martedì 17 marzo 2015

La Stampa 17.3.15
Landini alla Cgil: “Si attivi per la coalizione sociale”
Il leader della Fiom: «Battaglia alla luce del sole, non ho intenzione di presentarmi al voto». Ieri la Cgil aveva stoppato l’iniziativa: «Non sostituirsi alla politica». Il 28 manifestazione

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Corriere 17.3.15
Botta e risposta Landini-Camusso, nuove tensioni dentro alla Cgil
Duro confronto in casa Cgil. Camusso: «Landini non può stravolgere la natura della confederazione
Il leader Fiom: «La Cgil si schieri con la coalizione sociale»
di Rita Querzé

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Corriere 17.3.15
Nuove scintille sulla mossa di Landini La Cgil lo diffida: noi non c’entriamo
Oggi il faccia a faccia con Camusso, rischio rottura sulla manifestazione del 28
di Enrico Marro


ROMA La Cgil avvisa Maurizio Landini: il sindacato guidato da Susanna Camusso non vuole avere nulla a che fare con le mosse politiche del leader della Fiom. Landini deve dunque stare bene attento a non coinvolgere strutture sindacali in iniziative politiche. Non solo. La Cgil, oltre a ribadire la sua autonomia, entra nel merito del progetto di Landini, sottolineando che la prospettiva della cosiddetta «coalizione sociale» promossa dal segretario dei metalmeccanici è inconciliabile con l’unità sindacale con Cisl e Uil, che la Cgil rilancia. O l’una o l’altra.
È questo il senso della lunga discussione, ieri, nella segreteria confederale della Cgil, che ha avuto al centro il caso Landini. L’iniziativa del leader della Fiom, di promuovere una «coalizione sociale» di movimenti e soggetti politici a sinistra del Pd, ha indispettito non solo il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ma tutti i membri della segreteria. Non è un caso che al termine della riunione i vertici della confederazione abbiano deciso di esprimere la netta posizione anti Landini con un comunicato e con dichiarazioni di membri della segreteria ma non della stessa Camusso. Questo per sottolineare che la bocciatura viene da tutto il vertice della Cgil e probabilmente anche per evitare, alla vigilia del faccia a faccia di oggi sulla manifestazione che la Fiom ha indetto per il 28 marzo, che si scivoli in uno scontro personale tra Landini e Camusso. Tanto più che il primo è sospettato da più parti di mirare proprio alla poltrona del segretario generale.
Certo è che la Cgil non poteva far finta di nulla. E non solo perché l’attivismo politico di Landini espone la confederazione all’accusa di far politica anziché sindacato, ma soprattutto perché, nella sua sovraesposizione mediatica, il leader della Fiom spiega non solo di voler intervenire nel quadro politico, ma insiste sulla necessità di rivedere le procedure di selezione del gruppo dirigente della stessa Cgil. Più volte, per esempio, Landini ha detto che il segretario dovrebbe essere eletto coinvolgendo tutti i delegati di base. Insomma un’elezione diretta, anziché mediata dall’alto, dove è facile prevedere che lo stesso Landini sarebbe in gioco mentre ora gli è quasi impossibile scalare il vertice della confederazione. Scenari questi che la Cgil non può non considerare, visto che lo stesso Landini assicura di non voler formare un partito e che, nel 2018, quando scadrà il mandato alla guida della Fiom, sarà «a disposizione della Cgil». Che in sindacalese significa che non si preclude alcun obiettivo.
La sfida è lanciata. Ieri a Landini è stato mostrato il cartellino giallo: «La coalizione sociale così come viene proposta non rientra né può rientrare tra le iniziative che la Cgil e le proprie strutture possono a qualsiasi titolo promuovere, fatte salve le scelte individuali che non implichino il coinvolgimento delle strutture», ammonisce il comunicato della Cgil. Landini accetterà la diffida o sfiderà il cartellino rosso? Il primo banco di prova è proprio la manifestazione Fiom del 28 a Roma. Se Landini la volesse trasformare nel trampolino di lancio della «coalizione sociale», la Cgil non parteciperebbe.

il Fatto 17.3.15
La Cgil mette il veto
“Coalizione? Solo a titolo individuale”
Camusso alla Fiom: Nessuna struttura del sindacato  autorizzata a promuovere un progetto politico
Landini: Eravate informati. Ma ora rischia la testa
di Salvatore Cannavò


Non in mio nome né in quello della Cgil. Se Maurizio Landini vuole lanciare una “Coalizione sociale” può farlo a titolo individuale. Perché l’iniziativa “non rientra né può rientrare tra le iniziative della Cgil o delle sue strutture”. Se proprio la si vuole lanciare, lo si può fare “a titolo individuale”.
È DURO L’ESITO della lunga riunione della segreteria nazionale della Cgil convocata per discutere il “caso Landini” e che ha diramato una lettera all’intera organizzazione: “Va infatti riaffermata con forza – si legge nella lettera – l’autonomia della Cgil rispetto a tutte le iniziative che si collocano nell’alveo della politica e del confronto tra schieramenti politici, sia pure con tratti che richiamano più l'idea del movimento che non quella della forma partito. In assenza dell’autonomia viene negata la nostra peculiare soggettività politica”. Vengono “fatte salve le scelte individuali” che però “non implichino il coinvolgimento delle Strutture
“La proposta di una coalizione sociale – ha risposto ieri Landini – non è di un singolo, ma è stata votata dall’assemblea Fiom di Cervia, alla presenza di un rappresentante della segreteria nazionale della Cgil”. Quella decisione, però, non è riconosciuta dalla Cgil che la sconfessa. La stessa manifestazione del 28 marzo, se fosse propedeutica a un soggetto politico, vedrebbe la Cgil ritirare il proprio sostegno. E non si capisce, al momento, cosa potrebbe succedere nel caso in cui Landini dovesse andare avanti. Tanto che la mossa potrebbe essere interpretata come la richiesta della testa del segretario Fiom.
Le avvisaglie dello scontro imminente si erano avute già in mattinata quando a esprimersi contro Landini era stata la segreteria di una delle regioni più legate all’attuale vertice di Corso Italia, quella lombarda seguita dalla dichiarazione di uno dei dirigenti più legati a Susanna Camusso come il segretario della Fillea, Walter Schiavella. Posizioni che hanno provocato l’immediata risposto della Fiom con il segretario della Lombardia o con uno dei giovani dirigenti del sindacato, il responsabile Auto, Michele De Palma.
Finora, Camusso e Landini sono stati uniti nel contrastare il Jobs Act di Matteo Renzi ma ora la riforma è stata approvata e occorre ripensare al futuro. La Cgil punta a un percorso di lungo periodo, cercando di strappare contratto per contratto i diritti negati dal Jobs Act e di rilanciarsi, tramite la petizione per un “nuovo Statuto dei lavoratori”. C’è chi ipotizza che sia anche interessata a mantenere un rapporto con la sinistra del Pd tornata a battere dei colpi, ipotesi però smentita dal vertice di Corso Italia.
Sullo sfondo, c’è sempre l’ipotesi di poter ricucire con Cisl e Uil. Un assaggio lo si è avuto ieri mattina con la firma, su iniziativa del presidente Inps, Tito Boeri, della convenzione per certificare gli iscritti ai sindacati in modo da dare attuazione all’accordo sulla rappresentanza. In quel testo, siglato il 10 gennaio del 2014 e finito in un cassetto, si legge che per stabilire la rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della legittimità degli accordi firmati, sarà l’Inps a fare da garante. E non a caso, in quella sede, a lanciarsi direttamente contro Landini sono stati sia la segretaria Cisl Annamaria Furlan, che quello della Uil, Carmelo Barbagallo.
SUL LATO OPPOSTO, Landini ha deciso di affrontare il tema del “rinnovamento del sindacato” promuovendo una “coalizione” che, nelle sue intenzioni, deve ricucire figure sociali diverse, ricostruire massa critica e permettere al sindacato di parlare un linguaggio generale.
C’è, infine, anche un nodo interno. Ieri, la discussione sui documenti per la prossima Conferenza d’organizzazione ha rasentato la rottura. Oggetto del contendere, le modalità con cui si punta a eleggere il segretario generale e la partecipazione della base. Quella base che, nei convincimenti della Fiom, conferirebbe un maggior sostegno alle posizioni di Landini. Nell’incontro di questa mattina si parlerà anche di questo.

Repubblica 17.3.15
La Cgil dà l’alt a Landini “Non facciamo politica”. E la Camusso lo convoca
La segreteria boccia la Coalizione sociale anti-Renzi “Le scelte individuali non coinvolgano le strutture”
di Paolo Griseri


ROMA La Cgil sconfessa la Fiom. Al termine di una lunga riunione della segreteria nazionale, il sindacato guidato da Susanna Camusso prende le distanze dalla «coalizione sociale» lanciata da Maurizio Landini. La nota di corso d’Italia è dura. La strada della coalizione, si legge, «così come viene proposta non rientra e non può rientrare tra le iniziative che la Cgil e le proprie strutture possono a qualsiasi titolo promuovere, fatte salve le scelte individuali». E questo perché il bisogno di politica «non può portare né la Cgil né alcuna sua struttura a sostituirsi alla stessa politica o alla promozione di formazioni politiche». Attacco duro perché l’accusa a Landini di voler fondare un partito è la stessa che viene da Matteo Renzi. Così, poche righe più in là, la segreteria Cgil specifica che «va riaffermata con forza l’autonomia della Cgil rispetto a tutte le iniziative che si collocano nell’alveo della politica sia pure con tratti che richiamo più l’idea di movimento che non quella della forma partito».
Bocciatura pesante che segna di fatto la rottura tra Camusso e Landini dopo mesi di alleanza contro i provvedimenti del Jobs act del governo Renzi. Come reagirà la Fiom, clamorosamente messa nell’angolo dalla sua confederazione? Questa mattina, fa sapere Landini (forse per evitare di dare l’impressione di essere stato convocato) ci sarà il faccia a faccia con Camusso. Molti segnali fanno ritenere che ciascuno uscirà dalla stanza con le sue convinzioni. Nel comunicato della segreteria Cgil non si fa cenno della manifestazione promossa dalla Fiom il 28 marzo. Iniziativa a sostegno dei diritti del lavoro che evidentemente viene ora letta come il primo appuntamento della «coalizione sociale». Il testo della scomunica contiene invece una punzecchiatura al segretario della Fiom quando si legge che «è indispensabile accrescere un forte profilo autonomo dai partiti per affermare, come ci ha insegnato Trentin, pari dignità tra rappresentanza politica e rappresentanza sindacale ». Era stato proprio Landini, nei giorni scorsi, a citare Trentin a sostegno della sua idea di coalizione sociale aperta alle associazioni della società civile.
Messaggi nella bottiglia al termine di una giornata di tensione. Con la Cgil della Lombardia (la regione di Camusso) che prende subito le distanze dalla Fiom e Susanna Camusso che cita Cesare Pavese: «Su Landini si fanno troppi pettegolezzi ». Nelle stesse ore il leader della Fiom ripete: «La Cgil era informata del progetto di coalizione sociale ». Ora che lo scontro è ufficiale, le strade inevitabilmente divergono. La Cgil che «persegue la strada della contrattazione e dell’unità con Cisl e Uil» e la Fiom che cerca alleanze nel sociale. Ma l’appello del sindacato di Susanna Camusso non è solo ai metalmeccanici. C’è anche un attacco diretto a Matteo Renzi: «Non è accettabile che il premier strumentalizzi una discussione interna all’organizzazione per svalutare le proposte della Cgil e irridere al successo delle recenti mobilitazioni». Il riferimento è alle battute di Renzi sul fatto che dopo le proposte di Landini «si capisce perché la Cgil ce l’aveva con il governo». Ma al posizione di corso d’Italia non è semplice, stretta tra il fronte interno con la Fiom e quello esterno con il governo. La guerra con Landini promette di proseguire almeno fino all’autunno quando si terrà la conferenza di organizzazione della Cgil, possibile occasione per lo scontro decisivo.

Repubblica 17.3.15
Don Luigi Ciotti
“Libera è fuori da questi giochi ma sta con la Fiom se difende i diritti”
La lotta alla povertà, contro le ingiustizie, impegno che ci deve coinvolgere tutti Crediamo che il governo vada incoraggiato a fare bene la sua parte
intervista di Eleonora Cappelli


BOLOGNA «Lo devo dire con chiarezza: Libera non aderisce a nessuna coalizione per il semplice fatto che è un coordinamento di associazioni, più di 1.600. Ciascuna realtà è libera di aderire, di costruire i propri percorsi e fare le proprie scelte. Ma Libera non aderisce. Con Fiom ed Emergency noi collaboriamo, Gino Strada, Maurizio Landini, Cecilia Strada sono da anni amici per cui nutro stima e affetto». Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, è in questi giorni a Bologna per preparare la manifestazione del 21 marzo, “La verità illumina la giustizia”. E dice di non avere intenzione di scendere in politica, neanche con la coalizione sociale proposta da Maurizio Landini: «Libera deve restare fuori da questi giochi» Don Luigi Ciotti, su alcune proposte, come il reddito di cittadinanza, Libera ha posizioni non certo neutre. Lo stesso Landini a Bologna il 21 terrà un seminario sull’argomento. Questo non si traduce in un’adesione alla coalizione sociale?
«In occasione di Contromafie abbiamo fatto un documento finale, per chiedere alla politica alcune cose e tra queste c’era il reddito di cittadinanza. Perché per noi è una questione profondamente legata alla dignità umana e alla libertà della gente. Chi è povero non è libero, chi non ha la casa non è libero, chi non ha un lavoro non è libero. Noi diciamo che c’è una relazione tra lotta alle mafie e diritti civili. Abbiamo mandato a tutti i capigruppo del Senato e della Camera queste conclusioni ».
E come è andata a finire?
«Ci hanno risposto i 5Stelle. Noi li abbiamo incontrati nella nostra sede, a Roma, siamo disposti a collaborare con chiunque se l’obiettivo è di servizio alla collettività. Abbiamo detto loro: perché non unite il progetto di Sel, quello di una parte del Pd e il vostro? Dalla base è bello portare il proprio contributo».
La vostra partecipazione alla riunione di “battesimo” della coalizione sociale è stata comunque percepita come una forte vicinanza, anche solo a livello ideale, non è così?
«Non c’è adesione alla coalizione ma ai temi. La lotta alle forme di povertà, contro le ingiustizie, la lotta per il lavoro, per i servizi sociali, per la salute, è un impegno che ci deve coinvolgere tutti come cittadini. Io credo in questo, ho speso la vita per questo. Dopodiché incoraggiamo il governo a fare bene la sua parte».
Il governo però con la coalizione sociale appena nata sembra già ai ferri corti...
«Il governo non deve temere di essere stimolato e di confrontarsi. La coalizione sociale vuole essere uno stimolo e ben venga. C’è una sete, un bisogno di un rinnovamento che non perda per strada la dignità delle persone, i diritti al fianco dei doveri».
Se Landini domani dicesse che la coalizione sociale è un nuovo partito, che si candida alle elezioni, Libera ci sarebbe?
«No, no, Libera non c’è neanche nella coalizione, la mia vita è la lotta alla povertà, io faccio altro».
La Chiesa deve restare fuori da questi ambiti, secondo lei?
«Amo una Chiesa che non è muta e inerte quando viene negato un diritto, uno non può tacere quando viene calpestata la dignità della gente, in un Paese dove è cresciuta la povertà relativa e assoluta, dove c’è il problema del lavoro e della casa. Io vivo da 50 anni con i poveri nel Gruppo Abele. Fa parte del mio impegno la lotta a tutto questo».
Nessun impegno diretto in un partito però...
«Per carità. Ma sai, tutti ti prendono un po’ per la giacca, Libera però deve essere al di sopra delle parti, fuori da questi giochi. Disposta a collaborare con tutti se l’obiettivo è di stare al servizio della collettività. Del resto l’unico che parla con chiarezza oggi è il Papa».

La Stampa 17.3.15
La Tangentopoli delle grandi opere
I magistrati: favori al figlio del ministro Lupi
Funzionari oscurin e politici imbelli
di Massimo Gramellini


Noi non conosciamo i tecnocrati di Stato, questa casta segreta di dirigenti pubblici che le statistiche internazionali considerano la meno efficiente e la più pagata del mondo. Non li conosciamo perché si rifiutano scaltramente di andare in televisione: l’assenza di volto è per loro garanzia di impunità e di durata.
Chi di voi, fino a ieri, sapeva dell’esistenza di Ercole Incalza, da trent’anni burattinaio delle grandi opere, colui che decide cosa si fa e soprattutto chi lo fa? Proviene dalla Cassa del Mezzogiorno, la «cantera» dello spreco italico, e da lì è passato ai Lavori Pubblici, dove ha comandato da monarca assoluto con gli ultimi sette governi di destra, sinistra e centro.
Il processo ci dirà se l’ingegner Incalza è davvero il corruttore che lo accusano di essere. Di sicuro consentire a un uomo - fosse anche San Francesco - di imbullonarsi per decenni a una poltrona, maturando relazioni e segreti che potrà usare come arma di scambio e di ricatto, è lo specchio di un sistema marcio e imbelle. Perché noi non sapevamo di Incalza, ma la politica sì.
Arrivato al ministero, l’onorevole Lupi ha trovato il mandarino dei Lavori Pubblici ormai in pensione eppure ancora al vertice di una fantomatica «struttura tecnica di missione» che gli consentiva di continuare a dirigere, a settantuno anni, il traffico degli appalti.
Invece di accompagnarlo ai giardinetti, Lupi lo ha difeso in privato e nelle aule parlamentari, lodandone le qualità insostituibili quando i Cinquestelle ne chiesero la testa. E adesso si scopre che l’imprenditore Perotti, indagato perché in combutta con Incalza, regalò al figlio neolaureato del ministro un Rolex e un posto di lavoro nello studio del cognato. Corrotti, corruttori, figli e cognati: il selfie del nostro Paese.
La nausea è tanta, ma la soluzione sarebbe semplice. Limitare drasticamente la durata degli incarichi pubblici e considerare il ministro in carica responsabile degli atti firmati dai suoi burocrati. In tal caso, Lupi dovrebbe dimettersi in giornata.

Repubblica 17.3.15
Lupi
Le tre spine di un ministro
di Sebastiano Messina


QUANDO la macchia nera della corruzione si spande su appalti per 25 miliardi, quando viene arrestato per corruzione il super-dirigente del ministero che controllava tutte le grandi opere, quando vengono indagati 51 personaggi di ogni colore politico, non si può più parlare di episodi occasionali.
DI casi isolati, di zone d’ombra. È giusto, è corretto, è inevitabile parlare — come hanno fatto i magistrati di Firenze — di «un articolato sistema corruttivo», nel quale chi assegnava quei colossali lavori e chi si aggiudicava gli appalti erano strettamente legati da «reciproci rapporti di interesse illecito». Altre volte, certo, erano emerse le complicità ministeriali ed era affiorato il fiume di denaro che serviva a ungere le ruote dei grandi appalti. Ma il fatto che ieri sia stato arrestato l’uomo che da quattordici anni era il responsabile numero uno delle grandi opere nazionali, quell’Ercole Incalza che fino a pochi mesi fa guidava la Struttura Tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture, legittima il sospetto che il cancro della corruzione sia ormai arrivato — e chissà da quanto tempo — al cuore dello Stato. Autorizza il dubbio — e forse qualcosa di più che un dubbio — che mentre noi coltivavamo l’illusione di uno Stato che magari non riesce a estirpare la malapianta delle tangenti, ma cerca almeno di non farsi imbrogliare dai costruttori, nelle stanze del ministero corrotti e corruttori si incontravano per pilotare gli appalti. Perché era lì, al ministero delle Infrastrutture, che un imprenditore di cui non molti italiani conoscevano fino a ieri il nome — Stefano Perotti — riusciva a ottenere immancabilmente l’incarico di progettare e di dirigere 17 grandi opere, dalle autostrade alle ferrovie, dalle metropolitane all’alta velocità, e l’uomo che doveva essere il suo supercontrollore veniva ricambiato con consulenze e incarichi «lautamente retribuiti».
Tranne Sel e i grillini, che il 4 luglio scorso avevano chiesto le dimissioni di quel dirigente, già pluri-indagato ma mai condannato, questa bomba giudiziaria non risparmia nessuno. Nemmeno il Pd: l’ex sottosegretario Antonio Bargone, l’ex presidente della Provincia di Modena Graziano Pattuzzi, l’ex assessore alla Mobilità dell’Emilia Romagna Alfredo Peri e l’ex consigliere regionale Vladimiro Fiammenghi sono tra i 51 indagati e appartengono all’area politica del partito del presidente del Consiglio, insieme a una variegata compagnia dominata da esponenti del centrodestra, vecchio e nuovo.
Di fronte a queste notizie, i cittadini hanno il diritto di domandarsi a cosa serva avere un’Autorità anticorruzione diretta da un eccellente magistrato se poi dev’essere la Procura di Firenze a scoprire il marcio che c’è in un ministero. E anche quegli italiani che non credono affatto alla propaganda pentastellata che vorrebbe destra e sinistra complici nella corruzione oggi si chiedono come mai, a due anni dall’inizio della legislatura, non sia ancora arrivata in aula la legge contro la corruzione. Di fronte a questi legittimi interrogativi non basta, non può bastare, il tweet con cui Matteo Renzi ha risposto a questo nuovo capitolo di Tangentopoli («Contro corruzione proposte governo: pene aumentate e prescrizione raddoppiata. E l’Autorità oggi è legge con Cantone presidente»). Servono norme immediate ed efficaci. Servono pene più severe. Servono scelte coraggiose, facendo pulizia nelle stanze dei ministeri prima e non dopo l’arrivo dei carabinieri. Questo è ciò che gli italiani si attendono da Renzi.
Ma c’è qualcos’altro, in questa inchiesta, che investe direttamente uno degli uomini più in vista del governo: il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Il suo nome non è nell’elenco degli indagati, perché non gli viene contestato alcun reato, ma dalle carte dell’inchiesta emergono tre vicende che chiamano in causa la responsabilità politica del ministro. La prima è che Perotti — l’uomo da 25 miliardi — fece assumere il figlio di Lupi, Luca, da un’impresa amica. Un incarico che secondo Perotti valeva 2.000 euro al mese e per il ministro solo 1.300, ma che l’imprenditore procurò al giovane ingegnere appena laureato definendolo «un giovane che ho bisogno di far entrare», mostrandosi però preoccupato che la cosa si venisse a sapere. La seconda vicenda è il Rolex da 10.350 euro che lo stesso Perotti aveva regalato al giovane Lupi per la sua laurea: facendoglielo consegnare da un funzionario del ministero al quale versava 7.000 euro al mese per suoi servigi, ovviamente in nero. Poi, al terzo posto, c’è l’appassionata difesa che il ministro fa del suo superdirigente e della sua struttura, non solo in Parlamento ma anche in privato: «Su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo, hai capito?».
A questo punto, Maurizio Lupi si trova di fronte a due domande. La prima: è eticamente accettabile per un uomo di governo che suo figlio accetti un Rolex da un imprenditore che gestisce lavori pubblici per 25 miliardi e poi vada anche a lavorare per lui? La seconda: quando un ministro difende come ha fatto lui il suo dirigente più potente, minacciando addirittura una crisi di governo se viene toccato quel centro di potere, e poi quel dirigente viene arrestato per corruzione, non sente su di sé la pesantissima responsabilità di non aver capito nulla di ciò che avveniva attorno a lui? Sono due domande semplici, che aspettano una risposta degna di un uomo di governo.

Repubblica 17.3.15
Unire e semplificare
Fare subito chiarezza
di Giorgio Santilli


La nuova inchiesta della magistratura fiorentina sulle grandi opere ripropone la questione della corruzione diffusa in Italia, in particolare nel settore degli appalti. Prima di ogni altra considerazione va ripetuto che qualunque atto di corruzione deve essere punito severamente: ladri e corrotti devono stare in galera e il malaffare va estirpato dal tessuto economico italiano. Al tempo stesso, la politica deve essere al di sopra di ogni sospetto e per questo è necessario che il ministro Lupi chiarisca fino in fondo la propria posizione.
Il malaffare frena la crescita, penalizza gli imprenditori onesti, falsa la concorrenza, accolla alla cittadinanza tempi e costi di realizzazione esorbitanti. L’inasprimento delle pene per i corrotti, contenuto nella legge anticorruzione all’esame del Senato, serve a questo scopo e andrebbe varato al più presto, anche se la corruzione va battuta anche con altri strumenti, non meno importanti: una drastica semplificazione delle regole degli appalti (e più in generale dell’attività economica) e una vigilanza/regolazione adeguata, affidata a personalità capaci e al di sopra di ogni sospetto.
In questo senso, il “modello Cantone”, che stiamo sperimentando ormai da oltre sei mesi, ha ottenuto risultati certamente positivi, proteggendo l’attività economica dalla patologia corruttiva senza però bloccarla. Quel modello andrebbe rafforzato ulteriormente: all’Autorità anticorruzione andrebbe affidata anche un’ampia attività di regolazione del settore dei lavori pubblici, liberata di una normativa ridondante. Poche regole, stabili e certe, recepite dalla normativa europea, e – a fronte del disboscamento normativo – un ampio potere regolatorio affidato all’Anac che possa consentire a imprese e pubblica amministrazione di svolgere l’attività legata ai contratti pubblici nella massima trasparenza e nel rispetto di una competizione onesta.
Nel merito dell’inchiesta, sarà la magistratura a fare le indagini e le valutazione che le sono proprie. L’importante è non confondere i singoli casi di malaffare con la necessità, che l’Italia ha, di realizzare infrastrutture, piccole, medie e grandi. Ercole Incalza è personaggio discusso e non da oggi: ha già subito inchieste e processi, è già stato arrestato (ai domiciliari) nella prima inchiesta Tav, peraltro uscendone sempre senza condanne. La sua competenza e autorevolezza, però, non possono essere messe in discussione: padre del Piano generale dei trasporti già negli anni ’80, è stato anche il padre e il centro indiscusso della politica delle grandi opere in Italia. Senza di lui, non sarebbero state realizzate grandi opere necessarie (a partire dall’Alta velocità che oggi vediamo quanto sia fondamentale) e questo va a suo merito. Al tempo stesso, il fallimento della legge obiettivo, certificato dai più recenti documenti sullo stato di realizzazione delle opere (solo l’8% completato), è anche il suo personale fallimento, in un bilancio fatto di luci e ombre. L'eccesso di accentramento di poteri nelle mani di Incalza, per un periodo troppo lungo, non ha giovato alla lunga alla politica delle grandi opere. La sua uscita di scena, alla fine dello scorso anno, è già un segnale di cambiamento notevole. Quanto allo specifico che viene contestato nell’inchiesta, le modalità di affidamento della direzione lavori nelle grandi opere, questo giornale ha sempre sostenuto che l’affidamento della direzione lavori ai general contractor fosse un errore perché la direzione lavori deve “separare” e “difendere” gli interessi dell’amministrazione pubblica (e del progetto) da quelli dell’appaltatore. Questione più volte discussa nel dibattito pubblico ma mai risolta, come pure la riforma della legge obiettivo.
Ancora una volta bisogna ripetere che non è il caso di buttare via il bambino con l'acqua sporca. Una politica delle grandi opere è necessaria in questo Paese, anche se va corretta (e già si sta correggendo) rispetto al passato, con una pianificazione certa e chiara, analisi costi-benefici, progetti all’altezza, procedure trasparenti, vigilanza dalla corruzione e dalle infiltrazioni mafiose. Bisogna realizzare tutte le opere che servono, solo le opere che servono, con gare concorrenziali e modalità di esecuzioni contrattuali semplici e trasparenti. Il rapporto con il territorio deve essere trasparente e “democratico” in fase di progetto, con l’introduzione finalmente del débat public, per poi passare alla realizzazione senza tentennamenti una volta che si sia deciso in base a quale progetto fare l’opera.

Corriere 17.3.15
Civati: Casson dimostra che i gufi sanno vincere
Matteo impari la lezione

ROMA Pippo Civati è contento perché le primarie di Venezia non le ha vinte un renziano, ma il «gufo» Felice Casson. Un successo che il più tenace oppositore del premier legge su scala nazionale: «Non è detto che per vincere ci si debba sempre alleare con la destra».
Casson sarà sindaco?
«Lo spero di cuore, è patrimonio di tutto il centrosinistra e sarebbe una buona soluzione per Venezia. Dal Partito democratico nazionale Felice è considerato un gufo, ma ‘sti gufi vedono nel buio».
Pensa ci sia spazio per qualcosa di nuovo a sinistra?
«Si dice che la sinistra è nostalgica, che non ha nomi spendibili. Invece Venezia dimostra che i cittadini, quando possono scegliere, alcune volte scelgono Renzi e altre no».
Per questo volete le preferenze?
«Sulla legge elettorale sarà un duello western, ma mettere un po’ più di preferenze non basta. E se Renzi non prende in considerazione il Senato elettivo, la riforma costituzionale se la approvano lui e Denis Verdini. L’opposizione va organizzata su posizioni che abbiano un senso».
È un appello a Pier Luigi Bersani?
«Se passa un sistema completamente sbilanciato la responsabilità è di tutti, non solo della minoranza del Pd. Se lo avessero fatto gli altri saremmo tutti i giorni a protestare a San Giovanni... Chi parla di svolta autoritaria e vuole essere credibile dovrebbe pensarci prima di arrivare in aula, sennò si spacca il Pd. O c’è un fronte critico e ragionevole che riesce a spiegarsi con Renzi o si va allo scontro finale».
Lei non teme altre sconfitte?
«Renzi è abilissimo a torturare i dissidenti. Chi accetta il suo disegno e va avanti con le tattiche strumentali non protesti, chi invece vuole protestare bene si organizzi prima, con una posizione chiara. Per essere efficace una opposizione deve manifestarsi prima, non ci si può dividere in mille pezzi quando si arriva in Aula».
Sulla Costituzione siete andati in ordine sparso.
«Se io fossi Renzi sognerei una opposizione così. Nella minoranza c’è chi ha votato tutto l’articolato, per poi interrogarsi sul voto finale».
Se l’assemblea del 21 con Bersani non salta, nascerà il correntone anti renziano?
«C’è cautela, non so se si farà. A me fa piacere se condividiamo un giudizio sulle riforme, ma non mi va di fare fronti anti Renzi e non so se ad oggi siamo così uniti, visto che dentro l’area bersaniana ci sono accenti diversi. Speranza è contro Landini, D’Attorre apre, Fassina è ancora più radicale...».
Andrà con Landini?
«È presto, anche Landini deve chiarire fin dove vuole arrivare. Non sono tra gli organizzatori, ma penso si debba trovare una risposta politica alla coalizione sociale. Invece vedo tante gelosie a sinistra».
E la scissione?
«La parola giusta è diaspora. E in Liguria e Sicilia comincia ad avere le proporzioni di un esodo».

Repubblica 17.3.15
Jobs act anche agli statali, governo diviso
Il sottosegretario Zanetti e parte del Pd contrari al “no” sancito dal ministro della Funzione pubblica, Madia Ichino: la legge non permette esclusioni, per fare diversamente si deve pronunciare il Parlamento
di Luisa Grion


ROMA Il Jobs act non si applicherà al pubblico impiego, ha detto il ministro Marianna Madia, nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma nel governo, e anche all’interno del suo stesso partito, non tutti sono d’accordo. Non la pensa così Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia, e nemmeno Pietro Ichino, senatore del Pd che sottolinea come, nella legge delega, di esclusione del pubblico impiego non vi sia traccia. Ciò vuol dire che se davvero il governo vorrà escludere gli statali dalla riforma del lavoro, le norme dovranno cambiare e i tempi per l’approvazione, annunciata entro l’estate, risulterebbero stretti.
Per Zanetti la questione è di sostanza: «Dire che la specificità del pubblico impiego rende opportuno non estendere il Jobs act ai dipendenti pubblici è profondamente sbagliato, oltre che ingiusto nei confronti di chi lavora nel settore privato - spiega il sottosegretario - Semmai è giusto dire che la specificità del pubblico impiego rende opportuni appositi accorgimenti procedurali in una normativa che non può fare figli e figliastri. Di questo dovrebbe occuparsi il ministro Madia». «E’ chiaro - sottolinea - che non deve essere il singolo dirigente a decidere su un licenziamento, ma una Commissione. Ecco mi aspetto che ci si occupi di queste aspetti, ma i principi non si toccano».
Critico verso il messaggio lanciato dalla Madia anche Pietro Ichino. «Poiché il decreto 23, entrato in vigore il 7 marzo scorso, non contiene una norma che escluda il settore pubblico, esso si applica anche al pubblico impiego. È la conseguenza di una norma molto chiara contenuta nel Testo Unico sul pubblico impiego del 2001. In questo senso il governo ha deciso il 24 dicembre e questa scelta è stata confermata il 20 febbraio. Se il ministro Madia intende compiere una scelta diversa, occorrerà che questa si esprima in una modifica della legge-delega sulle p.a.; e se ne dovrà discutere in Parlamento». «Per quanto mi riguarda - puntualizza Ichino - sono invece convinto che sia giusto e necessario applicare le stesse regole nel settore pubblico e in quello privato, anche se ciò non basta certo a risolvere i problemi delle amministrazioni pubbliche: è altrettanto importante che i dirigenti pubblici siano incentivati e motivati a riappropriarsi delle prerogative manageriali e a esercitarle correttamente e incisivamente».
Qualche dubbio, in realtà, affiora anche nei sindacati, che aspettano - per ora senza risposta - di essere convocati dal ministro. Accontentati sul Jobs Act, ma al palo sui contratti dal 2008, una formula che può essere letta come un tentativo di scambio? «Non applicare il Jobs Ac al pubblico impiego è un atto dovuto perché non deve essere la politica a licenziare - risponde Michele Gentile, coordinatore del settore pubblico per la Cgil - E c’è il rischio che il ministro mantenga formalmente il punto sulla riforma del lavoro per poi avere mano libera sulla regolamentazione di scarso rendimento, assenze, disciplinare». Dalla parte della collega si schiera il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Le normative che faremo saranno diffusamente omogenee, esclusa la parte che fa riferimento alla peculiare caratteristica del lavoro pubblico» ha detto. Rischio di favoritismi? «Direi di no».

Repubblica 17.3.15
La rivolta dei dirigenti “Volete licenziarci per dare i nostri posti a chi è lottizzato”
di Roberto Mania

ROMA «Perché licenziarmi se sono stata considerata idonea? Come si fa a stabilire che sono inadeguata se non mi si attribuisce un incarico? La verità è che per questa via si arriverà al licenziamento senza motivo a vantaggio dei dirigenti sodali con la politica». Barbara Casagrande, 46 anni, è dirigente in aspettativa sindacale del ministero delle Infrastrutture. È il segretario del sindacato dell’Unadis che aderisce alla Codirp, la confederazione dei dirigenti della Repubblica. Questa confederazione è nata quasi in coincidenza con la presentazione della riforma Madia della pubblica amministrazione. Spiega Casagrande: «Nella riforma si ritorna al ruolo unico dei dirigenti. Ai dirigenti della Repubblica e non a quelli dei singoli ministeri. Eccoci!, abbiamo detto». Ma ora dicono no ai licenziamenti “modello Madia”. Ed è il no che accomuna tutti i dirigenti, vecchi, giovani, “politici” e indipendenti. In realtà già ora sono licenziabili, ma nessuno è ancora stato lasciato a casa. In più temono che i criteri introdotti dalla prossima riforma possano favorire i dirigenti esterni, scelti dal politico di turno.
I dirigenti pubblici che effettivamente hanno responsabilità sono circa 70-80 mila, praticamente lo stesso numero dei manager privati che hanno perso il posto nella lunga recessione, come ha messo in evidenza Corrado Giustiniani nel suo recentissimo “Dinosauri” che tratta proprio dei dirigenti della pubblica amministrazione. E in media, secondo un’indagine degli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi sulla voce.info, guadagnano molto di più dei loro colleghi sparsi per l’Europa. Un esempio: i 300 dirigenti apicali delle Regioni guadagnano circa 150 mila euro quanto il capo di gabinetto del Foreign Office britannico. La proposta del governo prevede un ruolo unico per tutti i dirigenti, un complesso sistema di valutazione sulla base del quale affidare gli incarichi, la possibilità di essere licenziato dopo 2-3 anni senza incarico. «Era meglio De Mita», sostiene Arcangelo D’Ambrosio che, più o meno, guida la Dirstat, sindacato di categoria un po’ in declino, dai tempi della prima Repubblica. Parla di «ghetto punitivo del ruolo unico ». «Ogni giorno — dice — i dirigenti devono difendersi dall’invadenza della politica. Con l’abolizione dell’area quadri decisa dal governo Monti, i dirigenti non hanno più un gruppo di collaboratori di qualità sotto la propria responsabilità ». Dirigenti un po’ spodestati. Privati anche della possibilità di valutare le strutture, aggiunge la Casagrande. «E sa perché? Perché si oppongono i sindacati confederali che rappresentano gli impiegati. Loro non vogliono che il dirigente esprima una valutazione». Dietro le quinte si combattono così le guerre tra lobby: dirigenti contro impiegati, sindacati confederali contro sindacati autonomi. Ciascuno difende la propria area di consenso sociale. È la burocrazia che divora se stessa.
Il nodo da sciogliere resta il rapporto dei dirigenti con la politica. Secondo Giovanni Faverin, leader dei pubblici dipendenti iscritti alla Cisl (ci sono anche molti dirigenti), «non è cambiato molto rispetti ai tempi di Paolo Cirino Pomicino e Giulio Andreotti. Quello dei licenziamento dei dirigenti è un falso problema. È che vogliono introdurre uno spoils system all’italiana: lo dicessero senza ipocrisie ma non è certo questo il modo per far funzionare un’organizzazione disorganizzata ».
«Non può essere un caso — dice C. V., dirigente statale quasi in pensione, costretto a richiedere l’anonimato perché per poter parlare con la stampa deve avere prima l’autorizzazione della sua amministrazione — che la quota di dirigenti a contratto, cioè cooptati dalla politica, si impenni fino al 30 per cento negli enti locali lì dove è più forte il rapporto tra i dirigenti e i potenti locali. Noi vorremmo essere valutati esclusivamente in base al merito, vorremmo essere valorizzati non puniti. Brunetta aveva posto le premesse per la valutazione delle performance. Che fine hanno fatto? Perché si cambia di nuovo con la Madia? A che serve l’ennesima riforma della dirigenza della pubblica amministrazione? Non ci resta che osservare tutto con distacco: senza paura e senza speranza. Questa, come altre, è una riforma senza senso».

Corriere 17.3.15
Uno scenario che rischia di indebolire il governo

di Massimo Franco

Il passo avanti del Senato sui provvedimenti che dovrebbero contrastare la corruzione è arrivato in un momento opportuno. Dopo ritardi e rinvii che rischiavano di mettere sotto una luce opaca gli stessi partiti di governo, ieri sono spuntate in Commissione le prime modifiche, che lasciano indovinare una mediazione.
Con una punta di ironia, il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha commentato: «Alleluja, alleluja. Il famoso emendamento sul falso in bilancio è arrivato e questa è una novità importante». Il testo doveva essere esaminato dall’Aula di Palazzo Madama già oggi. Ma è probabile che tutto slitti alla prossima settimana.
Il fatto che proprio nelle stesse ore sia filtrata la notizia di una mega-inchiesta della magistratura di Firenze sulle grandi opere, ha sottolineato l’urgenza del provvedimento. Per l’ennesima volta, i giudici sono arrivati prima del sistema politico: a conferma della difficoltà, o della non volontà di vedere i fenomeni di malaffare collegati agli appalti soprattutto a livello locale. Non è ancora chiaro, tuttavia, se e quanto le indagini avranno riflessi sul governo; e in particolare sul ministro Maurizio Lupi, chiamato in causa politicamente come responsabile delle Infrastrutture. Lupi ha detto di essere «con la magistratura», e offerto «massima disponibilità».
Il timore del governo, come anche del sindaco di Firenze, Dario Nardella, è che le inchieste possano bloccare i cantieri. «Le opere debbono andare avanti», si sente dire all’unisono. Il problema è che tra i sospettati compaiono amministratori, faccendieri ed ex politici, alcuni dei quali sono presenze fisse anche in alcuni scandali del passato; e questo è l’aspetto più sconcertante. In più, ci sono settori del Pd tentati di utilizzare la vicenda per ricalibrare i rapporti con il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, di cui Lupi è un esponente. Matteo Renzi per adesso non si pronuncia: vuole che sia il ministro a difendersi di fronte alla richiesta di chiarire i contorni politici dell’inchiesta in Parlamento.
Il coordinatore di Ncd, Gaetano Quagliariello, vede già il rischio di una crepa. «La trasparenza è cosa ben diversa dal fango mediatico nel ventilatore azionato contro persone estranee a qualsiasi accusa e semplicemente citate in atti giudiziari che riguardano altri», avverte alludendo a Lupi.
La vicinanza con le elezioni regionali di fine maggio garantisce l’inevitabilità di un uso politico di quanto sta avvenendo: tanto più perché le responsabilità sono ancora tutte da approfondire. Ma il Sel già chiede le dimissioni di Lupi. E il Movimento 5 Stelle, di Lupi e del premier Renzi.
La vicenda ha un rimbalzo internazionale che segna di nuovo l’immagine dell’Italia.
E implica un doppio rischio. Può incrinare l’alleanza tra Pd e Ncd, indebolendola proprio mentre Renzi cerca di stabilizzare anche economicamente la situazione; e delegittimare l’intera classe politica, favorendo la supplenza che alcuni magistrati finiscono per evocare: come il capo dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, che ieri è stato ricevuto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, ed ha chiesto di cambiare alcune norme della legge Severino. Richiesta respinta, per ora, dal premier.

Corriere 17.3.15
«L’esercito è pronto per la Libia se Renzi dà il via all’intervento»
Il neocapo di Stato Maggiore dell’Esercito Danilo Errico:
«Cercheremo di fare ciò che ci sarà rischiesto. Confido che il governo ci darà le risorse necessarie»
intervista di Paolo Rastelli

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Repubblica 17.3.15
È scontro sulle medaglie agli ex fascisti
Dopo l’onorificenza al repubblichino Mori in occasione del Giorno del Ricordo, spuntano altri casi
Tra i beneficiati squadristi e criminali di guerra. Imbarazzo a Palazzo Chigi, Delrio chiede chiarimenti
di Valerio Varesi


BOLOGNA Giorno del ricordo o giorno della riabilitazione? Il dieci febbraio, data che il centrodestra volle dedicare alle vittime innocenti delle foibe nel drammatico dopoguerra sul confine orientale, pare essersi trasformato in un’occasione per premiare con tanto di medaglia della Repubblica anche ex fascisti che combatterono affinché quella Repubblica non nascesse. La stura ai sospetti è stata data dall’onorificenza attribuita un mese fa all’ex bersagliere repubblichino Paride Mori ufficiale del battaglione d’assalto “Benito Mussolini” che combatté nella valle dell’Isonzo contro i partigiani di Tito. Il riconoscimento è stato consegnato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio «per aver difeso i confini della Patria». Ora, dopo le reazioni inviperite di alcuni parlamentari, dell’Anpi e di numerose forze politiche, lo stesso Delrio ha riaperto il caso e riconvocato per lunedì prossimo la commissione che istruisce le pratiche con all’ordine del giorno il caso-Mori. Da palazzo Chigi arrivano notizie di un Delrio molto irritato per la situazione imbarazzante a cui è stato esposto e di un confronto col presidente della commissione stessa al fine di ottenere un report dettagliato.
La vicenda è a tutti gli effetti paradossale. L’ex bersagliere, infatti, aderì a Salò in età matura e morì in uno scontro coi partigiani jugoslavi il 18 febbraio del ’44. Un normale evento di guerra che con le foibe non c’entra nulla anche se la legge è assai generica e si presta a forzature. Così, chi combatteva come Mori, al fianco dei nazisti e alle loro dipendenze, ha potuto ricevere un riconoscimento nell’anno del Settantesimo anniversario della Liberazione. Ma il caso Mori non pare isolato. Sono tanti gli ex fascisti che hanno beneficiato dell’onorificenza nel giorno del ricordo. Di essi si è venuti a conoscenza spesso in modo casuale in mancanza di un elenco pubblicato. Di Mori, per esempio, solo attraverso una lettera scritta dai figli al quotidiano Gazzetta di Parma dopo che il suo paese natale, Traversetolo, gli aveva dedicato una via salvo poi revocare il provvedimento una volta scoperto il suo passato. L’elenco degli ex fascisti premiati parte dall’ultimo prefetto di Zara italiana Vincenzo Sorrentino, membro del terribile Tribunale speciale della Dalmazia, fucilato nel ’47. Si estende poi a vari esponenti della famigerata “Mdt”, la Milizia difesa territoriale, quali Mario Nardini ucciso a Trieste nel ’45, Egidio Patti, vicebrigadiere della stessa Mdt infoibato nel ’45 e Polonio Balbi Michele scomparso nello stesso anno da Fiume. Giuseppe Cossetto, già segretario fascista di Santa Domenica di Visnada, fu infoibato nel ’43. Polemiche anche per l’onorificenza attribuita a Giovanni Morassi già vicepodestà della provincia di Gorizia e Domenico Muiesan, legionario e squadrista. La vicenda di Mori ha suscitato la reazione del presidente Anpi Carlo Smuraglia che ha messo in guardia dal porre sullo stesso piano i liberatori e coloro che combattevano per negare la democrazia. Anche i deputati Patrizia Maestri e Giuseppe Romanini (Pd) hanno rivolto un’interpellanza urgente al Governo così come Giovanni Paglia (Sel). Renato Mori, figlio dell’ex bersagliere, ha invece scritto una lettera per difendere il padre: «Era un fascista, ma non un delinquente: ha deciso di combattere contro i partigiani di Tito per difendere la Patria».

Corriere 17.3.15
Scuola e chiesa
Niente benedizione a scuola: «Ci sono altre religioni»
Nuovo caso in Toscana. Il ministero: nessuna regola fissa, la decisione spetta ai singoli istituti
di Claudia Voltattorni

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Corriere 17.3.15
Da risorsa a minaccia al paesaggio

La Toscana alla disfida del marmo

«Perché non parli?», avrebbe detto Michelangelo al Mosé. Alle Alpi Apuane che fornirono il marmo bianco, accusano i geologi, non serve fare la stessa domanda. Parlano già. A ogni acquazzone torrenziale. Lasciando che si rovescino a valle, senza più le barriere naturali spazzate via dall’escavazione di marmo, spropositate quantità d’acqua. Per non dire dei danni al panorama. Al centro dello scontro sul piano paesaggistico che sta spaccando il Pd toscano.
Il braccio di ferro non è solo sulle cave. Trovato un compromesso sui limiti alle vigne «industriali», la zuffa è oggi sui «ritocchi» al piano dell’assessore Anna Marson che pareva passato ma passato non è. Grazie ad emendamenti congiunti Pd-Forza Italia, ecco i divieti diventare «raccomandazioni», le prescrizioni per le coste svuotate da frasi tipo «ferma restando la possibilità di realizzare adeguamenti, ampliamenti…» e così via. Una retromarcia tale da spingere il Fai e Italia Nostra e decine di intellettuali, da Sergio Staino a Dacia Maraini, da Giovanni Sartori a Vittorio Emiliani, da Salvatore Settis a Fulco Pratesi (compresi puristi che facevano le pulci alla Marson: «Troppo poco!») a firmare perché il piano non sia stravolto.
Lo scontro più duro, però, è ancora una volta sulle cave di Carrara: tolti i limiti a scavare ancora oltre 1.200 metri, tolti i paletti a riaprire le cave dismesse, tolte le tutele alle «aree integre» con la possibilità di «ampliamento delle cave autorizzate nelle adiacenze di vette e crinali integri». Cose che rasserenano i cavatori preoccupati da mesi per i «lacci e lacciuoli» e fanno al contrario sanguinare il cuore a chi, come Pietro Ichino, conosce quelle montagne metro per metro e sospira sulla devastazione del passo della Focolaccia dove forse era la tana dell’aruspice etrusco Aronte: «Quando ci andai la prima volta, più di trent’anni fa, era un luogo lontanissimo dal mondo civile e carico di suggestione; oggi gran parte del suo fascino è perduto, poiché il Passo è divorato dalle cave».
Due visioni del mondo opposte. Più inconciliabili via via che i macchinari moderni possono aggredire i luoghi più impervi. Dicono i cavatori che quelle vette mozzate, quei crinali sagomati come le montagnole del Lego, quei canaloni coperti di scarti di lavorazione, sono in realtà il bello delle Alpi Apuane.
Lo spiegarono con una pagina a pagamento dove campeggiava un volto del David: «Siamo convinti che l’identità paesaggistica del nostro territorio sia rappresentata dalle stesse cave di marmo, senza le quali le Apuane sarebbero montagne come altre e non lo scenario esclusivo di oggi, culla e risultato dell’agire umano». E i tentativi di arginare l’assalto delle ruspe? «Fumisterie di un ambientalismo ideologico».
Una guerra senza tregua. Di qua i padroni delle cave dicono che «ogni giorno migliaia di persone, da Carrara alla Versilia, in cava o nei laboratori di trasformazione, lavorano direttamente il marmo» più altre migliaia nell’indotto, facendo del marmo la ricchezza dell’area. Di là gli ambientalisti ricordano che mezzo secolo fa, quando si estraevano circa 400 mila tonnellate, cioè meno della metà di oggi (900 mila, ma nel ‘95 furono toccate le 1.256.221 tonnellate) i lavoratori delle cave erano seimila ma oggi, grazie alle nuove tecnologie, solo 600. Un decimo. E accusano: «Dal 1950 ad oggi sono state estratte più di 50 milioni di tonnellate di marmo in blocchi. Lo “scarto” quindi sarebbe non meno di 100 milioni di tonnellate». Totale: 55 milioni di metri cubi di marmo.
Di qua i cavatori sventolano i numeri della Camera di Commercio, secondo cui il settore ha recuperato sugli anni della crisi toccando nel 2013 «un totale delle vendite all’estero vicino ai 329 milioni di euro». Di là i critici, come Mauro Chessa presidente della Fondazione dei Geologi Toscani, denunciano che il prezzo pagato dall’ambiente è troppo alto e che quei soldi, ricavati da un bene che appartiene (al di là degli aspetti notarili) a tutti gli italiani vanno a finire spesso in tasche straniere, come quelle della famiglia Bin Laden, che con 45 milioni di euro ha comprato a luglio il 50% della Marmi Carrara, che detiene a sua volta il 50% di Sam, padrona di un terzo delle cave.
A farla corta, le cose hanno preso una piega tale da spingere la Regione a varare una legge, parallela al piano paesaggistico, che impone la concessione a tutte le cave, anche quelle in mano a privati a causa di un editto del 1751 della duchessa Maria Teresa Cybo-Malaspina. Titolo del Sole24ore : «La Toscana espropria il marmo». Rivolta: «È un esproprio proletario!». Sciocchezze, ha risposto il governatore Enrico Rossi, che da settimane cerca una mediazione decente tra «sviluppisti» e ambientalisti del suo stesso partito da portare oggi a Dario Franceschini. E ha spiegato a Mario Lancisi: «Io dico ai cavatori: ok, ti do una concessione sulla tua cava anche di dieci, venti anni, se vuoi». Ma a un patto: «Tu il marmo che escavi lo lavori anche e quindi produci lavoro, occupazione. Oggi il problema numero uno è che il marmo viene imbarcato e se ne va per il mondo mentre le aziende di lavorazione hanno chiuso la saracinesca».
Non bastasse, dice Chessa, «negli ultimi due decenni si è affermata una categoria merceologica trasversale: il detrito di marmo, gli scarti di lavorazione che alimentano i “ravaneti”, cioè le discariche minerarie delle Apuane». Polverizzato in carbonato di calcio per «plastiche, gomme, pneumatici, isolanti, vernici, colle, prodotti chimici, farmaceutici…» Per dire: 1.500 tonnellate l’anno vanno nei dentifrici venduti in Italia.
Come andrà a finire? Si vedrà. Certo ogni intesa sarebbe stata più difficile in novembre, a ridosso dell’ultimo straripamento del torrente Carrione. Che come scrisse Marco Imarisio «non è il Mississippi» ma per l’«occupazione sistematica dell’alveo naturale» ha man mano intensificato le sue esondazioni: 1936, 1952, 1982, 1985, 1992, 1996, 2003, 2009, 2010 (due), 2012 (tre), 2013, 2014…
Dopo quella del 2003, disastrosa e segnata da due morti, fu aperta un’inchiesta. Otto anni dopo tutto è evaporato: prescrizione. Resta però l’atto d’accusa delle perizie. La tragedia era dovuta anche alla cattiva gestione del territorio? «La risposta, alla luce delle indagini, non può che essere affermativa».

Corriere 17.3.15
Quel debito da ripagare alle madri surrogate
di Aldo Busi


Premesso che ogni creatura umana venuta al mondo è la più gloriosa delle invenzioni e delle gioie — ma una volta venuta al mondo, non prima: non è certo di altri miliardi di esiliati ai margini di terre desertificate manducanti appena appena che ha urgentemente bisogno il pianeta — e che non esiste differenza discriminante come e da chi al mondo sia venuta, va detto subito che se una coppia sterile o un singolo fertile non può avere figli, specialmente se maschio che non voglia poi una donna tra i piedi con la flebile scusa che lei sarebbe la madre, non farà niente per averne in modo artificiale o con uteri in affitto.
Il principio è: rinuncia a ciò che non puoi avere se non con uno scarto di coscienza, messa a tacere pur di arrivare al tuo illegittimo scopo di procreare; se non si può avere tutto, qualcosa che è superfluo spiegare dovrebbe convincerti a pensare che è giusto, è meglio, è meglio per tutti e per tutto che così sia.
La scienza è stata inventata proprio perché se ne possa fare a meno, peccato che solo gli accorti e lungimiranti capiscano che non fa per loro e che le allodole si sentirebbero defraudate nelle stesse viscere senza il loro specchietto del momento, al momento chiamato «inseminazione artificiale».
Quindi, se da solo non puoi figliare e ti serve un terzo incomodo per fare i comodi tuoi, è meglio tu non debba.
Il tutto si ha quando si capisce che l’optimum è avere solo qualcosa, una parte entro un limite oltre cui non sconfinare per nessuna ragione o sragione o forzatura o passione o senso di mancanza e privazione o disperazione o ambizione o capriccio o narcisismo mondano frustrato o diritto biologico d’ufficio, e che il tutto, una volta avuto, è deleterio per te, gli altri, l’ambiente e la civiltà stessa in cui è possibile continuare a crederci ancora abbastanza umani e ancora abbastanza dissimili dall’organizzazione sociale e cannibalica dei topi. Se si vive bene e anche male con dei figli, si vive altrettanto male e anche bene senza. Una sessantenne che invece di farsi mettere in stato interessante dovrebbe cominciare a dire le ultime preghiere mi fa pensare a una giraffa che non si dà pace per non avere ancora posato per Modigliani, si arma di pennelli e tubetti di colore e da sé si installa il suo cavalletto nell’infermeria dello zoo, mentre un gay che si spupazza il figlio recapitatogli senza ricevuta di alcun ritorno da parte della madre mi fa pensare a un primate albino, come si sa eccezione genetica reietta e respinta dal branco, che si illude di avercela fatta a farsi scambiare per un normale gorilla moretto rubando un bambolotto ai custodi del recinto, allorché avrebbe dovuto limitarsi o a scavalcarlo, respingendo così gli inorriditi fratelli che lo respingevano allontanandosene da solo sulle proprie zampe, o a sbranarli uno dopo l’altro anche nel sonno.
Ancora più di dieci anni fa (credo di aver riportato questa considerazione in E baci , Società Editoriale il Fatto), scrissi per una rivista genitoriale qualcosa sulle adozioni e dissi che sarebbe ora di adottare non solo un bambino ma almeno anche la madre se tuttora esistente e rintracciabile; ero favorevole, ovviamente, alle adozioni da parte di singole persone, singole per stato anagrafico ma inserite almeno nella famiglia di origine per assicurare una presenza costante al bambino visto che un genitore adottivo dovrà pure andare a lavorare per mantenerlo; continuavo dicendo che una persona singola forte della sua patria potestà all’interno di un gruppo famigliare di nonni madre padre fratelli è in grado di provvedere anche meglio di una mamma e di un papà ad allevamento, cura e educazione di un bambino, ma provavo un istintivo orrore per quegli uomini, allora i più famosi dello show & fashion business , che avevano affittato uteri di donne che si sgravavano e scomparivano, secondo me tutte delle martiri, seppure consenzienti sia per dono alla loro star del cuore sia per denaro, vittime di traumi d’infanzia ai quali ora si assommava quello estremo di ridursi a insulse mammifere di cuccioli separati dalla loro vita e dal loro presente al taglio stesso del cordone ombelicale; la pietas che mi suscitavano queste puerpere orbate dalla nascita per una scelta che a me sembrava frutto di una coercizione e di una violenza di vastissima e insondabile, tenebrosa, funebre profondità, pensavo, non potevo provarla solo io e mi chiedevo: gli appagati e trionfanti papà, diciamo pure contronatura e contro ogni buonsenso, di questi bambini con una madre senza come possono essere poi tanto appagati? Come possono guardare queste meravigliose creature che gli gattonano attorno e danno ai loro contorti geni, nonché a patrimoni finanziari da non disperdere certo in beneficenza qui e subito, una cinica convinzione di totale appartenenza al mondo sulla pelle di quella anonima madre, snaturata ma senza ignominia, travolta nel suo dolore di eterna bambina violentata da ultimo anche con le migliori intenzioni e senza più un grido per farsi sentire da quel buio rimosso non solo da lei ma anche da chi l’ha sfruttato? Come possono questi padri surrogati di madri surrogate guardare questi figli amatissimi e doppiamente idolatrati quali premi di una hybris vittoriosa senza provare ribrezzo per se stessi al pensiero di quella mammifera incosciente, dolente, abbandonata a se stessa che glieli ha forniti e si è tolta di mezzo, anzi, che è stata di fatto tolta di mezzo magari con un bonifico conclusivo a sigillo di una lettera di credito iniziale? Di un credito di sangue mai più esigibile, estinto — come l’utero che l’ha pompato per nove mesi come se pompasse la ruota sgonfia di una bicicletta non sua?
Voi, cantanti, stilisti e ormai anche droghieri, prefetti e borghesi gay, sapete chi sono queste donne da voi degradate a bestie produttrici di placenta, sapete dove stanno e si dibattono forse insensibili e immobili, andate a prenderle e portatele via da lì, e fa niente se sono in un ospedale psichiatrico, in una prigione o in un resort di lusso, fategli vedere questi figli tuttora più loro che vostri, metteteglieli in grembo, che si tocchino, si abbraccino e, se queste donne hanno bisogno di cure, è vostro dovere provvedervi al massimo livello economico e affettivo. Una volta fatto ciò, potrete rispondere al sorriso di questi neonati con un sorriso mondato finalmente dalla cattiva coscienza che io almeno presupporrei in me se fossi al vostro posto, perché qualche dovuto passaggio nella maturazione sentimentale e civile bisogna proprio averlo saltato per essere dei padri e degli educatori felici sulla pelle di madri alienate, lontane, allontanate, vive e morte a sé: vive in vitro .

Corriere 17.3.15
Netanyahu rilancia: mai lo Stato palestinese
La promessa del primo ministro israeliano, mentre oggi il Paese è chiamato alle elezioni Annunciati altri insediamenti a Gerusalemme Est: «Con me questa città non sarà divisa»
di Davide Frattini


GERUSALEMME Benjamin Netanyahu è soprannominato il «prestigiatore» per la sua capacità di estrarre stratagemmi politici quando ormai lo spettacolo sembra finito. In due giorni il premier israeliano ha cercato di recuperare i voti che lo distanziano da Isaac Herzog, il leader della sinistra dato in vantaggio dai sondaggi di quattro-cinque seggi. Netanyahu teme che oggi i sostenitori della destra si disperdano, che Naftali Bennett e il partito dei coloni sottraggano schede essenziali al suo Likud.
Così si è rivolto agli elettori che indossano la kippà all’uncinetto, la stessa mostrata da Bennett per tutta la campagna elettorale. Martedì sera, protetto da uno schermo antiproiettile, ha parlato davanti a quindicimila persone, una manifestazione in piazza Rabin (luogo simbolo della sinistra) voluta e organizzata da Daniella Weiss, considerata oltranzista perfino da parte del movimento che spinge per l’espansione degli insediamenti.
Ieri ha visitato Har Homa, quartiere nella parte araba di Gerusalemme, e ha promesso che le costruzioni continueranno, che la città non verrà mai divisa. Anche perché — ha ribadito in un’intervista al sito nrg — «se verrò rieletto, non concederò mai uno Stato ai palestinesi»: «Chiunque accetti di ritirarsi dai territori offre una base di attacco per gli estremisti islamici contro il nostro Paese. Questo è il progetto della sinistra, che nasconde la testa sotto la sabbia».
Netanyahu sembra aver rinunciato a intercettare le preferenze della destra moderata, quella attratta da Moshe Kahlon, fuoriuscito dal Likud, ex ministro delle Finanze amato da tutti gli israeliani per la riforma della telefonia mobile che ha abbassato le bollette. Vuole ricompattare gli estremisti attorno al suo partito, promette quello che promette Bennett, ne ripete gli slogan.
Herzog e i suoi consiglieri hanno reagito alla controffensiva del primo ministro. Tzipi Livni (alleata con i laburisti nell’Unione sionista) ha rinunciato alla rotazione promessa. L’annuncio della spartizione dell’incarico ha danneggiato il leader laburista: gli israeliani sospettano di debolezza un politico pronto a condividere la poltrona di premier.
È da quindici anni che il principale partito della sinistra non supera i 20 seggi nei sondaggi (gliene attribuiscono 24-25), da quando Ehud Barak (il soldato più decorato della storia di Israele) ha battuto proprio Netanyahu. Anche se Herzog dovesse vincere (le urne chiudono alle 22 di stasera, le 21 in Italia) potrebbe essere difficile per lui riuscire a formare una coalizione di governo.
Kahlon non ha voluto dichiarare chi proporrà per l’incarico al presidente Reuven Rivlin. Ha ammesso di volere per sé il ministero delle Finanze: di origine libica, ha incentrato la campagna sulle questioni economiche e sociali, si è rivolto alla classe media che vive alla periferia del Paese, agli ebrei sefarditi come lui che si sentono lasciati ai margini. Sono gli elettori storici di quel Likud che Kahlon ha deciso di lasciare per fondare Kulanu (Tutti noi): non poteva più sopportare la guida di Netanyahu

Corriere 17.3.15
«Scelgo la destra, perché Bibi è l’unico che ci dà sicurezza»
intervista di D. F.


GERUSALEMME Jonathan Pacifici, 37 anni, imprenditore, è venuto in Israele nel 1997 come studente, è rimasto e adesso vive a Gerusalemme. È la promessa che si era fatto quando aveva 4 anni e si è risvegliato in ospedale, nel corpo le schegge delle granate lanciate all’ingresso della sinagoga di Roma da un commando palestinese. Per chi ha deciso di votare? «Senza nominare un partito, posso dire di aver scelto il centrodestra, chi vuole che Benjamin Netanyahu resti primo ministro. È quello che chiede la maggioranza degli israeliani: Netanyahu raccoglie le preferenze personali, gli elettori conservatori scelgono poi partiti che esprimono anime diverse. Non vedo uno spostamento verso sinistra ma una frammentazione della destra».
Gli editorialisti scrivono di stanchezza verso il premier, ormai sulla scena politica da oltre vent’anni.
«Questa nazione premia l’esperienza, cerca una figura di garanzia. È vero che come nel resto del mondo i giovani stanno conquistando la politica. Ed essere una figura nuova è in parte il richiamo di Naftali Bennett: ha uno stile diretto, come domenica sera quando ha preso la chitarra e si è messo a cantare durante il comizio». Netanyahu ha giocato con il suo soprannome e si è presentato in uno spot come Bibi-sitter, l’unico adulto in grado di affrontare le sfide che aspettano Israele. «Mi ha divertito molto. Dicono che essere il premier israeliano sia uno degli incarichi più complicati nel mondo occidentale. Bibi ha garantito stabilità nel caos del Medio Oriente e l’economia ha tenuto quando quella globale crollava».
Come giudica la campagna elettorale di Isaac Herzog? «Anche la sinistra si è spostata verso il centro, le posizioni molto pacifiste di partiti come Meretz trovano sempre meno sostegno. L’elettore di Herzog non è l’elettore dei laburisti classici. Neppure Herzog è un volto nuovo: Israele è una nazione giovane, eterogenea dal punto di vista demografico e sociale, eppure sembrano emergere sempre le stesse persone, in qualche modo le stesse dinastie politiche. Così chi si sente ai margini sceglie gli ultraortodossi dello Shas o stavolta Moshe Kahlon, fuoriuscito dal Likud, che viene da una famiglia di origine libica».

il Fatto 17.3.15
Netanyahu in affanno attacca i palestinesi
Caccia agli indecisi
“Gerusalemme sarà solo nostra”: Bibi e la guerra nelle urne
Il primo ministro insegue nei sondaggi il centrosinistra: “Mai uno Stato indipendente” L’avversario Herzog al Fatto: “Lo batterò e cambierò il Paese”
di Roberta Zunini


Tel Aviv Dopo l'applauditissima performance musicale, sul palco di piazza Rabin del suo giovane “alleato nemico”, il magnate Naftaly Bennet leader del partito riferimento dei coloni “Focolare ebraico”, Bi-bi Netanyahu si è ripreso la platea neanche 12 ore dopo. Lasciata la piazza finora roccaforte dei laburisti, il duo si è sciolto e il premier uscente ha smentito il suo famoso discorso del 2009 in cui aveva dichiarato il suo supporto alla soluzione dei due Stati. Secondo i sondaggi, il suo partito, il Likud, sarebbe fermo al 21%, sotto di 3 punti al laburista-centrista Campo Sionista. Considerata l'alta percentuale - intorno al 20%, - di indecisi e il 40%, o forse più, di cittadini che hanno deciso di boicottare le elezioni di oggi, Netanyahu ha giocato il tutto per tutto per far cambiare le intenzioni di voto sia degli incerti sia dei sostenitori di Bennet. “Se io sarò ancora nominato primo ministro, non ci sarà uno Stato palestinese e Gerusalemme sarà la capitale unica e indivisibile dello Stato d'Israele”.
LA DICHIARAZIONE di ieri è stata in un certo senso l'esito naturale della china presa da Bibi e della sua sfida agli amici scomodi, interni ed esterni.
La pensa in modo, ovviamente, opposto Ilan Gilon. Seduto sulla sua sedia a rotelle il popolare 58enne candidato numero 2 di Meretz, il partito della sinistra storica e secolarista, ha risposto per quattro ore in un locale nella zona più alternativa della città, alle domande di un'audience giovane e indecisa se votare “strategicamente” Campo Sionista o per questo partito ancora monumento per gli intellettuali e per i giovani “idealisti”, ma rimpicciolito dalla corrosione del tempo e dagli assalti del Labour.
“In questa tornata potremmo anche non entrare in Parlamento, dicono i nostri competitor vicini e lontani. Certo tutto è possibile in politica ma non credo accadrà perché senza di noi spariscono le istanze di quella che noi riteniamo essere la sinistra: umanità, solidarietà e genuina democrazia, quella che si basa sulla uguaglianza davanti alla legge, perché non ci sarà mai pace senza giustizia, né all'interno della nostra società dove gli arabi israeliani vengono discriminati né con i nostri vicini palestinesi sotto occupazione che devono avere il loro Stato”.
A sottrarre voti vitali per Meretz a causa di un eventuale voto “strategico” a Campo Sionista dei suoi abituali elettori, per portarlo a una vittoria certa, potrebbe essere il boicottaggio del voto da parte dell'ampia fetta di disillusi dalla politica per lo stallo politico ed economico in cui si trova Israele. E ad aggravare le cose, ci si è messa l'inedita unificazione, probabilmente molto temporanea, dei partiti arabi nella lista araba unita, che ha attirato l'attenzione, pare, anche di coloro che votano a sinistra.

il Fatto 17.3.15
L’intervista Herzog, Campo Sionista
Batterò il premier e costruirò un nuovo Israele
di Cosimo Caridi


Gerusalemme Oggi gli israeliani votano per rinnovare la Knesset (parlamento di Gerusalemme), è la ventesima volta dal 1949. La legge elettorale proporzionale pura, con una singola circoscrizione e la soglia di sbarramento al 3,25 percento, ha creato negli anni maggioranze composite e instabili. Anche i risultati di questa tornata elettorale, secondo quanto raccontano i sondaggi, non saranno in grado di indicare un vincitore netto. Campo Sionista, il partito laburista, dovrebbe ottenere la maggioranza relativa con 25 seggi, in questo caso Yitzhak “Bougie” Herzog, fino a oggi leader dell’opposizione, riceverà dal presidente della Repubblica il mandato per formare il governo. Bougie è venuto fuori sulla lunga distanza. Ha parlato alla parte impoverita d’Israele: ai cittadini più attenti a problemi economici che bandierine militari. Figlio del sesto presidente israeliano Chaim Herzog, Yitzhak non è un personaggio forte e carismatico come il premier uscente Netanyahu. Avvocato e parlamentare è già stato ministro quattro volte (anche nell’esecutivo targato Likud).
È pronto a creare una grande coalizione? Potrebbe essere il premier di un governo a che abbia Netanyahu come ministro?
Non faccio speculazioni. Il mio primo e più importante obbiettivo è rimpiazzare Netanyahu. Il Campo Sionista è diventato il più importante partito del paese e questo è quello che vogliono gli israeliani: un cambio di realtà, un cambio di governo. I partiti di destra si sono radicalizzati, diventando di estrema destra, mentre la maggior parte dei cittadini sono di centro, come Campo Sionista. Creando questo nuovo partito, ho già dimostrato la mia capacità di aggregare. Sono fiducioso, formerò una coalizione stabile.
Quali sono le priorità economiche e sociali?
Considero con la stessa serietà sia le questioni legate alla sicurezza, sia quelle socioeconomiche. Gli israeliani hanno il diritto di avere una sicurezza economica assieme a quella nazionale. Nei primi 100 giorni formerò un comitato, che guiderò personalmente, per l’emergenza abitativa. Abbiamo sviluppato un programma dettagliato per salvare Israele dalla crisi immobiliaredeterminata dai fallimenti della politica economica di Netanyahu. Voglio riportare la speranza nella vita delle persone di questo paese: la speranza dei giovani di avere un appartamento e di fare figli. Porterò Israele fuori dall’isolamento internazionale grazie al benessere individuale, i cittadini saranno al centro della mia agenda, delle mie decisioni e priorità. Impiegherò ogni sforzo per rinvigorire le negoziazioni con i palestinesi, anche se questo dipenderà molto da chi sarà dall’altra parte e se ci sarà un partner, perché non tollererò nessuno passo unilaterale.
La politica estera di Netanyahu si è concentrata molto sull’Iran e sulla minaccia nucleare, congelando di fatto i rapporti con Washington. Che cosa cambierà?
Per anni Netanyahu ha spaventato questo paese e ci ha portato all’isolamento internazionale. È andato a parlare al Congresso degli Usa e a messo a rischio la relazione di Israele con il suo più grande alleato, gli Usa. Lo ha fatto con il solo scopo di guadagnare qualche seggio in più in queste elezioni, manovra che tra l’altro non ha funzionato. Per quanto riguarda l’Iran la mia posizione è chiara: nessun accordo è meglio che un cattivo accordo. Cattivo per Israele. Penso che rinvigorire i rapporti tra Israele e Usa mi aiuterà a lavorare sui termini dell’accordo con gli altri leader mondiali. Potremo arrivare a una negoziazione che possa garantire gli interessi israeliani e la sicurezza dei cittadini.

Corriere 17.3.15
L’ultimo affondo di Netanyahu in un Paese che vuole certezze
di Paolo Lepri

qui

Il Sole 17.3.15
Israele oggi al voto
Referendum su Netanyahu
di Ugo Tramballi

Tel Aviv Il manifesto ufficiale nel quale Isaac Herzog e Tzipi Livni posano con la sobria e convenzionale eleganza di tutti i politici che vogliono governare, dalla California alla Cina, dice: «Leadership responsabile». Continua?pagina?10
Una didascalia per indicare ciò che sembra mancare oggi a Israele e che domattina, dopo un martedì elettorale, il Paese forse avrà.
Ma quello che rappresenta di più le ambizioni di Sionismo Unito e forse coglie il vero punto delle elezioni 2015, è un altro poster, appeso nei corridoi del quartier generale della lista, al 53 di Yigal Allon, davanti al palazzetto dove gioca il Maccabi. Un giovane dal corpo scolpito - l’ideale del sionismo contemporaneo che non ara più la terra dei kibbutz ma apre startup, si fa i muscoli in palestra e mangia sushi - sta per togliersi la maglietta sanitaria: «Il governo è come una canottiera. Se non lo cambi, puzza».
La canottiera è Bibi Netanyahu, primo ministro da sei anni ininterrotti, un record per le tradizioni politiche israeliane. C’è l’economia e la sicurezza; ci sono i poveri, in fondo non così sventurati come in altre parti del mondo, ma insopportabilmente poveri in un Paese ormai ricco come Israele; c’è da decidere se ultimare le conquiste territoriali della Grande Israele o ritirare gli insediamenti per fare spazio a uno Stato palestinese. Ieri Bibi ha annunciato che se sarà eletto, uno Stato palestinese non nascerà mai. Ma il cuore, il punto di queste elezioni, è Benjamin Netanyahu: il voto per la Knesset nasconde un referendum su di lui. Non si tratta solo degli ultimi sei anni: Bibi aveva già governato dal 1996 al 99. Ma anche all’opposizione o nel breve oblio nel quale cadono tutti i politici d’Israele per poi risorgere, quella di Netanyahu è sempre stata una figura vistosa. “A Wonderful Land”, la satira che Channel 2 trasmette dal 2003, rappresenta Bibi Netanyahu esattamente come Maurizio Crozza interpreta Berlusconi: un mattatore, un politico dall’ego e dagli appetiti debordanti.
«Tre mesi fa, quando ha annunciato le elezioni anticipate, nessuno pensava che potesse essere battuto. Per la gente Bibi era una forza della natura contro la quale non c’era niente da fare, votava per lui anche chi lo temeva o lo detestava», racconta Polly Bronstein, vicepresidente del movimento pacifista OneVoice. Poi lei e un gruppo di altri giovani hanno creato V-15 in un appartamento di Tel Aviv, vicino ai boulevard. Una startup politica, nata per convincere gli elettori ad andare a votare, battere Netanyahu «perché non è possibile avere un primo ministro che ha cattive relazioni con tutti i governi del mondo», e sciogliersi una volta raggiunti gli obiettivi. Molti dei giovani che hanno aderito e ora sono sotto pressione, perché V-15, Vittoria 2015, non è un partito e dunque non ha l’obbligo di interrompere la sua campagna, sono creatori di startup tecnologiche. È un passaggio naturale perché il metodo è lo stesso: pensare e inventare.
«Noi non diciamo alla gente per chi votare ma di andare a votare», spiega Polly. «Il nostro campo va dai centristi moderati all’estrema sinistra: alle ultime elezioni ha votato solo il 71%. Nei feudi del centro-sinistra, a Tel Aviv ha votato solo il 62%, a Haifa il 58. Anche nel movimento dei kibbutz ha votato poco più del 60. Abbiamo creato una app con i nomi e gli indirizzi di tutti gli elettori di quest’area. Poi siamo andati a bussare porta a porta; siamo tornati una seconda volta, e lo stiamo facendo una terza con chi ancora è incerto».
Chi crea una startup ha l’obbligo di essere pragmatico. Così a V-15. «Se aumentiamo la partecipazione del 5% nel nostro campo, 180mila elettori in più, conquistiamo altri quattro seggi. Oggi bastano per mandare a casa Netanyahu. Ma non è un miracolo, è metodo». Forse Polly Brainstein esagera quando dice che «Bibi e le destre sono nel panico». Ma la reazione del premier contro V-15, diffusa sul suo profilo Facebook, è piuttosto putiniana: «Elementi dei giornali di sinistra in Israele e all’estero, hanno cospirato per portare Sionismo Unito illegittimamente al potere, con aiuti in denaro senza precedenti dall’estero». Un’oscura lobby ebraica contro Netanyahu: una contraddizione in termini, dopo il turbo-comizio al Congresso che i repubblicani americani gli avevano organizzato due settimane fa.
C’è aria di vittoria nei corridoi al 53 di Yigal Allon e a V-15, dove centinaia di volontari, giovani formiche determinate, stanno compiendo l’ultimo sforzo elettorale. E' dal 1999 che non accade. Il laburista moderato Herzog più Tzipi Livni, la pacifista venuta dalla destra più profonda (i suoi genitori erano militanti dell’Irgun, il sionismo più reazionario), sembrano la miscela giusta per vincere. Lo dicono tutti i sondaggi. Ma nessuno si sbilancia fino a sostenere che vinceranno tanto da formare un governo. L’ombra di Bibi, ai limiti di un’immortalità politica sconosciuta a Ben Gurion, Dayan e perfino a Shimon Peres, è ancora presente: potrebbe perdere le elezioni ma, con l’aiuto dei partiti minori della destra, vincere la coalizione per il suo quarto mandato.

La Stampa 17.1.15
Israele è un’identità
Perché l’identità ebraica si completa solo in Israele
Sia le spinte religiose sia quelle post-sioniste perdono di vista l’unicità dell’amalgama di cultura e prassi rappresentato dallo Stato degli ebrei
di Abraham B. Yehoshua


Chi è inglese, thailandese, francese o polacco?
Qualunque risposta a questa domanda implicherebbe una distinzione fra cittadinanza e identità, due definizioni che non necessariamente si sovrappongono. Mio nipote, per esempio, è nato negli Stati Uniti d’America dove i suoi genitori risiedevano temporaneamente per lavoro e ha automaticamente ottenuto la cittadinanza americana verso la quale ha ben pochi obblighi, mentre la sua identità è ovviamente israeliana. Se io lo definissi americano lui protesterebbe e si offenderebbe.
Un pachistano appena arrivato all’aeroporto londinese di Heathrow che ha ereditato la cittadinanza britannica dal padre o dal nonno è riconosciuto come inglese pur non sapendo una parola della lingua locale e non avendo mai sentito nominare Shakespeare o Lord Byron. La sua cittadinanza britannica gli dà gli stessi diritti e doveri che ha il Primo Ministro, sebbene l’identità dei due sia completamente diversa.
Cittadinanza e identità al giorno d’oggi non sono la stessa cosa. È vero che per la stragrande maggioranza degli esseri umani identità e cittadinanza coincidono. Ma milioni di persone al mondo (tra cui molti ebrei) pur essendo in possesso di una particolare cittadinanza si ritengono di identità diversa.
Comprendere la differenza tra identità e cittadinanza è fondamentale per rispondere alla domanda chi è israeliano. Per quanto riguarda la cittadinanza tutti coloro che sono in possesso di una carta di identità israeliana sono cittadini dello Stato con pari diritti e doveri. Ma non tutti quelli in possesso di una carta di identità israeliana si ritengono israeliani. Un milione e mezzo di arabi residenti in Israele si definiscono palestinesi. Sono una minoranza etnica nella loro terra – una situazione piuttosto comune nel mondo di oggi – e dunque non diversi da altre etnie come quella basca, curda o francese del Quebec. Occorre però ricordare che la minoranza israelo-palestinese non è stanziata in un particolare territorio. Per quanto la riguarda l’intera Palestina – e tutto il territorio di Israele – è la sua patria. La sua autonomia è quindi unicamente culturale.
Naturalmente ci sono molti elementi di scambio fra l’identità di una maggioranza e la nazionalità di una minoranza. L’identità degli ebrei francesi, per esempio, è fortemente influenzata dalla loro cittadinanza ed è probabile che la loro nazionalità francese sia in qualche modo influenzata dalla loro identità ebraica. Lo stesso vale per Israele. L’identità degli arabi israeliani (anche grazie alla lingua ebraica) comprende elementi dell’identità israeliana e contribuisce a plasmarla. Quando un arabo israeliano presiede il processo al presidente dello Stato in qualità di giudice o amministra un ospedale e stabilisce nuove procedure di ricovero, contribuisce a forgiare i canoni dell’identità israeliana così come un giudice ebreo-americano presso la Corte Suprema degli Stati Uniti è parte integrante e determinante del sistema legislativo americano. Eppure c’è ancora una differenza tra identità e cittadinanza. E chi, come gli ebrei, lo ha dimostrato nel corso della storia e lo dimostra tuttora in molte parti del mondo.
Il termine «israeliano» non si riferisce solamente a una cittadinanza comune a ebrei e ad arabi, ma indica un’identità. Se in Israele non ci fossero palestinesi lo Stato si chiamerebbe comunque «Israele» e i suoi cittadini «israeliani» e non «ebrei». «Ebrei», peraltro, è una denominazione tardiva apparsa per la prima volta nella diaspora in riferimento a Mardocheo che combinò a Susa un matrimonio tra sua cugina Ester e il re Assuero. Se Mosè, re Davide e i profeti Isaia, Geremia e Samuele arrivassero in visita alla Knesset e il presidente di quest’ultima chiedesse loro di presentarsi non c’è dubbio che la loro risposta sarebbe: «Noi siamo israeliani» oppure «Noi apparteniamo al popolo di Israele». E se il presidente, sorpreso, domandasse loro: «Siete ebrei?» la risposta sarebbe: «Non sappiamo a cosa lei si riferisca con questo termine».
Il termine «giudeo» o «ebreo» non compare nel Siddur, il libro di preghiere della liturgia quotidiana, nemmeno una volta mentre nella Mishnah si insiste sull’uso del termine «israeliano» anziché «ebreo».
Secondo la tradizione fu Dio stesso a scegliere il nome «Israele». Pertanto anche il nome della regione in cui il popolo si stanziò è «terra di Israele» e nelle università si studia il pensiero filosofico di Israele, la storia del popolo di Israele e la letteratura di Israele. E naturalmente il nome dello Stato sorto nel 1948 è Israele. Quindi ci si domanda cosa sia mai successo negli ultimi venti o trent’anni per cui i termini «ebreo», «ebraismo», «Stato ebraico» stanno a indicare un’identità israeliana e hanno relegato il termine «israeliano» a designare la mera cittadinanza.
È possibile che un abitante di Madrid consideri la sua cittadinanza spagnola un semplice denominatore comune a lui, a un basco o a un catalano anziché vedere in essa un’identità profonda e dalle molteplici radici?
A mio parere almeno quattro diversi fattori, talvolta contrapposti, hanno contribuito a far sì che il termine «israeliano» indichi la sola cittadinanza.
1) Innanzi tutti le varie correnti religiose. Sebbene il termine «ebreo», come ho detto sopra, non racchiuda necessariamente alcun elemento religioso, per gli ortodossi è chiaro che se il sostantivo «israeliano» si limiterà a designare la cittadinanza, la parola «ebreo», svuotata di obblighi civili, richiamerà contenuti religiosi. Immaginiamo un rabbino militare che domanda a un soldato: «Chi sei?» E quello risponde con innocenza «Io sono israeliano, presto servizio nell’esercito e parlo ebraico». Al che il rabbino risponde: «Tutto qua? Anche un druso è israeliano come te, presta servizio nell’esercito e parla ebraico, qual è allora la differenza tra voi?». E mentre il soldato, imbarazzato, comincerà a balbettare il rabbino militare gli proporrà di riempire il vuoto di identità con «la tradizione ebraica», vale a dire con la religione. A questa tattica collaborano non solo i rappresentanti del partito politico «Habait Hayehudì» e varie correnti ortodosse ma anche riformisti e persone in cerca di «radici», che tentano di riversare nell’identità israeliana contenuti religiosi attinti principalmente dagli scritti sacri e dalla letteratura rabbinica esegetica.
2) Un secondo fattore che contribuisce a limitare il termine «israeliano» alla sola cittadinanza è rappresentato dagli ebrei della diaspora e da chi è impegnato a mantenere un legame con loro. Ora che il termine «israeliano» esprime anche la specifica appartenenza a uno stato gli ebrei della diaspora hanno bisogno di differenziarsi da esso per evitare di essere formalmente identificati come suoi cittadini. Viceversa, tutti coloro che operano per mantenere vivo il rapporto tra gli ebrei della diaspora e Israele e promuovere l’immigrazione utilizzano il termine «popolo ebraico» come unico elemento in grado di creare aggregazione e un senso di solidarietà. Ma anziché proporre agli ebrei della diaspora di migliorare e approfondire il loro ebraismo adottando l’identità israeliana il messaggio è il seguente: «Venite a rafforzare la parte ebraica di Israele contro i suoi cittadini arabi».
3) Un terzo fattore – completamente diverso e con interessi opposti a quelli precedenti – è rappresentato dagli stessi arabi. Costoro dicono agli israeliani: «Voi, di fatto, siete ebrei, proprio come i vostri confratelli d’America, d’Inghilterra o d’Argentina. Per più di duemila anni avete vissuto sparsi per il mondo e mantenuto le vostre tradizioni e la vostra identità. Perché siete venuti ad ammassarvi nella nostra terra, portandocela via e mettendo in pericolo voi stessi? Dopo tutto siete parte del popolo ebraico. L’identità ebraica, sia da un punto di vista religioso che nazionale, non ha bisogno di un territorio e di una sovranità per essere plasmata. Per secoli gli ebrei hanno vissuto qui, in terra di Israele e in tutto il Medio Oriente, e il loro stile di vita e le loro aspirazioni non erano diversi da quelle degli ebrei della diaspora. Perché mai avete bisogno di una sovranità e di una identità israeliane?».
4) Il quarto fattore che opera per relegare in un angolo l’identità israeliana – completamente diverso dai primi tre – è rappresentato dai post sionisti che vorrebbero una nazione nuova, separata e slegata dall’identità ebraica della diaspora, sia da un punto di vista storico che religioso (in uno spirito «cananeo»). Per loro un Israele «Stato di tutti i suoi cittadini» non è solo una giusta richiesta di uguaglianza ma anche, in una certa misura, una pretesa sempre più forte di sovrapposizione tra cittadinanza e identità. In altre parole vorrebbero un appannamento dell’identità storica israeliana e la sua sostituzione con una cittadinanza generica, analoga a quella americana o australiana.
Questi quattro fattori (sommati ad altri, in diverse varianti) minano la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa che intendo promuovere.
«Nessuna comunità e nessun ebreo, neppure uno come te, può vivere il giudaismo e nel giudaismo e condurre un’esistenza pienamente ebraica nella diaspora. Solo in Israele ci può essere un’esistenza simile. Solo qui fiorirà una cultura ebraica degna di questo nome, ebraica al cento per cento e umana al cento per cento. Gli scritti sacri non sono che una parte, un settore della cultura. La cultura di un popolo è fatta di campi, di strade, di case, di aeroplani, di laboratori, di musei, di un esercito, di scuole, di un governo autonomo, di panorami del suolo natio, di teatri, di musica, della lingua, di memorie, di speranze e di tanto altro ancora. Un ebreo completo, un essere umano completo, senza lacerazioni e senza frapposizioni tra il suo essere ebreo e il suo essere umano, tra il cittadino e il pubblico – non può esistere in terra straniera».
Queste incisive parole, portate di recente alla mia attenzione, furono scritte dal Primo Ministro israeliano David Ben Gurion negli Anni Cinquanta a un ebreo della diaspora di nome Ravidovic. Parole analoghe, da me pronunciate qualche anno fa durante un discorso ai membri del Comitato ebraico americano di Washington, hanno provocato reazioni burrascose. Nessuno, infatti, è felice di sentirsi dire che l’identità che gli sta a cuore è incompleta. Ma quando mi sono reso conto che anche in Israele molti disapprovano questa mia opinione ho capito che qualcosa di fondamentale si è deteriorato nella comprensione del cambiamento sostanziale avvenuto nell’identità ebraica con la creazione di Israele. E questo è sorprendente dal momento che in passato, agli albori del sionismo e subito dopo la fondazione dello Stato di Israele, la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa era naturale per molti. Di recente, infatti, si è verificato un preoccupante regresso dovuto, come si è detto, a fattori diversi e contrastanti, in primis alle varie correnti religiose.
È vero che per duemila anni è esistito un unico modello di identità ebraica. Gli ebrei vivevano in mezzo ad altri popoli, in nazioni che consideravano straniere, dominate da religioni e da etnie diverse e in cui si parlavano lingue straniere. Gli ebrei, come minoranza etnica in perenne movimento, partecipavano in diversa misura alla vita che ferveva intorno a loro mentre la loro identità ebraica toccava solo determinati aspetti della loro esistenza. Inoltre (ed è questo a mio parere il cambiamento fondamentale avvenuto con l’istituzione di una sovranità ebraica in Israele) nella diaspora nessun ebreo esercitava, o tuttora esercita, alcuna autorità sui propri connazionali. Gli ebrei sono liberi gli uni nei confronti degli altri e non hanno alcun obbligo verso i loro confratelli che non sia dettato dalla loro volontà. La loro vita è governata dai gentili alla cui autorità devono sottoporsi. Di più. La responsabilità collettiva degli ebrei è puramente volontaria. Una sciagura degli ebrei russi non impone alcun aiuto da parte degli ebrei italiani che non scaturisca da una loro scelta. Non ha perciò senso parlare di un destino comune ebraico. Quando Londra fu bombardata durante il blitz tedesco anche cittadini di Liverpool o di Leeds parteciparono alla sua difesa e abitanti di Manchester furono inviati a combattere contro i tedeschi nel deserto occidentale. Il piano di austerità deciso dal governo britannico fu imposto a tutti i cittadini, ovunque si trovassero.
Questo è un destino comune e secondo questa definizione si può dire che esista un destino comune israeliano o palestinese. Ma quando gli ebrei furono mandati nei campi di sterminio in Polonia i loro connazionali a New York, in Brasile o in Iran continuarono a condurre la solita vita. E quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna i loro confratelli iracheni o tedeschi continuarono a svolgere pacificamente il loro lavoro. Il destino degli ebrei nella storia è determinato, nel bene e nel male, dai popoli in mezzo ai quali vivono.
L’identità israeliana restituisce agli ebrei il controllo su altri ebrei, come durante il periodo del primo e del secondo Tempio, e una inevitabile responsabilità reciproca. In Israele gli ebrei pagano le tasse in base a una legge creata da ebrei, vanno in guerra per volontà di altri ebrei, proteggono insediamenti che forse disapprovano o ne evacuano altri ritenuti sacri dai loro residenti. Questa interazione crea una struttura identitaria ricca e infinitamente più significativa da un punto di vista esistenziale e morale di quella esistente nella diaspora dove il dibattito è puramente concettuale, senza capacità impositiva.
Di colpo tutte le componenti della vita si aprono all’identità ebraica che in questo modo si trasforma in israeliana e nuove questioni etiche, delle quali gli ebrei non si sono mai occupati e non si occupano nella diaspora, si presentano come sfide agli israeliani che si trovano a dover prendere delle decisioni, nel bene o nel male, e non solo a disquisire di dubbi teorici.
Come deve essere un carcere israeliano? Quali devono essere le dimensioni delle sue celle? Quali procedure occorre seguire durante un arresto? Fino a che punto è possibile e moralmente consentito torturare un pericoloso terrorista per estorcergli informazioni importanti? È permesso vendere armi a un regime dittatoriale in Africa al fine di evitare la disoccupazione nell’industria bellica israeliana?
I valori nazionali sono determinati non solo dal dibattito ma dall’azione. È facile per un rabbino di una sinagoga di Chicago sventolare di sabato «l’etica ebraica», spanderne il profumo fra i suoi ascoltatori e poi riporla nel suo scrigno. In Israele l’etica ebraica è talvolta determinata dall’inclinazione del fucile di un soldato davanti a una manifestazione di palestinesi. L’etica ebraica viene messa alla prova ogni giorno e ogni ora, in mille occasioni. Perciò al giorno d’oggi è più facile essere ebreo nella diaspora e affrontare le grandi questioni esistenziali come cittadino (spesso un po’ in disparte) di un’altra nazione.
Anche gli ebrei religiosi israeliani ampliano notevolmente la loro identità e sono chiamati a prendere decisioni che nessuno pretende dai loro confratelli nella diaspora. Un israeliano credente è chiamato, esattamente come un laico, a decidere con il suo voto se investire nel settore militare piuttosto che in quello sanitario. Può giustificare la sua posizione basandosi sugli scritti sacri, ed è persino auspicabile che lo faccia, ma tali giustificazioni dovranno confrontarsi con argomentazioni provenienti da fonti diverse. E ciò che verrà deciso diventerà legge.
Una lezione di Talmud in un’Accademia rabbinica non rappresenterà perciò una maggiore espressione di identità ebraica di quanto non lo sia un dibattito della commissione parlamentare israeliana per la prevenzione degli incidenti stradali. È la realtà israeliana a creare un’integrazione tra lo spirituale e il materiale, come indicato da Bialik.
Per gli ebrei, che per la maggior parte della loro storia hanno indossato e smesso abiti nazionali di altri, il processo di trasformazione dell’identità israeliana da indumento in una nuova pelle, è qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. Siamo solo all’inizio della lotta per un posto dell’identità israeliana nella nostra vita. L’ondata di ebraismo religioso di cui siamo testimoni non fa che ostacolarne e minarne la stabilizzazione e l’approfondimento.
Io credo che ex israeliani ed ebrei odierni popoleranno anche le colonie spaziali che sorgeranno fra pochi decenni. E forse anche lassù gli inviati di Chabad (movimento religioso ebraico N.d.T.) li aiuteranno a mantenere un minimo di identità ebraica come fanno ora in tutto il mondo. Da lassù, dalle colonie spaziali, diranno probabilmente «L’anno prossimo a Gerusalemme». E la domanda angosciante sarà: Gerusalemme sarà allora un concetto astratto, come lo è stata per centinaia di anni di storia ebraica, o una realtà viva? Questo non dipenderà dall’identità ebraica, ma unicamente da quella israeliana.
[Trad. Alessandra Shomroni]

Repubblica 17.3.15
La sfida di Tzipi e Buji la strana coppia che adesso sogna di conquistare Israele
di Bernardo Valli


GERUSALEMME TZIPI e Buji formano la coppia politica che nelle prossime ore può sconfiggere l’uomo per nove anni al governo in Israele. Perlomeno lo sperano, confortati dai pronostici favorevoli, ma tutt’ altro che infallibili. Soltanto Ben Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, è stato primo ministro più a lungo di Benyamin Netanyahu che adesso rischia di perdere il posto. Ma che, tenace come un mastino, si è dato da fare fino all’ultimo, con comizi e riunioni, per conquistare un quarto mandato.
Insieme Tzipi Livni (Tzipi è diminutivo di Tzipora) e Isaac Herzog (detto Buji) hanno creato l’Unione sionista, formazione di centro sinistra in cui hanno riversato i loro rispettivi partiti: quello liberale di lei, Hatnua, e quello laburista di lui, Avoda. L’alleanza ha avuto una fortuna inaspettata sul piano virtuale dei sondaggi, che alla vigilia del voto le attribuivano almeno quattro seggi di più in Parlamento di quelli immaginati per il Likud, il partito di destra di Netanyhau. Chiamato Bibi. Gli israeliani amano usare i nomignoli. Danno un tocco di familiarità a una società politica dura, litigiosa.
Le indagini d’opinione possono non riflettere i risultati reali, capita spesso, e quindi Netanyahu non si è dato per vinto. Non è nella sua natura. La partita resta aperta anche perché ottenere più seggi in Parlamento e quindi essere incaricato dal capo dello Stato non dà la garanzia di diventare primo ministro. Per formare il governo bisogna tro- vare una maggioranza, vale a dire almeno 61 dei 120 deputati che conta la Knesset. Proprio a Tzipi Livni, allora capo del partito Kadima, accadde nel 2009 di conquistare un seggio in più di tutti gli altri ma di non riuscire poi a costruire una coalizione. La media degli ultimi sondaggi dava 26 seggi al centro sinistra di Tzipi e Budji. Tutto può dunque accadere. Compresa la formazione di un governo di unione nazionale nel caso nessun partito raccogliesse attorno a sé una maggioranza.
L’avere gettato un forte dubbio sulla rielezione di Benyamin Netanyahu è comunque un successo per Tzipi Livni e Isaac Herzog. Quando ha sciolto in anticipo il Parlamento, il primo ministro era convinto che il quarto mandato gli fosse assicurato. Non aveva calcolato gli strascichi dell’ultimo conflitto di Gaza, che aveva intaccato il mito della stabilità garantita dai suoi governi, e le difficoltà economiche createsi nel Paese. I vizi e le debolezze dell’impavido Bibi, coperti fino allora da una condotta impetuosa e spesso spavalda, sono apparsi evidenti e hanno suscitato tante incertezze. Netanyahu esaltava meno e ha cominciato a stancare. La voglia di cambiare si è accentuata via via, ma non è facile smuovere un macigno. Tzipi e Buji hanno provato.
Lui, Herzog, appartiene a una grande famiglia israeliana. Il nonno grande rabbino, il padre presidente della Repubblica, lo zio famoso ministro degli esteri. Sono i nostri Kennedy, dicono senza sorridere troppo i suoi amici. Lui non è un generale, non è un eroe di guerra, non ha neppure la figura del macho, che qui non stona se è quella di un uomo cui è affidato la sicurezza del Paese. Non è molto alto. Non è un grande oratore. Ma tutte queste mancanze nel curriculum e nell’aspetto hanno finito col fare di lui un personaggio singolare, sempre più degno di attenzione per le dichiarazioni misurate, sensate, per lo stile da intellettuale che sa quel che dice, per la compostezza che è l’esatto contrario dei comportamenti eccessivi di Netanyahu, facile da identificare come l’esatto contrario.
I cronisti politici che lo frequentano lo definiscono «un uomo di centro del centrosinistra». Il partito laburista di cui è il segretario ha subito nell’ultimo decennio una forte disaffezione. Essenzialmente sostenuto dagli askenaziti, di origine centro e nord europea, élite intellettuale fondatrice dello Stato ebraico, è stato abbandonato dalle classi medie spostatesi al centro e a destra, perché il partito non esprimeva più i suoi valori originari e navigava in un’ambiguità ideologica senza interesse.
Isaac Herzog, di professione avvocato, 54 anni, ha recuperato il termine sionista che era stato scippato dalla destra. Non sono pochi coloro che gli rimproverano di avere cosi respinto quella parte della popolazione araba israeliana che votava per il vecchio partito. Ma ha però rispolverato i valori sociali che il sionismo aveva perduto, quando è stato recuperato dalle masse sefardite, gli ebrei orientali, sull’onda delle quali il sionismo di destra (riformista) è arrivato al potere. Da allora è diventato sinonimo di nazionalismo.
Sul problema essenziale, quello palestinese, Herzog si oppone alle drastiche posizioni dei partiti di destra che rifiutano ogni concessione: è in favore di uno Stato palestinese, a condizione che le autorità dell’Olp si dimostrino moderate; non è contrario a una condivisione di Gerusalemme come capitale, riservando a Israele i luoghi tradizionali dell’ebraismo. Si ripropone in caso di una vittoria elettorale di compiere una prima visita a Washington per incontrare Barack Obama e riallacciare i rapporti con l’America sfidata da Netanyahu. Poi si recherà in Egitto per tentare di creare un’intesa con gli arabi moderati in cui comprendere i palestinesi.
Nell’Unione sionista occupa un posto di rilievo Tzipi Livni. Il suo è un piccolo partito liberale, ma lei ha una storia politica di rilievo. Ha 56 anni, è avvocato come Herzog, ma non proviene da una celebre famiglia di tradizione progressista. Il padre era dell’Irgun, l’organizzazione militare della destra sionista, e lei ha militato da ragazza nel Betar, il movimento giovanile con la stessa tendenza. Da studente, a Parigi, ha lavorato per il Mossad, i servizi segreti. E in Israele ha aderito al Likud, il partito di destra. Ha poi seguito il generale Sharon quando il campione della destra nazionalista con un’improvvisa svolta al centro ha fondato il partito Kadima. Tzipi Livni è stato più volte ministro, in particolare degli esteri. Prima di essere licenziata dal governo Netanyahu era ministro della giustizia. In tutti i ruoli e in tutti i partiti si è distinta per le posizioni di “colomba”, vale a dire favorevoli a uno Stato palestinese. Se sul piano economico Tzipi Livni si distingue dall’alleato Isaac Herzog per le idee liberiste, su quello politico si dimostra più decisa di lui nel sostenere il processo di pace con i palestinesi.

Repubblica 17.3.15
Il “generale del Male” che piega il Califfo e ora trionfa a Teheran
Qassem Suleimani è nella lista nera Usa, ma combatte l’Is. E c’è già chi lo vede presidente
di Vanna Vannuccini


DOPO l’elezione di Rouhani i conservatori iraniani malvolentieri si erano fatti da parte. Rouhani aveva l’appoggio del Leader Supremo Khamenei per condurre in porto l’accordo sul nucleare e i conservatori non potevano far altro che mettersi in seconda fila, anche se temono l’accordo perché lo considerano un pericolo per la propria sopravvivenza politica: una sua conclusione positiva aumenterà il già grande favore popolare per i moderati e per i riformatori. Non hanno però mai smesso di tramare contro il presidente, esattamente come fecero dopo l’elezione di Khatami. Ora, mentre l’accordo sul nucleare è reso più incerto dall’opposizione frontale dei repubblicani a Washington, la loro strategia è diventata più chiara. Hanno individuato l’uomo su cui puntare, il generale Qassem Suleimani, considerato dagli iraniani un eroe dai tempi della guerra contro l’Iraq. È su di lui che i conservatori contano per riprendersi il potere alle elezioni presidenziali tra due anni, prevede Akbar Ganji, un riformatore da anni in esilio. Non a caso un sondaggio fatto dal sito conservatore khabaronline alla vigilia del capodanno iraniano dice che il generale Qassem Suleimani è preferito dal 37,3 per cento degli iraniani, più amato dello stesso ministro degli Esteri Zarif (29 per cento) molto stimato per tutto quello che fa per condurre a buon fine i negoziati sul nucleare, sul quale sono poggiate le speranze di tutto il popolo iraniano. Qassem Suleimani è il comandante di al Qods, le truppe speciali dei pasdaran, specializzate nelle missioni d’intelligence e di sostegno agli alleati dell’Iran all’estero, sempre rigorosamente top secret. Il suo nome o le sue foto non venivano mai pubblicate sui giornali iraniani. Tutto è cambiato dopo la comparsa dei terroristi dell’Is. Suleimani è l’uomo che effettivamente sta salvando gli iracheni, e forse salverà il mondo, dalla ferocia dell’Is, azzarda Ganji. Ma i conservatori hanno colto al volo l’occasione per farne l’eroe nazionale e sciita che potrebbero presentare contro Rouhani alle elezioni presidenziali del 2017 se il negoziato nucleare fallirà.
È così che l’uomo il cui nome non si poteva pronunciare da qualche mese è su tutte le prime pagine dei giornali, intere trasmissioni televisive gli vengono dedicate e tutti gli iraniani ormai conoscono il suo nome e le sue imprese. La prima volta che era apparso in un video era stato in autunno, dopo la prima vittoria sull’Is a Amirli, nell’Iraq settentrionale. Sotto la sua guida gli iracheni liberarono la città da un lungo assedio del Califfato, e nello stupore di tutti a Teheran si vide Suleimani festeggiato dalle truppe iraper chene e dai peshmerga curdi. Elogiato come abilissimo stratega, lui si schermì: «Non abbiamo fatto altro che ricordare agli iracheni come facemmo noi a resistere a Saddam quando nel 1980 ci attaccò all’improvviso ». Volò a Baghdad poche ore dopo che l’Is, dopo aver preso Falluja, stava per attaccarla e la salvò. Da allora è sempre rimasto in Iraq. In questi giorni è a Tikrit ed è di nuovo grazie a lui se l’esercito iracheno, che otto mesi fa si era volatilizzato lasciando all’Is vaste zone del paese, si è ripreso la città che era da dieci mesi nelle mani del Califfo. Tikrit è una città chiave, non solo perché è la città natale di Saddam e la più sunnita delle città irachene, dove più numerosi sono stati i massacri tra sciiti e sunniti, ma anche la sua posizione strategica a metà strada tra Baghdad e Mosul. Una volta consolidata la sua riconquista, la strada per Mosul sarà aperta e la caccia dell’Is dall’Iraq non sembrerà più una chimera.
Suleimani si è sempre posto l’obiettivo di difendere gli interessi della Repubblica islamica: dovunque sia necessario e con ogni mezzo. «Un personaggio del Male», disse di lui il generale Petraeus. A Teheran invece molti lo considerano un uomo pronto al negoziato, non un ideologo. Durante la guerra contro l’Iraq criticò pubblicamente la tattica khomeinista di sacrificare sui campi minati iracheni migliaia di giovani iraniani. In Afghanistan come in Iraq offrì all’inizio agli americani qualche ramoscello d’ulivo, per avviare il dialogo. Ma alle risposte negative di Bush jr decise di rendere per gli americani l’occupazione dell’Iraq e la presenza in Afghanistan il più possibile dolorosa. La teocrazia iraniana calcolava che finché fossero rimasti impantanati in quei due paesi gli americani non avrebbero potuto far nulla contro l’Iran. Suleimani è accusato di aver fornito agli iracheni quegli ordigni micidiali (Ied) che ammazzarono tanti soldati Usa sulle strade di Baghdad. Da allora negli Stati Uniti è sulla lista dei terroristi.
Di pragmatismo non dà certo prova in questo momento il comando dei pasdaran. Due giorni fa parlando a Teheran all’Assemblea degli Esperti (che ha appena eletto un ultraconservatore alla sua presidenza, anche questa una prova che i conservatori si sentono più sicuri da quando l’accordo nucleare si trascina senza certezze), il comandante delle Guardie Rivoluzionare Ali Jafari ha salutato con soddisfazione la crescente «influenza» della Repubblica islamica nella regione. «L’esportazione della rivoluzione è entrata in una nuova era», ha detto. Parole che devo suonare sinistre alle orecchie della leadership saudita.
I sauditi temono, quanto e più ancora dell’Is, che un accordo sul dossier nucleare iraniano, e la collaborazione di fatto degli iraniani con gli Stati Uniti per respingere l’avanzata dei jihadisti, riabiliti nella regione e nel mondo il loro principale rivale persiano sciita. All’offensiva per rinquistare Tikrit non hanno finora partecipato i bombardieri americani. Forse perché Suleimani è ancora nell’elenco dei terroristi negli Stati Uniti. Ma i media arabi speculano che Teheran abbia rifiutato l’aiuto degli aerei americani per presentare la riconquista di quella città chiave come un successo esclusivamente iraniano, e un segnale dell’espansione dell’Iran nella regione.

Repubblica 17.3.15
Nuovo cinema Pechino
Ogni giorno in Cina aprono tre nuove sale
A febbraio per la prima volta gli incassi al box office hanno superato quelli negli Stati Uniti
Il segno di una rivoluzione dei costumi che è anche un fenomeno politico: una serata seduti fra il pubblico spiega il perché
di Giampaolo Visetti


PECHINO IN SALA silenzio assoluto. I cinesi al cinema trattengono il respiro. Negli occhi solo neri, puntati sullo schermo 3D, si riflette la necessità di carpire il segreto del futuro. Sedere qui è già il marchio di un successo. Imax di Chaoyang, tra i grattacieli di Pechino: due ore in fila per un biglietto, tre giorni di lavoro per pagarlo, popcorn esclusi. Nelle metropoli il weekend non lascia alternative: migranti esausti vagano tra i miraggi dei cellulari, giovani colletti bianchi si perdono tra i sogni dei film. Proiettano il blockbuster uscito per il capodanno lunare: “L’ultimo lupo”. L’ha girato il francese Jean Jacques Annaud ma è tratto dal cinese “Il totem del lupo”, romanzo cult da 25 milioni di copie, scritto da Jiang Rong.
Sentirsi parte del popolo che va al cinema, nei giorni in cui i leader rossi erano riuniti nell’Assemblea nazionale, non è stato un atto sovversivo. Alla nomenclatura dice però che i cinesi oggi vogliono vivere come gli occidentali. Certe scene di amore, di violenza e di sesso, non passerebbero il filtro della censura sulla televisione di Stato. Sul grande schermo invece, gli affari sono affari, l’occultamento politico della vita si ammorbidisce.
Per andare al cinema, in Cina, prima di tutto ci si mette eleganti. Le poltrone sono rosse e i profumi sono forti. “L’ultimo lupo” è un evento e le probabilità che associargli l’aggettivo «storico » non suoni ridicolo, sono medio-alte. La trama è, come si dice a Pechino, «sensibile». Lo studente Chen Zhen, all’inizio della Rivoluzione culturale, viene spedito in Mongolia per civilizzare le tribù dei nomadi pastori. Undici anni di condanna per scoprire che al contrario sono i colonizzatori han (l’etnia prevalente in Cina) ad avere tutto da imparare da un mondo intatto. Non riuscirà a fermare la furia dei rivoluzionari comunisti, che distruggono i templi buddisti e sterminano i branchi dei lupi. Sceglie però di adottare l’ultimo cucciolo, atto estremo di rifiuto contro un potere che può legittimarsi solo cancellando sia la cultura che la natura.
Centinaia di ragazzi guardano e tacciono. Sono commossi e stentano a credere che questo film, così gonfio di metafore politiche, sia proiettabile in Cina. Si interrogano sulle ragioni e su possibili svolte non annunciate. Sul perché il partito abbia concesso la regia ad Annaud, bandito nel 1992 come «anti-cinese» dopo aver girato “Sette anni in Tibet”, sullo sfondo dell’occupazione maoista. «I produttori della Beijing Forbidden City — racconta il regista — mi hanno detto che la Cina è cambiata e che i cinesi adesso sono gente pratica. Che avevano bisogno di me perché non sanno fare quello che faccio io». Assicura di aver ottenuto «una libertà assoluta e inspiegabile». La massa che in queste ore preme al botteghino, in tutto il Paese, spiega qualcosa e autorizza l’azzardo dell’aggettivo “storico”.
In febbraio, per la prima volta, gli incassi al box office in Cina hanno superato quelli negli Stati Uniti. Le sale cinesi hanno guadagnato 650 milioni di dollari, rispetto ai 640 di quelle americane. Nella settimana delle ferie l’incasso è arrivato a 270 milioni. Oltre che da “L’ultimo lupo” le casse sono state sbancate dai cinesi “L’uomo di Macao” e “La lama del drago”, dagli stranieri “The Hobbit” e “The hunger games”, ognuno capace di raccogliere tra i 35 e i 104 milioni di dollari. Nei primi dodici giorni il film di Annaud è stato visto da 12 milioni di cinesi, 80 i milioni incassati. Nessuno aveva previsto già nel 2015 il sorpasso Cina-Usa anche al cinema, fissato tra otto anni. Invece si è già consumato e sebbene il primato sia circoscritto ad un mese, ricco in Oriente e povero in Occidente, le conseguenze economiche e culturali si annunciano enormi.
Il morso imposto alla censura e al protezionismo dal presidente Xi Jinping, che ha aumentato da 20 a 34 le opere straniere importabili ogni anno, rivela come il partito abbia appreso la lezione di Hollywood: i valori del cinema diventano i valori del popolo e chi fa sognare la gente ne conquista, oltre che i soldi, anche cuore e cervello.
Il “caso Cina” è impressionante. Nel 2007 per 1,4 miliardi di cinesi c’erano 3mila schermi. I 316 milioni di statunitensi potevano scegliere tra 40mila. In sette anni solo una tra queste cifre è mutata: gli schermi cinesi sono esplosi a 25mila. Saranno il dop- pio entro il 2025. Ogni giorno in Cina vengono aperti tre nuovi cinema, di cui uno Imax. Gli spettatori crescono del 22% all’anno e nel 2014 il box office interno ha superato i 4,5 miliardi di euro, rispetto ai 900 milioni del 2009. Il terzo miliardario più ricco del Paese si chiama Wang Jianlin e il suo Wanda Group possiede 150 sale e 1300 schermi 3D. E’ il primo gestore mondiale di cinema e, acquisiti i diritti tivù del calcio europeo, sta completando la scalata a Hollywood. Cinesi sono anche i più grandi studi cinematografici del pianeta: gli Hengdian World Studios, 300 chilometri a sudovest di Shanghai, coprono 2500 ettari e vantano 13 set. In vent’anni sono stati girati qui 1200 film, più che in California e che nell’indiana Bollywood. Hengdian era un villaggio con di 8mila contadini. Xu Wenrong, ex bracciante di risaia, 80 anni, lo ha trasformato nel più grande centro di produzione contemporaneo. Girare un film in Cina costa un decimo che negli Usa, quindici volte meno che in Europa. Pechino al cinema supera dunque Washington non solo per giro d’affari, ma anche per opere prodotte e proiettate.
Lo spostamento del video soft-power è tale che nemmeno censura e propaganda rappresentano più un problema. L’industria cinematografica occidentale ha un bisogno disperato di accedere al pubblico asiatico. I tagli imposti da Pechino, che un tempo facevano gridare all’«inaccettabile sfregio», vengono definiti oggi «doveroso rispetto delle sensibilità nazionali ». Molti, pensando ai botteghini cinesi, si auto-censurano prima di girare. Il resto dei produttori di Usa e Ue tagliano a comando, invocando «aggiustamenti dettati del business globale».
Il punto è semplice. Negli Stati Uniti gli spettatori calano e invecchiano, assieme alle sale minate da web e pirateria. In Cina gli schermi esplodono, chi va al cinema si moltiplica ed è sempre più giovane. La solitudine di 400 milioni di migranti nelle megalopoli e l’incubo dello smog, che scoraggia qualche bella passeggiata, contano. Dalle origini però il cinema nasce e va forte nei Paesi di successo, con l’economia in crescita, dove la gente guarda al domani con la fiducia di poter realizzare il proprio sogno. A questa regola la Cina aggiunge il messaggio più importante: per “esigenze di mercato” l’immaginario del mondo e quelli che si usano definire i “valori dell’Occidente” diventano sempre più cinesi, come nel Novecento, grazie a Hollywood, da europei si fecero statunitensi. Pechino ha capito che il cinema, con la cultura che esprime, vale molto di più dell’industria e delle auto che esporta. Nelle trenta sale Imax di Chaoyang la censura questa sera lascia che migliaia di increduli ragazzi vedano gli stessi sogni del resto del mondo perché il “nuovo Mao” sa che la Cina li sta nel frattempo acquistando e si appresta a rigenerarli. I nuovi consumisti cinesi, come i coetanei americani ed europei, nonostante tutto credono nella civiltà occidentale: non appena anche la rappresentazione di essa sarà made in China, la migrazione del pensiero dominante dall’Occidente all’Oriente sarà consumata.
Il profilo dei buoni e dei cattivi cambia, dopo i soldi tocca alle idee. Qui il pubblico resta in silenzio anche quando dal cinema esce nelle luci della notte, accolto dai botti di feste infinite. “L’ultimo lupo” insegna il valore della libertà, ma prima la potenza del branco. Non è un caso che la Cina oggi lo veda prima dell’America.

Repubblica 17.3.15
“È il mercato del futuro impariamo a conoscerlo”
di Maria Pia Fusco


«NON possiamo ancora definirlo un cambiamento epocale soprattutto perché quest’anno il Capodanno lunare è arrivato tardi, nella seconda metà di febbraio, tutti vanno al cinema ed è il periodo in cui escono i film più popolari, difficilmente esportabili. Però è comunque una notizia importante». In partenza per Pechino, dove è impegnato con il Festival in programma dal 16 al 23 aprile, Marco Müller, ex direttore della Mostra del cinema di Venezia e del Roma Filmfest, commenta così il fatto che il box office cinese a febbraio abbia superato quello americano. « The man from Macao 2, il maggiore incasso, è un poliziesco calibrato sul pubblico cinese e il protagonista Chow Yun- Fat è una delle star più amate».
Tra i primi incassi però c’è anche L’ultimo lupo di Annaud.
«Certo, ed è importante, perché è un film intelligente, senza uso di effetti digitali. Ma è interessante anche il secondo titolo del botteghino, Dragon Blade di Daniel Lee, un film che avrebbe tanto voluto fare Aurelio De Laurentiis, sullo scontro tra l’impero Han, la seconda dinastia cinese, e una legione dell’antica Roma, in cui Jackie Chan e John Cusack si battono senza esclusione di colpi, adatto anche al mercato americano».
Quanto inciderà a livello internazionale?
«Ci saranno vantaggi per tutti, ma dobbiamo imparare a conoscere il mercato cinese. Molte major lo stanno facendo. Un esempio è Hunger games. La Lion’s Gate ha scommesso sul mercato cinese tanto da scegliere la Cina per la prima mondiale e hanno avuto ragione: il film è tra i maggiori incassi di febbraio. Una cosa sicura sarà che nei film americani il cattivo non sarà mai più un cinese».
Secondo Annaud L’ultimo lupo segna il cambiamento in Cina. È d’accordo?
«Se non ne fossi convinto non avrei accettato l’incarico di dirigere il festival di Pechino invece che quello di Shanghai, anche se è più complicato perché si lavora all’ombra del governo. Però voglio provare a piccoli passi a ottenere aperture. A Shanghai avrei dovuto trattare con le autorità locali che poi avrebbero dovuto consultare Pechino. Molti cineasti scelgono Shanghai pensando ci sia maggiore libertà. Lo pensavo anch’io, ma è un errore: a decidere è sempre il governo centrale».
Che ruolo ha nel festival di Pechino?
«Curo la selezione internazionale, ho un contratto di cinque anni, mi occupo di una trentina di film in anteprima mondiale, Lavoriamo con un comitato organizzativo affiancato da un comitato esecutivo, che è l’ultima istanza, quella che tratta con la censura. Ho proposto anche film italiani, ma saprò solo la prossima settimana quali sono stati approvati».
Qualche direttore di Festival europeo teme che il festival di Pechino possa danneggiarli.
«Dopo il 23 aprile avrò una riunione con le autorità cinesi per capire come regolarci per il futuro, quali cambiamenti di rotta dare e con che velocità. E soprattutto ragioneremo sulla scelta di date che non siano in conflitto con Cannes o con Venezia».
Il timore è economico. La Cina è ricca, può strappare ospiti e star… «Il budget è di 10 milioni e mezzo di euro, che, con gli altri benefit, arriva a una cifra che in Cina vale 17 milioni di euro. Sì, è un Festival ricco, ma a me interessa soprattutto potenziare il mercato. È la ragione per cui ho deciso di tornare a vivere in Cina per buona parte dell’anno, dopo averla lasciata nel 1975. Ed è quello che mi chiede la maggior parte dei produttori e distributori con cui sono in contatto».

Il Sole 17.3.15
Le riforme nel 2015
Il premier Li lascia intendere che il governo cinese potrebbe varare misure di stimolo fiscale in caso di necessità
Pechino pronta ad aiutare la crescita
Per gli investitori stranieri da tenere d’occhio inflazione e creazione di posti di lavoro
di Rita Fatiguso


Pechino. Volano gli indici di borsa all’indomani delle parole rassicuranti pronunciate da Li Keqiang a chiusura della Plenaria del Congresso del Popolo cinese.
In conferenza stampa il premier ha detto che se la situazione economica dovesse deteriorarsi «farà di tutto per rimettere la Cina sui binari». Quel 7% di crescita attesa nel 2015 e inserito nel Work Report letto in Assemblea, infatti, potrebbe essere a rischio. Se anche i posti di lavoro e i salari dovessero essere messi a repentaglio, la Cina sfodererà una serie di strumenti di breve periodo per far fronte all’emergenza. L’anno scorso il surplus di nuovi posti di lavoro oltre i 10mila programmati aveva rappresentato un elemento positivo. Anche quest’anno la Cina deve creare altri 10milioni di posti, specie nelle aree più toccate dall’urbanizzazione.
Le borse cinesi hanno brindato con un risultato che non si vedeva da cinque anni, dall’agosto del 2009, un brindisi liberatorio perché la scorsa settimana ben 3 miliardi di yuan (pari a 479 miliardi dollari) erano stati messi in freezer in vista di un nuovo giro di Ipo, con evidenti effetti negativi sulla liquidità.
Ma alla notizia che potrebbero esserci misure straordinarie per rianimare l’economia i mercati finanziari hanno riacquistato l’ottimismo.
L’anno scorso Li Keqiang ha tenuto duro sul 7,5% smentito poi da un 7,4 a consuntivo, ma aveva lasciato al ministro Lou Jiwei, il giorno dopo il discorso di prammatica al Congresso, il compito di tirare in ballo un limite più basso alla crescita (7-3,7-2). Quest’anno è lo stesso Li Keqiang a mettere le mani avanti e a far intuire che le cose potrebbero peggiorare nei prossimi mesi.
Anche l’apprezzamento di Li per l’economia del web (crea posti di lavoro, ma dobbiamo regolarla) ha messo di buonumore i titoli tecnologici.
E sembra quasi una schizofrenia che, proprio mentre l’economia cinese viaggia al minimo dal 1990 ma anche rispetto a quanto si poteva immaginare, in una sola settimana lo Shanghai Composite ha guadagnato il 64 per cento.
Pechino nel 2014 non ha deliberatamente adottato politiche di investimenti straordinari, limitandosi a tagliare i tassi per ben due volte e i tempi burocratici per l’approvazione di nuove imprese (ben 200 lacci e lacciuoli, ha detto Li). Ma, evidentemente, ciò non basta a ridare impulso all’economia.
Tagliare i salari – l’unico elemento che cresce a doppia cifra - vorrebbe dire limitare ancora di piu la spesa per consumi interni e quindi anche i ricavi per le aziende. E con queste premesse, addio ripresa.
Preoccupante - e difatti Li Keqiang ha dovuto affrontare il tema - è il boom del debito pubblico. Il debito pubblico e privato della Cina è aumentato più del doppio della produzione economica del paese, con un’impennata di 83 punti percentuali rispetto al prodotto interno lordo dal 2007.
La velocità è superiore a qualsiasi altro Paese in via di sviluppo, sembra che nessuno abbia accumulato così tanto debito tanto velocemente.
E il rischio di un credit crunch è sempre dietro l’angolo. Il tasso di riacquisto di sette giorni (repo), l’indicatore di disponibilità di provvista interbancaria, ieri è sceso di nove punti base, a 0,09 punti percentuali, al 4,62 per cento, stando a una media ponderata si tratta del calo più consistente dal 2 marzo. I controlli di fine trimestre e quelli fiscali che scadono in questo periodo dell’anno prosciugheranno ulteriormente le tasche delle aziende, i tassi restano elevati e c’è chi invoca un ulteriore taglio da parte del Governatore della People’s Bank of China.
Mentre è evidente che non ci sarà una politica importante di allentamento nel brevissimo termine, rallenta il Pil, calano i prezzi al consumo, e i salari continuano a crescere a dismisura.
Ma anche il debito, lo riconosce lo stesso premier, che aggiunge: «Il 70% è costituito da investimenti». Nessuno però sa con certezza quale sia la reale composizione del debito locale e che parte è irrimediabilmente incagliata di questo debito. Negli ultimi anni dal 2009 a oggi, la percentuale di debito sul Pil ha guadagnato un punto e mezzo in percentuale, segno che esistono partite non più sotto stretto controllo. Del resto l’anno scorso il Governo centrale ha lanciato un audit colossale per monitorare la consistenza delle partite compromesse, senza per questo riuscire a convincere in molti casi le autorità locali a trovare un rapido rimedio. Non è a loro che potrà essere rivolto un aiuto a breve in caso di collasso delle economie del territoriali.

Repubblica 17.3.15
Al confine con il futuro
Ne parliamo con il presidente Zagrebelsky
L’appuntamento di quest’anno è dedicato ai “Passaggi” cruciali dei grandi cambiamenti. Quando valichiamo la frontiera tra ciò che ci è familiare e situazioni e territori sconosciuti.
di Vera Schiavazzi


“Quello democratico è il contesto in cui vogliamo discutere.
Sia delle forme politiche e delle loro trasformazioni, sia delle varie civiltà e di come oggi vengono a mescolarsi” Il lavoro, il valore delle persone visto attraverso la divisione fra vecchi e giovani, le tecnologie e il clima sono alcuni fra gli argomenti centrali degli incontri in programma

“Passaggi”, cioè la scelta di spostarsi da quello che abbiamo e conosciamo a un mondo futuro, sconosciuto e fors’anche preoccupante. Un modo del quale non possediamo ancora tutte le coordinate. La cittadinanza del futuro, i confini non solo per i popoli ma anche per le idee e le merci, i retaggi del Novecento che scegliamo di rifiutare e quelli che vorremmo invece conservare e tramandare: è con queste domande che nasce Biennale, e che il suo presidente, il giurista e costituzionalista Gustavo Zagrebelsky si prepara ad affrontare un programma da 102 incontri.
Biennale Democrazia non ospita solo dibattiti politici, sulle forme di democrazia in senso stretto, ma anche confronti sull’ambiente, le tecnologie, la velocità e la lentezza, l’eredità, le generazioni. È una scelta nuova?
«No. La democrazia è per noi prima di tutto il contesto nel quale vogliamo discutere. Sia delle forme politiche e delle loro trasformazioni, sia delle civiltà e del loro mescolamento. E dell’unità di tempo e di luogo che oggi si è spezzata, anche in Europa, come ci spiegherà Carlo Ossola. Ma anche di cultura europea, nella lezione introduttiva di Claudio Magris con Mario Calabresi. Ci interessano anche i cambiamenti sociali: lavoro, diritti, welfare…».
Una parte importante degli appuntamenti è dedicata al lavoro. È un tema che è sempre stato centrale nella Biennale. Perché?
«Ci appassionano i diritti e i cambiamenti di questo rapporto. Anche per questa ragione, nella serata inaugurale, abbiamo scelto di mandare in scena Thyssen Opera Sonora di Ezio Mauro. La tragedia della Thyssen, con i suoi sette operai morti bruciati, ha colpito la psicologia collettiva? È diventata per tutta la città una tragedia come per le vittime e le loro famiglie? Ci interessava che la prima di questo spettacolo avvenisse proprio qui, a Torino».
Il concetto di stato sovrano, le effettive possibilità di decidere dei governi, sono un altro tema che torna più volte nel programma. Lei ha detto più volte che è ormai la finanza a decidere i parametri di governo…
«È così. Guardando ai governi, tra i quali quello italiano, ciò che colpisce è l’esecuzione di parametri fissati da altri, una riduzione dello stato sociale che non è coerente a una visione politica ma che ci consente di far acquistare il nostro debito. Parafrasando Ernest Renan, che sosteneva che la nazione è “un plebiscito di tutti i giorni”, oggi si potrebbe sostenere che ogni giorno il plebiscito è per la finanza internazionale».
Questo ha a che fare anche col valore delle persone, la loro “utilità” o meno nel sistema. Sarà lei a parlarne col discorso della Biennale sulle Generazioni. Sono cambiate le età della vita?
«Credo di sì, riducendosi a due soltanto, quella dei giovani- vecchi e quella dei vecchi-giovani, con delle forme, che sono anche quelle pubblicitarie, che hanno nei fatti abolito la maturità di un tempo. Oggi, i giovani appartengono a una generazione che rischia di riconoscere diritti non all’individuo in quanto tale, ma solo a chi produce, mentre la grande quantità di vecchi che continua ad aumentare sta diventando un peso, un lusso che non possiamo più permetterci e che patisce più degli altri delle riduzione della spesa sociale e sanitaria».
Velocità e lentezza costituiscono un intero capitolo di Biennale. Perché sono così decisive?
«Perché viviamo in un tempo accelerato, dove progetti e passioni hanno vita breve e dove è questione di un attimo arrivare prima, competere, decidere, come Stefano Levi Della Torre spiegherà usando l’esempio degli spostamenti in volo degli uccelli. E mentre la società va veloce, la politica fatica a trovare risposte a cambiamenti che ne esigerebbero di radicali, come l’aumentare di eguaglianze e diseguaglianze o le trasformazioni climatiche».
Tra i dialoghi, ce n’è anche uno con Gian Enrico Rusconi e il cardinal Angelo Scola sul papato di Francesco, a due anni dal suo inizio. È un appuntamento importante?
«Sì. Papa Francesco supera la tensione fra pastorale e dottrina, favorisce una nuova ermeneutica. È importante capire che cosa ci sia dietro le aspettative che suscita, compresi i dissensi, sia aperti sia dissimulati».