martedì 24 marzo 2015

Corriere 24.3.15
«Non c’è deriva autoritaria»

Affondo di Renzi, che ha ricevuto dal presidente Mattarella l’interim per le Infrastrutture, respinge le accuse di «deriva autoritaria»: «Chi è legittimato a decidere o lo fa o consegna il Paese alla paura. Questa non si chiama dittatura ma democrazia»

Repubblica 24.3.15
Renzi chiude alla minoranza “Non sono un dittatore, chi non decide crea la palude e tradisce la democrazia”
di G. C.

È democrazia decidere se si è legittimati. Tradisce chi vivacchia senza fare le riforme
Tra cinque anni la nostra legge elettorale sarà copiata da mezza Europa

ROMA Nessuna «democratura», nessuna «deriva autoritaria». Renzi rimanda le accuse ai mittenti e contrattacca: «In un sistema democratico chi è legittimato a decidere non è un dittatore. Chi deve decidere, se non lo fa, vivacchia e condanna il paese alla palude, tradendo la democrazia». E quindi contro il rischio- palude, avanti tutta sulle riforme che solo «professori e commentatori un po’ pigri» possono scambiare per deriva autoritaria. Ha voglia di «togliersi qualche sassolino dalla scarpa», il premier. Lo ammette parlando agli studenti della Luiss School of government. Comincia difendendo le scelte fatte, dall’articolo 18 all’Italicum, la nuova legge elettorale che la sinistra dem vuole assolutamente cambiare. Affronta anche la questione del garantismo e delle dimissioni dei sottosegretari indagati. No, non si può prevedere un nesso «fra avviso di garanzia e dimissioni in un paese in cui la presunzione di innocenza è un principio costituzionale, altrimenti i pm decidono sul potere esecutivo». Montesquieu insegna.
È una giornata cruciale per Renzi e per il governo. Dopo un lungo colloquio al Quirinale, il presidente Mattarella gli assegna l’interim alle Infrastrutture, il ministero del dimissionario Maurizio Lupi. Le acque nella maggioranza sono agitate: tra Ncd e Scelta civica è scontro. Ma il premier si dice ottimista. E scommette sull’Italicum. «Se ci vediamo tra cinque anni, vedrete che la legge elettorale sarà copiata da mezza Europa». Sull’articolo 18: «Trovo che sia di sinistra difendere le persone non i simboli, noi con il Jobs Act abbiamo messo al centro le persone. In questi anni abbiamo avuto un sistema di welfare che è come una rete da circo rotta dalla quale caschi». Sulla corruzione: «Chi ruba lo mandiamo a casa ». Per questo ci vuole «come afferma Violante, una democrazia decidente». Il contrario delle complicazioni e della «vetocrazia». «Possibile - si chiede Renzi - che in Italia siano i Tar a decidere se una cura va bene oppure no? L’azzeccagarbugli dei Promessi Sposi descrive bene come le leggi siano fatte in modo tale che per ciascuno si apre la strada della complicazione. La pagina dell’azzeccagarbugli ogni mattina andrebbe letta e imparata a memoria da chi governa con l’obiettivo di fare il contrario». E a proposito di veti, nell’Italicum il premio alla lista e non alla coalizione serve a superare «il devastante meccanismo» del potere di veto dei piccoli partiti. Poi rilancia: «Sono maturi i tempi per una legge sui partiti». E rivendica: «Siamo già 28esimo governo per durata, siamo in Europa League». ( g. c.)

Corriere 24.3.15
Speranza: Matteo non è un intruso basta spingere per la scissione
Il capogruppo pd (e big della minoranza): «Bindi da Landini? Io no»
di Alessandro Trocino


ROMA «Dalla riunione del 21 è uscito un messaggio duro, di rottura. Ma sono sbagliate queste spinte centrifughe, che aprono all’uscita dal Pd. Questo è il nostro partito e questo è il nostro governo». Roberto Speranza, capogruppo alla Camera e leader di Area riformista, non è renziano ma non condivide la battaglia annunciata dalla riunione della minoranza.
Come si fa a essere a sinistra di Renzi e stare con lui? Rosy Bindi vi chiede di uscire da governo e segreteria.
«È esattamente il contrario. C’è bisogno di più sinistra dentro il governo e dentro il partito».
Vi accusano di poltronismo. Voi di Area riformista avete un ministro e 5 tra sottosegretari e presidenti di commissione.
«Non è una questione di posti, ma di idee. I posti sono a disposizione».
Lei è minoranza ma viene visto quasi come un «collaborazionista» di Renzi.
«Ne abbiamo visti tanti diventare renziani, noi abbiamo fatto un’altra scelta. Ma Renzi non è un intruso, ha vinto il congresso: basta pregiudizi. La sfida della sinistra di governo è questa: si può essere non renziani e puntare tutto sul Pd, contribuendo a dare un profilo riformista e di sinistra all’azione di governo».
La scissione non è più tabù. Il civatiano Luca Pastorino se n’è andato e altri non lo escludono.
«Il Pd è l’unico cardine possibile del Paese. Se alzi lo sguardo fuori, trovi una fotografia inquietante: Grillo, Berlusconi, Salvini. Sgombriamo il campo da qualsiasi ipotesi di scissione».
C’è questa ipotesi?
«Se sommo Pastorino che esce dal Pd e si candida a presidente della Liguria contro di noi. La Bindi che mi invita a uscire da governo e segreteria. E il messaggio di chi dice di colpire Renzi, mi chiedo: ma dove stiamo andando?».
Il resto della minoranza ha chiesto alla sinistra di organizzarsi. Si vuole un coordinamento parlamentare.
«In questo momento non serve. Se c’è bisogno di confronto sulle riforme, ben venga. Ma si discuta nei gruppi».
E il «palazzetto» di Bersani? La «grande associazione» di D’Alema?
«Il tema è la linea politica, non gli strumenti che si utilizzano».
E allora come incide?
«Possiamo combattere la battaglia delle idee. Chiedere di usare il tesoretto dello spread per una misura universale di contrasto alla povertà. E ancora: penso che i tempi siano maturi per i matrimoni gay. Possiamo immaginare una mediazione da qui a tre quattro settimane? Queste sono due cose di sinistra».
Renzi pare andare per la sua strada.
«Preferisco il Renzi di Mattarella, che guida un Pd unitario. Il Renzi che non rispetta i pareri delle commissioni sbaglia. Anche a lui chiedo uno sforzo: è chiaro che spetta a lui più degli altri il compito di tenere unito il Pd».
Sulla legge elettorale si può ancora intervenire?
«Sì, si devono creare le condizioni per diminuire i nominati. Io a Renzi dico: fidati. Ma se il messaggio della minoranza è che alla prima curva ti colpisco, allora non si va da nessuna parte. Serve un clima di fiducia reciproco, non dare la sensazione di un assedio o di una tensione ultimativa nei confronti del Pd».
Il 28 Landini scende in piazza. La Bindi va. Lei?
«Non ci andrò. Ho un rispetto totale per chi manifesta, ma non è il nostro spazio. La sinistra di governo, riformista, fa le cose, non va in piazza».
Torna la sinistra di lotta e di governo dell’epoca Ulivo?
«Stare al governo e andare in piazza contro non mi pare un modello da seguire. Il nostro compito è governare l’Italia».

Corriere 24.3.15
Richetti: «Volete solo posti». Lite con Cuperlo

P er spegnere il fuoco divampato nel Pd dopo le parole di D’Alema contro Renzi ci vorrà tempo, visti i toni che anche ieri hanno infiammato lo scontro. Sposetti attacca i dalemiani pentiti: «Contro D’Alema ho letto affermazioni miserabili, che denotano una sindrome rancorosa del beneficiato». Il renziano Richetti accusa le minoranze di essere «interessate solo a posti nelle liste» e Cuperlo respinge «l’insulto irricevibile», chiedendo a Renzi e Guerini di prendere parola: «Siete d’accordo con lui?». Fassina resta convinto che D’Alema e Bersani debbano fare un passo indietro: «La classe dirigente che ha guidato il partito lungo la trasformazione dal Pds al Pd deve cambiare». E Giachetti mette in dubbio che D’Alema sia ancora nel Pd: «Non so se è iscritto, da quel che sento sembrerebbe di no» .

il Fatto 24.3.15
Cuperlo: “Richetti ci insulta, perché il premier sta zitto?”

TUTTO È COMINCIATO sabato, quando Massimo D’Alema, al vertice della minoranza Pd, ha descritto il partito di Renzi come “arrogante” e pieno di trasformisti”.
Così, al lunedì, due della nuova guardia hanno replicato al lider maximo dalle colonne di Repubblica. Uno, Matteo Orfini, a D’Alema era vicinissimo e ora gli dà il benservito; l’altro Matteo Richetti era uno dei primi rottamatori e della vecchia guardia pensa che sia solo in cerca di “posti in lista”. Così ieri, Gianni Cuperlo - tra i leader della minoranza Pd, pur critico con l’intemerata di D’Alema - fa sapere a Richetti che “le sue parole sono un insulto irricevibile. Vorrei dire, adesso basta. Chiedo a Renzi e Guerini di prendere parola. Siete d’accordo con lui? È quello che pensate anche voi?”. Finora nessuno ha risposto.

il Fatto 24.3.15
Pisapia saluta Milano, Le mani di Renzi sulla città
di Gianni Barbacetto


DOPO L’ANNUNCIO DEL SINDACO (“NON MI RICANDIDO”) SI SCALDANO I FEDELISSIMI DEL PREMIER. IMPEGNATI (GIÀ DA UN PEZZO) NELLA CACCIA ALLE POLTRONE

Milano Le pressioni su Giuliano Pisapia e la caccia a un nuovo candidato sindaco di Milano erano in corso da tempo. Nel pomeriggio di domenica scorsa, a sorpresa, sotto una pioggerellina noiosa che pareva l’esatto contrario dell’incredibile arcobaleno che aveva salutato la grande festa della vittoria in piazza Duomo, il 30 maggio 2011, l’annuncio che molti aspettavano, Pisapia l’ha dato: “Non sarò candidato a diventare il tredicesimo sindaco di Milano”. Il gran rifiuto era messo in conto e anzi in molti, soprattutto a sinistra, ci speravano. Ma ora che è arrivato obbliga la politica a iniziare subito una campagna elettorale che sarà lunga 14 mesi e che mostrerà una doppia guerra fratricida, senza esclusione di colpi, che si combatterà dentro la sinistra e dentro il Pd. Perché Pisapia ha detto no? “Perché l’avevo chiarito fin dalla campagna elettorale del 2011: se avessi vinto avrei fatto un solo mandato”. Per coerenza, dunque, e non per stanchezza. “perché la politica non deve essere una professione, ma un servizio”.
NON CHE NON FOSSE stanco, “Giuliano”, come lo chiamano i suoi amici e i milanesi che se lo ricordano giovane militante della sinistra. Stanco di vedersi rinfacciare le cose che non è riuscito a realizzare perché una città come Milano è una grande macchina difficile da governare. Stanco di essere considerato una specie di traditore dalla parte più a sinistra dello schieramento che l’ha sostenuto e che lo immaginava come una sorta di Che Guevara arrivato a conquistare Palazzo Marino. Stanco dell’arroganza degli Squaletti del Pd, i Bravi Ragazzi renziani di Milano che nessuno conosce fuori dalla circonvallazione (e pochi anche dentro), ma che pretendono di dargli ordini, credendo davvero di essere loro il più grande partito della città. Non è stata comunque la stanchezza a fargli fare il gran rifiuto, perché l’uomo è combattivo e le sfide, semmai, lo galvanizzano. Ma sa che il prossimo mandato sarà, per chiunque vinca, difficilissimo: senza soldi, a gestire una città sempre più complicata, in una fase politica che non è più quella in cui ha vinto. Giuliano Pisapia in questi anni ha perso qualche battaglia, ha fatto qualche compromesso, ha creato qualche delusione. Ma resterà nella storia di Milano l’uomo che è riuscito a compiere il miracolo: riportare il centrosinistra alla guida della città che ha visto passare il craxismo, il leghismo, il berlusconismo. Ha fatto vincere, sotto quell’incredibile arcobaleno, la “rivoluzione arancione” e poi, malgrado i molti disillusi, ha saputo tenere Palazzo Marino fuori dalle bufere giudiziarie che hanno spazzato tutti gli altri palazzi del potere ambrosiano. Un sindaco onesto, al di là di ogni dubbio. Non è poco, di questi tempi. E in fondo, quello che ha retto meglio la fine della fase che aveva fatto vincere altri sindaci più o meno “arancioni”, da Luigi De Magistris a Napoli fino a Marco Doria a Genova, per non dire di Ignazio Marino a Roma. Resterà il sindaco che ha aperto una fase nuova, dimostrando che la sinistra pulita può vincere anche nella terra di Craxi, di Bossi e di Berlusconi. Ora si facciano sotto altri, anche anagraficamente più giovani, per tentare di gestire una fase che avrà a che fare con buchi di bilancio e grandi difficoltà a rientrare dagli investimenti fatti per una M4 di cui la città poteva fare a meno e per i terreni di Expo che dopo la fiera nessuno vuole. Sotto a chi tocca. Dentro il Pd, a Pierfrancesco Majorino che tenterà di unire gli antirenziani, che a Milano sono forti; o a Lia Quartapelle, volto umano dei Bravi Ragazzi maestri d’arroganza che nel nome di Renzi (e nella scia di Penati) qui hanno conquistato il partito; o a Emanuele Fiano, che tenterà una mediazione tra le diverse anime. Piacerebbe tornare nella sua città anche a Ivan Scalfarotto, che per Renzi ha dimenticato i Girotondi. A Stefano Boeri non dispiacerebbe avere la rivincita. Andrea Guerra, l’ex ad di Luxottica, sarebbe per il renzismo il candidato perfetto. Umberto Ambrosoli sarebbe l’anima della Milano civica e fuori dai partiti. Giuseppe Sala, commissario di Expo, sarebbe la carta vincente se Expo dovesse essere un trionfo (e se alla fine dell’esposizione le manette non torneranno a scattare). Tra 14 mesi, poi, sarà libero anche Ferruccio de Bortoli, in uscita dal Corriere della sera, “papa straniero” che potrebbe portare la pace dopo il conflitto sanguinoso che si è già aperto e che potrebbe perfino finire – chissà – col restituire a un centrodestra smarrito e diviso la guida della città.

il Fatto 24.3.15
Poletti: “Scuola, troppi 3 mesi di ferie”
“Bisogna lavorare”
Non è uno scherzo: è già scritto nel Jobs Act
di Salvatore Cannavò


TRE MESI di vacanze scolastiche sono troppe, dice il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. “Un mese di vacanza va bene. Ma non c'è un obbligo di farne tre. Magari uno potrebbe essere passato a fare formazione”. “I miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse” aggiunge poi Poletti: “Sono venuti su normali, non sono speciali”.
Non è una boutade tra le tante quella lanciata dal ministro emiliano. Anzi, rappresenta un’idea molto precisa del rapporto tra scuola e lavoro con l’obiettivo di far lavorare di più i giovani in età di studio, di pagarli meno, molto meno o, addirittura, di non pagarli per niente.
Quando il ministro dice che “non si distruggerebbe” un ragazzino se invece “di stare a spasso per le strade della città va a fare quattro ore di lavoro”, dice qualcosa che ha già impostato sia nel Jobs Act che nel disegno di legge sulla Scuola. I due testi, infatti, si parlano. Nel decreto attuativo del Jobs Act, quello che deve ancora passare in Parlamento, all’articolo 41 si riordina “l’apprendistato per la qualifica”. Oltre ad abrogare la sperimentazione prevista dalla legge Carrozza, che offriva agli apprendisti un diploma scolastico a tutto tondo, sostituito ora con un diploma professionale quadriennale, il decreto mette a punto contratti di apprendistato “rivolti ai giovani iscritti al quarto e quinto anno degli istituti tecnici e professionali”.
Il datore di lavoro può rivolgersi agli studenti offrendo una formazione esterna all’azienda, presso un ente formativo, e una a carico del datore di lavoro. Per la prima “il datore di lavoro - si legge nel decreto attuativo - è esonerato da ogni obbligo retributivo”. Per la seconda, invece, “è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta” che è già molto ridotta rispetto a uno stipendio normale. Il progetto è supportato dall’articolo 4 del disegno di legge sulla scuola, dove si parla di “Scuola, lavoro e territorio” e che, non a caso, ha un riferimento molto preciso alla legge delega sul Jobs Act e all’apprendistato per la qualifica. Nella legge, addirittura, si specifica che l’alternanza scuola-lavoro “può svolgersi nel periodo di sospensione didattica”. Insomma, meno a scuola e più al lavoro, magari in periodo estivo a fare lavori stagionali nel settore alberghiero o agricolo.
“Il ministro Poletti continua a intervenire sui temi dell'istruzione - dice Gianna Fracassi della segreteria Cgil. “Si continua sulla strada perdente di uno sviluppo basato sulla riduzione dei costi e dei diritti".

La Stampa 24.3.15
Una riforma sul mare
di Massimo Gramellini


Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si è lamentato della lunghezza esorbitante delle vacanze estive. Per un ragazzo, ha detto, tre mesi senza fare nulla sono troppi. Ne basterebbe la metà, mentre l’altra potrebbe essere impiegata più utilmente in attività formative. E ha portato a esempio i suoi figli, che durante le estati dell’adolescenza andavano a spostare le casse al mercato e non se ne sono mai pentiti. Come ogni attacco alle residue sacche di felicità della vita, la proposta del ministro è stata calorosamente applaudita da parecchi adulti. 
Mi permetto di dissentire. E non perché io coltivi solo memorie meravigliose delle mie estati fancazziste. Anzi, le ricordo popolate di incontri sbagliati, tempi morti infiniti, incertezze e angosce che nemmeno i baci ricambiati e i film avvincenti riuscivano completamente a lenire (per non parlare dei baci rifiutati e dei film noiosi). Eppure ho la sensazione che il mio (pessimo) carattere si sia formato in quei lunghi periodi di vuoto. E’ nei mesi dell’ozio che ho coccolato sogni inauditi e accumulato esperienze significative. Non ho mai spostato casse al mercato. In compenso ho raccolto mele. Chili e chili di mele. Più o meno per mia scelta, però. Non perché mi fosse stato imposto da una legge, che da buon italiano avrei subito cercato di violare. Tra l’altro quelli erano ancora tempi in cui il lavoro sottopagato procurava un brivido di trasgressione. Poiché oggi rappresenta la normalità fino ai trent’anni e oltre, costringere chi ne ha quindici a fare già la sua conoscenza mi sembra una cattiveria, anch’essa gratuita.

il Fatto 24.3.15
Il professore Massimo Cacciari
“Trogloditi, ragionano peggio di Brunetta”
di Tommaso Rodano


Questi qui non sanno cosa dicono. Chiacchierano per dare aria ai denti”. Il giudizio di Massimo Cacciari sull’uscita “anti-vacanze” del ministro Poletti non è lusinghiero, per usare un eufemismo. Per il filosofo, ex sindaco di Venezia, la questione è posta in modo generico e superficiale. “Tre mesi di vacanze per gli studenti sono troppi? Perché? Secondo quale ragionamento? Bisognerebbe vedere come vengono impiegati, tanto per cominciare. E poi bisognerebbe distinguere tra i diversi ordini di studi. Comunque mi pare un’idea trogloditica”.
L’argomento non la appassiona.
Mi chiedo se siano questi i problemi urgenti della scuola o dell’insegnamento. Non mi pare proprio. È una “questioncella”. Non ha nulla a che fare con la sostanza dei fatti. L’ennesimo slogan gettato in pasto all’opinione pubblica, tanto per vedere l’effetto che fa; un esercizio periodico. Ma poi, cosa c’entra Poletti con le vacanze degli studenti?
Secondo il ministro la disoccupazione è anche una questione “culturale”. Un “periodo di formazione” durante l’estate - sostiene - potrebbe contribuire a inserire i ragazzi nel mondo del lavoro.
Ma stiamo scherzando? I giovani fanno una fatica enorme a trovare un’occupazione anche dopo aver terminato gli studi... Il motivo secondo Poletti è che non fanno “formazione”? Se avessero lavorato durante il liceo e le medie, dopo sarebbe più facile trovare lavoro? Ma cosa dicono questi qui... Parlano per dare aria ai denti.
Non è la prima battaglia del governo contro le ferie. Sono state messe in discussione anche quelle dei magistrati.
(Ride, ndr) Infatti lo stesso discorso vale pure per i magistrati. È comico. Le grandi questioni della giustizia sono forse le vacanze? È davvero questo l’ordine di priorità che sta a cuore al governo? Oltretutto si parte da un presupposto sciocco, si ignora un’ovvietà. Che le vacanze possono essere anche il periodo più formativo della vita di un ragazzo. Per me è stato così. I viaggi in Grecia e in Turchia, coi libri alla mano, mi hanno fatto imparare tantissimo. In effetti, le vacanze mi hanno formato diecimila volte più di due anni scolastici. Ma questi qui chiacchierano, chiacchierano e basta. La chiacchiera universale sta travolgendo tutto e tutti.
Al di là delle chiacchiere, ci sarà pure qualcosa – un ragionamento – dietro questa “crociata” contro le vacanze.
C’è l’idea trogloditica che la produttività di una persona si misuri sul tempo di lavoro.
Ce l’aveva anche Brunetta, quest’idea, quando se la prendeva con i dipendenti pubblici perché non timbravano. In un’epoca in cui, grazie allo sviluppo tecnologico, il 90 per cento del lavoro potrebbe essere utilmente svolto a casa, questi arcaici predicatori vanno in giro a dire che bisogna stare più tempo a scuola o in ufficio. Come se studiare o lavorare un mese in più facesse la differenza. Un ragionamento talmente comico che non ci si crede. Sembra che siano fermi a prima dell’invenzione del telefono, questi signori.
Se fosse un ragazzo italiano - probabilmente terrorizzato da quello che lo attende alla fine degli studi - cosa penserebbe delle parole del ministro?
Il ragionamento di Poletti nella migliore delle ipotesi è offensivo. Se lo prendessimo sul serio, l’impostazione del suo discorso sarebbe da puri reazionari. Se fosse solo una battuta, invece, sarebbe offensiva nei confronti dei giovani italiani. Il 40, 50 per cento di loro è disoccupato, o lavora a condizioni tremende. E ora si sentono pure dire da un ministro che devono fare chissà cosa durante il percorso di studio per riuscire trovare un’occupazione. Poi escono dalle scuole e dalle università e c’è il deserto.

il Fatto 24.3.15
L’ex ministro Tullio De Mauro
“Buona idea: se riposi a lungo impari meno”
di Elisabetta Reguitti


L’ex ministro dell’Istruzione Tullio De Mauro promuove Poletti che ieri ha dichiarato che “non è obbligatorio fare tre mesi di vacanze estive”.
De Mauro parla di “una promozione con riserva”.
Perché?
Non c’è dubbio si tratti di una proposta ragionevole dal punto di vista della didattica, che ne trarrebbe sicuri vantaggi. Sono infatti favorevole a intervalli più brevi e diluiti nel tempo, come del resto accade in altri paesi europei. L’interruzione di tre mesi tra un anno e l’altro è eccessiva; la ripartenza è faticosa rispetto alle competenze acquisite. Da questo punto di vista non c’è alcun dubbio e quindi sulla carta la soluzione mi convince.
In cosa consiste invece la riserva?
Siamo alle solite: la tendenza è quella di affrontare i problemi a partire da un dettaglio finale piuttosto che dall’origine della questione. In Italia mancano le strutture che dovrebbero sostenere le famiglie nella gestione dei ragazzi durante l’interruzione delle attività scolastiche. Come è ovvio che sia, le dinamiche didattiche e formative si intrecciano inevitabilmente con quelle sociali. Di questi tempi inoltre è necessario tenere conto anche delle gravi difficoltà economiche e che non tutti possono permettersi baby sitter e corsi a pagamento. Vacanze più corte e frequenti significherebbero, se non vado errato, all’incirca 4 milioni di creature per le quali si creerebbero problemi di assistenza e cura.
Quindi?
Prima bisognerebbe investire in buoni servizi di supporto alle famiglie: spazi verdi, biblioteche, mediateche o luoghi ricreativi in cui i ragazzi potrebbero trascorrere il loro tempo. In generale le riforme strutturali hanno bisogno di essere pensate e affrontate in modo coordinato con la realtà. La mia preoccupazione resta quella di evitare buoni annunci, ignorandone i meccanismi di realizzazione. Inoltre quando si parla di scuola bisogna essere molto attenti a come e dove si mettono le mani. Pertanto la proposta del ministro Poletti è sacrosanta a patto però che poi non si sfrutti la situazione per parlare di altro.
Ad esempio?
Non vorrei che il ministro Poletti intendesse ridurre il periodo di vacanze sostituendolo con la formazione professionale. Resto fermamente convinto infatti che l’alternanza scuola-lavoro vada mantenuta negli orari della didattica. Anzi penso andrebbe introdotta in tutti gli ordini scolastici.
Fosse per me inserirei
quella che si usava definire pratica anche nei licei e non solo negli istituti tecnici dove peraltro funziona molto bene. Ritengo che il luogo del lavoro andrebbe utilizzato come metodo ovunque, come autentica occasione formativa. Peccato però che durante il ministero Gelmini siano state ridotte le ore di laboratorio che andrebbero ripristinate, aumentate. Certo c’è bisogno di molte risorse oltre che di parole.
Vacanze brevi, cosa cambierebbe secondo lei per gli insegnanti?
Questo è il secondo argomento di merito: dovrebbero riorganizzare il loro modo di vivere dentro e fuori dalla scuola. Insomma intervenire significherebbe tener obbligatoriamente conto di alcune evidenze.
Così come per la giustizia, anche la riforma della scuola sembra debba partire dalle vacanze...
Come si diceva c’è la tendenza a soffermarsi sui dettaglio più che affrontare i problemi dall’origine. Parlando di magistratura però ritengo che i tempi medi per incardinare i processi, siano già una pena a prescindere dalla presunta colpevolezza degli imputati.

il Fatto 24.3.15
Marianna Madia, voglia di licenziare
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, la ministra Madia torna di nuovo nelle cronache e, senza dirci che cosa è cambiato nella Pubblica amministrazione sotto la sua guida riformatrice, minaccia licenziamenti alla Fantozzi. Mi domando se abbia senso governare così.
Filippo

CREDO CHE IL LETTORE si riferisca all’intervista di Marianna Madia (“Repubblica”, 16 marzo). Le domande sono precise e purtroppo anche le risposte e in tal modo si rivela in pieno la penuria di idee di questa “riforma”, a cui la ministra ha lavorato senza porsi “a monte” domande fondamentali, a cominciare dalla celebre discussione sull’avere “meno Stato, più mercato”. O il contrario. Prendiamo due affermazioni sicure (nel senso di non esaltate dai titoli redazionali). La prima: “Un dirigente inadeguato potrà essere licenziato. Questa è una vera rivoluzione”. E aggiunge: “Però il dirigente dovrà essere indipendente e al riparo dalla politica”. Come alla Rai? L’interessata ci dice che si passerà dal gregge al ruolo dirigente con un concorso interno per sottrarsi al sistema anglosassone dello “spoils system”. Ma di che cosa parla? Lo “spoils system” americano riguarda una sola persona in ogni Dipartimento o Agenzia o Ministero, il capo (delle Poste, della Cia, della Nsa) che in molti casi è una figura ambigua, tra funzionario e ministro (Sanità, Comunicazioni) ma non tocca niente dell’intera struttura investita dal cambiamento politico al vertice. Lo “spoils system” ha questo di bello: non finge che la politica stia fuori. Mostra apertamente che se cambia il partito di maggioranza, cambiano anche le persone a capo delle maggiori agenzie e dipartimenti della Pubblica amministrazione, che vengono trattati, alla luce del sole, come ministeri. Riguarda dunque pochissime persone che, salvo diversa scelta del presidente, vengono da fuori. E tornano fuori dopo il mandato. Dunque lo “spoils system” non c’entra. E stranamente vengono ignorati i tipi di concorso con cui fino ad oggi si entra a far parte del pubblico impiego: sono di vari livelli, con diversi tipi di titoli di studio. Una parte di questi concorsi portano a funzioni dirigenziali. Dunque riguardano persone che sono già al lavoro adesso, come dirigenti. Dovranno superare un nuovo, un doppio concorso? E chi ha modificato, e quando, la tipologia dei concorsi in atto adesso (benché silenti da tempo lunghissimo)? Conta ancora la differenza tra titoli di studio? Laurea o diploma? Poi viene la garanzia per i dipendenti pubblici a essere reintegrati, se il licenziamento è ingiustificato “perché non è un imprenditore che decide, ma lo Stato”. In questo modo Madia ci conferma che il reintegro vietato dal Jobs Act nel privato è un diritto del lavoratore ingiustamente licenziato. Il Jobs Act dunque ha cancellato quel diritto per offrirlo in dono agli imprenditori. La riforma è irrilevante. Ma l’intervista è utile per giudicare Renzi, le sue verità, il suo governo.

Repubblica 24.3.15
Agrigento, Forza Italia vince le primarie Pd
Il presidente dell’Akragas Alessi, sostenuto dai berlusconiani, sarà il candidato sindaco del centrosinistra A Enna scoppia il caso Crisafulli. Renzi: non può scendere in campo con le insegne del nostro partito
di Antonio Fraschilla


ROMA Due spine siciliane per il Partito democratico di Matteo Renzi che teme adesso un proliferare di casi «De Luca» al Sud. Si chiamano Enna ed Agrigento. Nella prima è pronto a candidarsi a sindaco l’ex senatore epurato sulla via della Leopolda Vladimiro “Mirello” Crisafulli, nella seconda ha vinto le strampalate primarie il candidato lanciato dal numero due dei forzisti di Sicilia, il deputato Riccardo Gallo Afflitto.
Da via del Nazareno stanno cercando di correre ai ripari, a partire dal caso Crisafulli: «Non deve candidarsi e in ogni caso non avrà mai il simbolo del partito». Questo in sintesi il messaggio di Renzi recapitato dal vicesegretario Lorenzo Guerini al responsabile siciliano dei dem, Fausto Raciti. Crisafulli è il segretario provinciale del Pd e ha vinto il congresso contro i renziani. Fermato da Pier Luigi Bersani alle scorse politiche proprio dopo gli attacchi ricevuti alla Leopolda, con il regista Pierfrancesco Diliberto in arte “Pif” che dal palco chiese di cacciarlo «a calci nel sedere» perché allora sotto processo per una strada abusiva e un dialogo intercettato con il boss Bevilacqua, oggi Crisafulli si definisce «lindo»: «Su quella vicenda è intervenuta la prescrizione, ma la procura stava chiedendo l’archiviazione», gongola aggiungendo: «È la base che mi chiede di scendere in campo». A Enna il Pd è lui e l’attacco di Renzi lo sta motivando: «Finirà che mi candido ». Tradotto: Crisafulli ci sarà.
Ad Agrigento invece è bufera dopo le primarie stravinte dal candidato sostenuto dalla lista civica all’ombra di Forza Italia. Il presidente della squadra locale di calcio, Silvio Alessi, con oltre duemila voti ha doppiato l’unico in corsa che arrivava dalle file democratiche. Dopo qualche gaffe, come la «mafia non è un problema» subito corretta con «sono pronto a combattere la criminalità», Alessi chiusi i gazebo ha detto serafico: «Destra, sinistra? Sono amico di tutti». Nella base Pd si rischia adesso un ammutinamento, mentre il governatore Crocetta difende le primarie: «Vanno rispettate». Alla finestra rimane il renziano Marco Zambuto, l’ex sindaco dimessosi per la legge Severino e poi assolto. E mentre il ministro Angelino Alfano nella sua città è pronto a convergere sull’Udc Calogero Firetto, bordate arrivano da Sel e Lega Nord (ci sono anche loro nella città dei Templi). «Qui la politica è morta», dice il vendoliano Erasmo Palazzotto. «È stato un inciucio», chiosa il leghista e candidato sindaco Marco Marcolin.

Repubblica 24.3.15
“Il gender crea esseri transumani”, bufera su Bagnasco
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO . La teoria del gender “pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. Così, ieri, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, aprendo i lavori del «parlamentino» della Cei. Il cardinale ha prima fatto sue le parole usate in merito da Francesco a Napoli (la dilagante colonizzazione da parte della cosiddetta teoria del gender è uno “sbaglio della mente umana”), poi ha aggiunto che il gender nascondendosi “dietro a valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione” edifica, appunto, un transumano. In sostanza, per la guida dei vescovi italiani, con la teoria del gender è in atto “una manipolazione da laboratorio”. E ancora: “Vogliamo questo per i nostri bambini, ragazzi, giovani?”. Di qui l’invito a reagire “senza farsi intimidire da nessuno”.
La posizione della Chiesa rispetto alla teoria del gender è nota. E anche se può sembrare paradossale, non sembra esserci distanza fra le dichiarazioni in merito di Bagnasco e la Chiesa che per volere di Francesco si appresta ad aprire un Giubileo della misericordia. Il Papa, infatti, vuole porte aperte per tutti, ma quando viene interpellato sui temi eticamente sensibili e circa presunti cambiamenti in merito della dottrina risponde: «Sono un figlio della Chiesa». È tuttavia la prima volta che la Chiesa, per voce di Bagnasco, usa il termine transumano in una dichiarazione che subito ha provocato la dura reazione di parte del mondo laico. «La teoria gender? Una balla colossale », ha chiosato Franco Grillini, presidente Gaynet Italia. “Bagnasco sembra sognare un mondo chiuso in una Chiesa, quella del dogma che scopre la teoria del gender, forse più nota ai cattolici integralisti che a noi omosessuali”, è il commento invece di Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center.
A Bagnasco ha risposto anche Vladimir Luxuria: “La frase ‘vogliamo questo per i nostri bambini?’ – ha detto –, mi ricorda certe frasi del manifesto nazista per la difesa della razza, dove gli omosessuali venivano condannati ai lager perché non facevano figli e non consentivano la proliferazione della razza ariana».

il Fatto 24.3.15
I guai del salvatore Sarkò
L’ex presidente, tra inchieste e processi, sbarra la strada al Front National
di Luana De Micco


Parigi Marine Le Pen si deve accontentare di essere la numero due. L’onda “blu marina” attesa alle elezioni dipartimentali in Francia, il cui primo turno si è tenuto domenica scorsa, non c’è stata. Non come l’aveva pretesa la leader dell’ultradestra, anche con l’aiuto di molti sondaggi che fino a pochi giorni fa la davano vincente. L’ambita etichetta di primo partito di Francia l’ha conquistata la formazione della destra conservatrice Ump, che probabilmente ha raccolto una parte di elettori delusi dalla politica del governo. A sbarrare la strada al FN in queste amministrative (paragonabili alle nostre provinciali) è stato Nicolas Sarkozy, che così mette a segno il suo grande ritorno. L’ex presidente sconfitto alle urne nel 2012, che a novembre ha ripreso le redini del partito gollista invadendo proprio gli spazi del Front National, ha la sicurezza di riappropriarsi di una bella fetta di Francia al ballottaggio di domenica prossima.
SECONDO I DATI definitivi diffusi ieri, l’Ump e gli alleati centristi hanno ottenuto al primo turno il 29,5% dei voti. Il Partito socialista si è fermato al 21,8%, anche se con gli altri alleati di sinistra e i radicali sale al 28,66%. Il FN ha ottenuto da solo, e senza possibilità di alleanze, il 25,19%. Il tradizionale bipartitismo francese sembra una storia del passato. Per il FN non è stata la vittoria sperata, ma il partito incassa comunque il miglior risultato della sua storia in elezioni locali e può sperare di vincere uno o due dipartimenti. Se era delusa, Marine Le Pen lo ha nascosto bene dietro il buon umore sfoggiato davanti alle telecamere nelle ultime ore. Per lei il suo partito “è il solo vincitore di queste elezioni” e i francesi hanno “detto basta con i socialisti. Il Ps è a un livello ridicolo per essere al potere. Quando si fallisce bisogna trarne le conseguenze”, ha aggiunto. Lo smacco c’è per i socialisti, ma è meno disastroso del previsto (alle europee avevano raccolto un misero 14%). Possono ancora sperare di conservare tra venti e trenta dipartimenti e restare forti nella regione parigina. Per il ballottaggio, il premier Manuel Valls ha chiesto “l’unione di tutta la sinistra”, che non è stata capace di coalizzarsi al primo turno. E non è detto che riuscirà a rastrellare i pochi voti di ecologisti e estrema sinistra. Nei duelli Ump-FN si invita invece a sbarrare la strada al FN votando per il candidato del “fronte repubblicano”. Diverse sono le raccomandazioni di voto avanzate da Sarkozy che sin dall’inizio della campagna si è schierato per il “né Ps né FN”. Stando così le cose, per Marine Le Pen non è più detto che l’appuntamento con l’Eliseo sia per il 2017. Potrà invece rincorrerlo lo scaltro Sarkozy che, a 60 anni, cade sempre in piedi nonostante le bufere giudiziarie che lo travolgono. Meno di un anno fa, l’ex presidente è stato messo in custodia cautelare (la prima volta per un presidente della Repubblica francese) per un presunto caso di corruzione di un magistrato e poi indagato per corruzione, influenza indebita e violazione del segreto istruttorio. La giustizia indaga anche su un’eventuale frode alle Presidenziali 2012: si sospetta che il partito si sia fatto carico delle penalità inflitte a Sarkozy per aver sforato il tetto di spese consentite dalla legge. L’altra grossa vicenda giudiziaria che pesa su Sarkozy coinvolge anche Muammar Gheddafi. Si sospetta che una parte dei fondi usati per finanziarie la campagna presidenziale del 2007, quella vincente contro Ségolène Royal, siano stati forniti illegalmente dall’ex leader libico.

Corriere 24.3.15
«La sinistra francese perde perché trascura l’identità»
di Stefano Montefiori


PARIGI Il libro L’insécurité culturelle (Fayard) ha fatto arrabbiare la sinistra, famiglia della quale l’autore fa parte. In quel testo il politologo Laurent Bouvet (direttore dell’«Osservatorio della vita politica» della fondazione Jean Jaurès) spiega che la crisi della gauche nasce dall’avere abbandonato assieme alle classi popolari anche temi decisivi come l’identità, l’immigrazione, i valori nazionali. Il maiale o no nelle mense scolastiche, il velo o no all’università. È su questi temi che si vincono o perdono le elezioni, oggi in Francia. Altro che il tasso di crescita.
Il voto di domenica conferma la sua tesi?
«Mi pare di sì. Nicolas Sarkozy ha guidato l’Ump a un buon risultato facendo campagna sui temi del Front National, che senza alleati ha preso il 25% dei voti, una cifra enorme. Il partito socialista è sconfitto perché continua a ignorare la questione che conta, resa ancora più urgente dagli attentati di gennaio, cioè quali sono i valori fondanti della Francia oggi. La sinistra di governo si occupa solo di deficit e disoccupazione, peraltro senza riuscire a fare granché. Pensa che conti solo l’economia».
Ma a differenza di Sarkozy, la sinistra non può certo mettersi anche lei a copiare il Front National.
«Certo che no, ma potrebbe cercare una visione alternativa, prendere finalmente di petto la questione e studiare un progetto politico vero. Invece di fare più o meno del multiculturalismo proteggendo le differenze, le religioni, i colori della pelle, le minoranze, la sinistra dovrebbe provare a valorizzare quel che ci unisce tutti. Identificare che cosa fa sì che siamo francesi, e che cosa possiamo fare assieme in Europa. Qual è la specificità francese? Se per la sinistra tutto si risolve nel negoziare con la cancelliera Merkel per ridurre il deficit, come fa la gente a votarla?».
È per questo che il Front National continua a crescere?
«Marine Le Pen è l’unica a presentare un’offerta politica coerente, di chiusura e protezione, tanto in economia quanto nei valori: contro l’euro, e contro la perdita di identità della vecchia Francia eterna. E infatti ha progredito ancora, prendendo mezzo milione di voti in più rispetto al trionfo delle Europee. Valls e Sarkozy si sono affrettati a sottolineare che il Fn non è il primo partito di Francia, ma la delusione è solo rispetto a un sondaggio; se guardiamo ai risultati precedenti, l’avanzata continua. Per il Front National quella di domenica è una vittoria. È inutile ripetere dogmaticamente che Marine Le Pen è un pericolo, i francesi la votano lo stesso».
Nicolas Sarkozy può davvero tornare a puntare in alto?
«Sarkozy continua ad avere diversi problemi. Copia Marine Le Pen sull’immigrazione ma se ne discosta sull’euro e l’Europa, non ha un programma coerente e credibile. Poi, ha vinto grazie anche ai centristi dell’Udi, ormai un vero partner autonomo. Infine, nel partito la sua linea si scontra con quella moderata di Alain Juppé. Mi sembra che il cammino da fare sia ancora lungo».

il Fatto 24.3.15
“Grazie al governo Usa per aver creato l’Isis”
Sean Penn contro Bush, Cheney e la censura
di Carlo Antonio Biscotto


Invitato al Late Night Show di Conan O’Brien, Sean Penn, lo strenuo, irriducibile progressista che si batte per tutte le cause, ha scatenato un putiferio con le sue dichiarazioni: “È stupefacente che Dick Cheney (ex segretario alla Difesa), questo batterio che infetta l’umanità, grazie alla tecnologia bionica sia ancora tra noi. Ed è ancora più stupefacente che nessuno gli abbia ancora riconosciuto i suoi meriti. Voglio farlo io... Sono stati lui e il presidente Bush a inventare l’Isis. Grazie di cuore”. Non contento, ha ricordato l’attivista dei diritti dei gay Harvey Milk da lui interpretato sullo schermo nel film Milk. Harvey Milk è stato il primo politico statunitense dichiaratamente gay a essere eletto a una carica pubblica, quella di consigliere comunale a San Francisco. Fu assassinato insieme al sindaco nel 1978. “Negli Stati Uniti c’è gente come Harvey, un uomo bello, brillante, generoso, intelligente e poi ci sono i Cheney. Quelli come Harvey vengono assassinati, quelli come Cheney e Bush, che si sono macchiati di crimini orrendi, sono vivi e vegeti e se ne vanno tranquillamente a spasso”. Qualche giorno prima, intervistato dal Telegraph, l’attore, di cui è in uscita a maggio The Gunman stroncato dalla critica americana, aveva affrontato tutti i temi caldi come al solito con estrema franchezza.
“SENTO SPESSO dire che la violenza del cinema e della televisione ci ha anestetizzati tanto da renderci insensibili alla vera violenza – ha detto – ma sono sciocchezze! Ad anestetizzarci è stata l’ossessione del politically correct, del politicamente corretto, l’assurda mania di nascondere invece che mostrare. Io guardo sempre i video dell’Isis. Il problema è che non vediamo abbastanza violenza reale. Dobbiamo vedere gli orrori che vengono commessi nel mondo, per quanto ci faccia star male, dobbiamo guardare le tragedie della guerra e della ferocia dell’uomo”.
Ma dobbiamo proteggere i giovani da quelle immagini, ha tentato di obiettare il giornalista. “Negli anni 60 siamo cresciuti con le immagini terribili della guerra in Vietnam che la televisione trasmetteva tutti i giorni. Oggi, grazie alla psicosi del politically correct, non ci fanno vedere nulla, nemmeno le bare dei nostri ragazzi che tornano a casa. Il risultato è che l’americano medio non capisce più niente. Gli possono raccontare quello che vogliono. Cosa che non ebbero il potere di fare con la mia generazione”. Sean Penn è l’attore politicamente più impegnato e controverso di Hollywood, ma è anche – per opinione unanime – uno dei più grandi, oltre che stimato regista.
NON SI SENTE a disagio nel partecipare a film che, in qualche modo, esaltano la violenza? “Ci sono sempre stati film violenti. A modo loro erano più violenti di quelli di oggi. Basti pensare a Bonnie e Clyde. Ci sono cresciuto con quei film e non ho mai ucciso nessuno”.
Clint Eastwood è un suo amico e da lui è stato diretto in Mystic River che gli è valso uno dei due Oscar vinti finora. Forse su alcuni temi politici non saranno in piena sintonia, ma quando gli accennano alle accuse di apologia della violenza rivolte a Clint per il film American Sniper, risponde di getto: “Non la penso come gli altri. E non perché sono amico di Clint. Nel film non ho visto la glorificazione o l’esaltazione della violenza. Forse quando si tratta di film di guerra, mi lascio attirare di più dagli aspetti tecnici delle riprese che dal messaggio politico. E poi è ora di finirla con questa idea di un Clint conservatore, se non addirittura reazionario. Clint è un libertario convinto e non è un Repubblicano nel senso tradizionale della parola”.
Penn non è nuovo alle polemiche: il suo sostegno a Fidel Castro e a Hugo Chavez e il suo appoggio all’Argentina in occasione della guerra delle Falkland che erano rivendicate dall’Inghilterra, irritarono molti americani. D’altro canto la carriera di attore di suo padre ebbe fine negli anni 50 quando in pieno maccartismo – la caccia del governo ai presunti comunisti nel mondo dello spettacolo – finì nella lista nera: “Posso solo dire che essere cresciuto accanto a un padre finito nei guai per aver liberamente espresso le sue opinioni ha avuto una profonda influenza su di me”.

il Fatto 24.3.15
In Andalusia dalle urne nasce la sinistra plurale
di Elena Marisol Brandolini


Barcellona Nella prima domenica di primavera, i socialisti spagnoli hanno vinto le elezioni andaluse, che avviano il ciclo elettorale di questo 2015. Torna a vincere il Psoe dopo 4 anni di sconfitte, tre anni dopo il sorpasso elettorale dei popolari nella Comunità, riconfermando i 47 seggi parlamentari conquistati nel 2012. Una vittoria prevista, non però nelle dimensioni. Una vittoria, in primo luogo, di Susana Díaz che, da presidente della Comunità, aveva voluto queste elezioni, anticipandole, lanciando così una sfida al suo partito e ai nuovi soggetti apparsi ultimamente sulla scena politica. Il Pp, invece, è crollato, perdendo 500.000 voti, non tanto per colpa del candidato locale, quanto del premier Rajoy, che continua a sbandierare una ripresa economica che non si avverte nella vita concreta delle persone. Le novità, nel nuovo Parlamento andaluso sono, a sinistra, Podemos che, con quasi 600.000 voti, ha conquistato 15 seggi e, a destra, da Ciudadanos che, con 400.000 preferenze, ha ottenuto 9 seggi. Il consenso loro attribuito è andato soprattutto a scapito, rispettivamente, di Izquierda Unida, l’altro grande sconfitto con la perdita di sette seggi, e dei popolari.
I VOTI A SOCIALISTI E POPOLARI rappresentano circa il 60% dei consensi: un ridimensionamento del bipartitismo, ma non ancora il suo esaurimento. In campagna elettorale Díaz ha dichiarato che non si sarebbe alleata né con popolari né con Podemos. Il voto consegna l’immagine di una sinistra plurale, con una ridislocazione di voti al suo interno, che potrebbe aprire, in prospettiva, a possibili alleanze elettorali tra Izquierda Unida e Podemos, tra cui più evidente risulta il travaso di voti. Per il partito di Pablo Iglesias comincia una nuova fase: gli slogan contro la crisi non sono più sufficienti. Finora si conosce solo una parte del programma, quella economica, con le proposte sul reddito di cittadinanza e la ristrutturazione del debito. Assente, invece, tutto quanto si riferisce alle politiche istituzionali e territoriali che, in Spagna, sono fondamentali. Tanto più alla vigilia delle prossime tornate elettorali, tra cui quelle catalane.

La Stampa 24.3.15
Spagna, la coppia politica Iglesias-Sanchez si è detta addio
Annuncio congiunto del leader del partito Podemos e dell’ ex dirigente di Izquierda Unida nella notte in cui si esultava per un boom elettorale in Andalusia degli Indignados
di Francesco Olivo

qui

La Stampa 24.3.15
Merkel: vogliamo una Grecia forte
Ma poi conferma la linea dura
Tsipras a Berlino con la lista degli interventi da fare, però non la presenta Dentro le cifre su pensioni, privatizzazioni, evasione fiscale e corruzione
di Tonia Mastrobuoni


Nel tardo pomeriggio, quando Alexis Tsipras e Angela Merkel si posizionano davanti ai microfoni per la conferenza stampa congiunta, lui sorride, lei no. Non è un caso. Nonostante l’allegra giacca giallo canarino e i toni concilianti - «vogliamo una Grecia forte, che cresca e, soprattutto, che sconfigga la sua alta disoccupazione», «vogliamo un rapporto stretto e amichevole, basato sulla fiducia» - i messaggi principali della Cancelliera sono due. Il primo, molto chiaro: «La questione delle riparazioni di guerra è chiusa, dal punto di vista politico e giuridico», anche se «la Germania è consapevole delle atrocità commesse» e «si è assunta il compito di mantenere viva questa consapevolezza».
Il secondo, molto più ambiguo: «Non posso prendere impegni sulla liquidità»: sulle risorse da dare alla Grecia decide l’Eurogruppo, cioè i 19 Paesi dell’area della moneta unica, ha ricordato. Il vertice è anzitutto un modo per superare le incomprensioni, emerse più tra singoli membri dei due esecutivi che tra i due capi di governo, ma scoppiate nelle ultime settimane anche su questioni come le riparazioni di guerra o l’immigrazione. Più volte Merkel ribadisce la necessità di stabilire «un rapporto basato sulla fiducia». Ma sugli impegni finanziari resta inamovibile.
Dalla mattina, una voce ha raggiunto Berlino da Atene e ha imbarazzato tutti. Tsipras vuole presentarsi al primo bilaterale con la Cancelliera con una lista di riforme, ad appena tre giorni da un Consiglio europeo al quale si è recato a mani vuote. Non sembra solo l’ostinato, a tratti puerile tentativo di disconoscere la Troika - le istituzioni creditrici Fmi, Ue e Bce - da parte di Atene. Sembra l’accettazione (un po’ maliziosa) di un dato di fatto, che mette la Germania apparentemente in imbarazzo, ma è sempre più innegabile. E’ il via libera di Berlino che conta, più di quello che arriva da altre capitali.
Merkel dissimula, anche ieri ha detto che «nell’Eurogruppo ogni Paese ha un voto», ma anche all’ultimo Consiglio europeo, convocando a margine un direttorio a sette, è stata la Cancelliera stessa a segnalare che lei e Hollande pesano più di altri (ad esempio dell’Italia, terzo creditore maggiore di Atene, ma assente). Tuttavia nella serata di ieri, un uomo vicinissimo a Tsipras, smentisce: «Non creda alle voci sulla lista di riforme - ci dice - noi non ne abbiamo data alcuna».
Del resto, già in mattinata era stato per primo il portavoce di Merkel a ricordare che la sede per presentare le riforme non è l’incontro con la Cancelliera, ma l’Eurogruppo. Ma intanto, le indiscrezioni parlavano di un piano con interventi per combattere l’evasione fiscale e la corruzione, con stime sull’impatto economico, ma anche impegni precisi sull’agenda delle privatizzazioni, congelata da settimane. E un aumento dell’età pensionabile a 67 anni.
In ogni caso, anche Tsipras ha usato toni concilianti, nel corso della conferenza stampa. Soprattutto, molto lontani da quelli che usa di solito ad Atene. «Dobbiamo capirci meglio», ha sostenuto, chiedendo di «mettere fine agli stereotipi sui greci pigri o sui tedeschi che sarebbero colpevoli della situazione in cui ci troviamo». Soprattutto, dopo che il suo ministro della Giustizia aveva minacciato di sequestrare beni tedeschi in Grecia come risarcimenti di guerra, Tsipras ha rassicurato la Germania che «è un’ipotesi che non esiste».

il Fatto 24.3.15
Tsipras e Merkel, c’è finta pace ma la Grecia ha perso
“Niente danni di guerra”
di Marco Palombi


IN GERMANIA IL PRIMO MINISTRO SI PORTA DIETRO LA CRISI SOCIALE E CEDE ALLE ISTANZE DELLA TROIKA: CAMBIARE IL SISTEMA PREVIDENZIALE. LA CANCELLIERA LO GELA: “NIENTE DANNI DI GUERRA”

Due cose sono accadute ieri. Una ha a che fare con le photo opportunity, l’altra con la politica. La prima è il viaggio - in classe economica, posto finestrino - di Alexis Tsipras a Berlino per un incontro a due con Angela Merkel. Il premier greco e la cancelliera si sono visti, hanno sfilato davanti ai soldati, ascoltato gli inni e fatto una conferenza stampa per dire che sì, ci sono differenze, ma tutti sono al lavoro per trovare una soluzione. “Vogliamo che la Grecia sia forte economicamente, che cresca e che venga fuori dalla alta disoccupazione”, ha messo a verbale Merkel. “I greci non sono fannulloni e i tedeschi non sono colpevoli dei nostri malanni”, ha sostenuto Tsipras: “Non è giusto fare satira paragonando Merkel ai nazisti. Dobbiamo accantonare gli stereotipi”.
IL PREMIER greco ha anche buttato lì pure un accenno ai risarcimenti per i danni della Seconda guerra mondiale che la Germania dovrebbe ad Atene: “È un problema morale, non materiale”. La cancelliera s’è limitata a dire che la questione “è chiusa”. Il punto è che - al di là delle photo op - nella sostanza ha vinto e costretto (non da ieri) Tsipras a rimangiarsi le promesse elettorali e seguire il programma che la Troika - oggi pudicamente chiamata “Istituzioni” - ha stilato per la Grecia tempo fa.
Il leader della sinistra greca s’è infatti fatto precedere a Berlino da un’indiscrezione - non smentita - dell’agenzia tedesca Dpa, che cita fonti governative di Atene, sui contenuti delle “riforme” che l’esecutivo Tsipras si appresta a proporre alle “Istituzioni”: una riforma delle pensioni “alla Fornero”, con età di uscita dal lavoro a 67 anni (da 62 solo con 40 anni di contributi), l’aumento dell’Iva per le isole turistiche e delle accise su tabacchi e alcol. Cose, specialmente la riforma del sistema previdenziale, escluse dal programma con cui Syriza ha vinto le elezioni. Non mancherà - sostiene Dpa - un appello agli evasori e a chi ha esportato illegalmente capitali all’estero in queste settimane: “Sappiamo chi sono e diamo loro un’ultima chance per salvarsi”. Torna pure la promessa - un po’ difficile da mantenere nella pratica - di recuperare 500-800 milioni dalle aziende straniere che hanno corrotto i funzionari greci per fare affari ad Atene (il caso più famoso è quello della tedesca Siemens).
I problemi della Grecia, però, sono molto più immediati. Il primo è una drammatica crisi sociale: ieri, ad esempio, l’associazione dei farmacisti ha fatto sapere che ormai i medicinali scarseggiano, mentre una tv privata ha mostrato gli scaffali dei supermercati ad Atene in cui sono quasi finiti i prodotti alimentari d’importazione. Il secondo riguarda lo Stato greco: Tsipras deve rimborsare prestiti per 1,5 miliardi entro marzo e altri 2 entro aprile. Se non lo fa, va in default e finisce fuori dall’euro: è la cosiddetta “Grexident”, l’uscita casuale, cui accenna anche una lettera dello stesso Tsipras a Merkel del 15 marzo rivelata dal Financial Times.
DEL PRIMO PROBLEMA, in ogni caso, all’Eurogruppo non ci si occupa, del secondo sì: se volete i soldi per non fallire, dovete fare le riforme. Così il governo di sinistra ha cominciato a pensare come tagliare le pensioni e alzare le tasse. Ricatto? Ieri, in conferenza stampa, Mario Draghi è trasecolato: “L’esposizione della Bce verso la Grecia è raddoppiata da dicembre, passando da 50 a 104 miliardi. Come si fa a parlare di ricatto? ”. Il governatore si riferisce però al programma ELA, che serve a tenere in vita le banche greche - e a non far subire perdite a quelle del resto d’Europa - non a pagare stipendi statali e pensioni e nemmeno a saldare i debiti dello Stato. Lo ha chiarito lo stesso Draghi: “La liquidità d’emergenza non può essere usata per finanziare il deficit”. Le Borse, visto il cedimento di Tsipras, credono comunque nell’accordo. La Grecia, infatti, non ha più nemmeno la possibilità di minacciare l’uscita dall’euro: “Il rischio non è più sistemico”, spiega sempre Draghi. Tradotto: non farebbe così male come sarebbe stato nel 2010.

La Stampa 24.3.15
Gli spazi reali per ottenere i risarcimenti
di Vladimiro Zagrebelsky


La controversia che oppone il governo greco alle istituzioni dell’Unione europea e particolarmente alla Germania ha un carattere essenzialmente finanziario. Ora però è stata posta una questione di natura diversa, particolarmente sensibile sul piano politico. È stato infatti posto il tema dei danni di guerra che la Germania dovrebbe pagare alla Grecia e del risarcimento che dovrebbe versare a cittadini greci vittime delle atrocità naziste. E’ evidente l’intenzione di mettere la Germania in difficoltà politica e morale. Ma non si tratta di un’operazione puramente politica, limitata al piano dell’opinione pubblica nazionale ed europea. Vi è infatti una questione giuridica estremamente delicata, che coinvolge anche l’Italia, ora formalmente contrapposta alla Germania sul piano internazionale.
Tra l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca – che è Stato successore del Reich tedesco – sono intervenuti trattati diretti a consentire certi risarcimenti per i danni derivanti dalla condotta dello Stato tedesco e delle sue truppe durante la guerra.
Gli accordi Germania-Italia del 1961 hanno previsto indennizzi di alcune categorie di persone e il versamento all’Italia di quaranta milioni di marchi per definire le controversie economiche relative a quanto verificatosi tra il 1939 e il 1945. Nel 2000 una legge federale ha ammesso indennizzi per alcune altre categorie. Tuttavia la maggior parte delle vittime è rimasta senza risarcimento.
In Italia e in Grecia a partire dagli anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici numerose azioni civili per ottenere il risarcimento sia per i danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe tedesche contro la popolazione civile, sia per quelli patiti da militari internati o da civili costretti a lavoro forzato nei campi nazisti. Nel 1994 un cittadino italiano, che era stato deportato in Germania e costretto ai lavori forzati in condizione di schiavitù, si rivolse ai giudici italiani per ottenere il risarcimento dei danni subiti, dopo aver inutilmente tentato varie volte di avere accesso alle giurisdizioni tedesche. La domanda di condanna della Germania al risarcimento dei danni venne accolta dalla Corte di Cassazione che respinse l’eccezione del governo tedesco, che faceva valere la regola dell’immunità degli Stati per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di governo. La Cassazione ritenne che l’immunità non può estendersi ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità. Il governo tedesco, a questo punto, ha fatto ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia chiedendo che fosse riconosciuta la sua immunità nei confronti della giurisdizione italiana. Il governo italiano e quello greco, intervenuto nella procedura, hanno sostenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla altrui giurisdizione dovessero cedere in casi gravi di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Ma la corte, decidendo nel 2012 il ricorso della Germania, ha giudicato che l’Italia ha violato il diritto internazionale, che prevede, senza eccezioni, l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali.
La sentenza della Corte Internazionale ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente. Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, concorrono a definirlo e a consolidarlo. E’ quello che la Corte Internazionale di Giustizia non ha inteso fare.
Ma la vicenda che poteva ritenersi definita con la sentenza della Corte Internazionale, massimo organo giurisdizionale nella materia, ha avuto un seguito non scontato. Con una recente sentenza la Corte Costituzionale italiana ha infatti considerato che le norme costituzionali che riconoscono i diritti fondamentali delle persone e assicurano il diritto di ricorrere al giudice per farli valere, esprimono principi supremi su cui si fonda la Repubblica. Essi operano quindi come limite alla norma secondo la quale l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La Corte Costituzionale ne ha tratto la conseguenza che la norma consuetudinaria internazionale dell’immunità degli Stati non può valere nell’ordinamento giuridico italiano, quando si tratti di crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona. Il principio affermato dalla Corte Costituzionale non riguarda solo le responsabilità della Germania, né solo quelle per i fatti del passato e avrà implicazioni molto vaste. Ma per il momento gli effetti riguardano la Germania. Le cause pendenti davanti ai giudici italiani riprendono il loro corso. Così pure quelle greche.
La situazione così creatasi è molto complessa ed è difficile prevederne i possibili svolgimenti. L’Italia si trova ora in violazione del diritto internazionale, così come dichiarato dalla Corte Internazionale di Giustizia. Tuttavia l’Italia, oltre al pregio della propria Costituzione e della rigorosa applicazione che ne ha fatto la Corte Costituzionale, ha dalla sua la valorizzazione dei diritti fondamentali delle persone, che sul piano europeo e internazionale trovano sempre maggiore considerazione. E’ possibile che la Germania non si acquieti. Probabilmente la via degli accordi politici sarà percorsa. Ma mentre i rapporti tra Italia e Germania potrebbero rendere possibile un esame sereno della situazione, nel rispetto di tutti i principi che entrano in gioco, non egualmente si può dire ora per quanto riguarda la Grecia.
Nel mondo prudentissimo e tradizionalista del diritto internazionale e dei rapporti tra gli Stati che esso regola, il vento di rinnovamento che la Corte Costituzionale ha fatto spirare da Roma è improvvisamente divenuto uragano nei rapporti tra Atene e Berlino.

il Fatto 24.3.15
Usa, Casa Bianca: Basta con l’occupazione israeliana

Denis McDonough, capo dello staff della Casa Bianca, affrontando la questione del riconoscimento della Palestina come Stato ha detto: “Cinquanta anni di occupazione israeliana dei territori, ora basta; non si può mantenere ancora l’occupazione militare”. LaPresse

il Fatto 24.3.15
Israele, domani l’incarico a Netanyahu

Ben Netanyahu conta sul sostegno di una chiara maggioranza tra i 120 parlamentari della Knesset per formare il prossimo governo. A indicarlo è stata la presidenza israeliana che domani assegnerà l’incarico. All’opposizione 53 parlamentari, fra cui Campo Sionista e partiti arabi. LaPresse

Corriere 24.3.15
Legioni nere alla corte dello zar Putin


Da più di un anno, ossia dal debutto della crisi ucraina, il Cremlino lancia strali contro la «giunta fascista» che avrebbe preso il potere a Kiev e mette in guardia da un presunto ritorno in auge delle camicie nere, in special modo nell’Europa orientale. In più, in questi gorni si prepara a celebrare tra grandi fanfare il settantesimo anniversario della vittoria sulla Germania nazista.
   Tanto più singolare, a prima vista, appare dunque la conferenza che si è tenuta domenica scorsa a San Pietroburgo: nella ex capitale zarista si sono dati convegno partiti e gruppi dell’estrema destra europea — dai tedeschi della Npd ai greci di Alba dorata, agli italiani di Forza Nuova.
   Ma in realtà non è un caso che abbiano trovato accoglienza calorosa nella patria di Vladimir Putin: «Se avessimo provato a organizzare una conferenza come questa negli Usa o in Gran Bretagna, non saremmo stati autorizzati», ha ammesso Nick Griffin, l’ex leader del British National Party.
   E infatti il sito web della riunione richiamava il discorso del presidente russo in cui si denunciava la «profonda crisi morale e demografica dell’Occidente» causata a suo dire dal collasso dei valori tradizionali e religiosi e dall’ascesa dei matrimoni gay. Gli oratori di Pietroburgo hanno fatto eco a quelle parole, aggiungendo tirate contro l’aborto, l’ateismo e l’immigrazione. Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova, ha proclamato che la Russia è ormai l’unica custode dei valori occidentali, come un tempo lo fu Roma. E non c’è dubbio che Mosca preferisca oggi atteggiarsi a baluardo della tradizione invece che culla della rivoluzione come ai tempi sovietici. E che coltivi relazioni speciali con le destre antieuropee allo scopo di destabilizzare dall’interno l’Unione.
   È qualcosa di cui ci si dovrebbe ricordare quando si celebrerà la sconfitta del nazifascismo: per tenere ben presente da quale parte stanno oggi i valori democratici per i quali così tanti diedero la vita.

La Stampa 24.3.15
Singapore, la crisi d’identità del modello che ispirò la Cina
Il fondatore Lee, morto domenica, riteneva la democrazia inutile per lo sviluppo
Ha creato un paradiso del business ma oggi metà degli abitanti vorrebbe emigrare
di Alessandro Ursic


Quando la Cina era ancora un gigante che dormiva, l’appena scomparso, domenica sera a 91 anni, Lee Kuan Yew aveva già capito tutto: la strada dello sviluppo non deve passare necessariamente per la democrazia, anzi. E nella sua piccola città-Stato, governando un paio di milioni di abitanti a cui alternava premi e sculaccioni, questo discendente di cinesi Hakka trapiantati a Singapore diede inizio a una delle più straordinarie storie di successo economico del secolo scorso.
Crocevia mondiale
L’incredibile ascesa di Singapore dagli Anni Sessanta non è solo quella di un sonnolento avamposto coloniale diventato centro finanziario globale e crocevia marittimo tra Oriente e Occidente. È anche l’emergere di un’idea che è stata presa a modello da autocrati di mezzo mondo, la nave rompighiaccio che ha indicato il contratto sociale da seguire alla Cina del dopo Mao: arricchitevi gente, lavorate sodo e non disturbate il governo che lavora per il benessere di tutti. Ossia i presunti «valori asiatici», come amava dire l’ex premier Lee: una visione confuciana che combinava una pragmatica etica del lavoro, la parsimonia, una deferenza filiale estesa allo Stato, e libertà personali sacrificabili sull’altare della stabilità e della prosperità.
Il segreto di Singapore era tutto lì, in una regione dove regnava il caos. Mentre il Vietnam bruciava sotto le bombe americane, la Cambogia cadeva sotto la follia dei Khmer rossi e la Cina barcollava dopo la rivoluzione culturale, Singapore diventava una città ricca e moderna. Tasse basse per attirare gli investitori stranieri, poche domande sulla provenienza dei capitali, tanta pianificazione e media addomesticati: il leader cinese Deng Xiaoping la visitò nel 1978, e ne rimase impressionato.
La «città del leone» (il suo significato in sanscrito) oggi ruggisce ancora: è il Paese dal quarto più alto Pil pro-capite al mondo, un’oasi dello shopping ad aria condizionata dai grattacieli scintillanti. Resta un esempio di efficienza: una metropoli con un sistema di trasporto pubblico invidiabile, dalla criminalità quasi inesistente, con una popolazione multietnica di cinesi, indiani e malesi che parlano inglese e sono grati al «padre della patria» Lee. Disposizioni e bizzarri divieti di decenni sono ormai interiorizzati. Certo, c’è sempre quella sensazione di collegio a cielo aperto, «un’Asia senz’anima» come la definiscono in molti. Ma funziona.
Crisi di identità
In un Occidente che ha perso slancio, mentre l’Europa è incerta su come ravvivare l’economia e l’America è spaccata politicamente, in Asia il «modello Lee» di sviluppo è diventato ormai il «modello cinese». Ed ha più fascino che mai. La democrazia rallenta il processo decisionale, si sente dire sempre più spesso; libertà e diritti sono concetti sopravvalutati, che fanno perdere di vista le priorità fondamentali. «La gente vuole case, medicine, un lavoro, scuole. Non il diritto di scrivere un editoriale», disse una volta Lee.
Ora però che quelle cose sono date per scontate, Singapore mostra una crisi di identità. È diventata una costosa Disneyland per i Gatsby d’Asia, dove la classe media fa fatica ed è sempre più xenofoba verso la massa di immigrati sottopagati indispensabili all’economia. Il tasso di natalità è più basso persino di quello italiano. Un sondaggio dice che metà degli abitanti vorrebbe emigrare, se ne avesse la possibilità. Alle ultime elezioni il «Partito di azione popolare», da sempre al governo, ha ottenuto il suo minimo storico; e il prossimo anno si torna alle urne. La via del successo seguita nell’ultimo mezzo secolo ha portato fin qui. Ma è ancora valida? Singapore dovrà trovare una risposta in fretta. E la Cina osserverà di nuovo con molto interesse.

Corriere 24.3.15
Se lo Stato cinese batte le regole Ue
di Massimo Mucchetti


Caro direttore, l’Opa amichevole di ChemChina sulla Pirelli, la più autentica multinazionale italiana, ci propone tre questioni rilevanti. La prima riguarda l’operazione in sé. La Pirelli era scalabile da anni. I suoi azionisti-gerenti — i Pirelli fino al 1992, Tronchetti Provera in seguito — vi detenevano partecipazioni basse, protette da patti di sindacato e poi da più informali legami con banche e assicurazioni. Di fronte a un’Opa, quei legami non avrebbero retto. Era scritto. Adesso l’Opa c’è. Vedremo se risulterà attraente per i più, se non per tutti. Certo è che Camfin, la holding italo-russa guidata da Tronchetti, pare pronta a consegnare il suo 26% al veicolo dell’offerta, per due terzi cinese e per un terzo italo-russo. Al pacchetto Camfin potrebbe aggiungersi l’8,5% di Benetton e Mediobanca. Tanto basterebbe a determinare il passaggio di mano del controllo di fatto, sempre che ChemChina non ponga limiti più elevati alla sua offerta. Lo stesso discorso vale per eventuali altre offerte concorrenti. Ma seguiamo lo schema.
Il veicolo ChemChina-Camfin pagherà fino a 7,4 miliardi, dei quali 4 finanziati a debito. Se l’Opa andrà a buon fine, la Pirelli si troverà con un debito di 5 miliardi a fronte di un margine operativo lordo di 1,2. Un fardello assai più pesante di quello di Michelin e Continental. I protagonisti lo considerano sostenibile sia perché una parte potrebbe essere scaricata sul settore pneumatici industriali (vale circa 1,8 miliardi e potrebbe essere collocato sui mercati finanziari asiatici assieme alla Aeolus di ChemChina attraverso un aumento di capitale) sia perché Pirelli fa un utile lordo atteso da Mediobanca in 750 milioni quest’anno, dal quale non si dovrebbero più estrarre dividendi né pagare imposte piene. Nel giro di un po’ di tempo, il boccone dovrebbe essere digerito. Il punto è l’impatto del debito nella transizione sulla propensione agli investimenti del gruppo, nel quadro di un confronto con l’ipotetico acquisto a opera di un concorrente o di un private equity , che, probabilmente, farebbero uno spezzatino del gruppo.
La seconda questione riguarda il rapporto della Pirelli con la madre patria. Si legge di alcune non irrilevanti guarentigie: la garanzia statutaria sulla permanenza della sede legale, degli headquarter e dei centri di ricerca in Italia, revocabile solo con una maggioranza del 90%. Maggioranza che nei prossimi 5 anni i cinesi non avranno e che non è scontato abbiamo nemmeno dopo. Comunque sia, il controllo è il controllo e la Pirelli targata Pechino, ancorché con un Tronchetti in grado di scegliersi il successore, rappresenta una svolta epocale. Che trae origine dal progressivo indebolimento del capitalismo italiano. Ma intonare la solita predica sul capitalismo senza capitali, che subordina al controllo lo sviluppo delle imprese, non aiuta a capire chi e come avrebbe potuto conservare una «proprietà italiana» a un’azienda, ormai abbastanza liquida da essere scalabile a debito, senza indebolirla.Il capitale di rischio, ricordiamolo, viene dall’imprenditore, dai fondi, dal sistema bancario-assicurativo, dallo Stato. Non dal cielo. L’imprenditore descrive, nell’arco di una o più generazioni, una parabola che termina con il passaggio di proprietà dell’impresa. I ricchi nostrani non sono emiri. I fondi comuni, tra il 2000 e il 2013, hanno ridotto gli impieghi in azioni nazionali dal 10% al 2% delle loro masse amministrate. I fondi pensione investono in azioni italiane l’1%, forse meno, del loro patrimonio.
I private equity , anche quando non sono locuste, ogni 3-5 anni vendono. Gli accordi di Basilea impongono alle banche di finanziare le partecipazioni con capitali propri, che però sono sempre scarsi. Lo stesso fa Solvency 2 con le assicurazioni. Ecco perché banche e assicurazioni sono fuori da ogni rilancio. Resterebbe, in teoria, la Cassa depositi e prestiti, strattonata da governi ondivaghi che ieri volevano vendere l’Ilva e adesso la vogliono tenere, che gonfiano il petto contro l’Europa ma poi offrono all’estero le banche popolari migliori. Senza una missione chiara, un’indipendenza reale e, al tempo stesso, una copertura politica bipartisan nell’uso delle risorse, la Cdp può interloquire su Ansaldo Energia, non su Pirelli.
Terza e ultima questione: il pretendente. ChemChina è un’azienda statale, guidata da un manager iscritto al Partito. Oggi è la Pirelli a essere nazionalizzata a opera di Paese comunista. Come ieri fu Edison a essere nazionalizzata dalla Francia democratica. Domani toccherà ad altre aziende italiane e non: la vastità di un mercato come quello cinese, retto da un unico Stato, esercita un’attrazione contro la quale le regole condominiali europee appaiono patetiche come il cerone di una vecchia dama di fronte alla forza della gioventù.
Senatore Pd, Presidente della Commissione Industria del Senato

Il Sole 24.3.15
Non solo export. Parola d’ordine: più trasparenza
L’obiettivo della Cina: aiutare le province ad attirare capitali
di Rita Fatiguso


Pechino Nessuno meglio di lui sa bene che la Cina non è un monolite e che la ridda di province e regioni autonome coesistenti complica enormemente il suo duro lavoro di ministro delle Finanze alle prese con la drastica riforma dei conti cinesi.
Lou Jiwei è stato tra gli speaker più attesi al China Development Forum, il think thank dello State Council che ieri ha chiuso i lavori post Congresso Nazionale del Popolo dedicati a «La Cina nel New Normal» a Diaoyutai, la riservatissima State Guest House cinese.
Il suo è stato tra gli interventi più schietti e diretti: «Per ottenere, quest'anno, l’obiettivo del 7% di crescita bisogna lavorare sulle criticità delle finanze degli enti locali. La local market economy – ha detto il ministro delle Finanze - diventa l'architrave della crescita cinese: grazie alla nuova budget law che nel 2015 andrà a regime si potranno monitorare i comportamenti concreti e verificare la rispondenza agli obiettivi, specie a livello locale».
Compliance, accountability, disclosure. Lou Jiwei punteggia il suo intervento di termini presi a prestito dal lessico manageriale anglosassone, però si concentra sull'affermazione più importante: «Voglio che su queste nuove basi le province competano tra di loro nel loro stesso interesse e, soprattutto, nell’interesse delle casse locali. Oggi un fiscal revenue del 55% è troppo basso per garantire la tenuta dei conti e della pace sociale locali, ma anche la crescita nazionale».
Lou Jiwei lo dà per scontato, bisogna calamitare investimenti evitando gli errori del passato, incluso il dumping tra le stesse province sugli incentivi anche fiscali, l'attrattività va coniugata ai conti. Ma nella Cina del New Normal – ovvero quella che deve procedere più lentamente per poter realizzare le riforme - il tema della localizzazione delle economie diventa cruciale. Anche agli effetti della pianificazione degli investimenti stranieri in Cina che, a differenza degli investimenti cinesi all’estero segnano il passo. L'attesa per la nuova legge sugli investimenti esteri in Cina è forte, come pure la definizione finale della negative list, ovvero delle tipologie di attività non vietate espressamente dal Governo. Ma il monito di Lou Jiwei è chiaro, le varie aree locali devono darsi da fare per attirare investimenti. Come sta succedendo per le free trade zone di primo livello: Shanghai è stata la prima a debuttare e ora anche Tianjin, Fujian, Guangdong, ne hanno una: nei prossimi cinque anni le FTZ si contenderanno il 50% dell'import export cinese.
Bisogna, però, chiarirsi. «Le province più attrattive non sono necessariamente quelle che mostrano più elevati tassi di crescita: perché quelle meno avanzate hanno ricevuto più finanziamenti dal Governo centrale per compensare la loro carenza di fonti di crescita e perché le province più avanzate sono più vicine al loro tasso di crescita potenziale», dice Alessia Amighini ricercatrice dell'Universita' del Piemonte orientale che ha collaborato, con Riccardo Bramante e Federica Poli, per la Fondazione Italia-Cina e l'Università Cattolica, al Global Ranking dell'attrattività delle province cinesi. Si chiama Ciba, China Indicator of Business Attractiveness, ed è una guida all’attrattività delle province cinesi per le esportazioni e gli investimenti delle imprese, a partire da quelle italiane.
Le province che hanno subito una battuta d'arresto più drammatica nel 2014 sono quelle legate a un modello di specializzazione poco diversificato e incentrato sulle risorse naturali, alcune delle quali però, come il Liaoning, nel Nord Est, si stanno riqualificando. Al Forum di Pechino, non a caso, era presente anche il Governatore della confinante provincia dell'Heilongjiang, Hu Lao, in missione speciale nella capitale per spiegare urbi et orbi come intende risollevare la sua provincia dalla crisi industriale.
«Al Ciba stiamo lavorando da un anno almeno, costruendo l’indice sintetico di «business investment attractiveness» basato su una metodologia a più livelli per valutare l'attrattività delle singole province come mercati di sbocco per l'export italiano e come location per gli investimenti produttivi.
L'indice – precisa Alberto Rossi per la Fondazione Italia Cina - è determinato sulla base di un algoritmo statistico a partire da un insieme di indicatori elementari; misura direttamente il «bilateral trade index» e viene rettificato – in senso migliorativo o peggiorativo – attraverso specifici «sotto indici» riconducibili a profili considerati significativi”.
La Fondazione dispone del China Statistics Database che raggruppa oltre 2500 variabili, ne sono state estratte e testate oltre 100, a queste realta' sono stai dati i voti. Le province costiere si confermano al top dell'attrattività di business – sia come mercati all'export sia come location per investimenti produttivi. Presentano il maggior potenziale di crescita dei mercati al consumo e di riqualificazione della domanda. Tra le province più attrattive spiccano quelle più industrializzate, commercialmente più avanzate e con mercati più grandi e dinamici, a forte vocazione esportatrice e già fortemente aperte all'import come il Guangdong con una forte presenza di imprese estere come lo Jiangsu e con modelli di consumo sofisticati, vedi Shanghai, sempre più rivolti all'alto di gamma e ai beni strumentali high-tech.Tra le province appetibili anche alcune aree di vecchia industrializzazione che si stanno riqualificando verso un modello di sviluppo più sostenibile – Fujian e Liaoning – e aree fortemente terziarizzate con forte concentrazione di settori high-tech come quella di Pechino. Le province economicamente più arretrate, più isolate o periferiche, con criticità socio-economiche rilevanti che ne compromettono l'integrazione con il resto del Paese, sono invece alle prese con un modello di sviluppo molto concentrato e dipendente dalla domanda esterna. Tutto questo e' utile da sapere, per orientare i passi concreti. A patto che le stesse province seguano, alla lettera, le dritte del ministro Lou Jiwei.

Il Sole 24.3.15
Competizione tra continenti
di Paolo Bricco


La scala dimensionale è cambiata. La competizione è fra piattaforme tecno-produttive continentali: l'Ue, gli Usa e l'Asia, che ha nella Cina la potenza egemone. Tra finanza e industria, innovazione e politiche industriali di ampio o di corto respiro, il caso Pirelli assume un valore di scuola che mostra bene le nuove logiche. E pone la questione dell’inserimento, in un contesto comunitario dalle policy non sempre coese e solide, delle eccellenze industriali italiane.
Chi gioca in difesa. E chi in attacco. Ci sono i predatori. E ci sono le prede. Gli equilibri economici internazionali si stanno rimodellando. I conflitti fra sistemi produttivi e politici sono sempre più cruenti.L'innovazione radicale e la manifattura avanzata compongono vasti aggregati territoriali che ormai trascendono le singole realtà nazionali. La scala è globale. Pirelli ha un corpo tecnologico tutt'altro che irrilevante. La base su cui poggia l'edificio produttivo acquisito da Chem China è costituita da un investimento costante in R&S, che secondo la riclassificazione dei bilanci effettuata dall'ufficio studi di Mediobanca è stato compreso, fra il 2004 e il 2013, in una quota fra il 3% e il 4,3% del fatturato netto: in dieci anni, oltre 1,7 miliardi di euro. «Il portafoglio brevetti di Pirelli – nota Massimiliano Granieri, ex University of California at Berkeley che oggi insegna all'Università di Brescia – conta su 6.698 brevetti, 1.500 dei quali attivi. Si tratta di uno dei patrimoni conoscitivi e tecnologici più importanti del sistema europeo. Soprattutto perché costituisce il risultato della sedimentazione storica di tecnologie assolutamente trasversali». Il 20% di questo portafoglio riguarda i trasporti. Il 9% le tecnologie ottiche. Il 5% le telecomunicazioni. Il 5% i polimeri e la chimica. Il 5% la meccanica. E, poi, c'è un 15% di brevetti che si possono inscrivere alla categoria della meccatronica, quella particolare tecnologia media nata dalla convergenza fra più tecnologie – il cuore del medium tech – oggi lievito della competizione industriale europea. Nel nuovo capitalismo internazionale, che ha assunto le fattezze di un confronto serrato e all'ultimo sangue fra grandi Region più o meno coese preconizzate fin dal 1991 in “Geography and Trade” da Paul Krugman e ha incorporato la velocità che toglie il respiro delle global value chains decrittate negli ultimi dieci anni da Tim Sturgeon e dalla scuola del Mit di Boston, l'Europa ha appunto questa specializzazione trasversale che rende omogeneo il tessuto produttivo fra la Germania, l'Italia e la Francia. Per dire, quella meccatronica che rappresenta il lievito sottostante dei settori tradizionali e dai confini più netti, come l'automotive, in cui nonostante la competizione dei carmakers asiatici e la rinascita di quelli statunitensi ancora il 60% delle domande di brevetto depositati allo European Patent Office è di origine europea. «In realtà – osserva Paolo Massardi, partner di Roland Berger – la leadership tecno-produttiva europea è costituita anche dalla robotica, dall'automazione nello spostamento e nella movimentazione e dagli Rfid (i sistemi di riconoscimento del dettaglio)». Rimanendo all'Italia, la Comau del gruppo Fiat, che sta avendo un ruolo fondamentale nel processo di reindustrializzazione degli stabilimenti di Chrysler in tutto il Nord America, e la Datalogic di Bologna, leader mondiale nei sensori e nei lettori a codici a barre. In un capitalismo che tende a frammentare i processi produttivi e a de-territorializzare le attività dei grandi gruppi, connettendoli alle catene internazionali del valore e ai global production networks, le primazie non riguardano soltanto i settori dai confini precisi e nitidi, quanto appunto le attività trasversali. «Gli Stati Uniti – continua Massardi – hanno la primazia tecno-produttiva nelle reti specializzate nel B2B, nel clowd computing e nei big data. Infrastrutture immateriali, che permeano tutti i comparti, e che stanno modificano la fisiologia profonda della manifattura e dei servizi». Infrastrutture su cui gli Stati Uniti – impegnati in una rivisitazione di politiche industriali che non si vedeva da quando con gli investimenti militari e pubblici salvarono l'informatica fra fine anni Ottanta e i primi anni Novanta cambiando il mondo con l'invenzione di internet – stanno investendo energie e risorse. Peraltro, dopo avere salvato l'industria automobilistica. Da questo punto di vista, l'Asia – con l'eccezione dell'India nel software – sta rincorrendo. «Una rincorsa – nota Giorgio Prodi, economista dell'Università di Ferrara e membro del comitato scientifico dell'Osservatorio Cina – a cui è la politica cinese a imprimere il ritmo». Dietro a una operazione come quella di Chem China su Pirelli c'è evidentemente l'input istituzionale di Pechino. Giorgio Prodi sta compiendo una ricerca sui brevetti cinesi nell'automotive: «Sono pochi. I brevetti costituiscono una buona proxy dell'innovazione formalizzata. La politica industriale cinese basata sulla costituzione di joint venture fra grandi gruppi occidentali e case automobilistiche nazionali, che sta funzionando bene sotto il profilo manifatturiero, non sta producendo in Cina vera contaminazione e autentici follow-up tecnologici. Dunque, adesso i cinesi hanno deciso di comprare fuori». Il caso Pirelli è il risultato di questo cambio di rotta. Nella complessa (e rischiosa) dinamica che si instaura quando un grande gruppo viene acquisito e si ritrova la testa strategica in un altro continente, bene ha fatto la proprietà in uscita a porre una clausola formale per il mantenimento della ricerca in Italia. Interessante constatare come gli attuali vertici si siano rivolti, nei giorni scorsi, alla presidenza del Consiglio italiana, informata data la centralità di una impresa che quasi coincide con un settore produttivo nazionale. Invece, sul fronte di Bruxelles sarà aperto un confronto sul profilo regolatorio di antitrust. Qualcosa di puramente formale: Chem China non ha stabilimenti produttivi nel Vecchio Continente e possiede una minima quota del suo mercato. Con Bruxelles nulla, però, di strategico-sostanziale. Il che mostra come l'Unione europea - in quanto istituzione in grado di appaiarsi all'istituzione del mercato nella prospettiva strategica dei grandi affari e dei grandi rivolgimenti della nuova globalizzazione - semplicemente non esista. Una questione di non poco conto. L'assenza di un piano europeo rischia di diventare una debolezza strutturale per un capitalismo come quello italiano, vitale sotto il profilo industriale e dell'innovazione ma gracile nella sua componente finanziaria e patrimoniale, impegnato a muoversi in uno scenario internazionale in cui i suoi concorrenti hanno alle spalle policy di ampio respiro e di forte determinazione.

Repubblica 24.3.15
Il padrone rosso
La Cina sta acquistando il mondo
Nel 2015 diventerà il primo investitore estero del pianeta
L’Italia è la seconda destinazione nella Ue: qui lo shopping di Pechino va dalle aziende statali ai marchi storici come Pirelli
di Giampaolo Visetti


PECHINO NON solo Pirelli: la Cina sta acquistando il mondo. Per la prima volta, lo scorso anno, gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli stranieri in Cina. «Pechino padrona», più del rallentamento della crescita e della corsa al riarmo, è la tendenza che segna la globalizzazione contemporanea. Lo tsunami degli yuan comunisti che sommergono il capitalismo occidentale sconvolge la geografia economica, ma ridisegna anche gli equilibri politici. Nel 2015 la Cina diventerà il primo investitore estero del pianeta: dai 11,1 miliardi di euro esportati dieci anni fa, arriverà a reinvestire in Paesi stranieri 110 miliardi. Il “go global” cinese è cresciuto nella discrezione. All’improvviso, per legittimare la supremazia della nuova superpotenza del secolo, impone la sua onnipresente immagine. A fine gennaio, quando Alexis Tsipras ha vinto le elezioni in Grecia, sono scattati due allarmi: quello noto sull’euro e quello sconosciuto sulla proprietà cinese del Pireo, terminal container più grande del mondo. Gli europei hanno appreso che la distribuzione delle merci nel Vecchio continente è gestita da Pechino.
Il nuovo azionista di maggioranza globale affascina e spaventa. Non si limita più a scambiare infrastrutture lowcost con materie prime nelle nazioni in via di sviluppo. Irrompe nel salotto buono del business, tra gli Stati Uniti e l’Europa. I trofei servono a impressionare, ad annunciare all’Occidente che il motore millenario dell’Asia «is back», è tornato. Un nipote di Deng Xiaoping, per 1,7 miliardi di euro, ha acquistato l’Hotel Waldorf Astoria, icona del lusso a New York. Pechino controlla energia elettrica e acqua potabile di Londra. Un’immobiliare di Shanghai si è assicurata lo Sheraton di Sidney per 365 milioni di euro. Il fondo sovrano cinese si è aggiudicato l’appalto per la ferrovia ad alta velocità che collegherà Belgrado a Budapest e Rotterdam, attraversando il cuore dell’Europa. L’Africa è già cinesizzata, ma gli ultimi progetti segnano un salto di qualità: pozzi di petrolio in Sudan, una centrale idroelettrica in Nigeria, le miniere del carbone nello Zambia, la rete ferroviaria in Libia, i porti del Mozambico. L’opera- simbolo è il canale “anti-Panama” in Nicaragua, per ridimensionare l’influenza Usa sul commercio tra Atlantico e Pacifico. Le luci della ribalta si accendono anche sui nuovi affari. Wang Jianlin, fondatore del gruppo Wanda e primo gestore mondiale di sale cinematografiche, scala Hollywood, acquista il 20% dell’Atletico Madrid e la società Infront, deus ex machina dei diritti del calcio in tivù. Jack Ma, visionario inventore del colosso dell’e-commerce Alibaba, ha battuto ogni record delle quotazioni a Wall Street: 230 miliardi in un giorno.
Da economia socialista assistita chiusa, quello cinese diventa un business senza confini e di mercato. Nulla a che vedere col Giappone anni Ottanta. La Cina investe in 179 Paesi: nel 2012 le nuove imprese all’estero sono state 22mila, nel 2014 si è passati a 34mila, quest’anno il governo prevede che a investire saranno non meno di 50mila. Prima meta gli Usa, ma lo scontro crescente Pechino-Washington rivoluziona i piani cinesi. Dopo Africa, America Latina e Australia, scatta l’ora del grande ammalato: l’Europa in saldo causa crisi. La leadership rossa resta affezionata alla cassaforte inglese. I nuovi miliardari acquistano castelli e i quartieri chic di Londra. Gli obbiettivi sono però il controllo del Mediterraneo e la conquista del mercato continentale. Priorità: Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, alla ricerca di capitali per ricostruire produzione e lavoro.
Nel 2014 il nostro Paese è stato la seconda destinazione degli investimenti cinesi nella Ue: poco meno di 6 i miliardi di euro arrivati, rispetto ai 147 milioni del 2012. Lo shopping di Pechino non si è limitato ai gioielli di famiglia: Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat-Chrysler, Mediobanca, Saipem, Prysmian, Terna, tutti partecipati al 2% dalla Banca centrale. State Grid Corporation China con 2,1 miliardi di euro si è assicurata il 35% di Cassa depositi e prestiti Reti: il gas e l’elettricità del Belpaese. E il cinese l’hanno imparato anche marchi storici dell’Italian style: Krizia ha venduto al suo ex fornitore Shenzhen Marisfrolg, seguendo le orme degli yacht Ferretti e (qui solo partecipazioni di minoranza), di Ferragamo, o dell’olio Sagra e Borio, di Ansaldo energia e di Cifa. I rumors dei mercati, dopo l’opa di ChemChina sulla Pirelli di Tronchetti Provera, annunciano nuovi colpi ad effetto: il Milan calcio di Berlusconi, i cappelli Borsalino, il Molino Stucky di Caltagirone a Venezia.
Le mani di Pechino sull’economia mondiale rispondono a una necessità interna e ad un’opportunità esterna. Il presidente Xi Jinping, per salvare l’egemonia del partito, deve riformare il modello di sviluppo nazionale. Persi i consumatori occidentali va alla conquista dei loro marchi, per assorbire know how, brevetti, conoscenza, tecnologia e immagine. Prezzi bassi, fine della diffidenza anti-cinese e yuan forte. Da materie prime e agricoltura, mercato primario, si passa a credito, industria e immobiliare, mercato secondario. Negli ultimi dieci anni la Cina si è assicurata le materie prime dell’Africa e dell’America latina, l’energia della Russia, i prodotti agricoli dell’Australia e le commesse hi-tech degli Stati Uniti. Dall’Europa ha solo importato aziende delocalizzate e brand del lusso. Ad aprire l’era del “go Europe”, con la zona euro che nel 2014 ha assorbito il 62% degli investimenti esteri, è ora il raffreddamento delle relazioni con gli Usa. Le barriere si alzano, fino ad escludere la Cina dai sempre più allargati “settori strategici”.
In Europa il percorso è inverso: le porte economiche si aprono, i governi democratici dimenticano diritti umani e libertà d’espressione. Il “caso autoritarismo” non pesa più sull’azione dei tre strumenti privilegiati dell’espansione cinese: il fondo sovrano (Cic), la società degli investimenti di Stato (Safe) e la Banca del popolo, attuali cavalieri bianchi mondiali con una liquidità superiore ai mille miliardi di dollari. Fino ad oggi la Cina è stata la culla dell’export di copie low cost. Il nuovo scenario la vede padrona di tecnologia, marchi hi-tech, credito e finanza, del meglio di quello che si definisce «il futuro dello sviluppo ». Alto valore aggiunto, ma la sfida decisiva adesso è la governance: nessuno controlla, né può scegliere, i proprietari del mondo.

Repubblica 24.3.15
Zhu Chongyun, la nuova Krizia
“Dal cibo allo stile di vita siamo fan del Made in Italy”
di Laura Asnaghi


La Cina è una potenza, ha grandi capitali, ma da cosa nasce questo interesse per il Made in Italy?
«Anni fa era la Francia il nostro riferimento. Parigi esercitava un grande fascino e chi aveva mezzi faceva di tutto per approdare sulle rive della Senna. Poi si è imposto il Made in Italy: i suoi stilisti hanno fatto storia e reso desiderabili i loro prodotti. Oggi in Cina, vestire italiano, è orgoglio e privilegio».
Ma è solo la moda che ha creato questa fascinazione?
«No, tutto il lifestyle italiano ha messo in moto questa macchina dei desideri. I cinesi sono fanatici del Made in Italy, non solo abiti e accessori, ma anche cibo, stile di vita e città da sogno, come Venezia, dove molti vorrebbero celebrare un matrimonio indimenticabile ».
Ora nel lifestyle rientra anche Pirelli.
«Non conosco i termini di questa operazione e posso parlare solo di moda, settore che conosco bene perché in Cina guido la Marisfrolg Fashion Co., azienda con 500 negozi, 6mila dipendenti e un fatturato di 400 milioni di dollari. Per me aver acquisito Krizia è stata una grande opportunità, perché si tratta di un marchio noto a livello internazionale, affine ai miei gusti estetici. Krizia l’ho scoperta dieci anni fa e non l’ho più persa di vista. Quando ho saputo che il marchio era sul mercato non mi sono fatta sfuggire l’occasione».
Contenta dell’acquisto?
«Felicissima. Molti in Cina mi dicevano “chi te lo fa fare di lanciarti in questa sfida?”, ma sapevo che stavo facendo una cosa buona e sono andata avanti per la mia strada. Ora sto sviluppando un piano di rilancio di Krizia, che comprende anche il restyling della storica boutique di via della Spiga».
A 50 anni ha un patrimonio personale valutato intorno al miliardo e mezzo di dollari, all’inizio creato dal nulla grazie a prestiti degli amici. Qual è il segreto del suo successo?
«I cinesi, sul fronte imprenditoriale, assomigliano molto agli italiani. Se si mettono in testa una cosa non li ferma nessuno, per questo ora noi e voi facciamo business insieme. Io, figlia di insegnanti, mi sono laureata in ingegneria, ma dopo anni di cantiere ho capito che quel mestiere non era per me. Così coi prestiti degli amici ho iniziato la mia nuova attività nella moda. Anche Krizia è partita da zero e forse per questo a un certo punto della nostra vita ci siamo incontrate e io ho comprato il marchio per dargli un futuro».
Krizia è contenta del lavoro che lei sta facendo?
«Sì. Con me è molto tenera. “Sei la mia versione cinese”, mi dice».
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«L’ITALIA è la mia passione ». La signora Zhu Chongyun, una tra le 30 donne più ricche della Cina, 50 anni, laurea in ingegneria, è famosa nella moda come la “Krizia cinese” dall’aria molto zen. Un anno fa ha comprato il marchio fondato da Mariuccia Mandelli, in arte Krizia, e lo vuole rilanciare alla grande. Non parla inglese, ha al suo fianco un’interprete, e per dimostrare che l’amore per il nostro paese è vero ha voluto imparare la frase: «L’Italia è la mia passione».
Signora Zhu, perché la Cina vuole fare grandi investimenti in Italia, non solo nella moda ma nella Pirelli?
«Per gli italiani può essere strano che la Pirelli diventi cinese, per noi no. Questi investimenti fanno parte di un processo di internazionalizzazione della nostra economia. Normale che si punti su marchi di grande fama».
La Stampa 24.3.15
Nella giungla argentina la città segreta dei nazisti
Edifici tedeschi e monete del Reich scoperti nella regione di Misiones
Gli archeologi: un rifugio per i gerarchi in caso di sconfitta nella guerra
di Filippo Fiorini

qui

La Stampa 24.3.15
La Resistenza perfetta e i suoi nemici
In un castello del Piemonte, tra il ’43 e il ’45, monarchici e comunisti, preti e partigiani fianco a fianco in una storia esemplare che sfida le polemiche revisioniste: l’ultimo libro di Giovanni De Luna


La «Resistenza perfetta» c’è stata. Ed è quella che queste pagine raccontano.
Un dato colpisce negli uomini e nelle donne che ne sono protagonisti: discutono, progettano, amano, con le armi in pugno. E questo ci obbliga a una riflessione che ci porta nel cuore dell’«uso pubblico della storia». Tra le tante catastrofi provocate dal terrorismo degli anni Settanta c’è, infatti, anche una sorta di «interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Fu Marco Pannella, nel 1980, ad avanzare per primo il paragone tra i partigiani di via Rasella e le Brigate rosse. Dal punto di vista storico, quel paragone è una totale assurdità; pure, questa assurdità è largamente presente nel senso comune e la si ritrova, spesso, quando a scuola si parla di Resistenza, nelle reazioni degli studenti: «Professore, ma i partigiani erano come i terroristi?!».
La questione della violenza
Il bersaglio polemico di Pannella era il Pci di Berlinguer e l’attentato del 23 marzo 1944 rappresentava poco più di un pretesto. Ma partendo da quel pretesto, da allora in poi un pugnace revisionismo storiografico ha utilizzato il ventennio berlusconiano nel tentativo di espungere l’antifascismo e la Resistenza dal paradigma di fondazione della nostra democrazia repubblicana. Così, il terrorismo degli Anni Settanta non è stato più visto come un fenomeno politico, circoscritto nel tempo e legato a irripetibili condizioni storiche, ma è diventato una categoria generica e onnicomprensiva, in cui può precipitare di tutto (anche Mazzini e il Risorgimento, oltre che la Resistenza), fino a un giudizio liquidatorio che ha implicato la condanna di qualsiasi comportamento politico che abbia avuto a che fare con la violenza armata, indipendentemente dalle sue motivazioni e dagli esiti. In questa marea di luoghi comuni hanno sguazzato le tesi revisioniste sul «sangue dei vinti» e sulle efferatezze dei partigiani «rossi»; ma anche la storiografia più accorta è sembrata intimidita dall’interdetto originato dalle imprese delle Brigate rosse.
Dopo gli Anni Settanta, gli studi e le ricerche hanno privilegiato soprattutto i 600.000 militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre, i «giusti» che rischiarono la vita per salvare gli ebrei, le donne che si prodigarono in gesti di solidarietà e abnegazione. Alla «Resistenza armata» si è così progressivamente sostituita la «Resistenza civile». Ed era giusto così. Si trattava di temi che andavano studiati, e quelle ricerche hanno contribuito ad ampliare la conoscenza di uno dei periodi più importanti della nostra storia. E tuttavia bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere, oggi, che senza i partigiani in armi la «Resistenza civile» non avrebbe avuto ragione di esistere. Soccorrere gli inermi, aiutare i feriti, prodigarsi per nascondere i prigionieri sono iniziative che acquistano un senso compiuto solo se le si guarda come elementi fondamentali del contesto propizio e generoso in cui operarono gli uomini che decisero di sfidare in campo aperto i tedeschi e i fascisti.
Rifondazione esistenziale
Di «Resistenza civile» si parla anche in questo libro. Il lettore incontrerà gli scioperi degli operai e la solidarietà dell’ospitalità contadina; vedrà come nelle stanze del Palas ci siano uomini in armi ma anche feriti da curare, sbandati da nascondere, ebrei da salvare. Ma vedrà anche che in quella villa patrizia si va per discutere, per riposarsi, per leggere qualche libro, ma non vi si rimane; vi si passa prima di ritornare a combattere. E percepisce come il fatto di impugnare un’arma sia una soglia da attraversare. «Barbato» ci restituisce questa realtà con il gesto semplice di chi ha assunto la responsabilità del comando: una riga tracciata per terra davanti alle nuove reclute, un breve discorso per rendere consapevoli quei ragazzi di cosa vuol dire oltrepassarla, poi un passo avanti: sembrava un nulla e invece - come ci ha ricordato Italo Calvino - era come scavalcare un abisso. Si cambiava il proprio nome, si assumeva una nuova identità che era anche una nuova nascita, realizzando con il nome di battaglia una sorta di rifondazione esistenziale, avviando «una ricapitolazione di quello che si sarebbe voluto essere».
Non era solo la scelta dirompente di entrare in una sorta di terra di nessuno dove si andava per morire o far morire. Far parte di una «banda» partigiana, di una comunità in armi, conduceva a una strada segnata da un serrato confronto con se stessi, in un mondo in cui non c’era niente di scontato, in cui quella scelta andava continuamente ribadita e confermata e in cui ogni volta, per prendere quella decisione, si era da soli con la propria coscienza. Questo universo problematico e contraddittorio, spoglio di ogni fanatismo, è quello che rende la lotta armata nella Resistenza una realtà non assimilabile a tutte le altre opzioni armate che hanno segnato il rapporto fra la politica e la violenza nel corso dell’intero Novecento italiano, a partire dall’efficienza distruttiva mostrata dallo squadrismo fascista tra il 1920 e il 1922.
Uccidere, dura necessità
Nella lotta partigiana si uccide, ma si uccide quasi sempre come per una scelta obbligata, senza dare alla violenza sanguinaria un valore liberatorio, senza nessuna esaltazione di una violenza «fondante in quanto violenza», senza nessuna concessione a una sorta di valore intrinseco della violenza («Sparo, dunque sono»). Quando dai documenti e dalle testimonianze affiora un partigiano che uccide con naturalezza (se non con piacere), questo avviene suscitando nei compagni ammirazione o disagio, entusiasmo o perplessità, ma non viene mai accettato come un qualcosa di ovvio, di scontato. Sarà così per le reazioni che accolgono le gesta di «Zama», forse il più temerario dei garibaldini di «Barbato». A prevalere è sempre un atteggiamento di dura necessità, di una cosa fatta «o per dovere morale o perché non se ne può fare a meno», senza il gusto estetico dell’uccidere, quanto piuttosto con l’idea che quelle armi debbano servire a uno scopo e che a quello scopo mirano anche le discussioni sull’etica sessuale, sulla famiglia, sul futuro degli assetti istituzionali del Paese, tutto quello su cui ci si confronta nelle stanze del Palas e che è avvinto da un nesso inscindibile con la lotta armata.

Repubblica 24.3.15
Giovanni De Luna ricostruisce una vicenda ambientata in un castello piemontese per ricordare cosa fu la lotta partigiana
La Resistenza “riabilitata” dal diario di Leletta
di Simonetta Fiori


LA RESISTENZA arrivò nel castello insieme a “Barbato”, il comandante partigiano che aveva l’abitudine di tracciare per terra una linea. Pensaci bene prima di superarla, diceva ai più giovani, perché poi non si torna indietro. Il passo autorevole e i baffi imperiosi gli procurarono la stanza più bella del Palas, quella con il letto a baldacchino. I baroni Oreglia d’Isola — un’antica casata di fede cattolica — erano sideralmente lontani dal mondo comunista, ma non potevano negare l’accoglienza al più coraggioso dei resistenti, l’uomo che venti mesi più tardi avrebbe liberato Torino dalle brigate nere.
Un castello, dunque. Una grande tenuta di boschi, vigne e mulini a mezza strada tra Saluzzo e Pinerolo, a Villar, all’ombra del Montoso. E una sontuosa casa patrizia, ricca di libri antichi e di addobbi, pareti affrescate e ceramiche di pregio. Singolare cornice per l’epica resistenziale, quasi da sospettare che si tratti di una felice invenzione per celebrare il settantesimo della Liberazione. E invece è tutto vero. Sono vere la contessa Caterina e sua sorella Barbara che soccorrono i partigiani feriti nascondendoli nelle soffitte del maniero, e talvolta salgono su in montagna per recuperarne i corpi senza vita. Sono veri i combattenti delle brigate Garibaldi che alternano azioni di guerra con momenti di conversazione colta nei saloni del Palas. È vero il repubblichino Novena, con il suo carico di risentimento e inganno anche dentro le mura del castello. Ma soprattutto è vera la protagonista Leletta, la diciassettenne figlia della “Barona” e voce narrante della storia: è attraverso il suo sguardo che vediamo scorrere «la gloriosa epopea », venti mesi di guerra civile che significarono tragedia e sangue ma anche una «scuola di vita » per distinguere tra coraggio e viltà, amicizia e opportunismo, slancio ideale e grettezza.
L’antifascismo fu una reazione esistenziale prima ancora che una decisione politica matura. E il diario di Leletta restituisce con semplicità il significato di una scelta che accomunò aristocratici e comunisti, preti e mangiapreti, signori e contadini, monarchici e repubblicani. Anche per questo Giovanni De Luna ha voluto intitolare il suo bel libro La Resistenza perfetta: il Palas diventa simbolo di una storia che in tutti i modi si è cercato di delegittimare, ottenendo il risultato di sporcarne il senso comune soprattutto tra i più giovani.
La Resistenza come un pranzo di gala, impreziosito dagli argenti di casa Oreglia? No di certo. Anche dal castello si assiste alle efferatezze nelle file partigiane, Lucia e Caterina derubate e poi ammazzate su ordine del “Moretta” solo per un vago sospetto di collaborazionismo. Ma i dialoghi annotati da Leletta, e i numerosi diari consultati da De Luna, registrano un rapporto con la violenza che è subìto più che golosamente ricercato. Il mestiere delle armi, quando esercitato con esuberanza, suscita sperdimento, non fierezza. Le gesta di “Zama”, io partigiano che fece in quelle valli la prima vittima fascista, sono accolte con “orrore reverenziale”. E “Gagno”, audace comandante gappista, resta “di stucco” quando lo vede uccidere la prima volta. Anche il compagno “Balestrieri” confessa di provare «una sensazione di pena per me stesso» mentre mira alla testa del maggiore tedesco: preme il grilletto ma ne è travolto.
Altro spirito aleggia nelle file avversarie, un surplus di ferocia che cresce insieme al sentimento di sconfitta, riuscendo a penetrare tra le mura del castello. È dentro il cortile del Palas che nel febbraio del 1945 viene selvaggiamente picchiato il garibaldino “Lampo” per mano del camerata Novena. «Oh signor Novena come sta?», era stata la disinvolta accoglienza di Leletta quasi all’alba. Erano arrivati per perquisire la villa, sospettata di complicità con la Resistenza. E con loro s’erano portati “Lampo”, appena catturato in montagna. Volevano indurlo a confessare le relazioni pericolose con il barone e la sua fam iglia. «Non sono mai venuto nel castello», si ostina a negare lui. Pochi giorni dopo viene ammazzato, colpito al volto con un pugno di ferro, gli occhi estratti dalle orbite. A Novena sono stati attribuiti 195 omicidi, chissà se li ha commessi tutti. Una volta si divertì ad armare la mano del figlio tredicenne, «vai, dilettati anche tu».
Nulla sfugge a Leletta, che riferisce meticolosamente sul suo diario. Nel 1944 ha la freschezza dei 18 anni, curiosa degli uomini più delle ideologie. È affascinata da “Barbato”, nome di battaglia di Pompeo Colajanni, ma più per l’impegno generoso profuso nella battaglia che per le teorie arruffate. Coglie la differenza tra il suo «quartetto» di cavalieri rossi e quegli «imboscatucci» degli amici aristocratici, che invece di combattere cercano riparo nella zona franca dell’Ordine di Malta. Impara a sparare anche lei, insie- me al fratello Aimaro, «incauti e contenti». Perché le armi sono una necessità, e non se ne può fare a meno, ricorda lo storico in polemica con quella sorta di «interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti (i partigiani ingiustamente assimilati ai terroristi)). Non diventa mai comunista Leletta, né può diventarlo. Però conserva la stella rossa del suo comandante perché intuisce l’energia vitale che scorre in quelle fila. «Ah, dottoressa Aurelia, se avessi vent’anni di meno », scherza il partigiano con galanteria. In realtà ha solo 38 anni, troppi per quell’epoca.
L’aristocratica e il comunista. Nel dopoguerra assisteranno al lento disfarsi di quella rete di affetti e solidarietà intessuta dentro il castello. Ciascuno riprende il suo posto in un mondo che non ha tagliato completamente i ponti con il passato. I fascisti tornano in libertà grazie a Togliatti, con motivazioni spesso raccapriccianti: giocare a calci con la testa del partigiano appeso viene considerato un “incidente”, non una sevizia efferata. Anche per Novena solo dieci anni di galera, poi una vita da benzinaio a Velletri. Colajanni assume importanti incarichi politici nelle file del Pci, come qualche altro suo compagno di brigata. E Leletta? Segue la sua vocazione religiosa. Nel 1947 entra in convento come suor Consolata, poi diventa terziaria domenicana. Per il resto della sua vita non farà che ascoltare gli altri, come in fondo aveva fatto dentro il Palas. Muore nel 1993, sei anni dopo “Barbato”. Nel 2012 si è aperta la causa per la sua beatificazione. La beata Leletta che sapeva usare il parabellum.
IL LIBRO La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna (Feltrinelli, pagg. 256 euro 18)

Corriere 24.3,15
La famiglia per Gesù non era sacra
Oggi anche il matrimonio civile copia quello cattolico, che va ripensato in base al Vangelo
di Luigi Accattoli


Una lettura in salita fin dal titolo, Amore senza fine, amore senza fini (Il Mulino), ma utile come promette il sottotitolo, Appunti di storia su chiese matrimoni e famiglie . Alberto Melloni è uno storico e guarda al conflitto di civiltà sul matrimonio con la passione di chi non si rifiuta a nessuna battaglia, ma anche con il distacco di chi è allenato a «guardare le cose sul lungo periodo». Com’è nella sua vocazione di studioso militante che non ha mai dissimulato, l’autore ordisce il richiamo al passato in funzione di due moniti che rivolge ai nostalgici del «regime di cristianità» e all’ala marciante del «regime di modernità». Due avvertenze legate dal corollario che è necessario «ripensare» in toto le «relazioni d’amore», se abbiamo ancora interesse alla segnalazione sociale della loro intenzione a durare.
Il monito rivolto ai nostalgici è di cessare dall’inseguire con intenzione di battaglia «ogni discussione sui fini dell’amore o la fine dell’amore» (qui spuntano le parole del titolo del libretto) e di dedicarsi con nuovo impegno a proporre l’ideale della fedeltà con libero affidamento alla capacità di accoglienza dei singoli che può anche essere piena — oggi come sempre — se così la donano «la fedeltà di Dio» e le risorse dell’umano, ma che non può essere in alcun modo comandata, o vincolata a norme che l’umanità del terzo millennio respinge d’istinto.
Ai militanti della modernità lo storico propone un monito speculare: non basta rovesciare l’ordine dei fattori e delle fasi del «matrimonio tridentino» (cioè della tradizione cattolica, che è ancora quello normato dal Concilio di Trento) per uscire dal suo recinto e fondare su nuove basi il riconoscimento pubblico del «legame più irresistibile e più fragile». Per prima oggi viene la «consumazione» del rapporto, cui segue la convivenza e infine il figlio, dopo l’arrivo del quale si va allo «sposalizio solenne» che imita in tutto quello tridentino, tranne nel fatto che arriva per ultimo, mentre allora veniva per primo e legittimava il resto.
Melloni chiama alla necessità di «pensare la sponsalità fuori dal regime di cristianità»: le Chiese lo dovrebbero fare prendendo atto che quel regime non esiste più («siamo indietro di duecento anni» disse infine il cardinale Martini), i loro antagonisti avvertendo che il mero rovesciamento delle formule rischia di perpetuare le antiche subordinazioni: del matrimonium al patrimonium , della donna all’uomo.
Il compito sarebbe urgente soprattutto per i cristiani, perché l’azzeramento dei vincoli che caratterizza il regime di modernità «presto o tardi consentirà a tutti di sposarsi o di esonerarsi dal matrimonio e di non avere o aver figli in un modo o nell’altro»; e sarà inutile fatica attardarsi a riproporre regole che erano più civilistiche (romane, feudali, napoleoniche) che evangeliche. Il momento anzi fornirebbe alle Chiese «una nuova e singolare opportunità di pensare la più umana delle situazioni e la più intrinsecamente disastrosa a partire dal Vangelo di Gesù».
Quel Vangelo non sacralizzava la famiglia, relativizzava anzi il matrimonio, dando la precedenza all’unità della famiglia umana; condannava sia l’adulterio sia coloro che mettevano a morte l’adultera, non dettava una propria formula di sposalizio e accettava il matrimonio «così come usava». Qui i rimandi dello storico sono alle parole di Gesù in difesa dell’adultera e alle altre che pongono come primo dovere dei discepoli quello d’amare in Dio l’intera umanità: «Chiunque ha lasciato casa, fratelli, sorelle, padre, madre, moglie, figli e campi per amore del mio nome, ne riceverà il centuplo».
Il capitolo «Quanto conta un Sinodo» — che tratta della doppia assemblea sinodale sulla famiglia convocata da Papa Bergoglio — è quello di maggiore presa sul presente e sfocia in questa chiusa chiarificatrice: «Se la Chiesa di Roma trova l’umile audacia di dipanare la matassa della relazione (sponsale, ndr ), accettando con serenità la temporaneità delle proprie risposte e custodendo invece il fulcro delle domande cui risponde, se esce dalla prigione dorata del suo diritto, se dice con il linguaggio dell’Evangelo che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore, allora anche il discorso pubblico sui diritti delle famiglie potrà giovarsene con esiti molto più radicali di quelli intravisti dal semplice antiproibizionismo dell’erotico lato sensu ».

Corriere 24.3.15
Fine dell’ Impero ottomano governo dei giovani turchi
risponde Sergio Romano


Le comunico che i resti mortali di Enver Pasha riposano nel cimitero Abide – i Hurriyet di Istanbul nel quartiere di Sisli. I suoi resti furono portati in Turchia il 5 Agosto 1996 e accolti dalla nipote Sig.ra Nilgun Belbez vedova dell’ambasciatore Alptekin Unluturk . Nello stesso cimitero riposano anche i resti di Talaat Pasha. I resti di Djemal Pasha riposano probabilmente ancora a Tiblisi (Georgia) dove morì nel luglio del 1922. Un suo corposo articolo sul «terzetto» sarebbe sicuramente molto interessante.
Gennaro Mandato

Caro Mandato,
Ahmed Djemal, Ismail Enver e Mehmet Talaat furono i tre membri del Direttorio militare che governò l’Impero Ottomano durante la Grande guerra. Avevano preso strade diverse (la carriera militare per Enver e Talaat, quella di funzionario dello Stato per Djemal) ma erano tutti «giovani turchi», vale a dire membri del Comitato Unione e Progresso, l’organizzazione nazionalista che voleva modernizzare la Turchia e, soprattutto, restituire all’Impero la gloria perduta.
Quando presero il potere, dopo il colpo di Stato del febbraio 1913, il «malato d’Europa» (come lo Stato ottomano fu definito sin dall’Ottocento) era soggetto a una sorta di vigilanza internazionale. Esistevano ancora le antiche capitolazioni che garantivano ai cittadini stranieri uno status giudiziario preferenziale. Il suo debito pubblico e la raccolta delle imposte erano soggetti al controllo di una istituzione internazionale, una sorta di superministero delle Finanze con un consiglio di gestione in cui era rappresentata anche l’Italia. Un accordo concluso con la Russia all’inizio del 1914 regolava lo status delle comunità armene e autorizzava l’ingresso di ispettori internazionali nelle loro aree di residenza. Nella crisi scoppiata dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, il 28 giugno del 1914, i tre moschettieri dell’Impero videro l’occasione del riscatto. Dopo la conclusione di un patto segreto con la Germania, diretto soprattutto contro la Russia, collaborarono attivamente con lo stato maggiore di Berlino per creare il casus belli. Quando due incrociatori tedeschi apparvero nelle acque del Bosforo il 12 agosto 1914, fu spiegato che erano stati venduti al governo turco e che di lì a poco avrebbero cambiato bandiera. Ma due settimane dopo le navi uscirono sul Mar Nero e apparvero all’alba del giorno dopo di fronte alla scalinata di Odessa per bombardare la città. Nelle ore seguenti la stessa operazione fu compiuta contro Fedosia, Sebastopoli e il porto georgiano di Batum.
Dopo avere soppresso le capitolazioni, il Direttorio approfittò del conflitto per «risolvere» la questione armena. Sotto la guida di Enver Pasha, furono sciolte le associazioni armene, vennero incarcerati i loro dirigenti e, soprattutto, fu decisa l’espulsione delle comunità armene dalle aree di residenza sul Mar Nero. Il rappresentante italiano al Debito pubblico ottomano, Bernardino Nogara, scrisse alla moglie il 4 luglio 1915: «Pensa a centinaia di migliaia di persone svelte dal suolo che da secoli abitavano e, prive di tutto, obbligate a percorrere centinaia di chilometri soffrendo la fame, la sete, senza un tetto». Nogara non poteva sapere naturalmente quale trattamento sarebbe stato riservato a quelle popolazioni durante l’esodo.
Talaat fu ucciso a Berlino da uno studente armeno nel marzo del 1921, Djemal fu ucciso a Tiblis in Georgia da tre militanti armeni nel luglio del 1922, Enver morì combattendo contro l’Armata Rossa nell’agosto del 1922.

in prima pagina, segue nell'interno
Corriere 24.3.15
Io, araba e atea, minacciata dai salafiti
Caro Islam, il tuo nemico è l’oppressione
di Joumana Haddad

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Joumana Haddad su Radio 27, in collegamento telefonico da Beirut. In studio Viviana Mazza
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