Furio Colombo


Se potete, prendetevi una vacanza dallo squallore degli eventi politici quotidiani, e prendete in mano il volumetto, Processo all’articolo 4 di Danilo Dolci, editore Sellerio (che si conclude con un saggio di Pasquale Beneduce, indicato come “postfazione”). Leggendo non potrete evitare due domande disturbanti. La prima è: perchè la cultura italiana sanno così poco e parlano così di rado di Danilo Dolci? La seconda: perchè l’Italia dei contemporanei di Dolci, intellettuali inclusi (anni Cinquanta) si è così poco e malvolentieri occupata di lui? Nella speranza che vi siano giovani fra i lettori, ricorderò che stiamo parlando dell’unico italiano che  – oltre alla mafia – ha attratto l’attenzione internazionale sulla Sicilia, la sua povertà, il suo isolamento, la sua lotta per il lavoro. Non era un sindacalista, Danilo Dolci, ma è stato arrestato mentre conduceva una colonna di contadini senza terra e senza lavoro a coltivare terre abbandonate, in una specie di sciopero alla rovescia. La domanda: Perchè è stato arrestato (e processato)? Resta senza risposta. E il lettore del volumetto dovrà fare riferimento alla ‘postfazione’ di Beneduce per ritrovare il mondo in cui l’evento narrato in questo libro (una delle molte testimonianze di Dolci) ha potuto compiersi nell’Italia democratica, dopo la Resistenza. Una delle ragioni, a cui adesso è difficile credere, dopo il lungo lavoro politico e pedagogico dei pochi ma ostinati Radicali italiani, guidati da Pannella e Bonino, è la nonviolenza. Senza di loro il concetto stesso sarebbe rimasto per sempre estraneo alla vita e alla cultura italiana, anche perchè a quel tempo Gandhi era un mito di storia indiana (e forse proprio per questo Vittorini, testimone al processo contro Dolci, parla a lungo della vita contadina indiana, per persuadere i giudici della affinità naturale di Dolci con le pratiche del digiuno e della nonviolenza) e Martin Luther King non era ancora sulla scena internazionale. Danilo Dolci è diventato importante da solo e prestissimo e contro usi costumi e potere di questo Paese. Posso testimoniarlo a causa di due esperienze che lo riguardano e mi riguardano. La prima è il primo settimanale televisivo della neonata TV della Rai, 1954. Si chiamava Orizzonte, era presentato in studio dal giovanissimo Gianni Vattimo, il sottotitolo era “per i giovani”. A me era stato dato, incautamente, l’incarico di dirigerlo. E poichè si andava in onda dal vivo non poteva esserci censura. Ma quando abbiamo invitato Danilo Dolci (mai visto prima in televisione o ascoltato alla radio) a parlarci dello sciopero alla rovescia per creare lavoro, della nonviolenza per impedire lo scontro, la nuova trasmissione è stata rapidamente cancellata. Diverso l’esito quando Danilo Dolci è venuto a New York (primi anni ‘60) e mi ha chiesto di invitare “qualche americano” ad ascoltarlo. In casa mia e – nelle sere successive – in altre case di New York, si è radunata una folla di sostenitori e ammiratori di questo leader senza potere della nonviolenza italiana, che ne ha subito fatto un esempio e un mito.

Repubblica 16.3.15
Chi può ancora salvare il paesaggio toscano
di Tomaso Montanari


ORA il Piano del Paesaggio della Regione Toscana è, anche formalmente, una questione nazionale. Nella sostanza lo era fin dall’inizio: perché esso decide il futuro di un pezzo importantissimo di quello che la Costituzione chiama il «paesaggio della Nazione». Ma anche perché aveva l’ambizione di indicare a tutto il Paese un futuro sostenibile, capace di tenere insieme sviluppo, ambiente e salute. Una via in cui la tutela dell’ambiente non fosse affidata ai vincoli delle soprintendenze (indispensabili, in mancanza di meglio), ma ad un progetto politico responsabile.
A tutto questo serviva il testo voluto dal presidente Enrico Rossi, scaturito dal lavoro di Anna Marson (assessore alla Pianificazione della Regione Toscana) e adottato dal Consiglio regionale nello scorso luglio. Ma dopo l’estate qualcosa è cambiato: il vento dello Sblocca Italia (la legge a favore del cemento scritta dal ministro Lupi, e approvata a novembre) ha cominciato a soffiare anche sulla Toscana, ridando forza e voce ai centri di interesse che Rossi era riuscito a contenere. Così, nelle ultime settimane, il Piano è stato smontato pezzo a pezzo in Commissione, grazie al sistematico voto congiunto di un Pd che ormai non risponde più a Rossi e di una Forza Italia scatenata: una specie di Patto del Nazareno contro il futuro del Paesaggio toscano. Se passasse così com’è stato ridotto, il Piano sarebbe un atroce boomerang. Facciamo solo qualche esempio: nuovi fronti di cava potrebbero essere aperti sulle Alpi Apuane anche sopra i 1200 metri (cambiando per sempre lo skyline della regione); le strutture su tutta la linea di costa potrebbero ampliarsi a piacimento, e si potrebbe costruire perfino nel Parco di San Rossore; case potrebbero sorgere anche negli alvei dei fiumi soggetti ad alluvioni, e lo sprawl urbano potrebbe mangiarsi quel che rimane dei meravigliosi spazi rurali della piana di Lucca.
Di fronte a questo concretissimo rischio (si vota domani), Rossi ha chiesto aiuto al governo: una scelta paradossale, che segnala il coma irreversibile del regionalismo. Ma è il ministero per i Beni culturali l’unico freno di emergenza che può evitare che il paesaggio toscano cappotti in parcheggio.
Il Piano dev’essere, infatti, approvato e condiviso dal ministero: che solo in presenza di forti garanzie può contenere i suoi vincoli. Per questo Rossi incontrerà Dario Franceschini, sperando paradossalmente in un “no”: quel “no” che può permettergli di tornare a Firenze ricacciando nell’angolo gli interessi delle lobby che parlano attraverso i ventriloqui dell’assemblea regionale.
Ma quel “no” arriverà? Come si è capito anche dalle forti dichiarazioni della sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni (che ha la delega al Paesaggio), la struttura tecnica del Mibact considera il Piano irricevibile. Ci auguriamo che i tecnici potranno fare il loro lavoro, e che non prevarrà invece la linea politica di un governo che sembra aver fatto del motto «padroni in casa propria» (parola d’ordine del ventennio berlusconiano) uno slogan positivo.
Dario Franceschini saprà dimostrare di essere diverso da Maurizio Lupi, santo patrono del consumo di suolo? E che ruolo giocherà il toscanissimo Matteo Renzi, che sembra fermo ad un’idea di sviluppo territoriale che era già vecchia negli anni Sessanta?
Da ciò che avverrà nelle prossime ore non capiremo solo se la Toscana dei nostri figli sarà resa simile alla Calabria di oggi: ma capiremo anche se “sviluppo” continuerà ad essere sinonimo di “cemento”. O se, finalmente, cambieremo verso.

La Stampa 16.3.15
Israele domani alle urne
Herzog verso la vittoria
In Israele è sfida all’ultimo voto
Netanyahu costretto a inseguire
Il premier superato dal centrosinistra va all’attacco: niente concessioni ai palestinesi
di Maurizio Molinari


I cittadini israeliani domani andranno alle urne: in palio ci sono i 120 seggi della Knesset. L’astro emergente del centrosinistra Herzog avanti nei sondaggi: il premier Netanyahu costretto a inseguire.
«Niente concessioni né ritiri»: Benjamin Netanyahu prova a scongiurare la sconfitta nelle elezioni di domani con un comizio a Tel Aviv che lo vede rivolgersi all’elettorato del Likud con accenti nazionalisti. L’opposizione a concessioni territoriali ai palestinesi diventa netta, gridata. Il motivo della scelta del premier è che l’indebolimento del Likud nei sondaggi si deve allo scontento dei suoi votanti tradizionali sui temi dell’economia. È il sotto-proletariato urbano che si allontana da lui, lamentando affitti troppo cari e stipendi troppo bassi. Sono elettori che tendono a disertare i seggi, consentendo al centrosinistra «Campo Sionista» di Isaac Herzog e Tzipi Livni di puntare al successo.
Voti da recuperare
Per recuperarli, davanti ad una folla di almeno 30 mila sostenitori, Netanyahu dice di essere l’«unica garanzia» per evitare l’atomica dell’Iran e promette «niente concessioni territoriali» ai palestinesi e «basta liberazioni di terroristi». Ma c’è dell’altro perché, per la prima volta, compie un passo anche sul fronte dell’economia: «Se sarò rieletto nel nuovo governo Moshe Kahlun sarà ministro delle Finanze». Si tratta del leader del nuovo partito «Kulanu», che viene dal Likud. Kahlun è noto per aver firmato la liberalizzazione dei cellulari e, nelle ultime settimane, si è dimostrato abile nel corteggiare i voti a destra. Ad esempio sul fronte dei tassisti - tradizionali elettori del Likud - che ha incontrato in una raffica di riunioni di città e quartiere, promettendo soluzioni al caro-benzina, trovando ascolto e riscuotendo i favori. Netanyahu è convinto che assicurando le Finanze a Kahlun molti voti del Likud torneranno a casa e la vittoria del centrosinistra diventerà più ardua.
Stessa platea
Sul fronte opposto, Herzog si rivolge anch’esso all’elettorato della destra, confermando che è questo il terreno su cui si gioca l’esito delle elezioni per assegnare i 120 seggi della Knesset. Per arginare il ritorno di Netanyahu, Herzog va all’attacco sulla sicurezza, giocando la carta di Gerusalemme: «Nessuno meglio di me riuscirà a garantire la sicurezza della nostra capitale» promette durante una visita al Muro del Pianto per attestare l’indivisibilità della città. La sfida fra «Bibi» e «Bougie» è oramai un duello. Colpisce il silenzio di Livni, n. 2 del centrosinistra. Se dalle urne non uscirà un chiaro vincitore, potrebbe essere lei a trattare.

La Stampa 16.3.15
Se le donne ortodosse sfidano i maschi


Ruth, Noa e Keren: la rivoluzione politica è donna nel mondo degli ultraortodossi. Gli «Haredim» compongono circa il 18% della popolazione israeliana e votano in gran parte per i partiti religiosi. Ma sono forze di matrice ashkenazita o sefardita - originarie dell’Europa dell’Est o del mondo arabo - composte solo da uomini. «Tutti uomini sono i leader e solo uomini sono gli eletti e i candidati» afferma Ruth Colian, 33 anni, che dopo essere stata respinta un’ultima volta nella richiesta di correre per il Parlamento ha scelto la sfida frontale fondando «B’Zhutan» (Per diritto delle donne) ovvero «le donne ultraortodosse vogliono il cambiamento». È un partito che chiede alle donne «haredi» di non votare più per i partiti religiosi «maschilisti» e si propone di avere un impatto che va ben oltre la Knesset, puntando a diventare un movimento per «rafforzare i diritti delle donne fra gli ortodossi» come dicono Noa e Keren portando sul terreno della politica l’emancipazione femminile nel mondo ebraico che Barba Streisand interpretò in «Yentl». [m.mo.]

La Stampa 16.3.15
Il sogno di Herzog è realizzare la “speranza” di Ben Gurion
Il laburista ora favorito per la vittoria: includerò gli arabi
di M. Mol.


Erede di una famiglia protagonista della formazione d’Israele, educato nella scuola ebraica più esigente di New York, ufficiale nell’unità più segreta di Tzhaal e leader politico quasi per caso, sottovalutato da avversari che riesce a sorprendere: Isaac Herzog può riportare i laburisti a guidare il governo dopo 15 anni perché incarna un’idea di sionismo basato sulla democrazia auspicata da David Ben Gurion, capace di includere tutti, arabi compresi.
Come i Kennedy
Se gli Herzog vengono considerati i «Kennedy d’Israele» è per un albero genealogico che assomiglia a quello dello Stato: il nonno Isaac Halevi fu rabbino capo ashkenazita nella Palestina mandataria e quindi d’Israele, il padre Chaim fu capo dello Stato per dieci anni, governatore di Gerusalemme dopo la riunificazione, ambasciatore all’Onu e capo dell’intelligence militare, per zio ha avuto il ministro degli Esteri Abba Eban, fra i fratelli ha l’ex generale Michael consigliere sul negoziato con i palestinesi di quattro premier e la madre Aura, francofona d’origine egiziana, ha fondato il Concorso biblico nazionale e il Consiglio di «Beautiful Israel» per promuovere il legame delle nuove generazioni tanto con il Vecchio Testamento che con la natura. Aggiungendo il lontano cugino Sidney Hillman, consigliere di Franklin D. Roosevelt, e la moglie Bessie, che affiancò Eleanore Roosevelt, si arriva a comprendere perché gli analisti adoperano l’espressione «sangue blu» per descrivere il mondo da cui proviene Isaac, nato nel 1960. Non a caso quando Shimon Peres ha chiesto agli elettori di votarlo, ha esordito così: «Conosco la sua famiglia da anni».
Alle radici laburiste, Herzog somma esperienze che ne descrivono il carattere. Quando il padre è ambasciatore all’Onu, a New York, studia nella scuola «Ramaz» dell’Upper East Side, una roccaforte «modern orthodox» fra le più esigenti e difficili di Manhattan.
Nei corpi di élite
Al momento di vestire la divisa enra nell’«Unità 8200» - l’intelligence elettronica - di cui allora nessuno conosceva l’esistenza e ne diventa ufficiale. Studia l’arabo e secondo alcuni «lo padroneggia». Avvocato nello studio di Tel Aviv che fu del padre, entra in politica con i laburisti nel 1999, quando il premier Ehud Barak, ultimo premier laburista, lo vuole come consigliere. Diventerà deputato e poi ministro ma sempre accompagnato da scarsa considerazione, degli alleati come degli avversari, per un’espressione mite ed una voce che lo fanno sembrare una «bambolina» ovvero proprio ciò che suggerisce il soprannome «Bougie», inventato dalla mamma quando era piccolo sommando il termine francese per bambola - «poupee» - con quello ebraico «buba». Ma lui è tutt’altro che docile. Nel 2013 sfida nella corsa alla leadership del partito Shelly Yachimovich, eroina delle proteste contro il carovita. Nessuno crede che possa farcela ma lui alle primarie prevale 58 a 41 per cento, diventa il volto del Labour e comincia a rigenerarlo. Dice di «voler andare al governo» ma nessuno gli crede. C’è chi chiede a Yachimovich di tornare ma «Bougie» tiene duro perché ha in mente un «sogno». «I miei modelli sono Obama e de Blasio - afferma - voglio realizzare i sogni di Israele» ovvero, «più solidarietà e speranza». La «solidarietà» è per chi soffre puntando a ridurre le differenze sociali ricchi-poveri ereditate da Netayahu. La «speranza» ha invece a che vedere con i palestinesi di Abu Mazen, a cui manda a dire «a Ramallah c’è un interlocutore nella pace», suggerendo «creatività per superare lo stallo». Ma ciò a cui più tiene è la «coesione interna» - da cui il termine «Campo sionista» per il patto elettorale con Tzipi Livni - per tornare alle origini di un sionismo inteso come «società democratica» ovvero «inclusiva di tutti». Anche degli arabi. Da qui l’ipotesi, ventilata da Herzog, di nominare un «ministro arabo nel mio governo». Per far capire che il progetto di Ben Gurion può riprendere la sua strada.

Corriere 16.3.15
«Il sionismo è solidarietà» Il gran ritorno dei laburisti
di Davide Frattini


TEL AVIV Stav la rossa ha imparato a volare. Da bambina sognava di diventare un’astronauta o una pilota di jet (ci ha provato, non ha superato il test dell’aviazione militare). Saltando dal tavolo della cucina si è rotta il braccio due volte. «Non capivo — dice alla rivista Forward — perché gli esseri umani non potessero volteggiare liberi come uccelli». Adesso sta ascendendo, almeno in quello che chiamano il firmamento della politica.
A 29 anni è la deputata più giovane nel parlamento uscente, è arrivata seconda alle primarie del partito laburista (prima di lei solo il capo Isaac Herzog), è una celebrità fuori dalla Knesset anche grazie a un video dei primi giorni di febbraio quando ha ribattuto alle accuse della destra: «Non venite a insegnarci che cosa significhi essere sionista, perché il vero sionismo vuol dire distribuire il denaro pubblico in modo equo tra i cittadini, il vero sionismo è prendersi cura dei più deboli, il vero sionismo è solidarietà, non solo in battaglia anche nella vita di tutti i giorni. E tutto questo il governo non lo fa». Alla seduta erano presenti pochi parlamentari, il filmato è stato diffuso su YouTube riportando la «gingit» (com’è soprannominata in ebraico per il colore fulvo dei capelli) alla popolarità di quattro anni fa. Allora girava da leader tra le tende dell’accampamento sotto le jacarande di viale Rothschild a Tel Aviv, spiegava perché quella protesta contro il costo della vita fosse importante, raccomandava di non mollare, di non tornare a chiudersi negli appartamenti troppo piccoli e troppo cari.
È stata lei — ancor più di Herzog — a garantire che la campagna elettorale dell’Unione Sionista (i vecchi laburisti alleati con Tzipi Livni) non dimenticasse quello che gli israeliani si ricordano ogni mattina: le difficoltà finanziarie, la disparità sociale che cresce (anche se l’economia del Paese corre). Il 56 per cento dichiara di andare a votare con le questioni economiche in testa (e in tasca). Non la sfida per impedire che l’Iran degli ayatollah abbia l’atomica (su cui ha puntato il premier Benjamin Netanyahu), non le possibilità di un accordo con i palestinesi (anche i laburisti hanno evitato di affrontare quello che è sempre stato il loro tema dominante).
«Gli israeliani vogliono la normalità — scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz — ed Herzog è riuscito in quella che sembrava una missione impossibile: trasformare HaAvoda in un partito normale, con l’aria da avvocato di buone maniere che è lì per risolvere i tuoi problemi». Suo padre è stato il sesto presidente di Israele, suo nonno il primo rabbino capo, suo zio un venerato ministro degli Esteri (Abba Eban, quello che sentenziò «i palestinesi non perdono mai un’opportunità di perdere un’opportunità»). È come se tutta questa gravitas familiare non avesse lasciato rughe solenni sulle fronte di Herzog: gli israeliani gli rinfacciano di avere — a 54 anni — un volto ancora infantile.
Prima della campagna elettorale ha preso lezioni per gonfiare di steroidi baritonali la voce chioccia. A differenza degli ultimi leader laburisti, non è un generale decorato come Ehud Barak o Amram Mitzna e neppure un boss carismatico come Amir Peretz o Shelly Yachimovich (al femminile). Con i consiglieri ha lavorato per indurire l’immagine arrendevole: gli analisti considerano un errore aver annunciato in anticipo la rotazione — in caso di vittoria — con Tzipi Livni, troppo generoso (o debole) per essere il primo ministro di una nazione che si considera in guerra permanente.
Modi Bar-On, intervistatore del Canale 2 , gli ha chiesto se gli israeliani non avrebbero bisogno di uomo con «modi più soldateschi e ricordi dalle trincee». Il capo della sinistra ha risposto: «Credo siano pronti per un premier responsabile e prudente, pronto a prendere decisioni al di là della retorica e delle mosse spettacolo». I sondaggi sembrano essere d’accordo con lui: è il primo leader laburista in quindici anni (da quando Barak sconfisse proprio Netanyahu) a rimanere sopra i 20 seggi (gli ultimi rilevamenti ne calcolano 24-25, quattro in più del premier in carica).
Ben Caspit sul quotidiano Maariv fa notare quanto l’atmosfera sia cambiata: «Herzog — ironizza l’editorialista — ha potuto presentarsi per una manifestazione ad Ashdod senza blindati e senza scorta». La città portuale è sempre stata la fortezza elettorale del Likud ma gli attivisti della destra sembrano già in ritirata, convinti che in parte i voti conservatori andranno a Moshe Kahlon, una transfuga dal partito, l’ex ministro delle Telecomunicazioni (con Netanyahu) che tutti gli israeliani ancora ringraziano per aver liberalizzato il mercato della telefonia mobile: prezzi più bassi e concorrenza a vantaggio dei consumatori.
Al comizio finale di Netanyahu, ieri sera in piazza Rabin, luogo simbolo della sinistra, la maggior parte dei quasi 15 mila partecipanti era rappresentata dai coloni nazionalisti. La destra moderata e quegli elettori di centro che ormai decidono le elezioni sono rimasti a casa. Il rischio per il premier è che lo facciano anche domani.

Repubblica 16.2.15
Il dilemma dei due Stati nelle urne di Israele
La terra contesa tra due popoli una sfida infinita all’ombra del voto
di Bernardo Valli


GERUSALEMME È COME la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale, me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono, moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)?
I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman (Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate.
IL TEMA della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società.
Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati. L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma salva dal peggio.
La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano (come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una questione di vita o di morte per Israele.
Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere deli- nearsi tra il mare e il fiume Giordano uno Stato arabo. L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana, riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza, affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile appuntamento della divisione. Quella di Amos Oz può essere presa come una visione romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi.
Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove colonie o di espropriare terre per quelle esistenti». I coloni nei territori occupati sono 350 mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di Israele.
Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo. E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito: «Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo? ». In realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione?
Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano. Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe appunto essere la capitale.
La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato. L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione, creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese. Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli aiuti alla Palestina.
Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco. Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno, sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale.

Corriere 16.2.15
Il discorso di Tsipras le responsabilità tedesche
risponde Sergio Romano


Sebbene la questione delle riparazioni di guerra alla Grecia da parte della Germania
sia vista come un tentativo di ricatto e sconfini nella polemica sterile, la minaccia di sequestro di beni tedeschi a riparazione di un massacro della Wehrmacht a Distomo nel 1944 e delle distruzioni provocate da quattro anni di occupazione, sta provocando irritazione e qualche preoccupazione nei palazzi della politica berlinese.
Alessandro Prandi

Caro Prandi,
Il discorso che il presidente del Consiglio greco ha pronunciato in Parlamento il 10 marzo merita qualche osservazione. Tsipras sa che il problema dei debiti tedeschi fu risolto dal Trattato di Londra del 1953 con una formula che riduceva di circa il 50% l’ammontare della somma dovuta. Una concessione troppo generosa? Le ragioni di quella «generosità» erano almeno due. In primo luogo una Germania ricostruita ed economicamente dinamica rispondeva allora, dopo l’inizio della Guerra fredda, alle esigenze delle democrazie occidentali e, in particolare, della Grecia, più esposta di altre alla minaccia sovietica. In secondo luogo tutti sapevano, finalmente, che gli esorbitanti indennizzi pretesi dalla Germania, dopo la fine della Grande guerra, avevano favorito il revanscismo tedesco e l’avvento di Hitler al potere.
Allo stesso modo Tsipras non ignora (lo ha riconosciuto nel suo discorso) che qualche anno dopo, nel 1960, la Germania aveva indennizzato le vittime del nazismo con la somma di 115 milioni di marchi e che il governo greco di allora aveva dichiarato di non avere altre pretese. Ma sostiene ora che quegli indennizzi concernevano le vittime dell’occupazione, non i danni sofferti dalle infrastrutture e, più generalmente, dal territorio nazionale. Non è sorprendente, in queste circostanze, che la Germania rifiuti di riaprire un partita ormai chiusa.
Vi è almeno un’altra ragione per cui il discorso del premier greco non è piaciuto a Berlino e non dovrebbe piacere neppure ad altri membri dell’Unione Europea. Tsipras ha presentato le sue richieste come un omaggio alle vittime del Terzo Reich e la necessaria continuazione di una lotta, mai definitivamente conclusa, contro il fascismo e il nazismo. Ha cercato di addolcire l’argomento ricordando i danni e le umiliazioni subiti dalla Germania. Ma una richiesta di denaro indirizzata oggi ai tedeschi dimostra che il passaggio del tempo e la generosità di cui hanno dato prova in molte circostanze non li rendono meno responsabili, agli occhi del governo greco, di quanto è accaduto nella prima metà del Novecento. Tsipras dimentica in questo modo quanti benefici la Grecia abbia tratto dalla politica di riconciliazione praticata in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non vi sarebbero stati settant’anni di pace e grandi progetti comuni come quello dell’integrazione europea, se non avessimo avuto il coraggio di chiudere le vecchie partite ereditate dal conflitto.
Un’ultima considerazione, caro Prandi. Temo che il discorso di Tsipras, con le sue richieste indirizzate alla Germania, cerchi di nascondere le responsabilità greche degli ultimi decenni. Possiamo e dobbiamo aiutare la Grecia a uscire dalla crisi, ma soltanto se è consapevole dei suoi errori e non cerca di mascherarli parlando d’altro.

Repubblica 16.3.15
Il futuro dell’Europa passa dagli investimenti pubblici puntiamo sul piano Varoufakis
di Mariana Mazzuccato


ILPRINCIPALEp roblema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi.
OVVERO tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli.
Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi.
Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto.
Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro.
Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare.
Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e invefakis maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact.
È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varou- viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forstono ti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione.
Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 16.3.15
Dall’Islam all’Apocalisse anatomia del Califfato

Ecco cos’è, cosa vuole e come si può sconfiggere
di Graeme Wood


L’Is ha bisogno di una giurisdizione e di un governo. Ed è davvero islamico. Fingere che non lo sia e confonderlo con Al Qaeda ha portato gli Stati Uniti a decisioni insensate Identifica il nemico in “Roma”, ossia l’esercito di infedeli, americani in primis. Crede che sconfiggerli a Dabiq, in Siria inizierà il conto alla rovescia alla “Fine dei giorni”

COS’È lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la risposta.
Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di cui sino all’estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata risalente all’occupazione dell’Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi, non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l’arrivo dei jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti.
Per certi versi la nostra ignoranza sull’Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita; pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se ne può dedurre che l’Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del mondo.
Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e Al Sham (Isis), s’ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono aiutare l’Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il comportamento.
Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto, tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a un’organizzazione che l’ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di “sceicco”. Dai tempi d’oro di Al Qaeda (1998-2003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle autonome. L’Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi dall’alto.
Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War Inc. in parte per sottolineare l’appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall’Arabia Saudita. I suoi uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire, Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut.
Quasi tutte le decisioni dell’Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle targhe e sulle monete, “la metodologia profetica”. La maggior parte delle iniziative del gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l’Apocalisse. La realtà è che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell’Islam. Quasi tutte le sue leggi aderiscono alla “metodologia profetica”, il che significa attenersi meticolosamente alla profezia e all’esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere la genealogia intellettuale dell’Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore.
I. DEVOZIONE
Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato capo di Al-Qaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato progenitore, seguito nell’ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo oftalmico egiziano che attualmente dirige Al-Qaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti.
Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di 55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l’architetto intellettuale di Al Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d’accordo. Entrambi sono strettamente identificati con l’ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato salafismo dall’arabo “al salaf al salih”, i “pii antenati”. Questi antenati sono il Profeta in persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale.
Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l’apostasia è la morte e Al Zarqawi aveva ampliato sconsideratamente l’elenco di comportamenti che potevano fare di un musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l’Is è votato alla purificazione del mondo tramite l’uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli “apostati” musulmani sono le vittime più frequenti. Risparmiati dall’esecuzione automatica sembra siano i cristiani che non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di versare un’imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L’autorità coranica per questa pratica non è messa in discussione.
Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell’ascesa dello Stato Islamico può dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l’ideologia riflette un altro pregiudizio occidentale: che, se a Washington o a Berlino l’ideologia religiosa non ha un gran peso, lo stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto esclama “Allahu Akbar” nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi.
Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato Islamico sia, in realtà, non-islamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico non-islamico sono, come mi ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria religione » che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede». Molte smentite della natura religiosa dell’Is affondano e proprie radici in una «tradizione-interconfessionale- cristiana-priva di fondamento», ha detto.
Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all’obiettivo e ripetono i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno inin- terrottamente». Haykel considera l’idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell’Islam insensata e sostenibile solo grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l’Islam», dice. «È come un mantra: “l’Islam è una religione di pace”. Come se si potesse parlare di “Islam”! L’Islam è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i musulmani sunniti, non solo all’Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri».
Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta erano pensate per un’epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell’Is si rifanno del tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell’Is «si pongono al centro della tradizione medievale, e la smerciano all’ingrosso».
La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a compiere decisioni pericolose.
II. TERRITORIO
Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia, Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono morire.
Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due “nuove autorità spirituali” che inducono gli stranieri a unirsi all’Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota Iqraan . L’ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica attraverso Facebook e Twitter.
Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è stato dichiarato Califfo e l’improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e, mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?».
L’ultimo Califfato è stato l’impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti sostenitori dell’Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta.
Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un’entità politica ma anche un veicolo di salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di baya’a , fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire jahil , nell’ignoranza, e quindi a “morire nel dubbio”. Considerate quale sorte i musulmani (o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver riconosciuto l’unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente. Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica.
III. L’APOCALISSE
Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l’unico a conoscere il futuro. Ma sono anche concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più netta distinzione tra l’Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita definizione della natura religiosa della sua missione.
Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi concreti rimangono sempre chiari: l’espulsione dei non-musulmani dalla Penisola araba, l’abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani. Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse.
Durante gli ultimi anni dell’occupazione Usa dell’Iraq, gli immediati padri fondatori dello Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell’Islam verranno loro incontro e Dabiq per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza all’idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto.
Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene identificato in Roma. A cosa possa corrispondere “Roma” adesso che il Papa non ha più un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse l’Impero romano di Oriente, la cui capitale era l’attuale Istanbul. Dovremmo dunque considerare Roma la Turchia, la stessa che novant’anni fa pose fine all’ultimo autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi esercito di infedeli, americani in primis , potrebbe rappresentare Roma.
IV. LA LOTTA
La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte, ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare ed espandersi.
Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l’Is attraverso i curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie non hanno cacciato l’Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che vi abitano.
Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno chiesto a gran voce un inasprimento dell’offensiva e reclamato il dispiegamento di decine di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo frettolosamente: un’organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla.
Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell’Iraq attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un’autorità territoriale. L’Is potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte.
Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e agente dell’Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed ecco i risultati.
Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico, incrementando ad un tratto l’unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione.
V. DISSUASIONE
Definire il problema dello Stato Islamico “un problema con l’Islam” sarebbe facile, addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell’Is sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo Stato Islamico come non-islamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano chiaramente molte delle pratiche del Califfato.
I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in contraddizione con il Corano e l’esempio del Profeta. «L’unica posizione fondata che gli oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare — afferma Bernard Haykel — è quella di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell’Islam non sono più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia.
I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «non-islamico». Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i nonmusulmani sciovinisti che tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi.
Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a detestare Hitler»; qualcosa in quell’uomo emanava un’aria da perdente, anche quando le sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere, soprattutto quando è al tempo stesso un peso. ( © 2-015 the Atlantic Media co.
Distribuito da Tribune Content Agency.
(Traduzione di Marzia Porta)

Il Sole 16.3.15
Investimenti. Dal 2015 Pechino ha speso 5 miliardi di dollari
L’euro più debole attira in Europa i capitali della Cina
Dall’inizio di marzo la moneta unica ha perso il 25% sul renmimbi
di Rita Fatiguso


Pechino L’euro ridotto all'osso sul renminbi spinge le imprese cinesi a intensificare gli investimenti in Europa.
A marzo la moneta unica ha perso il 25% sulla valuta cinese rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, e per giunta sul mese prossimo si scaricherà anche l'effetto QE della Banca centrale europea: tutte ottime ragioni per intensificare le mosse in una delle aree del mondo a più alto valore aggiunto per le imprese cinesi, affamate di tecnologia e di soluzioni avanzate soprattutto in piazze politicamente stabili.
Le operazioni di acquisizione di Club Med e Louvre Hotels Group, rispettivamente per 4,3 miliardi e 1,5 miliardi di dollari, dimostrano che il 2015 si è aperto alla grande per gli investimenti cinesi. Non solo. Nell’Unione europea nei servizi finanziari sono stati investiti più di 2 miliardi di dollari di provenienza cinese, specie negli ultimi due anni, grazie alla progressiva liberalizzazione finanziaria e a nuove opportunità legate all’internazionalizzazione del renminbi. La Cina, inoltre, sta perfezionando il sistema di scambi internazionali cross-border e in Europa ha ormai le sue roccaforti - Londra, Francoforte, Parigi - che stanno diventando hub finanziari necessari a rendere più agevoli le operazioni effettuate tra Cina ed Europa. Non a caso il magnate Wang Jianlin creatore dell’impero Wanda Dalian ha appena eletto la Gran Bretagna sua meta preferita per gli affari.
Snocciola i dati Marco Marazzi di Baker & Mckenzie, avvocato esperto di operazioni crossborder, che ha coordinato un dossier sul tema: «Gli investimenti cinesi l’anno scorso sono stati pari a 18 miliardi di dollari, raddoppiati rispetto al 2013; 153 operazioni con tre settori in prima linea: l’alimentare, il settore energetico e l’immobiliare. Il Regno Unito con 5,1 miliardi è stato il primo mercato, seguito dall’Italia con 3,5 miliardi e poi dai Paesi Bassi con 2,3 miliardi. Segno che gli investitori cinesi stanno chiaramente sfruttando le opportunità sui mercati più soggetti ad instabilità economica, ma continuano a non sottovalutare il vantaggio di investire in Paesi più stabili politicamente».
La crescita, nel 2014, è stata trainata dagli investimenti in nuovi settori tra cui il real estate, il food, i settori finanziari. Big come Pizza Express nel Regno Unito e Peugeot Citroen in Francia tra le società destinatarie dei maggiori investimenti cinesi nel 2014.
E l’Italia? Il 2014 è stato un anno eccezionale, se paragonato ai parametri usati per i vini: nel 2014 è stata il primo mercato dell’Eurozona: ben 2,490 miliardi nell’energia, 598 milioni nei macchinari industriali, a seguire nel settore alimentare e agrobusiness 50 milioni e nei prodotti di consumo 32. Gli investimenti diretti cinesi erano quasi inesistenti fino al 2004, poi la media è stata di poco meno di 1 miliardo all’anno. A partire dal 2009 i flussi d’investimento sono triplicati a quasi 3 miliardi, prima di triplicare ancora nel 2010 oltre i 10 miliardi. In totale dal 2009 i flussi d’investimenti cinesi in Europa sono stati di 55 miliardi.
Aziende del made in Italy, asset immobiliari a Milano e Roma, hotel e resort, turismo, moda e aziende tecnologiche sono nel mirino. Gli affari con un valore superiore a un miliardo rappresentano ancora la maggior quota sul totale degli investimenti cinesi in Europa, le piccole (sotto i 100 milioni) e medie (tra 100 milioni e 1 miliardo) operazioni di M&A sono cresciute molto a partire dal 2011, anche perché meno rischiose. La Cina deve ancora sbrogliare il nodo del porto del Pireo, un deal rimasto incagliato nelle turbolenze della crisi della Grecia. I cinesi però guardano alla logistica e ai servizi pubblici e a differenza di un tempo accettano di acquistare quote nel capitale senza più l’idea fissa di dover acquistarne la totalità.
Toby Clark, a capo dell’Investment Banking di CICC Europe, dice che «le ultime operazioni denotano un salto di qualità da parte dei cinesi nelle loro politiche di investimenti diretti». Va ricordato che il governo cinese sta già applicando le nuove strategie taglia burocrazia, incluso l’ok un tempo sacro della Safe, l’autorità che si occupa della valuta estera.
Una cosa è certa: gli investimenti immobiliari commerciali in Europa hanno compensato la flessione del settore energia. Da zero a prima del 2013, nel corso del 2014 gli investimenti cinesi nel real estate commerciale europeo sono saliti ai 3 miliardi nel 2014. Senza contare gli investimenti per progetti di sviluppo futuri. Ma occhio anche allo shopping alimentare: l’olio italiano Doc Filippo Berio comprato dagli shanghaiesi di Brightfood è un precedente che farà scuola.

domenica 15 marzo 2015

Il Sole 15.3.15
Le riforme e la destra
Di quale opposizione ha bisogno l’Italia
di Luca Ricolfi


Sono passati più di vent’anni da quando, con la discesa in campo di Berluconi (1994) e l’abbandono del fascismo da parte di Fini (1995), “essere di destra” ha cessato di essere un tratto inconfessabile. In questi lunghi anni la destra è stata un po’ al governo, un po’ all’opposizione, ma la sua legittimità e il suo ruolo non sono mai stati veramente in discussione.
Oggi le cose stanno cambiando. Non perché gli italiani stiano tornando a demonizzare la destra, ma perché la destra, o meglio le forze politiche che pretendono di rappresentarla, stanno accuratamente distruggendo quel poco che in vent’anni erano riuscite a costruire.
Lo spettacolo è davvero penoso. La Lega di Salvini ha dimenticato di botto le sue radici federaliste, liberiste e anti-centraliste, e si sta ridefinendo essenzialmente come forza anti-immigrati e anti-Europa. In questo processo, che per ora la premia elettoralmente, ha già perso un pezzo dell’elettorato veneto e un leader importante, come il sindaco di Verona Flavio Tosi. Del partito di Alfano non è neppure il caso di parlare, tanto la sua immagine è schiacciata su quella del governo, di cui appare come una semplice e pallida ombra. Resterebbe Forza Italia, ma non è chiaro neppure quante siano le fazioni che se ne contendono le spoglie, dopo che il patto del Nazareno ha innescato la balcanizzazione del partito.
Qualcuno ora ipotizza che, tornato libero (fine dell’affidamento ai servizi sociali) e resuscitato politicamente (assoluzione nel processo Rubi), Berlusconi possa rimettere insieme i cocci del suo partito, rilanciare Forza Italia, e da quella posizione tornare a svolgere il ruolo di federatore del centro-destra. Sarò ingenuo, ma mi sfugge completamente come una tale operazione possa andare in porto.
Contro la ricostituzione di uno schieramento di centro-destra, capace di contendere il governo a Renzi, militano ragioni minori ovvie, e ragioni maggiori forse meno ovvie. Fra le ragioni ovvie: le 6-7 fazioni in campo sono litigiose e avide di potere; Berlusconi non si farà da parte, ma ormai la sua presenza è un “valore sottratto” più che un valore aggiunto; il premio di maggioranza previsto dall’Italicum non va alla coalizione ma al partito (un’incredibile concessione di Berlusconi al Pd di Renzi).
Ci sono però anche ragioni più serie, ovvero più strutturali, per cui la ricostituzione di un’opposizione di destra credibile, competitiva con il “partito di Renzi”, appare oggi un’impresa disperata.
Le riassumerei con una domanda: c’è bisogno di una destra oggi in Italia?
Per certi versi sì, su terreni secondari come le politiche dell’immigrazione, o la lotta contro la criminalità, in cui è chiaro che il duo Renzi-Alfano non è in grado di intercettare il sentimento di tanti elettori, sconcertati dall’impotenza dello Stato di fronte al mancato rispetto delle regole.
Ma sulle cose fondamentali, sulle cose da cui dipende il futuro economico-sociale del Paese, forse non è una ricomposizione dello schieramento di destra quello che manca all’Italia. È vero, quello di cui avremmo bisogno è una scossa di tipo liberale al sistema, che faccia dimagrire lo Stato e ridia ossigeno ai produttori.
Il punto, però, è che, quando ha governato, la destra non è mai stata né capace né incline a fornire una tale scossa. E quel poco (e spesso pasticciato) che Renzi sta facendo in questa direzione, è comunque di più di quello che la destra ha saputo fare quando era al comando.
Il dramma dell’Italia è che né la destra né la sinistra hanno una matrice liberale, ma la sua anomalia – ciò che rende, anche in questo, eccezionale il nostro straordinario paese – è che la destra, questo carrozzone che ora Berlusconi si accinge a rimettere in cammino, è ancora meno liberale della sinistra. Detto più esplicitamente, e ancora più crudamente: nulla assicura che, se andasse al governo, l’ennesima ammucchiata guidata da Berlusconi non finirebbe, come in passato, di lasciarsi paralizzare dai contrasti interni.
Questo significa che Renzi va lasciato lavorare in pace, e che non c’è alcun bisogno di un’opposizione?
Tutt’altro, di un’opposizione c’è sicuramente bisogno. Il mio dubbio è che l’opposizione che servirebbe oggi in Italia sia un’opposizione di destra. Renzi è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio a un’opposizione dello stesso tipo. Pensate a quel che ha fatto o sta facendo sulla Costituzione, la legge elettorale, l’articolo 18, i tagli alla spesa pubblica, la riduzione dell’Irap, gli sgravi sul costo del lavoro, la riforma della magistratura (responsabilità civile dei giudici), la gerarchia nella scuola (potere di assunzione ai presidi). Vi sembrano cose di sinistra?
No, sono cose ragionevoli, più che ragionevoli, ma abbastanza di destra. Tutta la destra che l'Italia può realisticamente concedersi sta già nell’agenda di Renzi. E infatti Renzi miete consensi anche nell’elettorato tradizionale della destra, fra i lavoratori autonomi, i professionisti, gli imprenditori.
Il punto debole di Renzi, sul piano sociale, sono gli esclusi, gli outsider, le donne e i giovani cui ama rivolgersi ma per i quali sta facendo pochissimo. Impegnato com’è a catturare il consenso di entrambe le basi sociali, quella tradizionale della sinistra (con gli 80 euro in busta paga) e quella tradizionale della destra (con il Jobs Act), Renzi sta scordando la Terza società, fatta di disoccupati, lavoratori in nero, donne e giovani “scoraggiati” che un lavoro non lo cercano più perché hanno perso ogni speranza di trovarlo. Sono 10 milioni di persone, cui pensano in pochi, e che non sembrano interessare né la destra né la sinistra, né il governo né l’opposizione, né i populisti alla Grillo né i nostalgici alla Landini e Cofferati.
Ecco perché dico che ci vorrebbe una vera opposizione, ma nulla fa pensare che avremo il piacere di vederne presto una in campo.

Corriere 15.3.15
La coalizione di Landini sfida Renzi
Prima mossa: i referendum sui diritti
La strategia del leader spiegata nell’incontro (a porte chiuse). Si parte dal Jobs act
di Lorenzo Salvia


ROMA «Loro hanno già deciso lo schema, il sindacalista che si presenta alle elezioni perché ha i voti. Anzi, hanno deciso pure quali calzini e quali mutande dobbiamo metterci. Ecco: questo è il modo migliore per evitare che nasca qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Maurizio Landini scandirà pure le parole, come ogni sindacalista (e politico) che si rispetti. Ma stavolta la voce del segretario della Fiom si sente appena. È che bisogna appostarsi dietro la cancellata, tendere le orecchie, approfittare di una finestra lasciata aperta nella sala laggiù al seminterrato. Insomma, origliare.
Avevano detto che sarebbe stato a porte chiuse il primo appuntamento della coalizione sociale, la «vasta alleanza» di movimenti per costruire un’alternativa al governo Renzi. E, finestra a parte, sono di parola. Gli uomini con il felpone rosso e la scritta Fiom vigilano sull’ingresso della sede di corso Trieste. Quando comincia a piovere si muovono a pietà e fanno entrare i giornalisti nell’androne. Ma se qualcuno chiede di andare al bagno lo accompagnano fin sull’uscio e poi aspettano. Non si sa mai. Giù nella sala, Landini arriva alle conclusioni, dopo cinque ore di interventi divisi tra una ottantina di associazioni, da Arci a Libertà e Giustizia, passando per Emergency, dove le parole ricorrenti sono «mutuo soccorso» e «narrazione»: «Dobbiamo batterci — dice il segretario dei metalmeccanici Cgil — per creare un consenso nella testa delle persone e non farci trascinare sul terreno di una politica intesa come lobby, come proprietà privata».
Poi, quando ripete a favore di telecamera, sceglie un tono altrettanto netto ma un po’ più ecumenico. Parla di «discussione inclusiva», dice che «vogliamo unire tutto ciò che il governo sta dividendo». Aggiunge che «bisogna rinnovare il sindacato contro chi lo vuole cancellare» e torna a smentire l’idea di voler fondare un partito: «Non conosco questa parola. Chiedetelo a Speranza (capogruppo Pd alla Camera, ndr ), è lui che fa politica. Noi facciamo sindacato». Ma la risposta gli arriverà più tardi dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerrini: «Si conferma che l’opposizione di questi mesi era più politica che sindacale».
L’avversario di Landini non tanto è la sinistra Pd, e nemmeno quella indefinita galassia a sinistra del partito. Per ora i suoi sforzi si concentrano proprio sul governo e i renziani: «Vorrei ricordare — scandisce e stavolta si sente bene — che siamo di fronte a una novità assoluta: non era mai successo che il governo cancellasse dei diritti senza un confronto con i sindacati e le persone interessate». Il punto è proprio questo. Perché la coalizione sociale proseguirà i suoi lavori con il solito metodo dei tavoli per arrivare ad una proposta sui singoli temi, dalla scuola all’ambiente. Ma il cuore di tutto è il lavoro: «È il tema più trasversale, perché riguarda tutti e perché non si parla solo di regole, di decreti e di Jobs act , ma della vita delle persone. La qualità del lavoro è la condizione per gli altri diritti di cittadinanza». La raccolta di firme per il referendum abrogativo sul Jobs act non solo è una certezza. Ma potrebbe diventare la prima di una serie che toccherebbe altri temi. Fare politica ma fuori dal Parlamento. Non a caso tra le associazioni invitate ci sono anche i promotori del referendum (vinto e archiviato) sull’acqua pubblica. «È chiaro che se nelle Camere nessuno ci ascolta quella è una strada», chiarisce Landini.
Anche per questo le porte restano chiuse a chi ha incarichi politici. Anche per i parlamentari ex Movimento 5 stelle: nella sede di Fiom si presentano Laura Bencini, Maria Mussini e Maurizio Romani. Ma dopo meno di due ore lasciano la sala, invitati ad uscire proprio per rispettare il «divieto». Quelli di Sel, che tanto volevano esserci, evitano di farsi vedere. Si affaccia qualche ex, come Alfonso Gianni, un passato in Rifondazione. Ma è solo un attimo. Almeno in prima linea Landini non vuole la vecchia sinistra Arcobaleno. Anche se sociale, coalizione fa sempre rima con rottamazione.

La Stampa 15.3.15
Landini in movimento
“Il Pd cancella diritti, io provo a difenderli”
Speranza lo aveva attaccato: le urla non servono
di Roberto Giovannini


Un partito non è, una lista elettorale neanche. L’assemblea (a porte chiuse) di ieri non è l’avvio di Podemos o Syriza all’italiana. Ma solo «una chiacchierata» che apre la strada alla nascita della «coalizione sociale» fatta di movimenti e associazioni che fuori dai partiti - ma nella società - affianchi e sostenga le ragioni dei lavoratori, che il Pd ha ormai abbandonato. Ancora non si sa in che modo evolverà la «cosa» concepita dal leader della Fiom Maurizio Landini. Ma è evidente a tutti l’impatto politico di un’operazione che potenzialmente potrebbe riconfigurare la sinistra, riaggregando il vasto campo che non si riconosce nelle scelte politiche e nelle riforme di Matteo Renzi e del suo governo. Un’iniziativa che avrà presto la «controprova» della piazza, con la manifestazione contro il «Jobs Act» di sabato 28 marzo a Roma. Che crea problemi a tutto il Pd, e grandissimi imbarazzi alla Cgil di Susanna Camusso.
Nella sede nazionale della Fiom ieri c’erano rappresentanti di tante realtà: da Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21, ma anche categorie professionali. L’unica «politica», la senatrice ex-M5S Maria Mussini. Landini ha spiegato che il cantiere della «coalizione sociale» ha l’obiettivo di «mettere nelle condizioni di poter difendere i diritti» di tutti, «diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme». Per cui - se il capogruppo Pd Speranza lo attacca, «le urla di Landini non servono» - lui risponde che «non era mai successo dal dopoguerra che un governo facesse leggi che cancellano i diritti senza consultare i diretti interessati né i sindacati, che semmai c’è l’intenzione di cancellare». Ma anche diritti sociali e civili, antimafia, ambiente, «la politica non è proprietà privata». Di partito non se ne parla, giura Landini, e in ogni caso le critiche del Pd (sinistra bersaniana compresa) valgono poco: «Vorrei ricordare - dice - che una parte del Pd ha votato per la cancellazione dello Statuto dei Lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla». E la Fiom? «Facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale. Agiremo sui luoghi di lavoro per riconquistare i contratti. Ma cambiare le leggi vuol dire fare proposte per costruire un consenso. E se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene si cambia».
Matteo Renzi sembra convinto che molto presto la «coalizione sociale» diventerà una cosa più concreta. «Si dimostra che l’opposizione della Fiom di questi mesi, era politica non sindacale», è la tesi del premier e dei renziani, che a questo punto vogliono cambiare le regole sindacali varando una legge sulla rappresentanza sindacale e attuando l’articolo 39 della Costituzione. Il problema più serio per adesso però ce l’ha la Cgil e il suo leader Susanna Camusso. Nessun commento ieri dal segretario generale, in visita con degli studenti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ma in Cgil ormai c’è palese preoccupazione, perché Landini sta chiaramente superando le «linee rosse». «La Cgil non può fare un partito politico, una corrente di un partito, né essere mallevadore di un movimento politico», disse a suo tempo il segretario. E Landini - sia pure giurando di non farlo - certamente è andato oltre. Mettendo a rischio l’autonomia della Cgil, e indebolendo la Confederazione nei confronti degli altri sindacati, delle controparti. E anche verso un governo che già non nasconde la sua ostilità.

il Fatto 15.3.15
È Landini l’antiRenzi. C’è e spara sul Pd
La “Coalizione sociale” varata dal segretario Fiom prende forma già in piazza il 28
Ad aprile è prevista anche una “Leopolda rossa”
di Salvatore Cannavò


Il leader Fiom a testa bassa contro il Pd: “Distrugge i diritti, la politica non è una cosa privata”. E lancia la sua “Leopolda rossa”. Guerini: “La sua è opposizione politica”. Il piano di Matteo per uccidere prima la destra e poi la minoranza interna
Cosa sarà davvero la “coalizione sociale” di Maurizio Landini si capirà un po’ alla volta. Quello che è chiaro da ieri, giorno in cui il segretario della Fiom ha riunito alcune decine di associazioni, strutture sociali, singole persone in una sede Fiom assediata dai giornalisti, è che la Coalizione è stata avviata e che ha un avversario molto preciso: il governo Renzi e le politiche europee di cui è portatore.
“NOI NON ACCETTEREMO il terreno che ci è imposto da altri”, ha precisato il leader sindacale nelle conclusioni. “Vogliono decidere come siamo vestiti, quali mutande portiamo, che calzini indossiamo. È il modo migliore per evitare che nasca la coalizione sociale”. Il riferimento è al Corriere della Sera che ha parlato di un “progetto Podemos”, un modo per alludere “a un perimetro ristretto e poi depotenziarlo”. Lo stesso atteggiamento assunto da Matteo Renzi quando ha parlato di un Landini “sconfitto che si butta in politica”.
La strada del “partito”, però, è esclusa: “Chi ha in mente questa soluzione può anche andarsene”, dice all’inizio della sua introduzione. E, non si sa se, folgorati dalla frase, i primi a lasciare la sala saranno proprio i due senatori ex M5S, Maria Mussini e Maurizio Romani, ospiti inaspettati e che abbandoneranno i lavori dopo circa mezz’ora. Di partiti non si vede traccia. Non c’è Sel né il Prc. Sarà presente Alfonso Gianni, già stretto collaboratore di Fausto Bertinotti e poi sottosegretario nel governo Prodi, oggi attivo nell’Altra Europa con Tsipras. Ma è una presenza individuale. Il grosso dei partecipanti compone una rete di associazioni più o meno grandi, più o meno radicali. C’è Libera con Gabriella Stramaccioni anche se la struttura, come spiegato ieri al Fatto da don Luigi Ciotti non farà parte in quanto tale della Coalizione. Ma non è un caso che la sua campagna “100 giorni per un reddito di dignità” sia tra le prime misure proposte ieri. Avrebbe dovuto intervenire da Milano via streaming Cecilia Strada, ma un guasto ha impedito il collegamento. L’Arci è rappresentata da Filippo Mira-glia che mette a disposizione i suoi circoli per pratiche mutualistiche; c’è Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, Legambiente, il Forum per l’acqua pubblica, ma anche i centri sociali che hanno dato vita allo Strike Meeting, quelli del nord-est, gli studenti della Rete della conoscenza e dell’Udu, la Flc-Cgil, i Comitati “Per una buona scuola”, l’associazione di avvocati free lance e i parafarmacisti, la fabbrica recuperata Rimaflow che sta organizzando una Casa del Mututo soccorso.
Nessuna “costituente di un nuovo partito” e nemmeno una iniziativa in cui “cinque decidono il progetto” spiega Landini. La Coalizione potrebbe divenire una “associazione di associazioni” ma anche uno spazio in cui dare spazio a singoli e personalità. Del resto, tra le figure finora coinvolte da Landini ci sono nomi come Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, Gino Strada, Sergio Cofferati. L’importante è che ci sia “un programma condiviso tra soggetti diversi” e “un’azione collettiva” contro le politiche di austerità in Europa e in Italia, da radicare sui territori. Offrire di nuovo “il diritto alla coalizione” a chi lavora ma anche a chi, ad esempio , difende l’ambiente.
Il problema del rapporto con la politica è però presente. In diversi invitano a non contrapporsi alla sinistra esistente, in particolare le strutture più legate a Sel. Landini chiude dicendo che non c’è contrapposizione con i partiti ma la politica che propone è quella basata su un mix di “programma e iniziative: avremo successo se avremo consenso”.
Il progetto non sarà semplice anche perché, al momento, poggia sulle spalle della sola Fiom dove, però, sono convinti che “ne valga la pena”. Qualche segnale positivo è giunto dalla Cgil, ieri assente, ma con alcune strutture che hanno aderito alla manifestazione del 28 marzo lanciata dalla Fiom: sono la Cgil dell’Emilia Romagna, la Flc, il sindacato di scuola e università, e la Fisac-Cgil del Lazio. E il rapporto con la Cgil resta decisivo. “Anche il sindacato ha bisogno di rinnovarsi” ripete il segretario Fiom e non è un mistero che questa sua iniziativa sia rivolta a offrire una via d’uscita dalla sconfitta subita sul Jobs Act e alle difficoltà che il sindacato sta vivendo.
Quello del 28 marzo sarà un appuntamento rilevante. Landini precisa che la Coalizione non deve cercare la prova della piazza a tutti i costi, non ora, e l’appuntamento, “Unions”, è stato già indetto dalla Fiom. Lo scontro con Renzi, sarà evidente, come dimostra il nuovo attacco mosso ieri al premier e al Pd: “Nel silenzio si distruggono i diritti”.
PRIMA DEL 28, la coalizione si farà europea partecipando al Blockupy di Francoforte contro la Bce. Il 21 marzo ci sarà invece la giornata per ricordare le vittime di tutte le mafie, promossa da Libera a Bologna. Ma il primo vero appuntamento nazionale, una sorta di “Leopolda sociale” si svolgerà a metà aprile presso un albergo confiscato alle mafie nei pressi di Roma. Sarà una grande assemblea con tavoli tematici e l’occasione, quindi, per mettere a punto programma e iniziative future. Poi, propone Landini alla costituenda Coalizione, ci sarà il 25 aprile a Milano e il 2 giugno a Bologna, in difesa della Costituzione . Infine, il radicamento territoriale. La proposta è di organizzare Coalizioni sociali a livello di base: si cita l’esempio del Fondo di solidarietà creato a Pomigliano ma anche Milano dove la festa della Fiom presso la fabbrica recuperata Rimaflow potrebbe divenire una festa della Coalizione sociale.

Corriere 15.3.15
Landini e Camusso, la corsa a ostacoli per conquistare i cuori dei nuovi lavoratori


Nel suo progetto di allargamento della rappresentanza sociale la Fiom di Maurizio Landini pensa di poter recuperare il rapporto con i nuovi lavori e i giovani. Il rinnovamento del sindacato a cui il leader accenna da giorni è questo: da qui la parola d’ordine di un nuovo Statuto del lavoro che probabilmente comprende anche il reddito di cittadinanza caro ai grillini.
   Anche in casa Cgil la riflessione si muove lungo lo stesso filone. C’è stato finora qualche timido accenno a una contrattazione di filiera, che riconduca al soggetto sindacale «forte» la rappresentanza dei lavori di fornitura a metà tra l’autonomo e il dipendente, compresi quelli a più spiccata valenza professionale. A metà aprile dovrebbe essere presentata un’importante indagine della Cgil sulle partite Iva e a quel punto sarà più chiaro l’orientamento di Susanna Camusso.    Che dire? Da un lato è positivo che anche sindacati molto tradizionalisti abbiano maturato la convinzione dei profondi mutamenti che attraversano e ridisegnano il vecchio processo produttivo. Fino a ieri erano soliti tacciare questi argomenti come un’elaborazione di destra e anti-sindacale.    Dall’altro lato sarà interessante capire se una rivisitazione della rappresentanza in stile Novecento è in grado di interessare le nuove leve del lavoro e i professionisti della conoscenza. L’impressione è che il passaggio di secolo corrisponda anche al farsi largo di un’altra visione in cui l’affermazione di un progetto professionale ha la meglio sull’idea di produrre massa critica per via sindacale.    Insomma, la mobilitazione individuale, magari arricchita dalla capacità di fare networking, pare essere il linguaggio prevalente e la mobilitazione collettiva quando vive è fatta più di flash mob e tweetbombing che di tessere sindacali. E i luoghi deputati a narrare il lavoro ibrido sembrano essere più i coworking e i fablab che le sedi Fiom. Ma siamo solo al primo atto: e non è giusto affrettare le conclusioni.

il Fatto 15.3.15
Il segretario di Prc Paolo Ferrero
“Unire anche la sinistra politica”
di Sal Can.


Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, plaude a Landini ma dice anche che “la sinistra politica deve comunque unirsi”. Ferrero è di ritorno da Atene dove, su invito di Syriza, ha partecipato alla presidenza della Sinistra europea, la coalizione che riunisce forze come la Linke tedesca, il Pcf francese e altri ancora.
Che situazione ha trovato in Grecia?
All’interno di Syriza c’è la consapevolezza della durezza della trattativa e della necessità di un movimento in tutta Europa per non rimanere soli. I pochi margini di manovra strappati finora, molto esili ma esistenti, serviranno a una serie di leggi sociali come quella di contrasto alla povertà estrema che sta per essere varata.
Tsipras ha avuto, però, diverse contestazioni interne al suo stesso partito.
Sì, ma nei colloqui che ho avuto con la sinistra di Syriza, si respira un’aria di grande lealtà: c’è la critica per le concessioni fatte alla Ue, ma si sta parlando comunque del proprio governo.
Cosa propone la Sinistra europea per non lasciare sola la Grecia?
Lanciare un’alleanza contro l’austerità, Alliance against austerity che costituisca un’AAA alternativa alle agenzie di rating. Si tratta di una coalizione non solo in termini di sinistra europea, ma anche sociale e associativa
Appuntamenti immediati?
Proponiamo che il 1° maggio di quest’anno sia una giornata contro l’austerità europea e già il 18 marzo parteciperemo alla manifestazione europea di Francoforte.
Cosa pensa della Coalizione sociale di Landini?
La proposta di Landini è positiva. Capisco anche che si voglia fare questo percorso senza i partiti. Però c’è un dibattito tra chi ritiene che ci sia bisogno anche di una soggettività politica.
Quali forze sono coinvolte?
Il Prc, l’Altra Europa, Sel. Stiamo facendo passi avanti sulla proposta di una nuova soggettività politica.
In che termini?
Non dobbiamo unire quello che c’è, ma la nostra unità è la precondizione per un processo costituente aperto anche a coloro che nei partiti non ci sono. Il tema della sinistra politica in questo paese è ancora aperto.
La nuova soggettività si lascerà alle spalle anche quelle vecchie?
No. Dobbiamo costruire una soggettività democratica e partecipata in cui ognuno partecipa a partire dalla propria. L’immagine che mi piace è quella del “campeggio”: si rispettano le differenze ma si perseguono le dieci cose fondamentali. E oggi la cosa fondamentale è la sconfitta dell’austerità e del neoliberismo.   
   
La Stampa 15.3.15
La terza via di Bersani
“Maurizio non fa politica”
di Franco Giubilei


Scissione sì o scissione no? L’ex segretario Bersani risponde: «Noi siamo sempre con l’idea di stare con tutti i piedi nel Pd, e a chi ci dice “se non siete d’accordo andate fuori”, io rispondo: “no, vai fuori tu, che questa è casa mia”». Scene dall’assemblea convocata da Area riformista, corrente bersaniana di cui il diretto interessato nega che sarà mai il capocorrente, semmai «qualcuno che dirà sempre la sua», col capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il ministro Maurizio Martina. Occasione per ricordare che «nell’ipotesi che sia la legge costituzionale sia quel progetto di legge elettorale rimangano così, io non sono in condizione di votare la legge elettorale così come è fatta. Ma sono convinto che ci sarà disponibilità a ragionare». Nessuna rottura traumatica neanche in caso di voto contrario, considerato che gli statuti del partito prevedono «la famosa eccezione alla lealtà sui temi di rango costituzionale», al massimo, aggiunge Bersani, «un’incrinatura seria e profonda». Ma non succederà perché il ragionamento prevarrà, dice l’ex segretario con toni moderati proprio nel giorno in cui Landini lancia la sua coalizione sociale. E se Speranza rivolge una frecciata al leader della Fiom, accostandolo nelle pulsioni antagoniste addirittura a Salvini – «non credo che il futuro della sinistra abbia senso in un campo antagonista che si basa sulle urla televisive di Landini (in un lapsus però si lascia scappare Salvini, ndr)» -, Bersani la mette giù in termini più morbidi: «Non credo che Landini voglia mettersi in politica, per quel che lo conosco. Mi sembra di leggerlo come un movimento che magari mette in discussione un’idea di sindacato, più che un soggetto politico o prepolitico, ma non tocca a me dirlo». Tornando sul tema delle riforme, il capogruppo Speranza definisce inaccettabili le blindature alla legge elettorale: «Si riapra la discussione e si riduca il numero dei parlamentari nominati», e poi che si convochino congiuntamente i gruppi parlamentari, perché ogni modifica decisa alla Camera «abbia garanzia di tenuta anche in Senato». C’è spazio anche per le coppie omosessuali: «Sono convinto che sia il tempo dei matrimoni gay anche in Italia».

Corriere 15.3.15
«Il capo dei metalmeccanici? È chiaro che fa politica»
Serracchiani alla minoranza: non si possono fare interventi costituzionali a propria immagine
di Alessandro Trocino


ROMA «A mio parere, a oggi, spazi per modifiche alla legge elettorale non ce ne sono. Ci deve essere però un dialogo vero con la minoranza, che inizieremo da subito, per entrare nel merito e trovare una sintesi». Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e presidente del Friuli-Venezia Giulia, nel 2012 ha votato per Pier Luigi Bersani, per poi avvicinarsi al premier Matteo Renzi. Forse per questo, l’ex segretario la cita come possibile mediatrice.
Bersani sostiene che lei potrebbe essere nelle condizioni di lavorare a una sintesi. Anche se poi aggiunge «non so se ha l’attitudine e il carattere».
«Onestamente non credo che siano necessari mediatori. Penso che sia necessario parlarsi. Farlo in modo schietto e chiaro. La forza del Pd è sempre stata quella che nei momenti importanti facciamo le cose insieme. E credo che ci siano tutte le condizioni».
Per Bersani l’Italicum senza correzioni non è votabile.
«Io ritengo che il testo sia già votabile, perché tiene conto di moltissime richieste fatte da varie forze, dalla parità di genere al premio di maggioranza, al giudizio preventivo della Consulta. Detto questo, sono per fare una discussione vera e rapida. Siamo obbligati tutti ad ascoltarci. E poi siamo obbligati a decidere e a rispettare la decisione».
Insomma, la legge elettorale è intoccabile o no?
«È molto difficile pensare di toccarla, anche per la difficoltà di un ritorno al Senato».
Bindi e Cuperlo chiedono di intervenire anche sulla riforma costituzionale.
«Il testo originario del governo è stato modificato, nessuno può pensare di avere una riforma del genere a sua immagine e somiglianza. Non si può portare via il pallone, quando si gioca a calcio».
Bersani rivendica il metodo Mattarella: il Pd ce la fa anche senza Berlusconi. Che ora, dopo l’assoluzione si sente più forte.
«Non siamo particolarmente affezionati a Berlusconi. Trovo normale che quando si fanno le riforme ci si rivolga a tutti. Lui ha risposto, altri no. Quanto all’assoluzione, non abbiamo sentito la sua mancanza quando era a Cesano, perché in realtà era costantemente presente. Credo che Forza Italia dovrebbe votare le riforme che ha appoggiato».
Speranza e Bersani dicono no alla scissione.
«Non posso che essere d’accordo. Nessuno deve essere cacciato e nessuno deve sentirsi escluso. Ma in un partito serve rispetto, ascolto, dialogo e lealtà. Ci si può dividere ma non sul cognome, sui temi. Io per esempio sui diritti civili ho posizioni diverse da Renzi».
Speranza ha detto che è a favore del matrimonio gay.
«Anche io. Quando arriverà il momento cercheremo una sintesi. Io chiedo che l’Italia entri nel novero dei Paesi europei che hanno una disciplina sulle unioni di fatto».
E sull’eutanasia?
«Non ho un’idea chiara, ma in Friuli abbiamo inserito la dichiarazione anticipata di trattamento nella tessera sanitaria. Un atto simbolico ma importante. Bisogna affrontare il tema del fine vita».
Landini ha lanciato la sua coalizione sociale.
«Mi sorprende la sua necessità di dire che non sta facendo politica. È chiaro che la sta facendo. Va chiarita la sua posizione con il sindacato, come gli ha chiesto la Cgil. Non capisco l’imbarazzo. Forse è in difficoltà. Mi domando poi se soggetti come Libera si troveranno a loro agio dentro la politica».
State pensando di occuparvi della legge sulla rappresentanza sindacale?
«Assolutamente sì, penso che il governo possa procedere su questa strada».
E Tosi? È diventata tosiana anche lei?
«No, ma la mia impressione è che Salvini lavori per l’immediato, mentre Tosi sta pensando di costruire un progetto più moderato. E poi c’è la questione regionale. Il Veneto per la Lega è sempre stato portatore d’acqua, d’ampolle e di voti. Ma alla fine chi conta è sempre a Bergamo o Varese».

Corriere 15.3.15
Uniti contro la crisi
Quel precedente che naufragò in piazza San Giovanni


La prima coalizione sociale della Fiom finì all’angolo tra via Cavour e i Fori Imperiali. Il corteo si spezzò in due. La maggioranza, quelli che protestavano contro il governo Berlusconi, tentò di andare avanti per la sua strada. Quelli che invece volevano il conflitto lo trovarono cercando di sfondare verso i cosiddetti palazzi del potere. L’immagine che resta del 15 ottobre 2011 è la camionetta dei carabinieri incendiata in piazza San Giovanni.
Uniti contro la crisi, si chiamava così, nacque il 20 settembre 2010 e morì quel giorno. L’appello iniziale, firmato da 25 «attivisti di movimento, del mondo associativo e della Fiom» venne raccolto ben presto da altri soggetti come Legambiente e Arci, ma la novità era l’ombrello fornito per la prima volta dal sindacato dei metalmeccanici Cgil, primo tra i pari.
Gli scontri di piazza San Giovanni furono il risultato della lotta interna tra due idee di antagonismo sociale. A rovinare la manifestazione furono coloro che contestavano l’intenzione della neonata coalizione di «entrare nel sistema» presentando candidati nelle liste di Nichi Vendola, a quel tempo di moda. Tutto è cambiato, ma la cruna dell’ago resta la politica. Secondo Luca Casarini, tra i fondatori di Uniti contro la crisi, da lì toccherà passare. «Bene rianimare i movimenti, ma il nodo è la creazione di una alternativa all’attuale governo. Anni fa pensavo si dovesse cambiare il mondo senza prendere il potere. Oggi credo sia necessario prendere più potere possibile per cambiare il liberismo subdolo di Renzi. Uniti contro la crisi fallì perché non riuscì a darsi una proposta politica unitaria».
Con calma, dice l’economista Guido Viale, oggi in area Tsipras, ieri tra i 25 firmatari di cui sopra. «La gravità della situazione italiana può rendere più facile la coesione su alcune iniziative di proposta. C’è spazio perché avvenga l’opposto di quanto accaduto con Uniti contro la crisi». A casa Landini sostengono che la nuova coalizione sociale abbia natura ben diversa da quella defunta nella culla. Laddove c’era una piattaforma da caleidoscopio, qui c’è solo la tutela del lavoro e il rilancio dell’iniziativa del sindacato. Ma anche Uniti contro la crisi nacque come reazione all’esito del referendum alla Fiat di Pomigliano d’Arco. In Italia si scrive movimenti e si legge mele e pere: soggetti magari simili ma spesso in disaccordo su quasi tutto. Il fallimento della precedente esperienza targata Fiom fornisce la misura del rischio di questa scommessa.

il Fatto 15.3.15
Un gioco a perdere
Le tribù democratiche tra Matteo e Maurizio
I bersaniani non vogliono andarsene e chiedono ritocchi all’Italicum
Il premier aspetta le elezioni per decidere se gli servono o farli fuori
di Ma. Pa.


A sinistra nel Pd”. Sotto questa premessa le molte minoranze del Partito democratico si riuniscono sabato prossimo a Roma. L’appuntamento ha un significato - per il momento in cui cade - più psicanalitico che politico. Molte persone, con idee e prospettive assai diverse tra loro, forzate a stare insieme dall’azione di due potenti forze centripete (e dall’irrilevanza): da un lato gli schiaffoni - non tutti metaforici - che gli rifila Matteo Renzi, dall’altro l’attivismo finora un po’ fumoso di Maurizio Landini, che sembra proporre alla sinistra residua una piattaforma programmatica sul modello Syriza proprio mentre il governo di Alexis Tsipras scopre la dura realtà dei rapporti di forza in Europa.
INSOMMA, “a sinistra nel Pd” va bene, ma fino a quando? La risposta l’ha già data Matteo Renzi: fino a dopo le regionali, quando si procederà ai voti parlamentari su Italicum (Camera) e riforme costituzionali (Senato). A quel punto il premier saprà - vedi l’articolo sotto - se avrà a disposizione i voti dei “verdiniani”: se andasse così, l’addio sarebbe un fatto scontato, nel senso che o escono dal Pd le minoranze oppure il Pd uscirà da loro attraverso un accurato lavoro di ripulitura etnica durante la composizione delle liste elettorali per le probabili Politiche del 2016.
Da ora fino a giugno, in altre parole, la sinistra “nel Pd” ha a disposizione praticamente solo la convegnistica, declinata - ahiloro - in dolorosa autocoscienza. Ieri, ad esempio, a Bologna c’è stata la riunione di “Area riformista”, che poi è all’ingrosso l’associazione dei bersaniani, i quali a loro volta sono un arcipelago di posizioni politiche inconciliabili: ci sono i bersaniani ortodossi (Stumpo, Migliavacca, Gotor), gli eterodossi (Epifani, Damiano, Giorgis), gli anti-euro sottovoce (Fassina, D’Attorre), i renziani (Martina, Speranza), gli ex lettiani (Boccia) e Bersani stesso, che sta un po’ con tutti. Anche se esprime programmi e persegue tattiche a volte contrapposte, però, “Area riformista” vorrebbe rimanere, tutta assieme, dentro al Pd in attesa che qualche colpo di fortuna gli faccia riguadagnare il controllo del partito: “Nella denegata ipotesi che sia la legge costituzionale, sia l’Italicum rimangano così - ha ridetto ieri Bersani - io non sono in condizione di votare la legge elettorale così com’è fatta. Ma sono convinto che ci sarà disponibilità a ragionare”. Scissione? Non sia mai, “il Pd è casa mia”. Meno convinte della volontà di “ragionare” del segretario/premier sono altre anime al Pd: Massimo D’Alema, ad esempio, è da un po’ che lo pensa e tenta di convincere Gianni Cuperlo che, in prospettiva, non c’è vita per la sinistra nel partito di Matteo Renzi. Finora, però, gli unici ad aver considerato seriamente la scissione sono i seguaci di Pippo Civati, che al momento stanno a guardare quel che combina Maurizio Landini. Tradotto: sarà Renzi a decidere se i voti delle minoranze gli servono o no, tutto il resto verrà da sé.
Eppure la convention di sabato ha un suo interesse, che è riassunto nel titolo : “L’Italia può farcela”. Non per il concetto in sé, ma perché volutamente riprende il titolo dell’ultimo libro di Alberto Bagnai (L’Italia può farcela, appunto), il principale economista anti-euro: Stefano Fassina, d’altronde, sul tema dell’uscita dalla moneta unica ha fatto di recente la sua prima affermazione chiara, e anche D’Attorre e Cuperlo sembrano sulle stesse posizioni.
DAL PALCO, peraltro, parlerà anche Vladimiro Giacché, economista marxista, pure lui tra i fautori di una dissoluzione dell’Eurozona. Il problema è che Maurizio Landini – con cui pure il gruppo dei “bersaniani anti-euro” ha avuto almeno un pour parler – dall’orecchio moneta unica non ci sente e ripropone semmai lo schema di Tsipras e dei suoi sostenitori italiani: il problema è l’austerità, non l’euro. Se il capo della Fiom conquisterà spazio, però, al prossimo convegno della sinistra Pd ci sarà anche la corrente “landiniana”. Tanto alle cose serie ci pensa Renzi.

La Stampa 15.3.15
Ma una Fiom interventista non scalda i cuori a sinistra
di Federico Geremicca


Difficile dire se Maurizio Landini attendesse risposte diverse da quelle che sono arrivate alla sua proposta di mettere in campo una «coalizione sociale» che avversi le politiche del governo Renzi e sia in prima linea nella difesa dei diritti di tutti i lavoratori. Certo non attendeva applausi dalle tribune occupate dalla destra; e probabilmente aveva messo nel conto - conoscendone le ragioni ufficiali e ufficiose - il gelo e il distacco riservatigli dal mondo dal quale proviene: e cioè quello del sindacato.
Meno scontati, forse - e per questo più dolorosi - i distinguo e le critiche esplicite arrivati al suo progetto dalla minoranza interna al Pd, che dal Jobs Act alle riforme costituzionali (fino all’allarme sul rischio di svolte autoritarie) ha un pacchetto di lagnanze e di proposte assai vicino a quello del leader Fiom. Invece, lui lancia la sua «coalizione sociale» ed apriti cielo. Non è una soluzione - ha contestato Speranza, capogruppo Pd e tra i leader della minoranza - «una sinistra antagonista che nasce dalle urla tv di Landini». E peggio ancora - perché sparge sale sulla ferita - Pier Luigi Bersani: «E’ un’iniziativa che mette in discussione, anche in margine, un’idea di sindacato».
Se il buongiorno si vede dal mattino, dunque, la mossa di Landini sembra destinata ad aumentare la tradizionale conflittualità a sinistra e consegna al segretario della Fiom due problemi di non semplice soluzione. Il primo riguarda - come si dice in gergo - i rapporti con l’area politica di riferimento. I generici sostegni di Sel e Rifondazione, infatti, non bastano a pareggiare i «no» arrivati dalla minoranza Pd. In più, una certa resistenza (storica, a sinistra) a cedere quote di sovranità - leadership, per essere più chiari - costituisce una ulteriore e paralizzante complicazione.
Ma è certamente il secondo problema - non foss’altro che perché più immediato - il vero scoglio che Landini dovrà aggirare, pena il rischio di naufragio: e cioè il rapporto con la Cgil (Camusso) e le altre organizzazioni sindacali. In Corso d’Italia, infatti, sono convinti che quella della «coalizione sociale» sia solo la foglia di fico dietro la quale si prepara la nascita di un nuovo partito di sinistra: e questo - fanno sapere - non è possibile, lo Statuto lo vieta e l’iniziativa potrebbe mettere Landini di fronte a un bivio, col rischio di finire ai margini - se non fuori - della confederazione sindacale.
Per quanto l’obiezione possa apparire speciosa o strumentale, non vi è dubbio che abbia un solido fondamento statutario e di prassi. Per altro, particolari passaggi politico-sindacali potrebbero davvero rendere di difficile gestione l’originale «doppio incarico» nel quale Landini pare volersi calare. Il primo di questi passaggi - giusto per dire - cade tra due settimane: cosa sarà e come andrà interpretata la manifestazione già convocata a Roma per il 28 marzo? Sarà un’iniziativa puramente sindacale o la prima uscita politica del nuovo movimento?
Forse Maurizio Landini non s’attendeva nulla di diverso da quanto sta accadendo: ed è pronto a dare battaglia. Magari starà perfino ripensando alle suggestioni di un po’ di mesi fa, quando lui e Renzi - lontanissimi su tante questioni - venivano accomunati per la forte battaglia di rinnovamento avviata: «i rottamatori», venivano definiti. Il leader Fiom ha seguito tutta l’ascesa del segretario-premier, scrutandone mosse, tattica e stili: e ha visto che il successo di Renzi è stato possibile solo dopo e grazie ad una durissima ed esplicita battaglia generazionale e di programmi. In politica, infatti, nessuno regala niente a nessuno. Landini potrebbe averlo imparato: e se così fosse, dentro e fuori il sindacato se ne potrebbero rapidamente vedere delle belle.

La Stampa 15.3.15
“È l’età dell’incertezza. Siamo come gli ebrei davanti al mar Rosso”
A Torino dal 25 al 29 marzo la quarta edizione di Biennale Democrazia che ha per tema i “Passaggi”
Parla il presidente, Gustavo Zagrebelsky
di Jacopo Iacoboni


«Ciò che non siamo ciò che non vogliamo», scriveva Montale. Ma qui non siamo in una sfera poetica, siamo nella più prosaica delle realtà. «Sappiamo ciò che non siamo più, non sappiamo ciò che saremo, cosa stiamo diventando», dice Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia, per spiegare il titolo della nuova edizione che si chiamerà «Passaggi».
Professore, «Passaggi» fa venire in mente ipassagesdi Walter Benjamin, ilflâneurche attraversa Parigi - prototipo della città democratica, dunque in senso lato degli Stati - scoprendone aspetti nascosti, anfratti, possibilità. Era questo il riferimento a cui pensavate per la Biennale?
«Ci eravamo posti il problema di questa assonanza, ma poi ci siamo chiesti: a quanti verrà in mente? In realtà il termine “passaggi” allude a un tempo di incertezza, il passaggio tipico è quello del mar Rosso da parte degli ebrei. Noi, come gli ebrei allora, non sappiamo a cosa andiamo incontro; abbiamo la sensazione di non esser più quello che eravamo prima, ma non sappiamo cosa troveremo. In questa traversata, come gli ebrei nel mar Rosso, rimpiangeremo le cipolle del Faraone. Ma dovremo andare avanti».
Avanti senza sapere dove, o il dove s’intravede, per esempio nel politico? Nietzsche scriveva «la navicella ha rotto gli ormeggi, non ti prenda nostalgia della terra».
«Ormai siamo post, ma non sappiamo cosa siamo. Il post più tipico è il post-democrazia. L’Italia è in un regime post-democratico, in cui non solo non sappiamo il futuro, ma non sappiamo neanche bene il presente. Per questo sarà la Biennale delle inquietudini, dell’incertezza, e magari della seminagione di qualche prospettiva».
Queste inquietudini riguardano la politica, innanzitutto?
«Uno degli orizzonti è sicuramente la politica. Che fine sta facendo la politica in un’epoca in cui gli Stati nazionali, nei quali la politica si è condensata, hanno perso gran parte della sovranità? Le grandi scelte “politiche” di un tempo sono diventate ormai scelte meramente esecutive. E per “esecutive” intendo scelte dell’esecutivo. Io faccio una distinzione tra esecutivo, che esegue, e governo, che invece dovrebbe dare direttive politiche, governare, appunto. Cultura esecutiva significa che tutti i governi sono sotto la legge della necessità, l’equilibrio finanziario, costretti a eseguire direttive distanti dalla politica».
Gli altri passaggi quali sono?
«Le trasformazioni geopolitiche. L’Europa ha perso la sua funzione centrale, oggi è un tassello, impotente. Per questo avremo un’attenzione particolare non solo per le istituzioni europee, ma per la cultura, l’influenza, la posizione. Ne parlerà Claudio Magris in una lezione magistrale. Poi quei passaggi che sono le migrazioni, incontro, scontro. E i mutamenti economici, il passaggio dall’economia reale a quella finanziaria. Infine, a me stanno molto a cuore i passaggi generazionali».
Qui parliamo anche dell’Italia di Renzi, il «rottamatore» vero o presunto. Che si muove nel quadro del tramonto degli Stati, della fine del potere, la crisi della democrazie ovunque. Lei è assai critico con Renzi.
«Penso che con la fine delle ideologie si è cancellato ogni discorso delle idee, esiste solo un discorso tecnico, la politica è diventata pura riparazione di guasti sociali, e lo Stato - da entità giuridica - si è trasformato in un concetto quasi da diritto commerciale, qualcosa che può “fallire”, il che è un totale controsenso».
Alcuni Paesi hanno più anticorpi nella società, nei corpi intermedi. L’Italia no, non crede?
«In Francia, per dire, dopo Charlie Hebdo si è aperto un grande dibattito - di cui parlerà Carlo Ossola -, è venuta fuori la tradition républicaine. In Italia tutto questo non c’è stato. E se cittadinanza e forze intermedie vengono a mancare, la politica diventa pura decisione dall’alto, chiusura oligarchica».
Lei parlerebbe di «democratura», per l’Italia e per Renzi?
«Guardi, nella teoria parliamo da anni di questo termine: indica semplicemente una democrazia malata. Io stesso l’ho usato più volte. Ma quello che vedo in atto è soprattutto una chiusura oligarchica. Ernest Renan diceva che la nazione è un plebiscito di ogni giorno, oggi potremmo dire che gli Stati sono un plebiscito dei mercati ogni giorno».
Oggi tutta la retorica è lo scontro giovani/vecchi, ma non è secondo lei solo una narrazione che occulta la realtà?
«Un tempo le età erano tre, giovinezza, maturità, vecchiaia. Ora è scomparsa la maturità, tutti ragionano in modo binario, giovani/vecchi. Oggi in Italia siamo a un passaggio in cui c’è una generazione nuova, Renzi l’ha chiamata “generazione Telemaco”. Ma in cos’è che siete nuovi, chiederei loro, cosa vi dà identità? Dicono: innovazione, velocità, concorrenzialità. Prenda il tema del lavoro: tramonta quella che Bobbio, Rodotà, io stesso chiamavamo l’età dei diritti. La generazione Telemaco vuole più velocità e più concorrenza, e per far questo deve tagliare i diritti. I più danneggiati saranno i diritti degli anziani, le pensioni, ma in generale i diritti di tutti coloro che non producono. Una volta gli improduttivi venivano eliminati fisicamente...».
A Sparta, a Tebe... E oggi?
«Anche nelle tribù nordamericane: gli anziani venivano fatti addormentare in un termitaio e divorati. Oggi ci stiamo trasformando in una società in cui i diritti li hanno solo i produttori. Entriamo nell’età dei senza diritti».

Corriere 1.3.15
Ma serve ancora votare?
di Angelo Panebianco


Il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tra un attacco alla Germania e l’altro, ha anche dichiarato che, per arrivare a un accordo con l’Europa, il suo governo è pronto a rinviare alcune promesse elettorali. Poiché i greci non vogliono suicidarsi e il resto d’Europa (con l’apparente eccezione del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble) sembra pensare che Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, sarebbe un disastro per tutti, è possibile che alla fine si riesca a trovare un compromesso. In tal caso, la speranza di aver chiuso definitivamente la partita greca sarebbe talmente forte che governi, autorità dell’Unione, mass media, cercherebbero di presentare il compromesso come un grande successo. Però, stiano attenti alla natura del compromesso che si realizzerà (se si realizzerà) perché il suddetto «successo» potrebbe anche essere l’anticamera di un più generale fallimento, quello dell’Unione.
Quale è il grande e irrisolto problema dell’Europa oggi? È il «disallineamento» in atto da tempo fra il patto europeo e le regole e i principi su cui si reggono tuttora le democrazie nazionali (europee): il primo (il patto) impone che gli impegni presi reciprocamente fra i governi dell’Unione debbano essere rispettati, i secondi (le regole e i principi) impongono che i governi rispondano prima di tutto ai loro elettorati e soltanto dopo, solo in seconda istanza, all’Unione.
La data emblematica in cui prende il via, platealmente, il processo di disallineamento è il 2005.
Fino ad allora, integrazione europea e democrazie nazionali avevano quasi sempre marciato insieme (con qualche eccezione, soprattutto all’epoca del gollismo negli anni Sessanta). Nel senso che gli accordi in sede europea erano sempre stati tacitamente accettati e sottoscritti dai vari elettorati.
Nel 2005, il referendum francese che affondò il trattato costituzionale europeo fu il primo segnale della grande svolta: ormai non era più pacifico o automatico che gli elettorati trangugiassero senza fiatare tutti i cocktail (o gli intrugli) preparati a Bruxelles. Poi la crisi economica ha fatto il resto: oggi il disallineamento è assai forte. Da un capo all’altro del Vecchio Continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla «dittatura» europea, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla «arroganza» della Germania, eccetera, eccetera.
Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati.
Allora, attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca e dei Paesi più vicini all’orientamento tedesco: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti), degli scialacquatori, dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale — che verrà usato e rilanciato da tutti i leader antieuropei — sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione.
Un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per l’Europa, dicono quasi tutti. E se lo dicono quasi tutti, sarà vero. Però, alla Grecia — un Paese che non avrebbe mai dovuto essere ammesso nell’Europa monetaria — si chiedono «riforme» che dovrebbero trasformarla in una «buona economia di mercato» (come ha osservato Giacomo Vaciago, Il Sole 24Ore , 11 marzo), in quanto tale compatibile con la moneta unica. Il punto, naturalmente, è che nessun governo greco è in grado di riuscire nell’impresa, men che mai in tempi brevi. Figuriamoci poi se può farlo un governo formato da una coalizione fra un partito di estrema sinistra (Syriza) e una formazione di destra (Greci Indipendenti). Sarebbe come se in Italia qualcuno chiedesse a un eventuale governo presieduto da Nichi Vendola e appoggiato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, di lavorare per il libero mercato. Vendola e Meloni (giustamente, dal loro punto di vista) penserebbero che a quel qualcuno manchi una rotella.
Grexit, dicono tante voci autorevoli, sarebbe un disastro. E chi siamo noi per dubitarne? Non tutte le alternative, però, sono migliori.

Il Sole 15.3.15
Il voto di martedì. Il Paese cerca la «normalità» alle elezioni politiche
Gli israeliani alle urne pensando all’economia
Netanyahu indietro nei sondaggi, Herzog in testa
di Ugo Tramballi


GERUSALEMME. Per i presidenti degli Stati Uniti che vi giocano la reputazione, per i parlamenti europei che si dividono, per gli arabi e le Nazioni Unite, le elezioni in Israele sono sempre un referendum a favore o contro la pace con i palestinesi. Per gli israeliani non lo sono quasi mai, almeno da un trentennio: sforzandosi di essere cittadini di un Paese normale, in condizioni normali e con normali frontiere, in genere pensano alla loro condizione economica.
Sarà così anche martedì quando, per l’ennesima volta nella sua storia contemporanea, Israele andrà al voto anticipato. Il sistema politico - un proporzionale ai limiti della purezza, che ha dimostrato di essere irriformabile nonostante sia un certificato d’instabilità - impedisce a chiunque di vincere davvero. Lo scontro è su chi sarà chiamato a formare un esecutivo di coalizione. I due concorrenti sono l'uscente Bibi Netanyahu, premier e leader del Likud, la destra; e il laburista Isaac Herzog che si presenta con l’ex Kadima Tzipi Livni, in una lista chiamata Sionismo Unito. Negli ultimi 38 anni il Labour, il partito che ha fondato Israele, ha governato solo per 11. Questa volta, forse, vincerà: l’ultima era stata con Ehud Barak nel 1999. Ma i quattro seggi in più sul Likud, che tutti i sondaggi prevedono, potrebbero non bastare per formare una coalizione di centro-sinistra. In un parlamento con 120 seggi e una pletora di partiti, Herzog e Livni possono arrivare a 26.
Uscendo lentamente dalla crisi finanziaria europea, si fatica a individuare gli scricchiolii di un’economia che, calcola l’Ocse, nel 2014 è cresciuta “solo” del 2,6%, quest’anno sarà del 3, e del 3,5 nel 2016. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, nel terzo trimestre del 2014 che ha compreso i cinquanta giorni di guerra a Gaza, l’economia è cresciuta dello 0,2% rispetto alle stime precedenti il conflitto. Quella guerra non è stata combattuta solo nella striscia: Hamas ha lanciato razzi fino in Galilea.
L’impermeabilità ai conflitti maturata con l’abitudine, aiuta a capire perché gli israeliani guardano più all’economia che all’ipotetica pace con i palestinesi. Nel 2006, in piena Intifada, ci fu il successo della lista dei pensionati; nel 2013 la sorpresa fu Yair Lapid con il suo partito della classe media schiacciata dal costo della vita e dalla disuguaglianza sociale, a favore del vertice più ricco. Fra i Paesi Ocse solo Cile e Messico hanno un tasso di povertà più alto d’Israele. I sefarditi, la parte più povera, hanno sempre votato il loro partito religioso per avere sussidi e agevolazioni. Le stesse ragioni che hanno spinto gli immigrati russi a scegliere il partito di Natan Sharanski nel 1996 e quello di Avigdor Lieberman nel 2009. Se davvero martedì notte Bibi Netanyahu perdesse, la principale ragione della sua sconfitta sarebbe di aver dato poca importanza alle preoccupazioni economiche degli israeliani. E troppa all’ideologia dell’ “essenza ebraica dello Stato”, al nucleare iraniano, alla minaccia qaidista, insistendo ossessivamente sulle paure e mai sulle opportunità.
La sorpresa di quest’anno potrebbe essere ancora Lapid o il partito di Moshe Kahlon, transfuga del Likud, anche lui con un programma economico per la middle class. Il giornale Ha'aretz li definisce «la grande speranza bianca per l’economia». Ma ci sono anche gli arabi che non sono i bianchi ma gli indiani di questa storia, cioè i palestinesi. Sono loro la possibile vera sorpresa: gli arabi d’Israele, il 20% della popolazione, i palestinesi che nella guerra del 1947/48 non fuggirono né furono cacciati dalle loro case. Per la prima volta, i quattro piccoli, insignificanti e rissosi partiti corrono in una Lista Comune guidata da Ayman Odeh, avvocato socialista di Haifa, musulmano educato in una scuola cristiana, che si dichiara ateo. Potrebbero diventare il terzo partito La piattaforma dedica poco al conflitto e molto al sociale. Con gli ultra-ortodossi ebrei, sono la sezione più povera del Paese. Il 70% vuole migliorare le sue condizioni economiche, il 60 è anche favorevole a entrare in una coalizione di governo con i sionisti: sarebbe un evento storico.
Dimenticato o sotto traccia, il conflitto comunque c’è. Ogni comandante militare e capo dei servizi segreti, presente o passato, ricorda che riprendere la trattativa con i palestinesi dei Territori è la priorità per la sicurezza nazionale. Le differenze fra Netanyahu e Herzog sono acute. L’ultima volta che il primo ministro ha parlato di “Stato palestinese”, sotto la pressione americana, risale al 2009. Poi più nulla. Secondo l’ex ministro delle Finanze Yuval Steinitz, braccio destro di Bibi, «nelle attuali circostanze qui, in Medio Oriente, ogni ritiro dai Territori o da Gerusalemme non è una formula per la pace ma per il disastro»: anziché la Palestina nascerebbe un califfato.
Dal nome dato alla sua lista, Sionismo Unito, Isaac Herzog chiarisce di appartenere saldamente al campo della trattativa: un sionismo moderno che si consolida nella pace e non più nella conquista territoriale. Se riuscisse a governare, Herzog tornerebbe immediatamente alla trattativa sulla base del piano proposto da John Kerry, il segretario di Stato americano. Con due posizioni così opposte, sarà interessante vedere cosa accadrà se il risultato elettorale e il sistema israeliano costringeranno Netanyahu e Herzog a governare insieme.

Corriere 15.3.15
La solitudine di Netanyahu e il ritorno dei laburisti
Netanyahu alla partita della vita Ma ex generali e 007 lo scaricano
di Davide Frattini


Israele al voto, martedì prossimo, per eleggere i 120 membri della Knesset, il Parlamento monocamerale del Paese. I sondaggi danno l’Unione Sionista, i vecchi laburisti con nome nuovo e l’aggiunta di Tzipi Livni, guidata da Isaac Herzog, in vantaggio sul Likud di Benjamin Netanyahu. Il primo ministro è preoccupato per il partito dei pensionati. Ex capi dei servizi segreti, ex generali, ex ufficiali delle forze speciali, ex comandanti dell’aviazione — in pensione, ma ancora agguerriti — si sono coalizzati per ridimensionare il messaggio ripetuto da Netanyahu in campagna elettorale: nessun altro può garantire meglio di me la sicurezza di Israele.
GERUSALEMME A preoccuparlo è il partito dei pensionati. Un partito che non presenta candidati, non punta a conquistare voti ma scommette che sia lui a perderli. Ex capi dei servizi segreti, ex generali, ex ufficiali delle forze speciali, ex comandanti dell’aviazione — in pensione, ancora agguerriti — si sono coalizzati per ridimensionare il messaggio ripetuto da Benjamin Netanyahu durante la campagna elettorale: nessun altro può garantire meglio di me la sicurezza di Israele.
Giocando con il suo soprannome, il primo ministro si è presentato in un video come «Bibi-sitter»: l’unico adulto circ ondato da ministri bambini, inidonei a guidare la nazione in un conflitto (il bimbo che impersona Naftali Bennett, il più bellicoso tra loro, viene mostrato mentre muove i carrarmatini e i soldatini).
I 186 militari a riposo hanno messo tutta la loro tempra per spiegare che Netanyahu ha portato il Paese «a uno dei livelli più bassi dalla fondazione»: «La guerra eterna non è una strategia», sintetizza Shabtai Shavit, ex direttore del Mossad. Meir Dagan, altro capo dei servizi segreti, ha raccolto la vitalità che gli resta (ha subito un trapianto di fegato) per salire sul palco in piazza Rabin a Tel Aviv e proclamare davanti a 40 mila persone: «Israele è circondata da nemici, non sono loro a farmi paura. Mi spaventano i leader politici, la mancanza di visione e strategia».
La reazione del Likud alle critiche di Dagan — che i giornali definiscono un «vero patriota» — dimostra quanto la destra tema di perdere le elezioni. I fedelissimi del primo mini stro non hanno esitato a infangare l’uomo che pure gli è stato a fianco nella sfida contro l’atomica iraniana, sono arrivati a rinfacciargli di aver chiesto aiuto a Netanyahu per ottenere il trapianto. A due giorni dal voto, i sondaggi danno l’Unione Sionista guidata da Isaac Herzog in vantaggio di almeno quattro seggi, i vecchi laburisti (con nome nuovo e l’aggiunta di Tzipi Livni) tornerebbero a vincere le elezioni per la prima volta dal 1999. È allora che Ehud Olmert dichiara finita l’«era del prestigiatore»: Netanyahu viene sconfitto da Ehud Barak, sembra aver perso il tocco magico che gli permetteva di riemergere dalle crisi, lascia la politica, dice per sempre. Invece ritorna da leader del Likud, riprende il potere nel 2009 e arriva a totalizzare nove anni da primo ministro, più di David Ben-Gurion, il padre fondatore della patria.
La campagna elettorale del Likud è stata costruita attorno a lui, dai poster alle apparizioni televisive: stasera dovrebbe parlare in piazza Rabin, la destra si appropria del luogo simbolo della sinistra israeliana. Troppo poca visibilità — dicono adesso gli attivisti — è stata lasciata agli altri ministri, ai deputati che conoscono per nome gli elettori nelle piccole città. Netanyahu-Houdini non si sarebbe reso conto di aver perso la bacchetta dell’illusionista e il contatto con il Paese: «Una volta era la soluzione, ora è diventato il problema», commentano nel partito quelli che già pensano alla lotta per la successione.
No n sembrano bastati il discorso davanti al Congresso americano e la contrapposizione frontale — in nome degli interessi nazionali — con il presidente Barack Obama. Sembrano bastati il dossier del Ragioniere dello Stato sulle spese eccessive della famiglia Netanyahu (con soldi dei contribuenti) e lo scandalo soprannominato bottiglia-gate: la moglie Sara intascava i centesimi dei vuoti a rendere che sarebbero dovuti tornare nelle casse dello Stato. «Gli israeliani ne hanno abbastanza di Bibi — scrive Nahum Barnea, la firma più letta dal quotidiano più venduto — il fascino si è consumato, il tentativo di reinventarsi come il saggio anziano della tribù è fallito».
Il premier accusa proprio Yedioth Ahronoth e gli altri giornali «sinistrorsi» di aver organizzato una campagna («pagata da miliardari stranieri», scrive sulla sua pagina Facebook») per impedirne la rielezione. Ognuno dei «congiurati» avrebbe le sue motivazioni: le or ganizzazioni internazionali — commenta — vogliono il ritiro dai territori palestinesi e «la divisione di Gerusalemme».
In realtà la discussione su un eventuale accordo di pace è rimasta fuori dalla campagna elettorale. Gli israeliani restano più preoccupati dal costo della vita, dai p rezzi degli appartamenti che salgono, dalla crescente disparità sociale. Sono arrabbiati e uno spot anti Netanyahu mostra la loro furia, in banca, nella corsia di un ospedale, esplodere in schede di voto. «In questo fine settimana Netanyahu rifletterà su quanto sia stata una mossa azzeccata — ragiona Yossi Verter sul quotidiano Haaretz — licenziare due ministri tre mesi fa e puntare sulle elezioni anticipate».
Perché quei due ministri sono balzati fuori dallo sgabuzzino politico in cui in parte si erano cacciati, in parte li aveva richiusi il premier. Yair Lapid (bersagliato da responsabile delle Finanze) incarna di nuovo la speranza della classe media, Tzipi Livni — incaricata (e così dimenticata) di seguire le trattative senza scopo con i palestinesi — rischia di ritornare da vincitrice in coppia con Herzog. Gli analisti avvertono che la partita non è chiusa, ricordano il 1996 quando il laburista Shimon Peres era in vantaggio nei sondaggi e alla fine perse proprio contro Netanyahu. Che anche da secondo arrivato potrebbe essere l’unico in grado di mettere insieme la coalizione per governare, è già successo nel 2009. Il «prestigiatore», da ventidue anni sulla scena, prepara un ultimo stratagemma .
Davide Frattini

Corriere 15.3.15
L’ultradestra di Liberman e la legge boomerang


Un anno fa ha manovrato tra i deputati perché votassero la legge per innalzare la soglia elettorale dal 2 al 3,25 per cento. Adesso rischia di restare fuori dal parlamento. Avigdor Liberman è il ministro degli Esteri meno diplomatico nella storia di Israele, pochi giorni fa ha proposto di decapitare (con un’ascia) gli arabi israeliani che appoggiano gli attacchi terroristici. Prima aveva cercato di ghigliottinare i loro partiti. La norma che ha elevato il numero di voti minimo da ottenere è stata progettata da Liberman anche per mettere in difficoltà i piccoli gruppi arabi. Che hanno risposto riunendo in una sola lista quattro formazioni: i sondaggi calcolano che la coalizione potrebbe raggiungere i 13 seggi — gli arabi israeliani rappresentano il 20 per cento della popolazione — lo stesso numero ottenuto da Liberman nel 2013. Questa volta il suo Israel Beitenu (Israele è la nostra casa) rischia di non farcela e il ministro oltranzista resterebbe senza posto. Immigrato dall’ex Unione Sovietica nel 1978, ha fondato il partito per incanalare i voti di quel milione e settecentomila «russi» che vivono in Israele. Alleato del premier Benjamin Netanyahu, ha rappresentato l’ala oltranzista nel governo. Gli elettori di destra potrebbero scegliere di sostenere il Likud , risulta secondo nei sondaggi, a scapito degli altri partiti nazionalisti. È questo l’appello di Netanyahu: non vuole che i voti della destra vadano dispersi. Anche a sinistra i radicali di Meretz temono di non superare la soglia di sbarramento.
D. F.

il Fatto 15.3.15   
Israele e il fantasma di Bibi
Senza di lui niente governo
Netanyahu in svantaggio, ma resta l’uomo chiave per formare l’esecutivo
di Cosimo Caridi


Gerusalemme Aumenta la distanza, almeno nei sondaggi, tra centrosinistra e centrodestra.
I laburisti sono stabili a 25 seggi (sui 120 della Knesset), mentre il Likud scende a 21. Se le urne dovessero confermare questi numeri si annunciano tempi duri per il presidente israeliano Reuven Rivlin. Yitzhak Herzog, leader dell’Unione Sionista, otterrà da Rivlin l’incarico di formare il governo, impresa ardua. Herzog può contare sull’appoggio, alla sua sinistra, di Merez (6 seggi) e dei due partiti di centro Yesh Atid (12), guidato da Yair Lapid, ex ministro di Netanyahu, e Kulanu (11) recentemente creato da un gruppo di fuoriusciti dal Likud, partito del premier uscente. Nella più rosea delle ipotesi il governo laburista conterà su 54 parlamentari, numero ben lontano dalla maggioranza assoluta fissata a 61.
Possibile stampella del governo Herzog sarebbero i 13/15 eletti della Lista Araba Unita, sulla carta terza forza del parlamento. Per la prima volta nella storia israeliana, complice l’innalzamento della soglia di sbarramento dal 2 al 3,25 percento, la minoranza araba ha deciso si presentarsi compatta all’appuntamento elettorale. Per molti palestinesi un’alleanza dei propri rappresentati con l’Unione Sionista, partito fondato da Tzipi Livni conosciuta tra gli arabi per il suo atteggiamento interventista a Gaza, aprirebbe una ferita non rimarginabile. L’altra opzione di Bougie sarebbe un governo d’unità nazionale, chiedendo l’appoggio a Netanyahu. Bibi accetterebbe controvoglia, e solo sotto forti pressioni, il ruolo di comprimario. La premiership resterebbe a Herzog, ma almeno due ministeri di peso, Finanze e Interno o Esteri, rimarrebbero in mano al Likud.
SECONDO GLI ANALISTI sono 11 i partiti che martedì vedranno eletti dei loro rappresenti alla Knesset. Netanyahu potrebbe riuscire a raccogliere alla sua corte i partiti religiosi e quelli dell’ultradestra, collezionando oltre 50 seggi. A quel punto al premier uscente basterebbe convincere uno degli ex alleati di centro, cacciati dal governo appena tre mesi fa, per diventare nuovamente primo ministro. Questa opzione consegnerebbe il paese in mano a una coalizione estremista, nella quale “il moderato” sarebbe Netanyahu.
Rivlin, storico esponente del Likud, ma in netto contrasto con le politiche di Sharon prima e Netanyahu dopo sulla questione palestinese, potrebbe mostrare numerose riserve su un governo a trazione integrale a destra. La pressione internazionale, in particolare quella statunitense, vorranno escludere un esecutivo di falchi pronti a intervenire militarmente a Gaza, come in Libano o sulle alture del Golan e con l’ossessione della questione nucleare iraniana.
GLI ISRAELIANI, sotto la pressione del costo della vita in continuo aumento e alle prese con una situazione economica, dopo gli anni delle liberalizzazioni e privatizzazioni volute da Netanyahu, sempre meno brillante, sono pronti a voltare pagina. Ma non potranno farlo senza Bi-bi, che sia lui il primo ministro o anche solo l’uomo chiave per la formazione del nuovo esecutivo.
Intanto gli Stati Uniti, da sempre attenti alle evoluzioni politiche in Israele, lasciano al segretario di Stato Kerry il compito di una dichiarazione ufficiale; il messaggio è che gli Usa sperano che Israele elegga un governo capace di rispondere alle necessità interne e che non deluda “le speranze di pace”. Nessun riferimento diretto alle polemich fra Bibi e Obama sull’accordo con l’Iran riguardante il nucleare. Kerry ha parlato a margine della Conferenza economica egiziana di Sharm el Sheikh, auspicando che, qualunque cosa decideranno gli elettori israeliani, ci sia la possibilità di veder ripartire gli sforzi di pace.
Il Segretario di Stato non ha voluto aggiungere altro, affinché nessuno interpreti le sue parole come un’ingerenza nelle elezioni del 17 marzo

il Fatto 15.3.15   
Raffaello innamorato e la musa popolana che diventò Madonna
di Dario Fo


IL PITTORE E LA PASSIONE PER MARGHERITA, EX PROSTITUTA E SUA SPOSA: C’È IL SUO VOLTO DIETRO SANTE, VENERI E NINFE

Torna domani sera, alle 21.15, su Rai5 l’appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è dedicata a “Raffaello, oh bello figliolo che tu sei”. Eccone un’anticipazione.
Per dire del suo fascino di Raffaello, quando a Roma, a Carnevale, il carro sul quale stavano vocianti le ragazze “smaritate”, così si chiamavano quelle che non avevano ancora marito, col loro carro a bellapposta transitava sotto le finestre del palazzotto dove stava il pittore, da quel carro saliva un coro d’elogio appassionato cantato a tutta voce dalle ragazze per il giovane pittore, che diceva:
Bello figliolo che tu se’, Raffaello, come te movi appresso a lu Papa quanno sorte a passaggiare, tu se’ l’àgnolo Gabriele, ìllo pare lo tòo camariere. Dòlze creatura con ‘sto cuorpo tuo che pare in danza, comme me vorrìa rotolar co’ te panza panza dentro lu vento, appesa alle labbra tue da non staccarme mai uno momento: Raffaello mettime dinta ‘na tua pittura dove ce sta ‘no retratto de te tutto intiero così de notte ce se potrebbe cerca’ e infrattati nell’oscuro facce l’amore. Si nun me voi amà, Raffaello dolze, canzéllame da la tua pittura, méjo morì se non son tua.
Quando morì, Raffaello aveva appena trentasette anni. Si racconta che per il dolore anche i sampietrini si staccarono, rotolando fuori dal selciato, e mezza Roma urlando piangeva disperata.
L’orecchio scoperto e gli occhi da impunita
Nella Sacra Famiglia detta di Francesco I assistiamo alla scena in cui il bimbo in piedi corre disperato verso la madre. Forse in mezzo a tanta gente l’ha perduta di vista. Ora l’ha ritrovata e le si getta addosso a braccia spalancate, aggrappandosi alle sue vesti. Il bimbo sembra accennare a un timido sorriso, la madre purtroppo non lo ricambia appena. Nello splendido disegno preparatorio, oggi agli Uffizi, notiamo che il gesto del bimbo che si lancia verso la madre è di certo più drammatico rispetto a ciò che ci mostra il quadro a olio. Le braccia sono più protese e la mano della Madonna che lo afferra è di gran lunga più evidente. Inoltre il bambino chiaramente sorride, la Madonna purtroppo nel disegno non c’è. Ma al Louvre abbiamo ritrovato un altro disegno che sembra riprodurre la Vergine della Sacra Famiglia in questione. Questa giovane accenna solo a un sorriso ma se non altro ci prova. Poi abbiamo scoperto, leggendo la didascalia, che non si tratta del volto di una Madonna, ma di un ritratto dal vero, o meglio lo studio di una testa di donna, che gli servirà per realizzare La Madonna. Ma qui la cosa più importante è che per la prima volta vediamo una Madonna con l’orecchio completamente scoperto, come usavano le donne del popolo, come era la Fornarina, la sua innamorata, di cui conosciamo già i due ritratti: quello dove si mostra seminuda e quello detto La Velata. Le due pitture ci mostrano una ragazza di grande bellezza e fascino. Gli occhi molto grandi, una bocca ben disegnata dalle labbra turgide, un lieve sorriso da impunita. Su questa giovane donna, dotata di una straordinaria carica sessuale, si sono scritte migliaia di pagine, romanzi, sceneggiature cinematografiche... Selezionando le varie notizie, abbiamo elaborato un profilo della Fornarina, secondo noi il più attendibile.
La Fornarina, l’anello e il segno del matrimonio
La ragazza proviene da Siena, guarda caso proprio come la famosa modella di Michelangelo da Caravaggio. È figlia, si dice, di un fornaio. Ma c’è un’altra versione del significato di quel nome: nel gergo popolare romano “infornare” allude a un rapporto sessuale. Evidentemente si sottintende una ragazza che si prostituiva. Ad ogni modo la Fornarina ha un suo nome, quello di Margareta, o Margherita. Come lo sappiamo? Ricercatori abilissimi hanno esaminato le metafore che tradizionalmente i pittori del tempo inserivano nei ritratti (i Fiamminghi sono stati forse gli iniziatori di questa moda) e, confrontando fra di loro i due dipinti della modella di Raffaello, hanno ritrovato identici simboli allusivi. In entrambi i ritratti appaiono due brocchette dalle quali pendono delle perle. Le brocchette sono fermagli che legano il velo ai capelli. Le perle nella convenzione allegorica indicano un nome, appunto Margherita. Ma significano anche amante. Scopriamo poi che la Fornarina è da poco maritata, anche se qualcuno, con velature a olio, ha tentato di cancellare l’anello che Margareta portava all’anulare della mano sinistra. Nella Velata la mano sinistra è nascosta sotto il panneggio. Evidentemente il matrimonio doveva rimanere segreto. Ma con chi era sposata la modella? Ce lo dice lei stessa, che nel dipinto in cui appare seminuda esibisce, avvolto al braccio, un cerchietto con scritto il nome del suo uomo: il nome è Raphael Urbinas.
Raffaello quindi era lo sposo e solo se immaginiamo l’esplodere di una passione davvero incontenibile ci riesce di capire quale folle carica amorosa debba aver spinto l’ancor giovane maestro a decidere di affrontare la situazione che si sarebbe per lui creata con quel colpo di testa. Il maestro di Urbino in quel tempo non era solo un pittore famoso: era stato scelto dal papa, oggi diremmo, come sovrintendente massimo delle antichità e dei nuovi progetti di Roma, compresa la Basilica di San Pietro e il riassetto urbanistico di tutta l’Urbe. Il pittore di Urbino godeva dell’ossequio di tutti i principi e di molti banchieri nostrani e foresti che facevano la coda pur di avere un suo ritratto o dipinto sacro. Come poteva gestire Raffaello la presenza vicino a lui di questa sua ragazza splendida, ma dal passato tanto chiacchierato?
“Mi permetto di presentarle la mia sposa. La conoscevate di già? Dove? In che occasione? Nuda? Basta così...”.
I poemi, i sonetti e il cambio di stile
Il fatto è che Raffaello ormai non poteva più vivere senza quella donna. Margherita era sempre nei suoi pensieri, non riusciva a stare lontano da lei. È risaputo che l’innamorato scriveva sonetti a lei dedicati mentre preparava i cartoni: sui fogliacci che ci sono pervenuti si sono trovate tracce di piccoli poemi, sonetti, di certo dedicati alla sua donna. Eccone uno a caso:
Io vorrebbe criare a tutta voce quando tu me avveluppi con le tue brazza contro le membra tue e per tutto me baci e m’accarezzi fin dentro l’ànema.
Criàr vurrìa ma non lo puòzzo fare che tutto me resveierèbbe tosto a cagion d’esto mio grido dallo sogno bello che eo me sto vivendo.
Crediamo che da questo canto all’improvvisa si possa capire meglio che da ogni altro discorso quale metamorfosi abbia condotto Raffaello a cambiar registro di pittura in ogni sua forma e maniera. Infatti da un certo momento in poi ecco che ritroviamo in Madonne, Ninfe, Sante poco note, Veneri e perfino dentro le facce di giovani efebi, sempre il volto di Margherita, spesso dipinta ignuda, di fronte, di scorcio, di schiena, sdraiata, dormiente, perfino con le ali... sempre Margherita.
Lo sguardo puntato sullo spettatore
Nella Madonna che abbraccia il Bambino è la prima volta che incontriamo in un quadro di Raffaello un gesto tanto appassionato e autentico nella madre santa, la donna stringe a sé il bambino come volesse per intero legarlo al proprio corpo. E guardate bene il viso della Vergine: è il ritratto della Fornarina. Ed è anche la prima volta che in una Madonna di Raffaello, tanto la vergine che il bambino puntano gli occhi verso gli spettatori che li osservano.
C’è anche un’altra, detta la Madonna della Seggiola, ed è composta dentro un cerchio. Le braccia della Madonna e le gambe del figlio disegnano figure geometriche roteanti intorno al centro. Si tratta di un capolavoro di potenza inarrivabile. A nostro avviso, la più bella Madonna che abbia mai dipinto Raffaello. Una Madonna popolare, anzi popolana, che mostra il suo orecchio scoperto. Significa che Raffaello ha compiuto anche un salto di classe. Ha deciso che da questo momento la Vergine madre non è più una fanciulla nobile ma una donna del popolo. E scusate se è poco.

Corriere Salute 15.3.15
Nuova ipotesi sugli attacchi di panico
A provocarli potrebbe essere una forma di paura di aver paura
di D. di D.


Una strana forma di paura della paura potrebbe essere alla base dei tanto temuti attacchi di panico. È l’ipotesi avanzata da un modello cognitivo di questo disturbo che frequentemente inizia a presentarsi già nell’adolescenza e che colpisce soprattutto le donne, ma che non risparmia neppure gli uomini. All’attacco di panico spesso si associa la cosiddetta agorafobia, la specifica paura di trovarsi in luoghi nei quali può essere difficile o imbarazzante ricevere soccorso.
Secondo questo modello, alla base dell’insorgenza degli attacchi di panico ci sarebbe un’interpretazione erronea, di carattere catastrofico, di sensazioni di per sé normali e trascurabili provenienti dal corpo o dalla stessa mente. Interpretazione catastrofica vuol dire attribuire un esagerato significato negativo e patologico a sensazioni che magari un’altra persona quasi neppure noterebbe. «Le sensazioni che vengono più frequentemente mal interpretate sono soprattutto quelle collegate alle normali risposte ansiose — dicono alcuni ricercatori guidati da Myriam Rudaz, del Department of psychology dell’University of California di Los Angeles, autori di un articolo pubblicato sulla rivista Depression and Anxiety , dedicato proprio alla paura della paura —. Ad esempio, si tratta di palpitazioni o di vertigini, ma includono anche altre sensazioni fisiche o mentali, come la percezione di corpuscoli nel campo visivo o sensazioni di vuoto mentale. L’ipotesi è che, quando queste sensazioni sono percepite come catastrofiche, l’ansia che ne deriva produce un aumento delle stesse sensazioni. Ne risulta così un circolo vizioso di sensazioni, risposte ansiose e pensieri catastrofici che alla fine sfociano nell’attacco di panico». Quindi, secondo tale ipotesi, a provocare l’attacco di panico sarebbe, pur senza rendersene conto, la stessa persona che ne soffre.
Questo modello cognitivo della genesi degli attacchi di panico è più di una semplice ipotesi. Diversi studi hanno dimostrato che chi soffre di attacchi di panico ha davvero la tendenza a dare interpretazioni catastrofiche di innocui segnali provenienti dal suo interno. Un tratto che, pur con sfumature diverse, si trova più in generale in chi soffre di disturbi d’ansia, anche se in questo ultimo caso le interpretazioni catastrofiche tendono a coinvolgere principalmente i segnali provenienti dal mondo esterno. Sottoposte a questionari per la rilevazione della paura di segnali interni, come il Body sensation questionnaire, le persone che soffrono di attacchi di panico fanno registrare punteggi più elevati sia rispetto a chi soffre di disturbi d’ansia, sia nei confronti della popolazione generale.
Un interessante legame esiste anche tra gli attacchi di panico e l’ipocondria, la paura delle malattie in generale, oggi ridefinita all’interno del DSM-5, l’ultima versione del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric Association. In questa nuova versione l’ipocondria non è più considerata in quanto tale, ma è stata sostituita da due diversi disturbi: il disturbo da sintomi somatici e quello da ansia di malattia. Il primo è caratterizzato da un elevato livello di ansia per la salute alla quale si associano sintomi somatici percepiti dalla persona; il secondo è costituito essenzialmente dalla sola ansia per la propria salute. Alcune ricerche hanno chiarito come in quasi la metà delle persone che soffrono di attacchi di panico con o senza agorafobia, prima che questi si manifestassero, erano già presenti altri sintomi correlabili alla fobia delle malattie.
D. d. D.

Corriere La Lettura 15.3.15
La coscienza è figlia dei microbi
Il sistema nervoso copia il sistema immunitario che ci aiuta a riconoscere l’altro da noi (e forgia l’«io»)
di Sandro Modeo


Stranamente, nel suo libro notevole sulle «grandi tappe dell’evoluzione», dalla fotosintesi al Dna, dal movimento alla coscienza ( Le invenzioni della vita , il Saggiatore), il biochimico Nick Lane esclude la comparsa del sistema immunitario; eppure, una sequenza simile dovrebbe suonargli necessaria. È una rimozione sintomatica, che aiuta a spiegare quella più generale patita dall’immunologia, disciplina che uno dei suoi protagonisti, l’australiano Frank Macfarlane Burnet, eleggeva a «scienza filosofica», e che invece arriva alla platea mediatica per lo più con generiche e spesso fuorvianti zoomate biomediche, come quella sull’inutilità-nocività dei vaccini.
Per fortuna due libri provano a sottrarla al cono d’ombra. Il primo, dell’immunologo britannico Daniel Davis ( The Compatibility Gene , appena ristampato in paperback ), mette a fuoco i nessi tra immunologia e genetica, concentrandosi soprattutto sull’Mhc o «complesso maggiore di istocompatibilità», cioè su quel network di geni altamente polimorfi che sovrintendono per esempio alla risposta immunitaria nei rigetti di trapianto. Il secondo, della neuro-immunologa israeliana Michal Schwartz ( Neuroimmunity , di prossima pubblicazione da Yale) è invece una rassegna aggiornata sul rapporto tra i processi immunitari e il sistema nervoso, con le relative implicazioni diagnostiche e terapeutiche per una vasta gamma di neuro e psicopatologie (dall’Alzheimer alla depressione).
In sintonia nel ripercorrere le stazioni-chiave del «pensiero immunologico» proprio nell’accezione di Burnet, i due scienziati convergono anche nell’evocarne (la Schwartz, fatalmente, in modo più esplicito) uno dei motivi più avvincenti: il tradursi delle omologie strutturali tra il sistema immunitario e quello nervoso in un’analogia funzionale tra l’identità «biologica» dell’individuo e quella psicologica; tra la discriminazione fra self (sé) e not-self (non-sé) che l’organismo compie quando gli anticorpi si oppongono agli antigeni (virus e batteri) e quella tra l’«io» della coscienza e l’ambiente circostante, tra la mente e il mondo.
Per comprendere a fondo questo accostamento, è utile tornare ai libri di Gerald Edelman, lo scienziato (scomparso quasi un anno fa) che più d’ogni altro li ha studiati e illuminati insieme , vincendo da un lato il Nobel per i suoi contributi sulla struttura degli anticorpi e formulando, dall’altro, una delle teorie più originali sulla genesi della coscienza. Decisiva è proprio la descrizione dell’orchestrazione immunitaria, incentrata sul «continuo adattamento» (la capacità di distinguere i propri costituenti molecolari da quelli degli «invasori», contrastando questi ultimi con anticorpi ad hoc ) e sulla «memoria» (la facoltà di conservare progenie di quegli anticorpi in caso di ritorno dello stesso agente).
Il passaggio cruciale, fortemente contro-intuitivo, consiste nel fatto che l’anticorpo non «si adatta» all’antigene che gli si presenta per la prima volta assumendo informazioni sulla sua forma e struttura e costruendo sul momento la chiave giusta per la serratura; al contrario, il sistema è composto da un repertorio vastissimo di cellule coi relativi anticorpi (di chiavi «elastiche») in attesa attiva; e quando un antigene (o meglio una sua porzione) si lega a un anticorpo in modo «più o meno» complementare, stimola la cellula che porta quell’anticorpo (il linfocita) a dividersi e quindi a riprodursi.
Sono così evidenti i tratti comuni tra i due sistemi, immunitario e nervoso. Tutti e due si basano sull’«adattamento» e la «memoria»; tutti e due funzionano non «per istruzione», ma «per selezione», cioè non con «risposte» agli stimoli, ma con una ridondanza di «proposte» a monte che si traducono in adattamenti a valle visibili solo a posteriori (vedi, nel cervello del neonato, tra i 2 e i 4 mesi, il mezzo milione di sinapsi al secondo sottoposte a scrematura selettiva); e tutti e due ricordano come l’evoluzione sia un processo insieme robusto e plastico, strutturato e aperto: vedi, nell’anticorpo, la partizione tra regioni fisse e variabili, le seconde legate al rimescolamento genetico nei linfociti in seguito ai feedback dell’esperienza.
Quest’ultimo punto rimarca, per inciso, l’irriducibile soggettività dell’identità immunitaria, anche in questo analoga a quella dell’assetto neurale. Del resto, le omologie-analogie (e persino le sovrapposizioni e prossimità) sono avvertibili anche risalendo lungo la filogenesi. In tutti e due i sistemi, infatti, vediamo sia la continuità tra organismi ancestrali e più evoluti, sia lo svilupparsi di strutture diverse (in linee evolutive separate) per le stesse soluzioni adattative. Lo schema di discriminazione tra self e not-self del sistema immunitario, per esempio, emerge già in invertebrati come le larve di stelle marine nel famoso esperimento di uno dei padri fondatori dell’immunologia, Ilya Mechnikov, con gruppi di cellule che si coalizzano «circondando» le spine introdotte dallo scienziato; mentre «fossili viventi» come le lamprede, apparse 400 milioni di anni fa, dispiegano un sistema di difese differente dal nostro, ma altrettanto efficiente (sottoposte all’antrace, riescono con un gene a produrre miliardi di possibili proteine immunitarie), sconfessando la credenza che il sistema immunitario «adattativo» (specifico e più plastico) si sia sviluppato nei vertebrati da quello innato (aspecifico e più rigido) anche grazie alla mandibola, della quale le lamprede sono sprovviste. Quanto ai sistemi nervosi «primitivi», già a partire da organismi pluricellulari di 600 milioni di anni fa appaiono circuiti a rete; mentre un protista come il paramecio, davanti a un ostacolo, mostra un’eccitabilità elettrica (un cambiamento di voltaggio) che anticipa il «potenziale d’azione» dei nostri neuroni.
A sintesi di tutto, risaltano certe colonie di antichissime spugne, le cui proteine di adesione cellulare sono i precursori sia di quelle dei recettori delle nostre sinapsi, sia delle dinamiche molecolari immunitarie: dimostrazione definitiva dell’incessante ricombinazione di strutture e funzioni nel corso del bricolage evolutivo. A rigore, ha ragione Edelman a ricordare come i due sistemi — immunitario e nervoso — presentino molte somiglianze di principio e divergano poi nei meccanismi e nei dettagli. Ma è altrettanto vero che i loro nessi, evolutivi e strutturali, sono la chiave (vedi la Schwartz) di tante neuropatologie, come si vede nel rapporto tra alterazione dei neurotrasmettitori nella depressione e insorgenza di allergie e malattie autoimmuni, o tra infezioni virali e quadri psicotici acuti come la schizofrenia. Di conseguenza, quei nessi restituiscono anche al rapporto fisiologico mente/corpo una concretezza e un’esattezza cui sembrano averlo sottratto l’evasività e le approssimazioni di tanta psicologia naïf o new age .
In fondo, la distanza tra il «sé» psicologico e quello immunitario è meno siderale di quanto si creda: tutti e due convergono nell’eseguire la partitura della nostra identità irripetibile; quella musica (scrive Eliot nei Quartetti ) «sentita così intimamente da non essere nemmeno sentita».

Corriere La Lettura 15.3.15
Il perturbante è desiderio senza freni: la tv insegna
di Anna Momigliano


Che cosa rende qualcosa raccapricciante, da brivido? Che cosa genera in noi quella combinazione di repulsione e paura difficile da descrivere, facendoci accapponare la pelle? Il filosofo tedesco Friedrich Schelling, nella Filosofia della Mitologia (1835), definì l’ Unheimlich — ciò che incute timore, tradotto anche «perturbante» — come «ciò che avrebbe dovuto restare nascosto ma è venuto allo scoperto». Più tardi Sigmund Freud, nel saggio Das Unheimliche (1919, pubblicato in italiano come Il perturbante ) riprese le teorie di Schelling giungendo a una definizione diversa: è «perturbante» ciò che «ci è noto da lungo tempo, che ci è familiare e che è diventato estraneo alla mente attraverso la repressione».
Charles Dickens, nel suo capolavoro David Copperfield (1849), coniò invece una nuova espressione — the creeps , termine oggi diffusissimo nel mondo anglofono — per descrivere una sensazione a metà strada tra il ribrezzo e la paura. Traducibile come «brividi» (più difficile rendere l’aggettivo che ne deriva, creepy ), l’espressione the creeps ha un’etimologia complessa: dal verbo to creep (strisciare, insinuarsi), nell’Inghilterra del XIX secolo erano definiti creeps i ladri specializzati nell’intrufolarsi dentro i bordelli.
Dickens ricorse a quell’immaginario di maligna invasione della privacy — che avveniva, per giunta, in un luogo volto a custodire il nascosto: le case chiuse — per indicare i brividi generati non dal freddo, bensì da un misto tra repulsione e timore. Partendo da Freud e Dickens, il giovane filosofo e teologo Adam Kotsko ha provato ad analizzare il raccapricciante nella cultura pop con il saggio Creepiness , appena uscito negli Usa per Zero Books (pagine 137, $ 13.50). Classe 1980, docente allo Shimer College di Chicago e traduttore di Giorgio Agamben, Kotsko passa in rassegna film e, soprattutto, serie tv.
L’immaginario contemporaneo, sostiene, è popolato da figure inquietanti che si intrufolano nelle esistenze altrui, come i vampiri di True Blood o Don Draper di Mad Men , impostore che ricopre la parte dell’intruso nella sua stessa famiglia. Kotsko però si spinge oltre, trovando una nuova definizione del ribrezzo: dà i brividi ciò che comunica «un desiderio invadente e smodato», diretto là dove non dovrebbe esserlo. Ciò che rende particolarmente raccapriccianti alcuni maschi «provoloni», che continuano a fare avance alle ragazze nonostante i rifiuti, spiega Kotsko, è precisamente il fatto che non si preoccupano del loro fallimento: dunque non è l’idea di conquistare una bella donna che li eccita, bensì l’atto stesso di importunarla. Kotsko la definisce «energia sessuale dislocata»: il desiderio è perturbante di per sé, ma diventa più perturbante quando è senza speranza.

Corriere 15.3.15
I versi irriverenti della Szymborska che indispettirono il vate Milosz


Un lavoro certosino quello delle due biografe di Wislawa Szymborska, la poetessa polacca premio Nobel per la Letteratura scomparsa tre anni fa. Per comporre Cianfrusaglie del passato (Adelphi) le due ricercatrici, Anna Bikont e Joanna Szczesna, hanno avvicinato decine di amici e conoscenti della poetessa, hanno passato al setaccio fine la sua opera, hanno letto, indagato, controllato un numero straordinario di fonti, dirette e indirette, e poi, naturalmente, hanno incontrato più volte la protagonista del loro libro, intrattenendosi in lunghe conversazioni con lei.
Tessera dopo tessera il ritratto si è andato formando, ma si sente che il compito è stato particolarmente impegnativo: per la semplice ragione che Wislawa non amava parlar di sé e della sua vita privata, evitava con massima cura gli incontri pubblici, le cerimonie ufficiali e volentieri faceva a meno di firmare copie dei suoi libri; era timida, discreta e riservata. Del resto, lei stessa diceva: «Non sono al centro dei miei interessi». Figurarsi, perciò, lo stress che deve aver rappresentato per lei l’assegnazione, nel 1996, del Nobel con tutto il suo contorno di cerimonie.
Si può dire che da quel momento la sua vita si trasformò in una battaglia di posizione per cercare salvezza dagli inviti a tenere conferenze, inaugurare festival, salire su palchi, pronunciare discorsi, visitare centri culturali, istituzioni e biblioteche dentro e fuori la Polonia. Non a caso per tre anni non riuscì a scrivere nemmeno una poesia. Però rime scherzose sì, che erano un po’ la sua specialità, brevi filastrocche giocose per il divertimento suo e degli amici, una specie di «seconda linea» che è sempre andata in parallelo con la prima, quella alta e (più) seria.
Così scherzando descrisse, per esempio, il suo conterraneo, il poeta e premio Nobel a sua volta, Czeslaw Milosz, con il quale, a partire appunto dal ’96, entrò in una certa confidenza, sempre mista — da parte di lei — a soggezione: «Incede Milosz, severo, assorto./ Prostrati e recita un Padrenostro». E pare che il vate non si divertì affatto quando gliela lessero.
L’ironia — mista a melanconia — è comunque il segno di riconoscimento di tutta la sua opera, come lo sono anche i temi domestici, mai «alti», e i toni lievi, mai solenni, per dei versi sostanzialmente facili, accessibili, dai quali volentieri ci si fa accompagnare, come fossero testi di un breviario da tenere sempre a portata di mano. Raccontano questi versi di quel che vede e sente, commentano quel che succede intorno a lei. Per questo le biografe li hanno analizzati con puntiglio, spremendoli, in un certo senso, per ottenere più notizie possibili sulla loro autrice. E infatti, disseminati con criterio tra le pagine, accuratamente riecheggiano gli avvenimenti, i ragionamenti, gli incontri narrati da quanti conoscevano e frequentavano Wislawa, qualche rara volta anche da lei stessa.
Apprendiamo così della sua famiglia «bene», un tempo agiata poi finita in miseria, dell’adesione — breve — al comunismo seguita da un distanziamento progressivo dalla politica di qualsiasi segno; del suo primo marito, il poeta Adam Wlodek, rimasto amico e suo primo lettore anche dopo la separazione; apprendiamo del grande amore, durato oltre vent’anni, con il bellissimo scrittore Kornel Filipowicz, appassionato di pesca, di bridge e di escursioni nella natura; apprendiamo della sua passione per i collage che mandava ad amici e conoscenti, dei suoi ripetuti viaggi — lei che non amava viaggiare — in Italia dove, tra l’altro, a Bologna, nell’aula magna dell’Università, in un colloquio con Umberto Eco, fece accorrere millesettecento spettatori, numero mai uguagliato in nessun’altra sua apparizione pubblica.
E apprendiamo anche di come la vedevano coloro che le erano vicini, familiari, colleghi scrittori, amici: una signora fragile, schiva, elegante, quasi una dama settecentesca di grande classe, spiritosissima, che leggeva, leggeva, in modo quasi maniacale, qualsiasi cosa, anche guide o manuali di vario tipo, per esempio di geografia, di archeologia, perfino di ornitologia.

Corriere La Lettura 15.3.15
I due viaggi di Dino Campana : in Sud America e dentro la sua anima
di Ermanno Paccagnini


Sono sempre «incursioni dietro le linee per catturare la vita» quelle di Laura Pariani. Specie se si tratta di autori. Era accaduto con Garcilaso de la Vega «El Inca» in La spada e la luna (1995); con Nietzsche in La foto d’Orta (2001); con Witold Gombrowicz in La straduzione (2004), e con Dostoevskij sempre a Orta in Nostra Signora degli scorpioni (2014).
In Questo viaggio chiamavamo amore tocca a Dino Campana, rivisitato nel buco nero del 1907 della fuga come «matto» da Marradi e famiglia per imbarcarsi per Montevideo: viaggio di «al massimo sei mesi, traversate incluse» (ricorda Vassalli), di cui restano suggestioni poetiche in Viaggio a Montevideo . In tal senso il romanzo non solo si offre a dittico con La straduzione , dandosi entrambi i protagonisti, oltre che affetti da una sia pur differente forma di «pazzia» (così si qualifica Gombrowicz), come fuggiaschi in quell’Argentina luogo privilegiato di molti romanzi della Pariani; ma, considerando la ricordata alternanza dei luoghi d’ambientazione, suggerisce pure certa specularità sia con le «fughe» dell’autrice che ha scelto di dividersi tra Orta e Argentina, sia d’un rileggersi scrittoriamente attraverso quelle figure, sia pur più lievemente e sotterraneamente rispetto a La straduzione , rapportando il tutto alla intimità dei sentimenti di libertà, solitudine e sul senso stesso dello scrivere.

Quanto al romanzo, strutturalmente è suddiviso tra il piano del presente (dal novembre 1926 all’aprile 1930, con postilla nel 1932 della morte), quando al Regio Manicomio di Castel Pulci il «Màt Campèna» viene «tormentato da un certo dottor Pariani che tramite suggestione vuole trasformarmi in un uomo diverso», per darne poi conto nel discusso volume Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore ; e il piano del lontano viaggio del 1907 verso lo «spazio grande» e libero dell’America quale rifugio alla «propria fragilità» e vulnerabilità della «propria anima». Un viaggio che ora, chiuso tra i «muri grigi e muffosi» del cronicario, gli si dà quale luogo ideale per la libertà della mente, scappando «fuori da qui, col ricordo di viaggi lontani»: rivivendo però con l’avventura di vent’anni prima, pure l’abisso che «è dentro di me, proprio qui in mezzo alla mia mente». Ed è un viaggio dalle forme tutte mentali (si tratti di «lettera», «visione», «taccuino», la stessa sillabazione dei versi di Baudelaire o Rimbaud), nel segno di una immaginazione al tempo stesso dolorosa e liberatoria, visionaria e introspettiva, propria di chi viene «intingendo la dritta penna del mio affetto nel mio negrissimo inchiostro interiore».
Una visionarietà ricca di incontri «magici», soprattutto femminili, che l’autrice dona al poeta nel corso del suo viaggio da Montevideo a Rosario, a piedi o con mezzi occasionali, mantenendosi con lavori provvisori quali il bicicletero , guardiano di zoo, sterratore o fuochista per le ferrovie, tra emigrati, gauchos, schiave, prostitute e nobildonne, che Campana fa rivivere in forma di lettera (ben undici, ai personaggi più diversi: da un ragazzo emigrante a De Sade, Edison, ma pure «a Noi»), di conversazioni, messaggi telepatici, telefonate (a Freud), suggestioni radiotelefoniche. Di qui la pluralità di registri narrativi: tra un Campana ora mentalmente epistolografo; ora mentalmente postillatore tra insofferenza, derisione e «volontà di contar balle» degli incontri col credulone «avversario» Pariani; ora offerto con prospettiva interna in terza persona, con passaggi più narrativi sui rapporti col personale, in specie con la «stupida gradígia di quel tal Calibàn» infermiere. Momenti nei quali Laura Pariani gioca anche su differenti registri linguistici, oltre che su screziature che svariano dal parlato alla citazione, alle diverse lingue colte o da emigrante.
Perché, se nelle lettere è l’autrice a regalare a Campana il proprio mondo visionario del Sudamerica, nel ripiegarsi di Campana su di sé, sulla propria solitudine, sulle interrogazioni a proposito della scrittura, sulla «nostra brama di assoluto», sul rapporto scrittura-mondo, è invece il poeta a suggerire momenti di riflessione. Senza che con tutto ciò sia fatta violenza alla poesia, all’umanità e alla storia stessa del poeta; di cui sono richiamati con leggerezza di tocco anche vari momenti biografici, pure quelli sgradevolmente leggendari.

Il Sole Domenica 15.3.15
Peccato e Misericordia
Papa Francesco indice un Giubileo su un tema al centro delle riflessioni del teologo luterano Bonhoeffer, ucciso da Hitler esattamente 70 anni fa


Ogni giorno la comunità cristiana canta: «Ho ricevuto misericordia». Ho avuto questo dono anche quando ho chiuso il mio cuore a Dio; quando ho intrapreso la via del peccato; quando ho amato le mie colpe più di Lui; quando ho incontrato miseria e sofferenza in cambio di quello che ho commesso; quando mi sono smarrito e non ho trovato la via del ritorno. Allora è stata la parola del Signore a venirmi incontro. Allora ho capito: egli mi ama. Gesù mi ha trovato: mi è stato vicino, soltanto Lui. Mi ha dato conforto, ha perdonato tutti i miei errori e non mi ha incolpato del male. Quando ero suo nemico e non rispettavo i suoi comandamenti, mi ha trattato come un amico. Quando gli ho fatto del male, mi ha ricambiato solo con il bene. Non mi ha condannato per i misfatti compiuti, ma mi ha cercato incessantemente e senza rancore. Ha sofferto per me ed è morto per me. Ha sopportato tutto per me. Mi ha vinto. Il Padre ha ritrovato suo figlio. Pensiamo a tutto questo quando intoniamo quel canto. Fatico a comprendere perché il Signore mi ami così, perché io gli sia così caro. Non posso capire come egli sia riuscito e abbia voluto vincere il mio cuore con il suo amore, posso soltanto dire: «Ho ricevuto misericordia».
23 gennaio 1938

La sofferenza del giusto
«Molti sono i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore» (Salmo 34, 20). Il giusto soffre per il mondo, l’ingiusto no. Il giusto soffre per cose che per altri sono naturali e necessarie. Il giusto soffre per l’ingiustizia, l’insensatezza e l’assurdità degli avvenimenti. Soffre per la distruzione dell’ordine divino del matrimonio e della famiglia. Soffre per questi motivi non soltanto perché gli appaiono come una privazione, ma perché riconosce in essi qualcosa di malvagio, di empio. Intorno a lui tutti dicono: è così, sarà sempre così e così dev’essere. Il giusto dice: non dovrebbe essere così, è contro Dio. Il giusto si riconoscerà proprio dalla sua sofferenza: egli porta, per così dire, il sensorio del Signore sulla terra. Per questo egli soffre come il creatore soffre nel mondo. Nella sofferenza del giusto, però, c’è sempre l’aiuto del Padre, che gli è continuamente vicino. Il giusto sa che lo lascia soffrire affinché impari ad amarlo per causa sua. Nella sofferenza il giusto trova Dio. È questo il suo aiuto. Trovate Dio nella vostra separazione e troverete aiuto!
8 giugno 1944

Tempi malvagi
Sono tempi malvagi, quelli in cui il mondo tace l’ingiustizia, quelli in cui l’oppressione dei poveri e dei miseri provoca un forte grido rivolto al cielo che lascia indifferenti i giudici e i potenti; quando le comunità perseguitate e sofferenti chiedono aiuto al cielo e giustizia agli uomini e sulla terra non si leva nessuna voce per difendere i loro diritti. Sono figli di Dio quelli che subiscono questi soprusi, non dobbiamo dimenticarlo: sono uomini come voi, sentono dolore come voi, subiscono la violenza che proviene da voi; hanno gioie e speranze come voi, provano onore e vergogna come voi; sono peccatori come voi e come voi hanno bisogno della misericordia del Signore; sono vostri fratelli! Sono muti? No, non lo sono, possiamo sentire ovunque le loro voci, ma le loro parole sono spietate, parziali. Non puntano alla giustizia, ma alla considerazione della persona. No, voi giudicate iniquamente sulla terra e le vostre azioni aprono la strada alla violenza. Quando la bocca dei padroni del mondo tace per ingiustizia, le braccia si preparano a compiere azioni malvagie. Il linguaggio espresso da questi atti è spaventoso e non crea equità. Da qui nascono la miseria e il dolore del corpo; la comunità perseguitata, prigioniera e sconfitta, prova il desiderio di redenzione. Abbandonatemi nelle mani del Signore, ma non in quelle degli uomini!
11 luglio 1937

Perché neghiamo i nostri peccati?
Esiste una sola via che piace a Dio e agli uomini: non negare le colpe, ma riconoscerle. Se finora non lo abbiamo fatto, c’è ancora tempo, se decidiamo di inginocchiarci davanti al Signore per ammettere i nostri peccati. Ci sono vari modi per negare le proprie colpe:
– Farle ricadere sugli altri. Incolpare il prossimo per liberare noi stessi, diventare accusatori dei fratelli. Equivale al tradimento e all’omicidio!
– Attribuirle al mio modo particolare di essere, a una mia predisposizione. «Non mi va», «non dipende da me», «ho bisogno di qualcosa di diverso». Rappresenta un pretesto infame per rifiutare la responsabilità che il creatore mi ha affidato. In questo modo divento accusatore di Dio.
– Minimizzare ogni cosa. È una «soluzione amichevole» di tutte queste faccende e dei peccati, una mancanza di rispetto per il fratello, per la vita in comune guidata dalla parola, dalla preghiera, dalla messa. Perché neghiamo le nostre colpe?
– Per paura di dovermi riconoscere come un cattivo cristiano e di dover prendere su di me tutta la responsabilità.
– Per paura di Dio, di avere a che fare con Lui e con la sua misericordia.
– Per paura delle conseguenze. Se riconosco il male me ne devo allontanare e questo comporta effetti evidenti. Gli altri se ne accorgeranno. Dovrò andare dal mio prossimo e chiedere perdono, cominciare finalmente a combattere contro di me e contro il peccato, rinunciando alla quiete e alla comodità . Devo rischiare e considerare la penitenza. Per questo nego tutto. Tuttavia non riesco a fare nemmeno ciò che voglio. Riconoscere il peccato e allontanarsene: questo è possibile. In che modo?
– Ammettendo di essere il colpevole di tutto. Non sono le circostanze, gli altri, una mia predisposizione: la colpa è mia. Il resto non c’entra. Sono io che ho disprezzato la messa, io che non ho sfruttato il tempo a mia disposizione per pregare, io che non ho rispettato il mio simile, che non ho pregato per lui, che non ho chiesto aiuto e consiglio. Solo io!
– Andando dal fratello per chiedergli perdono, in modo che non ci sia più nulla che ci separi.
– Con la penitenza. Ultima raccomandazione. Se non sei in grado di non peccare più, ne sarai capace con la penitenza. Questo riuscirai a farlo. Infine, rinuncia. L’odio per il peccato cresce con l’amore per Dio. Inizia una nuova vita con l’aiuto del Signore.
– Traduzione di Anna Maria Foli
© 2015 - edizioni Piemme
Dietrich Bonhoeffer

Il Sole Domenica 15.3.15
Ivan Pavlov 1849-1936
La biografia di Todes sullo scienziato russo basata su documenti finora inaccessibili è una miniera di sorprese e di informazioni
di Ermanno Bencivenga


Questo trimestre tengo due seminari, su Kant e Hegel. In entrambi abbiamo due libri di testo; ogni settimana ne discutiamo a fondo, per tre ore, una quarantina di pagine. Una mia studentessa nel frattempo sta prendendo un altro seminario, per cui vengono assegnati due libri la settimana. Lei, un po’ spaventata, ha espresso le sue preoccupazioni all’insegnante, che le ha risposto: «Ma non lo sai? I libri non si leggono, si sfogliano».
La frase mi è tornata in mente quando una decina di giorni fa ho aperto Ivan Pavlov di Daniel Todes, un libro di oltre 800 pagine su cui avevo deciso di scrivere. A suggerirmela è stato il fatto che più di un collega, nel corso degli anni, mi ha confessato a mezza voce di recensire un libro, spesso, basandosi sulla quarta di copertina. A me questa pratica, prima ancora che intellettualmente dubbia, è sempre apparsa autolesionista: leggere un libro spalanca un mondo; far finta di leggerlo significa buttare a mare l’opportunità che ci offre.
Visto che il libro riguarda uno scienziato sperimentale, tentiamo un esperimento: quale sarebbe la differenza fra recensire questo libro in base alle brevi descrizioni che lo promuovono e in base a una sua lettura? Dalle brevi descrizioni appuriamo quanto segue: (1) La traduzione «riflesso condizionato» è errata. Pavlov usava invece «riflesso condizionale», sottolineando non tanto il fissarsi di una reazione a un certo stimolo quanto invece il fatto che quella reazione si stabilisce sotto certe condizioni e svanisce sotto altre, mentre un riflesso «non condizionale» (per esempio la salivazione alla vista del cibo) si verifica comunque. (2) Durante il regime sovietico, e anche stalinista, Pavlov fu un clamoroso dissidente, che criticava in pubblico il governo ed era tollerato solo per la sua reputazione internazionale. Scomparso alla vigilia delle grandi purghe dei tardi anni Trenta, fu poi sfruttato dalla propaganda sovietica come brillante esempio di scienziato materialista, e anche dal behaviorismo americano che lo assimilò alla propria ideologia. Lui, in realtà, non negò l’esistenza e l’importanza della mente e dell’esperienza soggettiva, e concepiva la sua ricerca come tesa a illuminarne la struttura. (3) Lavorando per vent’anni e consultando documenti mai prima accessibili, Todes ha composto la prima «definitiva» biografia che separa l’uomo e lo scienziato dal mito.
Ce ne sarebbe abbastanza per scrivere un pezzo; convenite? Perché sottoporsi alla fatica di leggere questo tomo? Per scoprire che Pavlov, nel preparare il suo classico testo del 1897 sul sistema digestivo, selezionava fra i dati quelli che gli facevano comodo (in un caso, due su un totale di trentadue per «dimostrare» una regolarità che altrimenti non si presenterebbe)? Per apprendere che, dei quattro finalisti per il premio Nobel del 1901, Pavlov dovette aspettare il suo turno fino al 1904, e anche allora lo vinse a dispetto di gravi critiche solo perché aveva amici influenti nella commissione? Per assistere al suo imbarazzante annuncio nel 1924 di aver provato l’ereditarietà di caratteri acquisiti (la cui ritrattazione non impedì al regime sovietico di arruolarlo dopo morto in difesa della disastrosa «biologia» di Lysenko)? O per seguirlo mentre lo stato lo coccola investendo fondi enormi in istituti di ricerca da lui diretti (con risultati molto modesti) fino a riceverne gli interessi quando il famoso dissidente inaugura il congresso di fisiologia a Leningrado nel 1935 ringraziandolo per il suo sostegno alla scienza e la sua difesa della pace? Tempo perso, sembrerebbe.
Vediamo. Intorno a pagina 660 Pavlov sta esaminando il comportamento di due scimpanzè che imparano ad accumulare scatole per salirci sopra e raggiungere un frutto appeso in alto. È contrario alla spiegazione gestaltista di Wolfgang Köhler; per lui i primati procedono per semplici tentativi ed errori, seguiti dallo stabilirsi di un’associazione quando l’esito è vantaggioso. Ma decide di non chiamare questa associazione «riflesso condizionale». Perché? Perché gli scimpanzé stanno imparando qualcosa di vero. E finalmente capiamo che cosa c’è in ballo nella sua preferenza per «condizionale» su «condizionato»: associare la salivazione al suono di un metronomo non serve a niente, è un ghiribizzo dello sperimentatore, dimostra che ai cani (e forse agli esseri umani) si può fare di tutto; quando è la realtà a «condizionare» (cioè a fissare) una nostra reazione, quello non è un ghiribizzo, è apprendimento. Il che suggerisce un’idea della realtà come tutt’altro che arbitraria e capricciosa, forse anche come benevola. Intorno a pagina 480 Pavlov sta dibattendo con Fursikov, un suo collaboratore marxista che ha scoperto un interessante fenomeno. Oltre ai riflessi ci sono anche le inibizioni condizionali: lo sperimentatore può creare nell’animale un blocco della salivazione in presenza di certi stimoli, dissociandoli dall’offerta di cibo. E Fursikov ha riscontrato l’esistenza di una «induzione reciproca»: riflessi e inibizioni (a stimoli diversi) non si oppongono soltanto ma si rinforzano. Pavlov e Fursikov sono entrambi materialisti (almeno metodologicamente), ma Fursikov è un materialista dialettico, che crede nell’interazione e nel superamento degli opposti in natura. Pavlov resiste e alla fine cede; indipendentemente dal corteggiamento personale che riceverà dal regime, il suo accordo con l’ideologia marxista è già scritto nel suo accordo con Fursikov.
Sono esempi delle piccole sorprese che possono arricchire il nostro rapporto con (1) e (2) e convincerci che, a dispetto dell’enorme erudizione di Todes, il suo lavoro (per fortuna!) non è definitivo: su Pavlov c’è ancora molto da riflettere e da discutere. Un libro è come un viaggio: se da esso non impariamo nulla di più di quel che sapevamo in partenza, se non ci lascia con qualche interrogativo, non valeva la pena di leggerlo. Ma come possiamo impararne alcunché se ci limitamo a sfogliarlo?

Daniel P. Todes, Ivan Pavlov: A Russian Life in Science, New York, Oxford University Press, pagg. xx+856, $39,95

Il Sole 15.3.15
Matematica
L’arte di scolpire teoremi
Da Pitagora a Gödel la domanda ricorrente sui numeri è sempre la stessa: esistevano già prima che li scoprissimo oppure li inventiamo?
di Carlo Rovelli


«Oh, amici, cosa sono dunque questi meravigliosi “numeri” sui quali voi state ragionando?». Così Platone ai matematici, nel VII libro della Repubblica. Ventiquattro secoli più tardi ci poniamo ancora la domanda. La risposta sembra facile: i numeri sono quelle “cose” come 1, 2, 3, 4 eccetera. Ma intanto ci sono altri numeri oltre a questi numeri “naturali”; per esempio, 3,14 è un numero. E poi, cosa sono queste “cose-numero”»? Sono una nostra invenzione, oppure sono qualcosa che esiste indipendentemente da noi?
Molti matematici rispondono con convinzione che i numeri, con tutta la matematica, esistono indipendentemente da noi. L’insieme delle verità matematiche forma una realtà astratta che i matematici vanno esplorando e scoprendo un po’ alla volta, come gli esploratori dell’Ottocento esploravano l’Africa. Alain Connes, grandissimo matematico francese, scrive che per lui i numeri hanno «una realtà più stabile della realtà materiale che ci circonda». Roger Penrose, grandissimo matematico inglese, gli fa eco: «C’è qualcosa d’importante che si guadagna pensando che le strutture matematiche abbiano una realtà in se stesse». Raro caso di accordo fra francesi e inglesi. Platone sarebbe stato felice di queste risposte: lui immaginava un mondo di idee perfetto, del quale il nostro mondo non sarebbe che un pallido riflesso. In questo ideale mondo platonico, la matematica aveva una posizione regina.
Ma ci sono altri modi di pensare cosa siano i numeri: per esempio un’utile costruzione che noi abbiamo inventato. Oppure l’utile sviluppo di un sistema di regole che noi decidiamo di studiare, perché è bello e perché ci torna utile. Insomma, una costruzione umana, molto umana. «Noi creiamo nuovi numeri», scriveva per esempio nel XIX secolo Richard Dedekind, il matematico che ha formulato la moderna teoria dei numeri che misurano quantità continue, come la lunghezza di un segmento.
La domanda sulla natura dei numeri apre e chiude un testo di Umberto Bottazzini, Numeri. Il libro è di facile lettura, ma denso di fatti di storia della matematica. Ripercorre secoli di evoluzione del concetto di numero, da Pitagora al teorema di incompletezza di Gödel. Si parla dei numeri naturali, delle complesse strutture che questi nascondono, come i numeri primi, ma anche dei numeri razionali, come 0,1, dei numeri reali, come la radice quadrata di due, dei numeri complessi, come la radice quadrata di -1 eccetera. Ciascuna classe di numeri con le sue proprietà, ciascuna rivelatasi poi utilissima, anzi essenziale, per la scienza.
Bottazzini prende risolutamente parte nella disputa sulla natura dei numeri, fino a concludere: «La credenza nell’esistenza di una matematica platonica che trascende i corpi e le menti umane e struttura il nostro universo – credenza che corrisponde alla filosofia “spontanea” diffusa fra i matematici – appare sempre più destinata a essere relegata a materia di fede, non dissimile dalla fede religiosa». Questa posizione anti platonica è illustrata ricordando il pensiero classico dei matematici dell’Ottocento che l’hanno sostenuta, ma soprattutto viene collegata da Bottazzini ai risultati recenti delle ricerche scientifiche sul modo in cui i numeri sono codificati nel nostro cervello, sulle capacità numeriche di altre specie animali e sulla variabilità nella padronanza dei numeri delle diverse culture umane.
Quello che emerge da questa sintesi è che forse non è del tutto vero che i numeri li «creiamo liberamente noi», come voleva Dedekind, ma solo nella misura in cui la nostra istintiva padronanza dell’azione del numerare non è che un risultato della nostra evoluzione biologica. Come in molti altri campi, la sensazione dell’esistenza di realtà trascendenti indipendenti da noi è un abbaglio, che viene dall’assumere che i termini del nostro linguaggio facciano sempre riferimento a qualcosa, quando invece spesso la loro funzione è diversa da quella di designare. Insomma, i numeri sono strumenti e forme di una attività in cui siamo impegnati, e alla quale in parte l’evoluzione ci ha predisposti, non entità con esistenza autonoma.
E la sensazione dei matematici di scoprire cose che già esistevano?
Michelangelo ci ha lasciato scritto che uno scultore non crea una statua, perché la statua esiste prima dell’artista: è già nel blocco di marmo. Quello che l’artista deve fare è solo levare la pietra in più e «tirare fuori» la statua dal blocco di marmo. Nello stesso modo, dall’insieme amorfo e privo di senso di tutte le «proposizioni vere» che seguono dall’insieme di «tutti i possibili sistemi assiomatici», il matematico estrae, come Michelangelo dal marmo, gli scintillanti teoremi che fanno la bellezza e l’utilità della matematica. Agli occhi di Michelangelo, di Alain Connes o di Roger Penrose, forse non si tratta che trovare quello che già “esiste” – in fondo “esistere” è un verbo che possiamo usare come ci pare –. Ma agli occhi del resto di noi, sono Michelangelo e i Matematici che creano le forme. Le forme che parlano a noi che sono utili a noi che hanno senso per noi creature naturali in un mondo naturale. Senza bisogno di immaginare realtà al di là della realtà.
Umberto Bottazzini, Numeri, il Mulino, Bologna, pagg.208, € 14,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Storia della scienza
Un puzzle, non una linea retta
di Anna Li Vigni


Se si provasse a chiedere a un liceale che cosa è il «progresso scientifico», probabilmente ne offrirebbe una visione idealistica, come di una “retta” che attraversa per lungo l’intero corso della storia umana dalle origini fino ai tempi nostri. Dal punto di vista etimologico non fa una grinza: progredior, in latino, significa “avanzare”. Vale la pena, però, fermarsi a riflettere, usando gli stessi strumenti critici coi quali il concetto di “progresso” fu smontato da Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: l’avvicendarsi degli eventi che hanno caratterizzato la scienza, così come il susseguirsi di quelli che hanno determinato la storia, sono entrambi frutto di una serie – spesso causale e non controllabile – di incalcolabili circostanze singolari, i cui protagonisti sono gli uomini, le loro intelligenze, i loro sentimenti, i condizionamenti in cui vivevano immersi. Si cominci col dire agli studenti che, quando si parla di storia della scienza, l’idea del puzzle è più adatta rispetto a quella della linea. Una riuscita operazione di critica alla storia della scienza la leggiamo oggi nel volume del matematico e collaboratore di questo supplemento Giulio Bartocci. Nel suo Dimostrare l’impossibile, ci regala la narrazione di numerosi “casi” – di alcune tra le principali scoperte storiche nel campo della matematica, della fisica, di ogni ambito scientifico – secondo una prospettiva che è al contempo elegantemente letteraria e filosoficamente ineccepibile, una narrazione divulgativa nella quale il gusto per l’aneddotica si fonde con la precisione descrittiva di svariate evidenze.
Prendiamo a esempio la cosiddetta «rivoluzione scientifica», un luogo comune di cui si scrive tanto nei libri di scuola: il concetto, introdotto da Alexandre Koyré nel 1934, induce l’idea di un “sisma” epistemologico che avrebbe fatto crollare all’istante l’edificio della cosmologia tradizionale tolemaica agli esordi della modernità. Ma ciò non rende giustizia alla complessità dell’ampio ed eclettico tessuto culturale che ha contribuito alla creazione di quella nuova sensibilità, pronta a inglobare, sebbene in modo drammatico, le conseguenze teoriche delle osservazioni astronomiche fatte da Galilei; si pensi alla realistica rappresentazione della luna presente in un affresco del pittore amico di Galilei, il Cigoli, che di sicuro osservò il cielo col cannocchiale dello scienziato. Leggendo la biografia dell’americano George Starkey, che nel 1650 a Londra diviene amico di Sir Robert Boyle, scopriremo che l’arte alchemica, tanto denigrata dagli storici, non è poi così lontana dalla moderna chimica. Ci arrampicheremo sulle barricate parigine durante i moti rivoluzionari del 1830 con Evariste Galois. Ipotizzeremo che la teoria della relatività di Einstein possa aver preso forma dalle sue letture giovanili delle avventure di Lumen, supereroe letterario che infrange le leggi del tempo viaggiando per il cosmo. Ci innamoreremo, con Paul Valéry, della matematica, una forma di “poesia” costruita nella ricerca del possibile in condizioni di impossibilità. Leggendo le vicissitudini biografiche e teoriche di tanti studiosi, impareremo che la vera scienza «si rivolge – deve rivolgersi – a tutti. Solo non venendo meno a questa imprescindibile condizione il discorso scientifico – articolato in una pluralità di voci, anche discordanti – può essere considerato un esempio di ciò che Kant nel saggio Che cos’è l’Illuminismo? definisce fare pubblico uso della propria ragione». L’iperspecialismo in cui versano le scienze contemporanee – ciascuna ermeticamente chiusa nel suo bunker epistemologico – è un male gravissimo di cui soffre la cultura odierna. Il risultato è un sempre maggiore disinteresse da parte delle persone nei confronti della scienza e una sempre minore vigilanza critica da parte dell’opinione pubblica sulle decisioni politiche che implicano l’utilizzo della scienza. Un male anacronistico, considerato che oggi la rete permetterebbe una diffusione sconfinata e immediata dei risultati scientifici, e non solo presso gli addetti ai lavori – nel 2009, ad esempio, Tim Gower ha proposto un difficile quiz matematico indistintamente a tutti i lettori del suo blog. Forse è un male ancora guaribile.
Claudio Bartocci, Dimostrare l’impossibile, Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 272, € 23,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Filosofia politica
Il diritto collettivo al territorio
di Sebastiano Maffettone


Foundations of a Theory of the Territory di Margaret Moore, che insegna presso l’Università di Queens in Canada, è un libro importante e assai ben scritto su un tema classico ma da tempo trascurato della politica, il territorio. Coerentemente con il titolo, il libro presenta una teoria filosofico-politica del territorio. L’autrice discute la questione seguendo tre direttive: la terra, gli stati e le persone. La tesi di fondo è che le persone hanno legami profondi con il luogo in cui vivono che, qualora strutturati istituzionalmente, sono alla base di un vero e proprio diritto collettivo al territorio. Questo diritto al territorio ha numerose implicazioni che vanno dalla proprietà della terra e delle risorse al fatto che non si possono spostare individui e gruppi dal loro territorio senza consenso. Il diritto al territorio, così inteso, ha un elemento personale, che Moore lega alla residenza stabile in un luogo, e uno collettivo, che l’autrice attribuisce ai “people”. Esiste a suo avviso addirittura una qualità speciale chiamata “peoplehood” (più o meno “essere un popolo”) da cui dipendono diritti collettivi al territorio. La concezione di popolo di Moore è originale e, come capita in casi del genere, controversa. Gli aspetti centrali della sua visione sono: (i) l’identificazione del popolo in base a identità di gruppo; (ii) queste identità di gruppo poggiano a loro volta su relazioni tra persone perduranti e significative; (iii) tali basi morali implicano un’aspirazione collettiva a controllare le istituzioni principali che regolano il collocamento fisico delle persone nel territorio. Il pregio maggiore di questa tesi – e anche il suo punto più arduo – consiste nel collegare in maniera stringente relazioni umane sostanziali di natura morale con l’idea fondamentalmente istituzionale di auto-determinazione politica dei popoli. Si differenza così sia dalle teorie statiste, che ritengono solo gli stati capaci di diritti territoriali, sia da quelle culturaliste che legano i diritti sul territorio alla comunità etnica o religiosa. Su questa base, Moore può scrivere, nel centrale capitolo terzo del volume, che «le ragioni per cui l’autonomia collettiva è importante rispecchiano alcune considerazioni o argomenti che fondano il valore dell’autonomia personale». Una tesi come questa rompe con l’istituzionalismo liberale tipico della teoria politica contemporanea, secondo il quale la giustizia non dipende direttamente dalla realizzazione dei fini morali degli individui. In questo modo, Moore fonda il potere legale sul territorio nella capacità relazionale delle persone che conduce poi al formarsi di una volontà politica.

Margaret Moore,A Political Theory of Territory, Oxford University Press, pagg. 280, £ 47,99

Il Sole Domenica 15.3.15
Psicologi e torture
Sofferenza senza confini


Se la storia ci impedisce di stupirci, ma non di inorridire, di fronte alle torture perpetrate da militari e poliziotti, lo stupore quasi sopravanza l’orrore quando veniamo a sapere di psicologi implicati in torture e umiliazioni di detenuti. In Pay Any Price: Greed, Power and Endless War ( Ad ogni costo: avidità, potere e la guerra infinita) James Risen, premio Pulitzer del «New York Times», ricostruisce alcuni retroscena della lotta al terrorismo al tempo dell’amministrazione Bush: operazioni svolte nell’ombra da agenzie governative, programmi di tortura e contratti milionari per le consulenze di «esperti di terrorismo». Dove pare che il ruolo dell’American Psychological Association (Apa), in quegli anni, non sia stato cristallino. Di grande rilievo è dunque la pubblicazione di un documento, l’«Executive Summary of the Senate Select Committee Report on Intelligence», a cui molti guardano come un primo passo di trasparenza nel cuore di tenebra della politica estera americana. Ma soprattutto come l’ammissione da parte del governo americano dell’esistenza di una policy of torture. Il report identifica due psicologi messi sotto contratto dalla Cia, per milioni e milioni di dollari, come consulenti per estorcere informazioni dai prigionieri attraverso interrogatori enhanced, cioè “rinforzati”. Quegli stessi interrogatori che Kathryn Bigelow ha rappresentato in Operazione Zero Dark Thirty, facendo infuriare senatori come John McCain e scrittori come Bret Easton Ellis (poi si è scusato) che hanno accusato la regista di diffondere falsità romanzate moralmente discutibili.
Le indiscrezioni sul coinvolgimento di psicologi in torture effettuate in strutture di detenzione americane risalgono al 2004, con la comparsa di un articolo di Neil Lewis sul «New York Times». Due anni dopo compare sul «Time» un articolo in cui si riferisce della presenza di psicologi in interrogatori “rinforzati” da deprivazioni di sonno, esposizione al freddo, diniego di usare il bagno, waterboarding. Tutti sistemi che, senza scomodare Gandhi («Se il prezzo del nostro vivere fosse la tortura di esseri senzienti, dovremmo rifiutarci di vivere»), la legge internazionale considera torture. Stando a Risen tutto risalirebbe al settembre 2003, quando alcuni psicologi avrebbero insegnato al personale di Guantanamo tecniche basate sull’inversione di alcuni principi Sere (Survival, Evasion, Resistance, Escape), cioè tecniche di resistenza sviluppate durante la guerra di Corea e insegnate ai soldati per sopravvivere, se catturati, alle torture. Come incursioni post traumatiche tornano alla memoria le immagini dei militari nella prigione irachena di Abu Ghraib.
Nel 2006 la Commissione per i Diritti umani dell’Onu riporta in modo esplicito la violazione sistematica dell’etica professionale da parte di professionisti della salute, riconosciuti come complici di abusi su detenuti. L’Apa, senza svolgere adeguate indagini, nega però la partecipazione di psicologi a questi interrogatori. E solo quando le prove diventano incontestabili, c’è una parziale ammissione. Va qui ricordato che, nel 2008, la vicenda era ormai di dominio pubblico, tanto che i membri Apa decidono di approvare con un referendum la proibizione per gli psicologi di lavorare in strutture di detenzione, se non per il beneficio specifico del detenuto o per un terzo indipendente.
Secondo Robert Roe, presidente della Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi (Efpa), che patrocinerà il XIV European Congress of Psychology che si terrà nel prossimo luglio a Milano, il rischio di psicologi coinvolti in interrogatori e torture esiste anche in Europa. Decide che bisogna meglio educare alla vigilanza quegli psicologi che si trovano a vivere situazioni in cui potrebbero diventare spettatori o attori di abusi, e per questo attiva una Task Force on Human Rights per indagare contesti istituzionali critici, come l’esercito e la polizia, e sensibilizzare gli psicologi ai temi dell’estremismo nazionalista, del fanatismo religioso, della xenofobia, del razzismo.
Nonostante qualche limite relativo alla trasparenza delle fonti, è interessante leggere il libro di Risen per ricordare che il nostro sacrosanto bisogno di sicurezza non deve mai lasciare spazio alla tentazione, sempre in agguato, in chiunque, di disumanizzare il nemico. Cioè di applicare (per il nostro divertimento, per la nostra aggressività, per la nostra noia) un “altro statuto”, appunto, “non umano”. L’esperimento di Zimbardo insegna.
«Il maltrattamento – continua Roe – è una minaccia costante all’interno delle “istituzioni chiuse”: scuole, collegi, conventi, case di riposo, carceri, centri di custodia cautelare eccetera; soprattutto dove i differenziali di potere sono grandi, nessun contatto è possibile con il mondo esterno e il segreto è la norma». È proprio su questi terreni difficili, lungo i confini dell’odio, che la psicologia può dare il meglio di sé assumendo una prospettiva transculturale. Lo testimonia Marwan Dwairy, docente all’Emek Yezreel Academic College e all’Oranim Academic College, che svolge la sua attività professionale a Nazareth, città araba in territorio israeliano. Dwairy racconta il suo approccio «culturalmente sensibile» nel bel volume Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani, appena pubblicato da Franco Angeli per la cura di Alfredo Ancora. Ci insegna infatti che il “confine” non ha solo un significato geopolitico, non è solo la linea che separa i territori (e le persone). Sul “confine” è possibile creare “spazi ulteriori”, facilitando la costruzione di ponti tra umani, anche se provengono da esperienze estreme su fronti nemici. Alla psicologia si chiede questo: l’esercizio della mediazione, non quello della sopraffazione né quello dell’estorsione.
James Risen, Pay Any Price: Greed, Power, and Endless War, Houghton-Mifflin Harcourt, New York, pagg. 286, $ 28,00
Marwan Dwairy, Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani, a cura di Alfredo Ancora, Franco Angeli, Milano, pagg. 208, € 29,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Biennale Democrazia. Scontro di civiltà
Possiamo evitare un’altra Lepanto?
La società occidentale è stretta tra i suoi principi democratici e l’insofferenza per le idee diverse dell’Islam
La scelta dovrà essere tra la reciprocità o la soppressione dell’altro
La nostra idea di Stato, centralizzato e dotato di solidi confini è del tutto diversa
da quella di umma islamica, comunità senza confini
di Luigi Bonanate


La storia politica internazionale aveva conosciuto una delle sue svolte più significative nel 1989, con la fine del bipolarismo. Allora tutti pensarono che il mondo fosse migliorato e tutto sarebbe diventato più facile. Ma nel 2001 si dovette ammettere che le cose non erano andate così bene, e anzi da allora abbiamo avuto due guerre (Afghanistan e Iraq), limitate ma devastanti, mentre di una terza che avanza non abbiamo compreso i connotati, e una gravissima crisi finanziaria internazionale. Molti ne hanno dedotto che quella profezia, in sé infondata e anche provocatoria, lanciata da Samuel Huntington, che la diversità delle culture dominanti (ora che, apparentemente, le ideologie politiche sarebbero morte — ma questo è un punto sul quale la riflessione dovrebbe essere molto più attenta) avrebbe finito per causare lo scontro tra l’Occidente e l’altro maggiore raggruppamento identitario al mondo, l’Islam.
Se oggi viviamo le convulse, drammatiche e non di rado disgustose, vicende della lotta che si è scatenata nel cosiddetto Vicino Oriente, sembra che ci sentiamo ancora ripetere da Huntington (il quale però non è più tra noi da diversi anni) che la sua analisi era corretta e il grande pericolo verso il quale l’Occidente si sta lasciando trascinare è lo scontro non più soltanto ideale o teologico, ma violento e militare, con l’Islam che non potrà concludersi che con un vincitore e uno sconfitto. Una nuova Battaglia di Lepanto ci attende?
Tutte queste vicende sono state (e questo Huntington non l’aveva previsto), immerse in una dimensione strategica che va, nel nostro mondo occidentale, sotto il nome di «terrorismo», parola che per noi evoca pagine di storia terribili, dai tempi delle sue manifestazioni all’interno degli stati a quelli delle Twin Towers, di Madrid, di Londra. I nostri giornali riferiscono le vicende del Medio Oriente come la «lotta al terrorismo». Ma dov’è il terrorismo? I jihadisti (chiamiamoli così per semplicità) non uccidono gli americani perché vogliono conquistare gli Usa, ma perché vogliono costruire un tipo di società – sulle loro terre – distinta e diversa da quelle che vogliamo noi. Vogliono mandarci via dalle loro terre: possibile che non lo si capisca? Vogliono utilizzare loro le loro risorse.
L’Occidente deve decidere una cosa: se predilige l’idea dell’eguaglianza universale e dell’autogoverno (basi della concezione democratica) deve ritirarsi da dovunque non sia ben accolto, e permettere a chiunque di autogovernarsi come vuole (dopo ciò, potrà impegnarsi nella ricostruzione di rapporti di civiltà). Altrimenti deve avere una concezione della società secondo la quale l’idea occidentalistica è superiore a qualsiasi altra, e dunque essa deve combattere, ovunque nel mondo, modelli di società diversi. Una alternativa sconvolgente, non semplice perché molto coinvolgente, è quella cui Biennale Democrazia ci spinge ora con il riferimento alla categoria dei «Passaggi». Essi implicano un punto a quo («da dove veniamo»), l’analisi della situazione presente («chi siamo» diventati), quale futuro ci attenda («vero dove andiamo»). Se questa scansione (chi non vi ha riconosciuto il titolo di una delle opere più straordinarie di Paul Gauguin?) si presta all’individuazione di veri e propri punti di passaggio, meno chiaro è se essi siano spontanei e involontari, o se essi siano invece il prodotto di una nostra lucida e forse luciferina volontà o — chi sa — di errori che abbiamo commesso in buona fede.
L’Occidente è stretto tra principi astrattamente democratici e l’insofferenza (intollerante) per le idee “diverse” dalle sue; vorrebbe che tutti fossero uguali, ma vuole essere lui a sfruttare le risorse naturali dei “diversi”. O gli Usa (e noi con loro) ammettono il principio di «indifferenza universale» e lasciano che ciascuno si prenda quel che vuole, ovviamente in condizioni di reciprocità. In questo modo gli unici conflitti astrattamente possibili diverrebbero quelli che violano questo principio nel tentativo di appropriarsi di qualcosa che non è loro. La cosa non è banalissima: mentre da diversi secoli l’Occidente sfrutta l’Oriente, estremo o medio, questi due non hanno mai sfruttato l’Occidente. Noi siamo andati e andiamo da loro, mentre soltanto ora essi vengono da noi, e nel modo terribile che sappiamo. Oppure devono decidere di partire alla conquista del mondo.
Anche in questo caso, tertium non datur: o ci si accetta reciprocamente o uno deve sopprimere l’altro. Ragioni storiche non misteriose e ben comprensibili hanno fatto sì che l’Occidente si sia sviluppato prima e sia prevalso sul resto del mondo. Ma a un certo punto e un po’ per volta le differenze si attenuano e le distanze socio-culturali ed economiche si riducono. Sotto certi profili ci si potrà anche sovrapporre e accettare la stessa medicina e le stesse cure che oggettivamente migliorano le condizioni di vita dei malati; ma su come debba essere organizzato uno stato, ebbene, questo non è un tema sul quale si possa giungere all’accordo universale.
Anzi: l’idea di autogoverno che l’Occidente ha sempre propugnato nasce proprio dalla constatazione che gli stessi principi non valgono per tutti e non tutto piace ugualmente a tutti. L’idea di Stato occidentale non corrisponde per nulla a quella di umma islamica, una comunità senza confini. L’Occidente è passato dal Sacro romano impero (unitario, anche se solo in teoria) fondato sulla respublica christiana allo “stato moderno”, centralizzato, e dotato di confini vieppiù alti, solidi ed evidenti. La società planetaria islamica non ha mai cercato di organizzarsi in questo modo.
Dobbiamo stabilire che hanno fatto male? Potrebbe anche darsi, ma dovremmo discuterne e darci una spiegazione delle ragioni della nostra presunta superiorità.
In mancanza di tutto ciò, continueremo a combattere il terrorismo e non lo potremo sconfiggere per la semplice ragione che non c’è!
Chiamiamo terrorismo quel che non ci piace: è sufficiente?
Cambiamenti radicali in un’epoca di crisi, attraversamenti di mondi da un luogo a un altro come raccontano le migrazioni dei popoli, come il succedersi delle generazioni, il superamento delle barriere, con nuovi inizi e opportunità. E poi ancora cambiamenti di identità, di età e di genere. Sulle molteplici declinazioni dei Passaggi si discuterà a Torino fra il 25 e il 29 marzo, per la quarta edizione di Biennale Democrazia. Ogni passaggio dischiude infatti orizzonti e apre possibilità: dalla crisi economica alle capacità previsionali dei Big Data, dalle grandi riforme che il nostro Paese deve affrontare alle scoperte della scienza, dalle mutazioni climatiche alle rivoluzioni del mondo del lavoro. La rassegna torinese sarà un laboratorio aperto, in cui trovare risposte e spunti sulle opportunità offerte dal cambiamento.
Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione, Colin Crouch, padre del concetto di Postdemocrazia, Benny Tai Yiu Ting, costituzionalista e promotore di Occupy Central, una delle componenti di Umbrella Revolution, il movimento per la democrazia a Hong Kong, saranno alcuni dei protagonisti dei cinque giorni della manifestazione. Un’analisi del contemporaneo che parte necessariamente dal passato ancora recente, con una nuova declinazione del format I Grandi Discorsi della Democrazia, nato nell’edizione 2011: quest’anno il filone sarà dedicato alla celebrazione del settantesimo anniversario della Liberazione, dalle lettere dal carcere di Vittorio Foa, selezionate da Carlo Ginzburg e lette da Giuseppe Cederna, ai discorsi di Winston Churchill, che prenderanno corpo nell’interpretazione di Umberto Orsini, autori e interpreti ricorderanno uno dei passaggi fondamentali della nostra storia. «Cento anni fa – commenta Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia – l’Italia entrava nel Primo conflitto Mondiale. Settanta anni fa si liberava dal fascismo e dall’occupazione nazista. E noi? Quali retaggi rifiutiamo e quali lasciti vogliamo accettare e tramandare? Di fronte alle politiche del rigore e al lievitare dei sentimenti antieuropei, l’Europa politica è ancora una speranza, o è già un’illusione? In un mondo attraversato da flussi finanziari e da scambi commerciali sconfinati, i confini devono valere solo per i popoli? E come sarà la cittadinanza del futuro?». Domande aperte intorno a cui ruotano le sezioni del calendario di appuntamenti: Transiti e Barriere, sulle rotte dell’umanità in transito, delle merci, dei dati e delle informazioni; Eredità e Inizi, sulla memoria pubblica e sulle amnesie collettive, sulle ferite non rimarginate e sugli errori da non ripetere; Velocità e lentezza, sulle continue trasformazioni del mondo del lavoro, sul consumismo culturale e sull’immediatezza della comunicazione che informa tutto fino alle relazioni umane; Possibilità, sulla cittadinanza del futuro, sui possibili approdi degli epocali cambiamenti che stiamo vivendo. A cercare di accendere una luce, alcune grandi lezioni, da quella inaugurale di Claudio Magris sull’Europa delle culture a Carlo Ossola sull’Europa e le crisi delle civiltà, a Conversio et Corruptio di Massimo Cacciari.

Il Sole Domenica 15.3.15
Gaetano Salvemini
La ragioni della libertà
Le lettere dagli Usa del grande politico condensano il suo pensiero di denuncia di ogni illiberalismo
di Gaetano Pecora


È stato scritto (Voltaire l’ha scritto) che il segreto per annoiare è di voler dire tutto. Noi non diremo “tutto” di queste Lettere americane che Renato Camurri ha curato e quasi ha coccolato con calore di sentimento e grande industria di dettagli. E anzi, sorvolandole a quota altissima, punteremo diritti sulla loro prima virtù. La quale si annuncia così, con la fresca confidenza delle cose immediate: nella corrispondenza di Salvemini è tale la varietà degli interlocutori; è tanta l’abbondanza dei temi affrontati; è tale e tanta la curiosità della vita, che anche nei momenti più difficili, anche nelle situazioni più crude, anche allora Salvemini non fu mai così calato nella sua pena da chiudersi in rassegnato isolamento. Sicché basta toccarlo anche solo con mano lieve questo libro, ed ecco che cede di schianto il rugginoso stereotipo dell’esule trasportato dagli eventi in un mondo alieno, che non capisce e dal quale non è capito; duro e refrattario, dunque, a ogni sollecitazione esterna che possa smuoverlo dal blocco dei convincimenti acquisiti nella vita precedente e nei quali lui, l’esule piegato dolorosamente su se stesso, si è come murato dentro, quasi con una certa dispettosa voluttà di sapersi spiacente a Dio e ai contemporanei suoi.
Intendiamoci: Salvemini fu personalità intagliata in un legno duro, per cui non bisogna esagerare troppo con i ripensamenti del periodo americano. Alcune idee, quella per esempio sulla necessità delle aristocrazie ­­­­- certo non ereditarie, certo rinnovate dal basso, ma sempre e comunque aristocrazie - alcune idee, dicevamo, gli ricantavano dentro già da tempo, e già da tempo Salvemini era entrato in un’altra aria dove respirava aperto il magistero degli elitisti (che perciò non è conquista dell’esilio). Discorrere di un Salvemini europeo e di un Salvemini americano, dunque, si può. Anzi si deve. A condizione però di precisare che la riga del limite è tenue e che peraltro Salvemini stesso ne disperdeva volentieri la traccia quando, anche a distanza di decenni, gli capitava di rilanciare motivi antichi dai quali, in fondo, non si era mai completamente distratto. Così è per la convinzione - sbagliatissima, un vero e proprio sbrego nella tessitura logica dei suoi ragionamenti - secondo cui la democrazia politica può riuscire compatibile con qualunque organizzazione economica, compresa quella collettivistica: idea, questa, che doveva essersi rappresa a qualche fibra segreta della sua sensibilità e che Salvemini non smise mai di sollecitare, né prima, né durante, né dopo gli anni americani. L’uomo era fatto così: duro, roccioso, difficile a spiantare dagli iniziali acquisti teorici. Ma Salvemini era anche l’uomo dalla conversazione aperta, che non si negava a nessuno, ma proprio a nessuno, convinto come egli era che anche nei pensieri storti, che anche nelle idee confuse, anche lì si potesse sempre setacciare una pagliuzza d’oro. E tutto ciò, chi aveva il fiuto delle cose vive, lo capì subito. Intanto lo capirono gli studenti di Harvard che uscivano deliziati dal brio, e talvolta dal brio indiavolato delle sue lezioni. Lo capirono poi gli esuli che gli si strinsero dintorno come per riflettersi nello specchio limpido della sua coscienza (e proprio ad alcuni di essi saranno dedicati i prossimi volumi di questa serie «Italiani dall’esilio»: La Piana, Chiaromonte, Borgese, Modigliani). E infine, nei circoli americani, la fama di Salvemini volò alta tra storici, politologi, giudici della Corte Suprema, giornalisti... Quali e quanti, dunque. Altro che isolamento e gemiti da sperduto nella notte! Appena accomodato sulla cattedra di “Storia della civiltà italiana” (era il 1934), Harvard - che nelle originarie intenzioni di Salvemini doveva essere il geloso tetto di uno soltanto - diventò così l’aperta casa di tanti, dove si andava e veniva, chi per sollecitare un giudizio, chi per denunciare un’ingiustizia e chi semplicemente per mettere in moto, attraverso la sferzata del contraddittorio con Salvemini, la macchina dei propri pensieri e ritrovare lì, svelte e pulite, tutte le ragioni che militano a favore della libertà. Queste ragioni Salvemini le andava esponendo di continuo, sempre rapide, sempre chiare e dirette. Come quando, per esempio, afferrato che ebbe il flagello della denuncia contro i comunisti (ma il ragionamento tirava dentro i suoi ingranaggi anche clericali e fascisti), egli scrisse così: «Noi non invidiamo ai comunisti una dottrina in forza della quale essi trattano gli altri esseri umani come le società protettrici degli animali trattano i cavalli e i cani. Noi chiamiamo gli uomini ad essere uomini. Non ci attribuiamo il diritto di misurar loro, nella nostra insindacabile saggezza, la loro razione di pane promettendo di renderla più abbondante. Diciamo loro che la loro razione di pane debbono conquistarsela da sé, giorno per giorno, e che tanta ne conquisteranno quanto saranno capaci di conquistarne». Bello, non è vero? Sicuro: è bello. Bello di una bellezza che non cura lenocini di forma e che proprio perciò trova ancora più veloce la via del cuore. E badi, il lettore: ragionamenti così, che restano giovani e verdi anche a distanza di anni, si rincorrono a dieci doppi nelle Lettere americane. E allora: perché non raccomandarle queste lettere proprio come un tesoro di pensiero vivo?

Gaetano Salvemini, Lettere americane. 1933-1948, a cura di Renato Camurri, Donzelli, Roma, pagg. 672, € 35,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Storia del giornalismo
C’è Del Duca nell’Unità!
La vicenda dell’imprenditore Cino, da fattorino e venditore di dispense porta a porta a editore di successo: la sua «presse du coeur» è dentro la Guido Veneziani, che sta rilevando il foglio Pd


Ormai è quasi fatta, la Guido Veneziani Editore si è aggiudicata quel che rimane (il marchio e poco più, certamente i debiti) della testata più iconica della sinistra italiana: «l’Unità». Era difficile immaginare che i resti dell’antico polo italiano del giornalismo rosa («Stop», «Intimità», «Vero», «Miracoli»...) potessero, con una offerta spericolata, tentare di rianimare il foglio fondato da Antonio Gramsci il 12 febbraio del 1924 e scomparso la scorsa estate dopo aver compiuto novant’anni.
Solo negli ultimi dieci anni della sua vita di giornale di partito, dal 2003 al 2012 (poi affiancato da «Europa», che diventa organo del Pd nel 2007 fino al 2012), «l’Unità» ha succhiato dalle tasche dei contribuenti circa 54 milioni di euro, per un esborso medio, a copia, di 100 euro (cifre pubbliche). Intanto, nello stesso periodo, cresce e prospera la Guido Veneziani Editore, erede dell’impero di Cino Del Duca (la presse du coeur), venduto nel 1994 a Quadratum e poi passato alla Gve nel 2007.
Dunque, il lungo viaggio iniziato dal garibaldino Giosuè Del Duca in occasione dell’ultima battaglia di Digione del 1871 (combattuta agli ordini dell’ “Eroe dei Due Mondi”) si conclude, quasi 150 anni dopo, col recupero de «l’Unità», vessillo di una rivoluzione solo sognata e mai realizzatasi nel nostro Paese.
Piccolo, anzi piccolissimo commerciante di provincia, Giosuè – nato a Montedinove, in provincia di Ascoli Piceno – pagherà amaramente le sue convinzioni garibaldine con continui rovesci finanziari. Cosicché Pacifico (detto Cino), il maggiore e il più intelligente dei suoi quattro figli, dovrà lasciare gli studi, per cominciare a lavorare a soli 13 anni. Cino, nato nel 1899, è però già uno straordinario imprenditore di se stesso: farà di tutto per mantenersi e aiutare la famiglia, girando le Marche come fattorino, piazzista di libri e soprattutto di romanzi popolari a dispense, fino a quando, compiuti i diciotto anni, non sarà costretto a partire per la Grande Guerra. Tornato decorato e assunto dalle Ferrovie, a causa della sua militanza socialista si guadagnerà un confino ad Agropoli (nel 1921) e un licenziamento – perché sovversivo – già nel 1923.
Si trasferirà quindi prima a Pavia e poi a Milano, dove dal ’24 al ’29 lavorerà per un altro editore, Lotario Vecchi, sempre vendendo dispense porta a porta, fino a quando nel 1929, coinvolgendo tutta la sua famiglia (un comportamento tipicamente marchigiano), creerà “La Moderna” (poi Casa Editrice Universo), con una tipografia di proprietà.
Il rivoluzionario, divenuto imprenditore e padroncino (ben quaranta operai), resterà comunque antifascista. Cino riesce a sfruttare un settore – quello dell’editoria rosa e per ragazzi – in cui è possibile realizzare profitti senza chinarsi platealmente a Mussolini. Del Duca non ha i soldi per pagare giornalisti e scrittori famosi, e quindi se li inventa: «Si offre la pubblicazione a Giovani Abilissimi Scrittori». Grazie a quest’annuncio, ne scoprirà moltissimi: giovani, e non solo scrittori, ma anche disegnatori e dirigenti.
La prima a rispondere all’appello è una donna, Luciana Peverelli, che lo accompagnerà per mezzo secolo in questa avventura, dirigendo le sue creature più importanti: «il Monello», rivista destinata ai ragazzi (titolo ispirato da Chaplin), «l’Intrepido» (prodotto per i più grandicelli) e, nel Secondo Dopoguerra, «Stop»,il vero padre del giornalismo gossip italiano.
All’inizio, però, la Peverelli esordisce con un libro a dispense, «Cuore Garibaldino», un romanzone chiaramente ispirato all’epopea di Giosuè Del Duca. Poi i veri colpi di genio, i primi giornali per ragazzi, non “confessionali” (giacché allora esistevano già il governativo «Corrierino», figlio del «Corriere della Sera», il cattolico «Giornalino», nonché il fascistissimo «Giornalino dei Balilla», mentre stava per arrivare, nel ’37, il cattolicissimo «Vittorioso»).
«Il Monello» nasce nel ’33, «l’Intrepido» nel ’35; vivranno fino agli anni Novanta, formando generazioni di ragazzi (compresa chi scrive), mentre la presse du coeur , attraverso il fotoromanzo, assolverà a un compito educativo importantissimo: non solo divertendo, ma insegnando addirittura a «vivere la modernità» a milioni di donne, dall’educazione sentimentale all’igiene personale.
Nel ’38, dopo il fallimento della sua casa editrice italiana, Cino Del Duca si trasferisce in Francia, dove riesce a stampare e a diffondere i suoi giornali anche sotto il regime di Vichy, conducendo un doppio gioco pericolosissimo che gli varrà, a guerra finita, la Legion d’Onore, la Croce di Guerra e la Medaille de la Reconnaissance Française. La sua nuova impresa era stata battezzata «Les Editions Mondiales», e mondiale lo sarebbe diventata davvero: nel Dopoguerra, «Nous Deux» in Francia, come «Grand Hotel» in Italia, tireranno un milione e duecentomila copie ciascuna.
Nel 1956 il cuore socialista di Del Duca si getta in una nuova avventura, stavolta italiana: la creazione di un quotidiano di centro-sinistra. Nasce «il Giorno» – diretto da Gaetano Baldacci –, promosso con un altro marchigiano, Enrico Mattei. Ma la loro alleanza si romperà presto.
Il 19 settembre 1957, Del Duca – sganciatosi da «il Giorno» – acquista «Franc-Tireur», ex giornale clandestino nato nel ’41, e lo trasforma in «Paris-Journal», con un lancio in grande stile. Un “rital”, come vengono chiamati con disprezzo gli italiani in Francia, che penetra e sconvolge il mondo dell’informazione quotidiana. «Il miliardario con il cuore a sinistra, il Re della stampa rosa», s’impadronisce di una grande fetta della stampa quotidiana. È il salto di qualità mai riuscito in Italia. Subito dopo, Del Duca diviene produttore cinematografico, lasciandoci alcuni tra i film più significativi della storia del cinema: L’Avventura di Antonioni, Il Bell’Antonio di Bolognini e Accattone di Pasolini.
Cino del Duca muore alla vigilia del ’68. Forse sorriderebbe (nella scheda segnaletica della polizia fascista era scritto proprio così: «espressione sorridente, segno della sua sicurezza»), pensando alla paradossale conclusione della nostra storia: «l’Unità» inghiottita dal polo rosa dell’editoria, erede della presse du coeur dello spericolato Del Duca, che nel suo campo fu un eccellente imprenditore, a differenza degli ultimi amministratori del giornale che ora verrà finalmente rilanciato da un imprenditore che ha dimostrato di essere altrettanto coraggioso e capace.
(Si ringraziano Anna e Italo Benvenga e Isabelle Antonutti per le preziose notizie)