giovedì 26 marzo 2015

il Fatto 26.3.15
Landini: noi l’opposizione che preoccupa Renzi
Sabato la Fiom in piazza con operai, Emergency, Libera e qualche Pd
Camusso ci sarà
Ad aprile “La carta d’identità” della Coalizione sociale
di Salvatore Cannavò


La piazza di Landini vuole parlare il linguaggio della democrazia. “È il filo conduttore in questa fase” dice il segretario Fiom al Fatto, parlando della manifestazione di sabato 28 marzo a Roma: “Nessuno partecipa, nessuno decide più, noi proviamo a farlo”.
La democrazia, nell’intenzione di Landini, “riguarda le riforme del governo, mai votate da nessuno” ma riguarda anche, “la possibilità che le persone partecipino davvero in prima persona” e qui si parla dei Coalizione sociale. “La democrazia serve anche per la riforma in Cgil” aggiunge Landini delineando tre questioni diverse ma collegate.
La Fiom punta molto sulla giornata con la prenotazione di 300 pullman. Si tratta, del resto, del primo appuntamento di opposizione a Matteo Renzi dopo l’approvazione del Jobs Act. Cosa non facile, visto il clima che regna nel paese. “Renzi sarà tentato ad accelerare i suoi progetti di riforma in vista delle Regionali” spiega ancora Landini, e quindi ci sarà da impegnarsi.
AD APRIRE la manifestazione saranno i lavoratori di Fincantieri protagonisti di una vertenza che si era presentata con la richiesta agli operai di mezz’ora di lavoro gratis e proseguita con i microchip dentro gli scarponi dei lavoratori.
La giornata, però, sarà anche l’occasione per saggiare sul campo i soggetti della Coalizione sociale. Alcuni dei volti della coalizione si vedranno già negli interventi in piazza del Popolo. Ci sarà, ad esempio, Giuseppe De Marzo a nome della campagna di Libera sul “Reddito per la dignità”, una delle proposte in campo che mira a portare un milione di firme in Parlamento per una legge sul reddito minimo. Ci sarà, in collegamento telefonico dalla Sierra Leone, Gino Strada, e ci sarà Stefano Rodotà, una delle “menti” dell’ipotesi di Coalizione sociale.
Ci sono poi studenti della Rete della conoscenza, gli insegnanti della scuola pubblica, un’esponente del movimento per la casa romano, operai e delegati. Una prova di alleanza, da parte della Fiom, perché poi la due giorni che dovrà sancire la nascita della Coalizione si terrà ad aprile, probabilmente nei pressi di Roma. Lì si svolgerà un incontro che Landini immagina diverso dai soliti “tavoli” alla Leopolda: “Penso che stavolta tutti devono discutere tutto, fisseremo alcuni temi e li proporremo a tutti”. Il punto più delicato, però, sarà la “carta d’identità” della Coalizione stessa, “il chi siamo e cosa vogliamo fare” aggiunge il segretario Fiom. Dalla due giorni si deciderà, probabilmente, la formazione di coalizioni territoriali e l’indizione di un ulteriore approfondimento a maggio.
Il terzo banco di prova è dato dal confronto interno alla Cgil, dove sta per iniziare una nuova disfida. Susanna Camusso ha fatto sapere che sarà in piazza sabato. Ma sembra che non parlerà dal palco. I timori di fischi della base sembrano tornare d’attualità.
Convocando la manifestazione, Landini è uscito per primo dallo spaesamento provocato dall’approvazione del Jobs Act e l’unico, finora, a proporre un’iniziativa politica nel senso ampio del termine. Quella sconfitta costituisce un punto chiave nel dibattito sotterraneo della Confederazione che deve discutere del proprio futuro e di come uscire dall’angolo. Non a caso, nel bocciare la Coalizione sociale della Fiom, la segreteria Cgil ha rilanciato l’alleanza con Cisl e Uil.
LA PROSSIMA settimana saranno licenziati i documenti per la prossima Conferenza d’organizzazione che potrebbe trasformarsi in una sorta di congresso non dichiarato. Anche perché, tra i temi in discussione, c’è la riforma delle modalità di elezione del segretario generale. Camusso terminerà il suo mandato tra tre anni e i vari posizionamenti interni sono già cominciati. Non dichiarati ma solo accennati. Così come è tornato d’attualità il problema del rapporto con il Pd, e con la sua sinistra, a cui guardano dirigenti di rilievo, membri della segreteria nazionale e segretari di importanti categorie. La sinistra Pd, dal canto suo, si farà vedere anche sabato: Rosy Bindi l’ha già annunciato e Pippo Civati dice al Fatto che “quest’anno c’è una ragione in più per partecipare”. Anche Cuperlo “spera di riuscire” a tornare in tempo da Trieste. In ogni caso, dovranno saranno lì ad ascoltare l’intervento del segretario Fiom che ormai è anche qualcosa in più.

Il Sole 26.3.15
Le contraddizioni della piazza di Landini tra Atene e il caso Pirelli
di Lina Palmerini


Gli slogan con cui Landini prepara la piazza di sabato sembrano del tutto fuori tempo. Parlano delle politiche di “destra” del Governo, mettono all’indice la vicinanza con Confindustria, continuano, insomma, a riflettere su confini nazionali che nazionali non sono più. Sembra di riascoltare Sergio Cofferati al Circo Massimo ma, nel 2002, un senso c’era. Oggi, tra il caso Grecia-Europa e il caso Pirelli-Cina, sentir parlare come si parlava 13 anni fa è disorientante.
È come se si volesse ignorare la lezione di Atene, come se non si volesse vedere la fatica di Tsipras, eroe dell’anti-austerity, alle prese con la dura legge di chi ha debiti. Ce li ha la Grecia e pure l’Italia. Cofferati poteva fare opposizione al Governo Berlusconi sull’articolo 18 senza entrare nelle contraddizione della sinistra sociale di oggi che per essere conseguente e concludente dovrebbe dire due no: uno al Jobs Act e l’altro alla permanenza nell’area euro perché quella riforma del lavoro nasce tra Bruxelles e Francoforte, non a Roma. Quelle politiche di destra che la piazza di Landini metterà all’indice saranno forse le stesse che dovrà accettare Tsipras impegnato in una dura trattativa dopo il “no” all’uscita dalla moneta unica. La Grecia ha bisogno di 7,2 miliardi entro l’8 aprile, chiede i soldi all’Europa e le condizioni di Bruxelles sono un dettagliato piano di riforme tra cui dovrebbe esserci anche quella delle pensioni.
Dunque, la sfida che ha davanti la sinistra, sociale o politica che sia, è di scegliere se restare nell’euro e seguirne le regole - come deve fare perfino il leader di Syriza - oppure proporre l’uscita dalla moneta unica. Cioè la stessa soluzione di Matteo Salvini e Marine Le Pen, peraltro battuta dall’europeista Sarkozy alle elezioni amministrative di domenica scorsa. E forse anche per questo che la piazza di sabato sarà più vuota del solito di esponenti di sinistra del Pd. Il quiz del “chi andrà” tra le bandiere Cgil è sempre stato un grande classico giornalistico, una conta tra chi nel partito era più o meno vicino al sindacato, ma questa volta le assenze sono illustri a cominciare da Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani, i due ultimi leader del Pd, entrambi della minoranza del partito. Ed Epifani è stato anche leader della Cgil ma sabato non sarà tra Landini e Camusso. Insomma, molti si tengono lontani da quel corteo per mantenere uno spazio politico autonomo a sinistra ma anche perché vedono quali contraddizioni si trascina una manifestazione che ragiona entro confini che non ci sono più. Non ci sono più politicamente ed economicamente. Il caso dell’acquisizione della Pirelli da parte del colosso cinese non è il primo né sarà l’ultimo di una serie di cambiamenti strutturali del tessuto industriale nazionale che hanno sguarnito il Paese di grandi aziende tutte italiane. E allora ha senso ancora organizzare una piazza che se la prende con Renzi e Confindustria quando le decisioni si muovono lungo un asse che può andare da Bruxelles a Pechino? Siamo sicuri che si tutelano così i lavoratori che hanno o avranno una proprietà cinese, americana, francese o indiana? Rifugiarsi entro i confini nazionali, rivendicare una sovranità sociale e politica, protestare contro chi ha portato il Paese alla realtà di oggi non è più così credibile. Davanti agli occhi di tutti c’è Tsipras che l’altroieri ha visto la Merkel a Berlino e la prossima settimana è atteso a Bruxelles per presentare la lista dettagliata delle riforme. Se non ce la fa lui ce la può fare Landini?

il manifesto 26.3.15
Coalizione sociale, con un altro sindacato
Democrazia. Per evitare il fallimento, non basterà affiancarsi come una sorta di "terzo settore" alla sfera politica e a quella delle rappresentanze lasciandone intatti poteri e dispositivi di perpetuazione
di Marco Bascetta

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La Stampa 26.3.15
“Illegittimo lo sciopero degli Uffizi a Pasqua”
Il Garante contro lo stop. La Cgil insorge: “Atto arrogante, non resteremo inerti”

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La Stampa 26.3.15
“In Italia la corruzione percepita è al 90%”. Il dato più elevato di tutta l’area Ocse
Il nostro Paese è in cima alla lista, seguito da Portogallo e Grecia. Il valore più basso in Svezia
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il Fatto 26.3.15
La Procura di Firenze: I conti Ior di monsignor Gioia
L’inchiesta Incalza bussa in Vaticano
Trovato un conto corrente “consistente”
di Antonio Massari e Davide Vecchi


Gli investigatori stanno analizzando la movimentazione bancaria di un conto corrente acceso allo Ior. È quello di monsignor Francesco Gioia, ex arcivescovo di Camerino, presidente della Peregrinatio ad Petri Sedem, l’istituzione che organizza l’accoglienza dei pellegrini nel Vaticano. Il monsignore è anche l’alto prelato in stretto contatto con la “cricca” delle Grandi opere, in particolare con il super direttore dei lavori Stefano Perotti e l’ex capo della Struttura di missione, Ercole Incalza. Quando i carabinieri del Ros, undici giorni fa, si sono presentati in casa sua per perquisirlo, il monsignore ha quasi avuto un malore e ha chiamato il suo avvocato di fiducia, Claudio Coggiatti, che da buon amico s’è precipitato ad assisterlo, nonostante il prelato non sia indagato.
Alla ricerca del legame tra il religioso e gli indagati
Gli investigatori cercavano agende, rubriche, documentazione informatica che riguardasse il legami del monsignore con gli indagati. Un legame provato da decine e decine di telefonate, ancora tutte da interpretare, che dimostrano però un fatto: monsignor Gioia – oltre che Perotti e Incalza premurava di incontrare anche importanti imprenditori, come Luca Navarra, della Società italiana costruzioni, che in quei giorni si aggiudicava l’appalto per la costruzione del Padiglione Italia all’Expo di Milano. “Sono state acquisite conversazioni – scrive il Ros nelle sue informative – che ineriscono l’interessamento di Gioia, presso il Perotti, in favore dei fratelli Navarra, cui fa capo la società Italiana Costruzioni”.
Il 19 ottobre 2013 l’arcivescovo chiede a Perotti di presentargli i fratelli Navarra e dice: “Dobbiamo dargli una mano... per introdurli... presso il responsabile... lo facciamo non per telefono”. Di quale responsabile si tratta? È uno degli interrogativi che si sta ponendo la procura di Firenze. Ed è una delle piste d’indagine che portano al Vaticano. Navarra non è l’unico imprenditore che l’alto prelato incontra negli ultimi due anni. Il Ros scrive ancora: “La mattina del 19 ottobre 2013 il monsignor Gioia risulta aver ricevuto una donazione di 2mila euro, da parte di Matterino Dogliani, a fronte di qualche aiuto che il primo gli avrebbe dato”. Fa riferimento a delle “monete”: “Poi mi aveva dato... quando fece le monete qui in Vaticano... mi aveva dato 2mila euro... non per me! Insomma... lui voleva anche per me... ma non l’avrei accettata... ”. Dogliani è un imprenditore che si occupa sia dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sia della Pedemontana Veneta, dove Perotti è come al solito il direttore dei lavori. Il punto è che nelle intercettazioni il linguaggio del monsignore non è per nulla chiaro, anzi a volte appare omissivo: “Sono andato con... con quel mio amico... stamattina a prendere monete in Vaticano”, dice il prelato a Perotti, che gli risponde: “Ah, sì, l’ho visto poi a pranzo... ”. “Ecco sì”, replica monsignor Gioia, “non facciamo i nomi... ”. e aggiunge: “Poi gli ho detto che l’altro amico, dell’altra sera, gli ha detto di nominare una persona come direttore... ”.
Dalle intercettazioni emerge poi che l’arcivescovo, dal binomio Perotti–Incalza, ha ottenuto un favore: l’assunzione di suo nipote alle Ferrovie Sud Est. Un primo nipote, invece, era già stato assunto da Perotti come autista sei anni fa. A spiegarlo al Fatto Quotidiano è proprio il suo avvocato: “L’assunzione dei due nipoti non può essere smentita, il primo in una ditta della famiglia Perotti, il secondo nelle Ferrovie sud est”. In cambio il prelato cosa ha offerto? “Nulla, non si trattava di un do ut des”.
“Oggi ha firmato il contratto... io ti devo ringraziare”
Il punto è che, a smentire il favore dell’assunzione, è proprio Incalza, quando il gip di Firenze Angelo Antonio Pezzuti gli contesta la seguente intercettazione: “Ercole, mio nipote oggi ha firmato il contratto... io ti ringrazio”. “Incalza – scrive il gip, che ritiene le sue dichiarazioni evasive e incongrue – ha risposto che monsignor Gioia lo ringraziava per aver agevolato la ristrutturazione di un edificio religioso”.
“Escludo in modo categorico che Incalza gli abbia fatto altri favori”, commenta l’avvocato del monsignore. “Non esiste alcun altro motivo di ringraziamento, da parte sua, se non l’assunzione del nipote. Né mi risulta alcuna ristrutturazione di edifici religiosi”. Due versioni opposte. Che lasciano in piedi una domanda: perché Incalza non ammette di aver aiutato il monsignore ad assumere il nipote, che è il più leggero degli appunti a lui rivolti, prendendo in questo modo la massima distanza dal prelato? Intanto, nelle mani degli investigatori, c’è la “stampata” dei movimenti bancari dell’arcivescovo nei quali, ci spiega il suo avvocato, sono stati raccolti i risparmi di una vita. E non solo. “Allo Ior il monsignore accredita il suo stipendio di vescovo, che viene regolarmente lasciato là, perché ha un sogno: non utilizzarlo, per realizzare una missione. Poi ci sono le somme accreditate alla morte dei suoi genitori”. Un conto consistente, par di capire, se sommiamo eredità e stipendi mai utilizzati: “La consistenza è un criterio molto relativo”, ribatte l’avvocato.
Una tonaca molto frequentata dal giro di chi voleva un appalto
Esistono transazioni con Perotti, Incalza o altri indagati? “Assolutamente no”. D’altronde, la relazione tra monsignor Gioia e la famiglia Perotti, spiega sempre il suo avvocato, è davvero antica: “Conosce la famiglia Perotti da più di 35 anni, dal 1974, quando Stefano arrivò a Roma per studiare e lui divenne il suo precettore. Incalza, se non sbaglio, l’ha conosciuto invece circa otto anni fa, quando officiò il funerale della moglie. Poi i rapporti sono continuati”. Fino all’assunzione del nipote. E agli incontri con diversi imprenditori. Di certo, la figura del monsignore, era parecchio gradita e frequentata, nel giro di chi ambiva a ottenere appalti nelle grandi opere. Un uomo che poteva entrare e uscire dal Vaticano senza problemi, aveva conti allo Ior e che – lo ribadiamo – non risulta indagato. Ma sul quale gli inquirenti stanno cercando di fare chiarezza. A partire da quei movimenti bancari sequestrati, undici giorni fa, nella sua abitazione.

La Stampa 26.3.15
Italicum, lunedì resa dei conti nel Pd
In Direzione si voterà, Renzi prova a mettere la minoranza con le spalle al muro
I suoi non escludono il ricorso alla fiducia. D’Attorre: vogliamo un’intesa generale
di Carlo Bertini


La resa dei conti si consumerà lunedì in Direzione, con un voto da cui potrebbero dipendere i destini della legislatura. Se il premier e la minoranza Pd non troveranno un’intesa sulla legge elettorale la situazione potrebbe precipitare. Lo scontro tra Matteo Renzi e i bersanian-dalemiani si consuma nell’arco di un pomeriggio, esplode quando il pasdaran Alfredo D’Attorre chiede la convocazione di un tavolo di confronto per siglare «un’intesa quadro» nel merito su riforme costituzionali e legge elettorale. Iniziativa formale, che non coinvolge l’ala più dialogante, quella che fa capo a Roberto Speranza, che alla stessa ora ha riunito i suoi per fare il punto, un summit senza i toni da ultimatum che non garbano affatto ai giovani di Area Riformista, che però nel merito chiedono le stesse cose.
La sfida e l’arma finale
Il premier allora lancia la sfida, convoca per lunedì la Direzione, mettendo all’ordine del giorno riforme e Italicum. Un vertice del parlamentino Dem che finirà con una «conta» a maggioranza e quella che uscirà sarà la linea che poi il partito dovrà adottare in Parlamento. Insomma un annuncio che suona come un colpo che mette con le spalle al muro i dissidenti. Che chiedono in sostanza una modifica sul tema delle preferenze, diminuendo il peso delle liste bloccate, finora negata dal premier anche in virtù di un’altra serie di modifiche concordate nel percorso parlamentare di questi mesi.
E il secondo colpo non è minore del primo: Renzi decide di rompere gli indugi e fa sapere, tramite il vicecapogruppo Ettore Rosato che oggi il Pd chiederà un’accelerazione del voto alla Camera, che fino a ieri si pensava sarebbe stato rinviato a dopo le regionali per non acuire le tensioni interne proprio durante la campagna elettorale. «Non ci sono ragioni per non esaminarla subito», ha spiegato Rosato. Proprio mentre i renziani della segreteria non escludevano neppure l’arma finale, il ricorso ad un voto di fiducia sulla legge elettorale. «La materia istituzionale non si risolve con un voto in Direzione, su questi temi è sempre stato riconosciuto un margine di autonomia ai gruppi parlamentari», è la reazione di D’Attorre dopo un breve consulto con Pippo Civati e Gianni Cuperlo.
La carta ministero
La questione è di prima grandezza, perfino i più realisti cominciano a dubitare che possa risolversi senza traumi. «Vediamo quanti sono davvero pronti allo strappo in aula, però potrebbero essere più del previsto», ragionava preoccupato ieri alla Camera uno dei dirigenti del gruppo Pd. «Tocca a Renzi tenere il partito unito, bisogna fare delle modifiche, ma noi diciamo che il premier può star tranquillo - non sereno - che quelle modifiche concordate si approvano al Senato senza cambiamenti», spiega Nico Stumpo, uomo forte della corrente Area Riformista. Che ieri si è trovata pure a a fare i conti con le voci di una possibile offerta al capogruppo Speranza del ruolo di ministro delle Infrastrutture. Un’ipotesi anticipata da Repubblica che preoccupa non poco l’interessato e i suoi «compagni» di cordata che sospettano una volontà di blandire la minoranza per assicurarsi i voti in aula all’Italicum. Bersani taglia corto. «Non è un argomento all’ordine del giorno, in quel ministero deve andare il più bravo». [CAR. BER.]

Corriere 26.3.15
Renzi va alla conta con la sinistra pd: Italicum subito, è come gli 80 euro
In Aula prima delle Regionali. I renziani: chi rema contro si fa fuori, anche dall’esecutivo
di Marco Galluzzo


ROMA Oggi il Pd chiederà la calendarizzazione della legge elettorale alla Camera prima delle Regionali, dunque fra qualche settimana. È questa la risposta di Renzi alla minoranza del suo partito, che ancora ieri preannunciava una lettera per chiedere cambiamenti, cabine di regia fra Camera e Senato sulle riforme: il premier sembra aver sciolto i dubbi e deciso di accelerare; niente modifiche in vista al testo finora approvato, almeno non quelle che la minoranza chiede a gran voce, provvedimento vigente già prima delle prossime Amministrative.
La risposta di Renzi è corredata dalla convocazione della direzione del Pd per lunedì prossimo: si discuterà appunto di legge elettorale e di riforme. Per una sorta di verifica e di resa dei conti: «Per me la legge elettorale ha lo stesso valore degli 80 euro e ho intenzione di mantenere le promesse».
La minoranza fa dell’ironia, visti i rapporti di forza in direzione, e si aspetta «un richiamo disciplinare». Richiamo che i renziani a Montecitorio, a mo’ di avvertimento, lanciano già in queste ore a tutte le componenti del partito; il concetto che circola, più o meno, veicolato ovviamente dallo stesso premier, è questo: «Chi rema contro si fa fuori da solo, anche dal governo». E a questo proposito tornano anche le voci di un rimpasto dopo le Regionali.
Già lunedì invece Renzi, potrebbe in qualche modo compensare l’accelerazione con una discussione sulla composizione delle liste: quanti saranno i posti che verranno concessi agli argomenti che in queste settimane sono stati portati avanti da Gianni Cuperlo Pippo Civati? Uno schema su cui si ragione è quello del 70% dei posti indicati dai renziani, ma ovviamente la discussione è aperta.
Accelerazione in vista anche sulla Rai: sembra confermato il Consiglio dei ministri, domani, che dovrebbe avere in agenda proprio la riforma della tv pubblica, più volte annunciata, con l’introduzione di un amministratore delegato di nomina governativa, con poteri più ampi di quelli che oggi sono appannaggio del direttore generale. Sempre in Consiglio potrebbe essere varato un altro decreto della presidenza del Consiglio sull’Ilva, primo passo per la costituzione di un fondo che dovrebbe rilevare quote della società siderurgica. Non è previsto invece che venga discusso alcun pezzo della delega fiscale: si pensava che potessero arrivare dei decreti considerati in qualche modo minori, come quello sul catasto o sulla fatturazione elettronica, sembra che slittino ancora.
Passerà invece ancora qualche giorno per verificare il testo della la riforma della scuola. Approvata 15 giorni fa, presentata da Renzi subito dopo, la riforma è stata inviata al Quirinale, che ne deve autorizzare la presentazione alle Camere, solo l’altro ieri sera. È possibile che l’istruttoria degli uffici del Colle almeno sino a domani, non è detto dunque che questa settimana il testo arrivi alla settima commissione di Montecitorio, dove il disegno di legge dovrebbe iniziare il suo iter.
Ieri Matteo Renzi ha ricevuto a Palazzo Chigi il segretario del partito socialista portoghese, Antonio Costa, che è anche sindaco di Lisbona. Ha anche deciso che domenica prossima sarà presente a Tunisi, alla marcia della pace cui parteciperanno anche altri leader e capi di Stato e di governo europei, fra cui Hollande. La marcia, sul modello di quella che seguì all’attentato contro di Parigi contro i giornalisti di Charlie Hebdo , è stata organizzata dal governo tunisino in omaggio alle vittime dell’attentato terroristico contro i turisti del museo Bardo.
Continuano ad attendere il premier, ma finora senza esisto, al ministero delle Infrastrutture. Né ieri né l’altroieri, quando sembrava che dovesse fare un passaggio (aveva preavvertito gli uffici), Renzi ha ancora messo piede nel ministero di cui ha preso l’interim per un periodo non brevissimo, almeno un paio di settimane. La sensazione è che Renzi sia ancora alla ricerca di un nome di peso e un pensierino sembra sia andato anche verso Mauro Moretti, ex Fs, oggi ad di Fin-meccanica.

La Stampa 26.3.15
Il premier prova a sparigliare accelerando
di Marcello Sorgi


Ha colto tutti di sorpresa l’improvvisa accelerata di Renzi sulla riforma elettorale. Convocando per lunedì la direzione, nella quale ha agevolmente i numeri per ribadire la sua decisione di far sì che il prossimo alla Camera sia il passaggio definitivo della nuova legge elettorale, Renzi non solo prova a stanare una volta e per tutte la minoranza interna del Pd, che al contrario punta a modificare l’Italicum in modo da poterlo rispedire al Senato, dove a questo punto non ci sarebbe più una maggioranza in grado di approvarlo. Ma anche a far capire che sulla legge elettorale si gioca il destino della legislatura.
Dibattito e voto sull’Italicum alla Camera arriverebbero a Montecitorio a questo punto prima delle elezioni regionali, non ancora fissate ma in fase di slittamento verso il 7 giugno dal 31 maggio, data in cui si troverebbero a coincidere con un ponte di quattro giorni a rischio astensione. La conclusione della campagna elettorale avrebbe sullo sfondo la madre di tutte le battaglie.
Circolano spiegazioni opposte dei motivi che avrebbero spinto Renzi alla svolta. Secondo alcuni esponenti della minoranza pesano i dubbi del premier sul risultato elettorale: in Veneto, malgrado le divisioni del centrodestra, Zaia parte favorito; la Liguria è a rischio per l’entrata in campo di un secondo candidato di centrosinistra; la Campania è incerta per il pasticciato esito delle primarie vinte dal candidato condannato De Luca. Un quattro a tre nei confronti del centrodestra non sarebbe un gran successo, dicono le voci di dentro bersaniane, mentre i renziani sostengono il contrario: dopo la prova di difficoltà fornita la settimana scorsa dall’assemblea delle diverse componenti dell’opposizione interna, sarebbero proprio i leader della minoranza a temere uno sfarinamento sull’Italicum.
Sia come sia, lo scontro sulla legge elettorale si annuncia comunque insidioso: sugli inevitabili scrutini a voto segreto sui singoli articoli ed emendamenti, pende il rischio di una saldatura tra i franchi tiratori della maggioranza e dell’opposizione irrobustita da Forza Italia. Inoltre occorrerà vedere come si schiereranno, sul punto dell’anticipo del calendario parlamentare la presidente della Camera Boldrini, che ha espresso la sua contrarietà alla condotta decisionista del governo; e sull’ipotesi, non esclusa, che Renzi possa mettere la fiducia sull’Italicum, il presidente della Repubblica Mattarella, al suo debutto su questo campo, dopo che Napolitano, a fine mandato, sulla resistenza della minoranza Pd aveva fatto intendere di non essere d’accordo.

Repubblica 27.3.15
Il premier blinda la legge elettorale
“Sono divisi, il momento è ora voglio chiudere i primi di maggio”
di Francesco Bei e Giovanna Casadio


ROMA «All’inizio di maggio dobbiamo chiudere. Questa è la partita decisiva, inutile aspettare, abbiamo discusso fin troppo». La svolta di Renzi sull’Italicum matura nel weekend, dopo l’assemblea delle sinistre dem all’Acquario Romano. Un’accelerazione imposta dal terreno di scontro - proprio la nuova legge elettorale - scelto da Bersani e Cuperlo per tentare l’ultimo “affondo” contro il governo. «Sono divisi, il momento è ora», ha spiegato il premier ai suoi.
Bruciare i tempi, arrivare all’obiettivo prima delle regionali. Per non giocare una campagna elettorale tutta in difesa: questa è la strategia elaborata a Palazzo Chigi. Non è un caso che già lunedì scorso, a sorpresa, alla Luiss School of government, Renzi abbia dedicato gran parte del suo intervento a magnificare i benefici di una legge elettorale «che, scommetto, ci copieranno in tutta Europa». Un inno alla «democrazia decidente» contro la «vetocrazia » che ha trasformato il paese in una palude. Il punto fermo per Renzi è che il compromesso raggiunto è il massimo possibile e dunque «la legge a Montecitorio sarà blindata», anche per evitare un altro pericolosissimo passaggio al Senato. La convocazione della direzione del Pd lunedì prossimo, che ha spiazzato le minoranze, servirà proprio a questo e si concluderà con un voto. Un modo per mettere le minoranze con le spalle al muro. Il premiersegretario gioca d’anticipo: «È il momento della decisione, non possiamo più buttare la palla in tribuna. L’Italicum è già stato cambiato moltissimo ».
A favore dell’accelerazione gioca anche il calendario delle prossime settimane alla Camera. «Non ci sono decreti in scadenza - sottolinea il vice capogruppo dem a Montecitorio, Ettore Rosato - la situazione è meno calda e quindi si apre una finestra favorevole. Staremo qui tutti i giorni a parlare di scuola, concorrenza e divorzio breve, c’è lo spazio per approvare subito e definitivamente l’Italicum ». Certo non mancano le incognite, legate soprattutto a probabili imboscate nei voti segreti. Ma Renzi osserva con attenzione anche la deflagraziovo. ne in corso in Forza Italia, dove ormai convivono sotto lo stesso tetto tre partiti diversi: berlusconiani, fittiani e verdiniani. E proprio su questi ultimi - almeno una ventina e tutti legati al patto del Nazareno - il capo del Pd punta come truppe di rinforzo per surrogare i dissidenti della sinistra dem. Per condurre in porto questa operazione delicatissima il premier deve però poter contare su un capogruppo di assoluta affidabilità. Finora Roberto Speranza, benché leader di “Area riformista”, principale corrente d’opposizione, si è mostrato collaboratila Ma una parte dei renziani non si fida e spinge il premier a promuoverlo al governo così da sostituirlo con un fedelissimo. La minoranza non ne vuole sentir parlare e se la prende con il fronte soprannominato ironicamente “avanti Bo.Bo.Lo” (Boschi, Bonifazi, Lotti) che spingerebbe Renzi sulla linea dura. C’è tuttavia una parte della stessa maggioranza del Pd che vorrebbe tenere Speranza al suo posto: con un leader ingessato nel ruolo istituzionale di capogruppo, per i bersaniani sarebbe infatti più difficile organizzare imboscate parlamentari contro l’Italicum. Le minoranze d’altra parte sono del tutto divise tra chi vuole il “coordinamento” delle sinistre dem o un “conclave” per porre un aut aut e convincere Renzi ad aprire a modifiche sulle riforme e chi mostra massima cautela. Nico Stumpo, portavoce di “Area riformista”, che si è riunita ieri, dà l’altolà a qualsiasi ipotesi di coordinamento: «Non ne abbiamo bisogno, dobbiamo discutere di modifiche nel merito e ciascuno presenti le sue».
Intrecciata a quella delle riforme si gioca la partita del rimpasto. Resta in piedi l’ipotesi di un coinvolgimento al governo di un esponente “dialogante” della sinistra interna. Roberto Speranza ma anche Anna Finocchiaro, presidente della commissione affari costituzionali a Palazzo Madama. E se fosse proprio lei il sostituto di Lupi? Il sospetto è venuto a molti di quelli che ieri l’hanno ascoltata in aula elencare “l’abecedario” delle norme anti corruzione sugli appalti pubblici.

il Fatto 26.3.15
La minoranza
I sinistrati del Pd demoliti dai tweet
di Daniela Ranieri


Come in tutti i periodi di crisi, la politica attuale funziona secondo la logica amico-nemico: se Salvini trae vantaggio dal far credere che la scelta sia tra lui e i terroristi dell’Isis, a Renzi fa gioco quella sacca di rancorosa resistenza conosciuta col nome ormai quasi derisorio di minoranza Pd, che un giorno sì e uno no gli dà contro pubblicamente, privatamente, collettivamente e alla spicciolata. Cospiratori un po’ buffoneschi, confusionari come macchiette shakespeariane, i minoritari Pd nei giorni pari vanno ligi a votare le riforme imposte da Renzi, e nei dispari si riuniscono in pallosissime direzioni o in anfratti di Roma abbastanza chic, per esprimere dure critiche alle stesse sotto l’egida di un qualche slogan fiacco o ambiguamente polemico. Come quello di sabato scorso all’Acquario romano, “A sinistra nel Pd”, dove la polemica è ovviamente in quel “nel”, che significa: “Dentro il Pd c’è una destra, Renzi, e una sinistra, noi. E non sloggiamo. Se dipende da noi”.
Il capo dei vietcong è Massimo D’Alema, che da quando c’è Renzi non riesce nemmeno più a essere antipatico. “Vecchia gloria del wrestling”, l’ha chiamato Matteo, a cui la linguaccia certo non manca, e la metafora è pure azzeccata: come il pugile Artemio Altidori interpretato da Vittorio Gassman ne I mostri, D’Alema decide di affrontare il campione in carica, e ogni volta, accecato dal narcisismo, ne esce suonato, mentre quello, il campione, ascende vieppiù alla gloria.
Lo psicodramma delle riunioni della minoranza è sempre lo stesso: dopo le avanguardie sacrificabili, i Civati, i Fassina, sul ring sale lui, l’ex campione peso Massimo D’Alema. Che mena fendenti a vuoto e prende botte non solo dall’assente, già pronto col dito sull’iPhone a twittare malignità post assemblea sediziosa; ma pure dai suoi, specialisti nel fare distinguo, criticare la critica, rinfacciargli la responsabilità dello sfacelo. Quante ne ha prese l’altro giorno D’Alema, ma quante gliene ha dette! “Arrogante”, ha detto al nuovo capo d’Italia, sturando il facile sarcasmo dei renziani twitterini che hanno tirato fuori la storia del bue, delle corna e dell’asino.
IL FATTO è che i minoritari non si sa cosa vogliano: a gran voce denunciano la “componente personale” del Pd, il calo degli iscritti, la deriva del partito a “grande macchina del potere e del trasformismo” con un “forte carico di arroganza”. Ma queste, a ben vedere, sono proprio le qualità che hanno fatto del Pd di Renzi un amalgama ben riuscito. E sono i motivi per cui i “sinistri nel Pd” hanno votato la riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, minacciando un po’ pateticamente il no sull’Italicum. Non si rendono conto che ciò che rimproverano a Renzi è ciò loro hanno sempre rovinosamente cercato di fare.
Allearsi con B. per eroderne il consenso senza perdere i propri elettori; costruire una leadership efficace e una narrazione accattivante per non “cedere culturalmente” una volta ottenuto il potere, come ha rinfacciato Cuperlo a D’Alema; trovarsi ogni giorno dei nemici nei sindacati o nei ferrivecchi della repubblica per dare l’immagine di una compagine unita e riformista con ambizioni da Partito della Nazione. Da loro trasuda la frustrazione di aver perso il partito e pure di non potersene andare, come quando ci si mette in casa un parente sgradito che mangia a sbafo, ma non ci dicono perché bisognerebbe togliere il Pd al giovane bullo per ridarlo a loro, affermati e sconclusionati casinisti.
ALLORA si scindano. E no. Perché per fare una scissione ci vuole unione, e tra loro c’è chi la scissione la provoca ma non la attua (Civati), chi la esclude ma la minaccia (Bersani), chi la evoca la ma ritira (Fassina), chi la nega ma la teme (Speranza), chi la critica ma la accarezza (Cuperlo). Il risultato di tanta nevrotica attività è la stasi, l’approdo di tanto vociare è il gelido sarcasmo dei tweet con cui il segretario del Pd e capo del governo, e pure ministro ad interim agli Affari regionali e delle Infrastrutture, silenzia i ribelli. Che ogni volta che aprono bocca, per la infallibile logica amico-nemico sempre operante, lo rafforzano nella sua narrazione manichea di nuovo contro vecchio, riforme contro conservazione, velocità contro apatia, risolutezza contro attendismo. Così come quando pensiamo a Salvini e, per sfarfallio catodico, ci appare la foto di al-Baghdadi, dietro l’immagine sfrontata di Renzi fanno capolino le facce della minoranza, illividite dalla sconfitta, irrilevanti nell’opposizione, compromesse con una storia nazionale fatta di servigi a B., collusioni con corrotti e, soprattutto, omissione di soccorso a un popolo che si fregiavano di rappresentare. Per questo servono a Renzi che, come un principe rinascimentale, li tollera graziosamente: “Non cacciamo nessuno”, ha detto, e negando l’evento ne ha affermato la possibilità, a dire che invece, volendo, potrebbe.

Corriere 26.3.15
Indagini, gaffe ed errori
Barracciu e l’incubo di finire sempre sotto scacco
di Fabrizio Roncone


L’idea non è pazzesca, però ci sta tutta: telefonare a Francesca Barracciu, sottosegretaria alla Cultura, e chiederle se è pentita, e quanto, di quella volgare lite con Alessandro Gassmann su Twitter.
Segue un’ora di tentativi inutili.
( Il suo cellulare prima è spento. Poi acceso, ma squilla a vuoto. Poi è di nuovo spento ).
Va bene, riaccenderà.
C’è tempo per studiare meglio il personaggio: e vedrete che è molto di più d’una sottosegretaria indagata per peculato alla quale il figlio del grande Vittorio chiedeva di dimettersi.
Allora: Francesca Barracciu nasce 48 anni fa a Sorgono, duemila anime in Barbagia, Sardegna. Laurea in Filosofia, postlaurea in Psicologia del disagio giovanile, insegnante e poi consulente in risorse umane. Fa in tempo a votare per il Pci e ad innamorarsi della politica: così prende la tessera e, senza indugi, segue la trafila. Pds, Ds, Pd.
Il primo incidente è del 2008: vince il congresso e diventa segretario regionale, ma l’anno dopo si ritrova commissariata da Walter Veltroni.
Il secondo incidente è del 2013: vince le primarie del centrosinistra e pensa di potersi candidare a presidente della Regione Sardegna. Pensa. Spera. Perché, intanto, le è arrivato un avviso di garanzia: è dentro l’inchiesta «Spese pazze» dei gruppi regionali.
«Le chiedono di giustificare 33 mila euro di rimborsi benzina spesi in tre anni. Sarà andata sulla Luna in macchina?», s’interrogava martedì pomeriggio il grillino Alessandro Di Battista, che Il Foglio ha definito un «simpatico mitomane a cinque stelle», ma che stavolta racconta la verità.
La Barracciu provò a resistere, a dire che aveva vinto le primarie con una barca di voti (il 44%): ma poi le arrivò la telefonata di Luca Lotti.
Raccontano in giro che se ti telefona Lotti, di solito va così: lui parla e tu ascolti. Punto. Quando senti il rumore «clic!», vuol dire che la telefonata è finita. Le repliche non sono previste. Infatti, saggiamente, non replicò neppure la barbaricina Francesca. Che, il 30 dicembre del 2013, fece ufficialmente un composto passo indietro.
( Sono le 14,45, ed è il caso di verificare se la sottosegretaria ha riacceso il cellulare.
Sì: l’ha riacceso. E risponde.
Ma appena sente chi è, con una certa prontezza, usa il vecchio giochino.
«Pronto? Prontooo? Non sento... Pronto? Non sento...».
Mette giù. E rispegne ).
Torniamo al Capodanno del 2013: invece di essere triste, la Barracciu è di ottimo umore. Amici e parenti non capiscono la ragione di tanta euforia. Hai vinto le primarie, ma siccome sei indagata per una brutta storia di creste, ti hanno segato: e tu ridi? Ma cosa ridi? Poi, meno di due mesi dopo, intuiscono.
Il 28 febbraio del 2014, eccola lì sorridente, i capelli neri sciolti sulle spalle, tacco 14 per sfidare i sampietrini, cammina in piazza del Collegio Romano, la borsa Louis Vuitton al braccio. Dove va? Entra al ministero della Cultura. L’hanno appena nominata sottosegretaria.
Indagata, ma sottosegretaria. Indagata come altri tre sottosegretari del Pd (Del Basso De Caro, De Filippo, Faraone) e uno di Ncd (Castiglione). Indagata che difende un altro compagno di partito indagato, Vincenzo De Luca. «Innocente fino al terzo grado di giudizio».
E l’opportunità politica di accettare un incarico istituzionale nonostante un problema aperto con la giustizia?
È proprio quello che le ha chiesto l’altro giorno, su Twitter, Gassmann. «@Barracciu, sottosegretario, intanto che chiarisce, lascia la poltrona pagata da noi? grazie».
La risposta della Barracciu: «Chiarirò tutto a fondo. Lei intanto che impara a fare attore, può evitare far pagare biglietto cinema per i suoi “film”? Grazie». No, non ci sono errori tipografici: ha scritto proprio così, con licenza letteraria da sottosegretaria alla Cultura.
Il cui capolavoro — come conferma Wikipedia — si compie a Nuoro il 5 dicembre 2014. Interviene alle celebrazioni in onore del poeta Sebastiano Satta, a cento anni dalla sua scomparsa. E cosa fa, la Barracciu? Sale sul palco e inizia a richiamare vita e opere di Salvatore Satta, giurista e scrittore. Il giorno dopo, la sottosegretaria si giustifica: «Stanotte non ho chiuso occhio. Tutta colpa del mio staff se ho confuso i Satta».
( Ecco: lo staff. Vediamo cosa dicono al ministero.
Risponde il suo portavoce, Vassili Casula.
«No, la sottosegretaria non parla della polemica con Gassmann». E di altro? Del ministro Lupi che s’è dimesso pur non essendo indagato e di lei che, indagata, resiste? «Non parla neppure di questo» ).

La Stampa 26.3.15
Faide e anarchia avvelenano la campagna Dem nei territori
Dal Piemonte a Roma, le divisioni nel partito del 40%
di Carlo Bertini


Piemonte, Sicilia, Campania, Marche, Liguria, Roma, Lazio. A metterle insieme, le aree di crisi del Pd renziano fanno impressione, da sud a nord il partito è squassato da guerre intestine, che non danno certo la misura di una creatura in splendida salute con percentuali da vecchia Dc e oggi dotata di un leader dominus assoluto del panorama politico. Primarie contestate, candidature contestate, base in rivolta, potentati locali inestirpati. Il tutto alla vigilia delle comunali dei sindaci e soprattutto delle regionali di fine maggio: quelle che sei mesi fa si presentavano come una passeggiata, qualcuno ipotizzata un “cappotto” sette a zero. E invece oggi il quadro non è più roseo, anzi. L’ elenco delle grane che i colonnelli renziani stanno gestendo dunque fa assomigliare il Pd ad un campo di battaglia, piuttosto che al partito più votato d’Europa.
I guai della Campania
Non c’è solo il caso De Luca, che non potrà fare il presidente della Regione se la Consulta dopo i ricorsi sancirà la validità della legge Severino, ma una serie di polemiche locali sulle liste, anche per i “figli di”, in una realtà dove capita che i capi corrente locali siano figli di ex consiglieri regionali. La rottura con i vendoliani è ufficiale, Sel non ci sta a votare De Luca, sta valutando un’altra candidatura e Caldoro marcia in testa ai sondaggi. Così come Zaia in Veneto, altra regione ad alto rischio, dove perfino la discesa in campo di Tosi rischia di erodere consensi moderati per il Pd della Moretti.
Roma, dai Parioli in giù
Non bastava Fabrizio Barca a liquidare i mali del partito romano dipinto a tratti come “pericoloso e dannoso”. Un partito commissariato da Matteo Orfini nei vari municipi, da Parioli alla periferia, con dirigenti del calibro di Antonio Funiciello, Gennaro Migliore e il torinese Stefano Esposito nominati commissari di quartiere, costretti a tenere Assemblee permanenti, verifiche delle tessere e repulisti come mai si era visto prima. Ora è scoppiato pure il caso della regione, con il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Maurizio Venafro, che si è dimesso per essere indagato nell’ambito dell’inchiesta “Mondo di mezzo”. Certo, come dice il governatore, «Venafro è oggetto di una fase di accertamento delle indagini rispetto ad una gara della nostra regione, ma essere indagato non vuol dire essere colpevole». Quindi massima fiducia al suo principale collaboratore. Ma la scossa si è fatta sentire, eccome.
Sicilia, un mondo a parte
Il più eclatante nell’isola dei tormenti è il caso di Mirello Crisafulli, storico dirigente ex Pci-Ds forte di un solido bacino di consensi locali, coinvolto in due procedimenti giudiziari, uno archiviato e l’altro prescritto, che vuole candidarsi alle primarie per il sindaco di Enna. Creando un problema a Renzi, che giorni fa diramò un altolà ricordando l’intervento di Pif alla Leopolda del 2014 con un passaggio contro l’esponente siciliano «che fece venir giù la platea», rammentano gli uomini del leader. E non è da meno il caso delle primarie agrigentine, paradossale ma sintomatico. Fausto Raciti il segretario regionale Pd, ha convocato un summit in settimana, per discutere se annullare le primarie vinte da Silvio Alessi, indipendente a capo di una lista civica, che non nasconde simpatie berlusconiane.
Firme contestate
Altra grana di prima grandezza in Piemonte, dove sono state contestate alcune delle firme depositate per la candidatura di Chiamparino, il quale ha annunciato di volersi dimettere nel caso venisse accertato il problema. Se ciò avvenisse, si dovrebbe rivotare come avvenne per il caso Cota, il governatore leghista.
La guerra nelle Marche
È un caso di specie, a nulla sono valsi i tentativi diplomatici: dopo vent’anni di governo rosso nelle Marche sta nascendo una sorta di “tutti contro il Pd”; grazie al presidente uscente, Gian Mario Spacca, ex Margherita, per dieci anni al potere e dal 2010 con una coalizione Pd-Udc. Che vuole fare il terzo mandato e che - tradendo il Pd - potrebbe riuscire nell’impresa di compattare Forza Italia, Lega e Ncd. Costringendo il Pd di Renzi a schiacciarsi a sinistra con un candidato appoggiato da Sel. Insomma un caos, che coinvolge anche la Liguria, dove il civatiano Pastorino con la sua coalizione di sinistra insidia la renziana Paita, che ha vinto le primarie contestate da Cofferati per brogli ai seggi. In tutto ciò Renzi non ha ancora deciso come regolarsi in campagna elettorale e valuterà se scendere in campo in realtà mirate a macchia di leopardo.

Corriere 26.3.15
Il Pd e Roma
Una città e l’etica perduta
di Ernesto Galli della Loggia


La catastrofe del Pd romano non nasce né oggi né ieri. Essenzialmente è l’esito della catastrofe di un’intera città. Se si vuol cominciare a capire basta passeggiare una mattina per una delle sue tante strade commerciali, dove si addensano negozi e bancarelle di ambulanti. E osservare in mezzo alla confusione di quel mercatino all’aperto, dei clienti davanti alle vetrine, l’incedere lento, annoiato e superbo, del vigile e della vigilessa di turno. Furgoni e automobili stazionano regolarmente in sosta vietata, in doppia fila, ma per tutto questo i due non hanno occhi, perlopiù non se ne curano. Loro entrano nei bar o nei negozi, ai cui affari certo non nuoce che si possa arrivare in macchina fino al loro uscio; parlottano amichevolmente, celiano, scambiano battute con i proprietari, escono. Talvolta con qualcosa sotto il braccio. Passano alla bancarella dell’ambulante, quasi sempre extracomunitario. Adesso sui loro volti si disegna un certo cipiglio, il gesto si carica d’autorità, nelle poche parole il tu è d’obbligo. Il vigile e la vigilessa palpano la merce, i golfini, le borse, gli stracci. Capita anche che tirino fuori qualcosa con dei moduli, che impugnino una penna. Ma prima di scrivere ci sono sempre lunghi parlottii, conciliaboli. Alla fine quasi mai il modulo viene riempito. Il giro può proseguire. Questa, vista dal basso, è Roma, la capitale d’Italia. Dove il corpo dei Vigili Urbani insieme ai funzionari degli uffici comunali che di essi più si servono (l’Urbanistica, l’Edilizia, il Commercio) sono da sempre oggetto di inchieste e di denunce d’ogni tipo.
Ma come del resto i suddetti funzionari, loro, i vigili, sono sempre lì, indomabili, zazzeruti, a volte lavativi, quasi mai sulla strada. E al pari dei taxisti, intoccabili. Ne sanno qualcosa quei loro pochi comandanti che, poveri illusi, hanno creduto di poter cambiare le cose.
Sono l’emblema di un Comune dove tutto sembra avere un prezzo (anche per riscuotere un mandato di pagamento pare che si debba lasciare una tangente). Precipitato nella voragine delle spese e dei debiti incontenibili, dell’inefficienza più spaventosa dei suoi servizi pubblici — oltre un terzo dei cui mezzi sono ogni giorno fermi per mancanza di pezzi di ricambio, con la raccolta dei rifiuti ormai in certi quartieri quasi inesistente —. Servizi pubblici che un sindaco di memorabile nullità — Gianni Alemanno — affidò solo pochi anni fa a dei veri gaglioffi, capaci di assumere in poco tempo oltre mille, dicesi oltre mille, tra parenti, amanti, mogli e amici. Un Comune, quello di Roma, nel cui Consiglio sono ormai decenni che non mette più piede quasi nessuna persona disinteressata, appartenente all’élite sociale e culturale della città, desiderosa di offrire le proprie competenze, vogliosa di impegnarsi per il bene pubblico. Niente: da decenni quasi solo vacui politicanti di serie B, faccendieri, proprietari di voti incapaci di parlare italiano, quando non loschi figuri candidati a un posticino a Regina Coeli. Del resto non è a un dipresso così dappertutto? L’Italia del federalismo e dei «territori» non è forse, con qualche eccezione, tutta più o meno nelle mani della marmaglia?
E sempre di più della malavita. Con le sue potenti risorse organizzative e finanziarie la delinquenza calabro-napoletana ha messo al proprio servizio la delinquenza romana. E dopo aver piazzato qui il grande mercato dei suoi traffici di droga, ha deciso di fare delle attività commerciali e produttive dell’Urbe lo strumento del riciclaggio dei suoi soldi. Il rapporto con l’amministrazione e la politica cittadina è stato un momento decisivo di questa infiltrazione.
La vasta pratica corruttiva da tanto tempo fisiologica negli uffici comunali, della Provincia, della Regione, ma tutto sommato fino ad allora di non grande cabotaggio, si è trovata esaltata e moltiplicata. È diventata pervasiva. E per un effetto necessario, sempre più contigua a una dimensione crudamente criminale. Ormai il cuore della ricchezza cittadina è questo. E intorno ad esso è cresciuto a Roma un ceto più o meno vasto di professionisti, di «consulenti», di personaggi introdotti in alcuni punti chiave dello Stato, di veri e propri delinquenti in guanti bianchi, ma anche di uomini-ombra più di mano, tipo Salvatore Buzzi, la cui attività sostanziale è ormai quella di intermediare il malaffare con la decisione politico-amministrativa: che si tratti di un grande appalto o una di una Ong per i migranti. Con un tenore di vita, di abitazioni, di auto, di consumi, la cui origine illegale si respira nell’aria.
Il Pd arriva a questo punto. Il Pd era l’unico partito romano che conservava almeno in parte un rapporto con la base popolare, quella del vecchio Partito comunista: e probabilmente proprio questo è ciò che l’ha perduto. Una base popolare dai tratti spesso plebei — chi ha una certa età se lo ricorda — che per forza era contigua a persone e cose non proprio in regola con la legalità (ladruncoli, piccoli spacciatori, topi d’auto): ma finché a sovrintendere ci sono stati il controllo etico-politico del partito e la decisione inappellabile dei vertici in materia di cariche e di mandati elettorali, nessun problema. Come si sa, però, a un certo punto tutto questo è svanito. È accaduto allora come se quella base popolare fosse rimasta affidata a se stessa e alle regole spesso demenziali (vedi primarie «aperte») ed estranee della nuova democrazia interna. È allora che si è aperto il varco: non avendo più un vero corpo, il partito non ha avuto più anticorpi.
Mentre il Pd si confermava nella città come il partito di fatto stabilmente dominante, con tutte le possibilità di affari connesse a un tale ruolo, una parte dei suoi uomini ha capito che esso poteva essere assai utile per riempirsi le tasche. Lo ha capito anche la delinquenza più sveglia e più attrezzata, che è stata pronta a stabilire rapporti con la sua nuova classe, a mettere a libro paga persone, a costruire filiere, a organizzare complicità e ricatti. Così, servendosi dei mezzi del clientelismo politico più ovvi, è cominciata la scalata al Pd da parte del malaffare. Lo ha detto bene in un rapporto Fabrizio Barca, dopo aver indagato quanto accaduto nei circoli dem della Capitale: il Pd è diventato «un partito cattivo, ma anche pericoloso e dannoso», i suoi iscritti sono troppo spesso «carne da cannone da tesseramento» .
Matteo Renzi è avvertito: questa è Roma, la capitale dell’Italia del cui governo egli è a capo. Questo è — qui ma non solo — il partito di cui egli è segretario. Ma a questo punto, sia chiaro, non servono le parole e neppure l’accetta. Serve il lanciafiamme .

Corriere 26.3.15
Il caso Pd a Roma
Inchieste, minacce e iscritti fantasma

Il laboratorio politico alla rovescia
di Goffredo Buccini


Buio a mezzogiorno, più scuro di una mezzanotte dell’anima. Nuvole astiose sul Consiglio regionale e sul Pd. Dentro l’aula della Pisana, Nicola Zingaretti alza l’ultima trincea per l’amico di sempre Maurizio, il saggio «compagno Venafro» dei tempi della Federazione giovanile comunista di via dei Frentani, suo eterno capo di gabinetto, sporcato dagli schizzi di Mafia Capitale: «Una persona onesta e trasparente, che stimo e ringrazio». Provato, affaticato («balbettante e sudato» secondo Ciccio Storace), il governatore del Lazio si aggrappa alla patente di uomo nuovo che i disastri recenti rischiano perlomeno di sgualcirgli.
«Pare la replica di... Polverini ultimo atto», mormora qualche collega cinico. Le dimissioni di Venafro, risucchiato in un’indagine su un appalto del Cup, il Centro di prenotazione dei servizi sanitari, sono l’ultimo grano del rosario. Prima di Zingaretti, Venafro era l’ombra di Goffredo Bettini, per decenni vero padrone del Pd romano: ha dunque saperi e peso specifico che solo gli addetti ai lavori possono apprezzare appieno. Fuori, in corridoio, il sussurro di un vecchio funzionario, che visti i tempi ricorda come un condottiero persino Badaloni, suona da de profundis oltre ogni intento: «Modello Roma? Ahò, qua rischiamo er Modello Alemanno».
In Campidoglio non va diversamente, con i guai di Guido Improta, l’assessore «fuoriclasse» della giunta Marino, finito nell’indagine per i contorcimenti della Metro C tra le spire della cricca di Ercolino Incalza e difeso con un ringhio dal collega assessore (e magistrato) Alfonso Sabella: «Dimettersi? E perché mai? Gli unici che dovrebbero farlo sono i giornalisti che hanno pubblicato la notizia!».
Il piglio censorio di Sabella cela forse angosce politiche crescenti. Improta non è un assessore qualsiasi, è il vero vice di Ignazio Marino, l’uomo che avrebbe potuto gestire il Giubileo prossimo venturo, una rogna annunciata tra il governo centrale e quello capitolino. «Se cade lui viene giù la giunta», dicono dirigenti pd avveduti sotto pegno d’anonimato. Che le cose si mettano male è certificato dall’assenza del sindaco. Marino nei momentacci (alluvioni, scontri dei black bloc e simili flagelli) viene preso da attacchi di altrovi smo , ormai si sa. In queste 48 ore, mentre tutto vacilla, è a Parigi per una imperdibile conferenza sul clima.
Fino a quattro mesi fa, era un sindaco scaricato dal partito, inseguito dai cronici disservizi della città e dalla grottesca storia delle multe sulla sua Panda Rossa. Dopo Mafia Capitale il Pd aveva deciso di sorvolare su quelle che per molti erano sue inadeguatezze e l’aveva issato a vessillo antimafia, naif ma dalle mani pulite. Queste ore difficili stanno lacerando anche l’ultima possibile bandiera di un esercito laceratissimo.
Benvenuti nel laboratorio alla rovescia. Nella Capitale dove Matteo Renzi sperimenta al top il primo caso di partito unico della nazione: Pd pigliatutto al governo della Regione, del Comune e di tutti i Municipi, opposizione soggiogata e latitante. Pare il sogno del bimbaccio di Rignano sull’Arno e invece tutto, ma proprio tutto, se ne sta cadendo a pezzi, persino la speranza che fili liscio come al tempo di Rutelli il nuovo Giubileo (sarà l’affare degli affari, non esattamente la liturgia della misericordia voluta da papa Francesco). Lo spettro di ben altro sindaco s’affaccia negli incubi democratici: una gara al contrario con Gianni Alemanno, primo ex fascista salito romanamente fino alla statua di Marco Aurelio e poi disarcionato dall’avversione degli elettori (solo uno su sei lo rivotò nel 2013) e dalle inchieste giudiziarie. Alemanno è evaso dal recinto delle battute vernacolari, assurgendo a babau.
Si può fare peggio di lui? Il partito di Bettini, di Veltroni e di Rutelli può lasciarsi fagocitare da inchieste e disaffezione, voragini nel manto stradale e sospetti di combutta con qualsiasi personaggio inguaiato, sia il nero Carminati (e la sua appendice «rossa» Buzzi) sia il sempre-in-piedi Ercolino Incalza o siano, per interposta persona, i boss e i faccendieri di Ostia che hanno spinto verso dimissioni obbligate il mini-sindaco Andrea Tassone assai chiacchierato ma neppure indagato? Son dolori.
Storace, mondato tardivamente dall’ingiusto sospetto di essere Storhacker e di guidare tutti gli spioni laziali contro i democrat, ha rialzato la testa: «Le chiacchiere non bastano più. Questa Regione sta per tornare al voto». C’è chi pensa che anche il Campidoglio sia a rischio. A Ostia, fallita la delirante ipotesi di una «giunta delle meraviglie» che con la Turco e Marco Causi salvasse la baracca, si voterà nel 2016 per sostituire Tassone; quel municipio potrebbe diventare il trampolino per un big, magari Alfio Marchini, che volesse ergersi dal litorale come anti Marino. Un palcoscenico devastante.
Matteo Orfini trattiene il fiato. «Il partito capitolino è da rifondare», disse il 3 dicembre dell’anno scorso, quando Renzi lo nominò in fretta e furia commissario dopo l’esplosione di Mafia Capitale e le intercettazioni del «compagno Buzzi» che rovinavano la reputazione di democratici di peso come Mirko Coratti e Daniele Ozzimo e lambivano un’altra mezza dozzina di big cittadini. «Userò la ruspa», proclamò una settimana dopo al nostro Andrea Garibaldi. «La situazione è oggettivamente difficile, lo sapevo da mesi», ha ammesso più sobriamente in queste ore. La ruspa s’è inceppata.
Fabrizio Barca, incaricato da Orfini di monitorare i circoli democratici, si è accontentato del piccone per la sua prima relazione, ma non s’è risparmiato: «Il Pd romano? Un partito cattivo ma anche pericoloso e dannoso, senza trasparenza», pieno di «carne da cannone da tesseramento». Sono giorni al fiele, insomma. E le parole si rivoltano come boomerang contro chi le pronuncia: «Il partito è sano, questa banda criminale era contro le scelte che il Pd ha fatto», disse Zingaretti di Buzzi e Carminati, prima che l’indagine afferrasse Venafro. Le parole sono boomerang pure nelle microspie dei carabinieri: Micaela Campana, ex moglie di Ozzimo, deputata e membro della commissione Giustizia della Camera, chiamava al telefono Buzzi «grande capo». Ma è un vezzo, ha spiegato, «faccio così con tutti». Non è indagata. Le intercettazioni hanno scavato solchi dentro l’autostima dei democratici romani. Le prime crepe, del resto, potevano vedersi da un pezzo.
«Piccole associazioni a delinquere sul territorio», aveva descritto Marianna Madia parlando delle primarie del suo partito nel 2013. Cristiana Alicata, della direzione regionale, rilevò «file di rom ai seggi delle primarie per sindaco» e parlò di «voti comprati». «Taci, razzista», la zittirono. Barca ha raccontato di avere perfino subito minacce contattando i «compagni» sul territorio: «C’è chi alla prima telefonata ha risposto: provace a veni’ qqua che poi vedemo» . Un iscritto su cinque è fantasma, un circolo su cinque apre solo per i congressi.
Quando a ottobre dell’anno scorso il Pd fece circolare un sondaggio in cui otto romani su dieci si dichiaravano scontenti di Marino — era il tempo della massima contrapposizione tra sindaco e partito — Zingaretti alla fine si chiamò fuori, mostrando fiuto: «Un giorno saremo giudicati, e lo saremo tutti assieme, noi del centrosinistra», disse ai suoi. A qualcuno sembrò parlasse del giudizio universale. A scatenare Armageddon dentro il laboratorio romano, potrebbe bastare anche un semplice Giubileo.
@GoffredoB

Corriere 26.3.15
Diktat dei garanti Pd ai militanti: sanzioni a chi non sostiene Paita


L’ avvicinamento del Pd ligure alle elezioni regionali continua a riservare sorprese. Ora a scendere in campo è la commissione di garanzia che ha espresso un parere «in merito all’obbligo per gli iscritti di sostenere i candidati del Pd». Se ne sentiva la necessità? Evidentemente sì. C’è l’obbligo per «iscritti/iscritte» e per «elettori/elettrici» delle primarie, di «sostenere» — ovvero a parlar chiaro di votare e far votare — «i candidati» del Pd o meglio la candidata Raffaella Paita. Un parere che arriva dopo la candidatura con Rete a sinistra di Pastorino che non nasconde di puntare al voto disgiunto anti paitiano. La commissione ha «notato» che «numerosi iscritti» hanno dichiarato di «non sostenere la candidata». Alt. Non si fa e non si può. Il Pd ha inviato «agli iscritti» di Genova (dove Paita ha più difficoltà) il parere dei garanti informandoli dell’obbligo di sostegno a Paita e delle sanzioni: dal richiamo alla cancellazione dall’anagrafe degli iscritti. Vietatissimo fare «campagna attiva» per candidati di liste civiche alternative perché provocherebbe «un importante danno di immagine» al Pd.
Erika Dellacasa

il Fatto 26.3.15
Montesquieu “à la carte” l’ultima specialità di Renzi
di Angelo Cannattà


Il presidente del Consiglio parlando del caso Lupi ha detto: “Le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia”. La frase nasce dalla volontà di difendere a ogni costo (e contro ogni ragione) i sottosegretari inquisiti.
In tutti i Paesi occidentali, essere indagati dalla magistratura produce, se si ricoprono funzioni di governo, effetti politici. Giolitti, per citare dai libri di storia, coinvolto nello scandalo della Banca romana, si dimise: fu il giusto effetto – impossibile non vederlo – della divisione dei poteri (“il potere limita il potere”), al di là di ogni fuorviante lettura di Montesquieu. Qui però bisogna fermarsi a ragionare. Renzi, incontrando gli studenti della Luiss a Roma, cita l’autore de Lo Spirito delle leggi, ma ne fa un uso politico: “Quando dico che un sottosegretario indagato non si deve dimettere, sto difendendo il principio di Montesquieu”. Sottolinea, della divisione dei poteri, soltanto l’autonomia della politica dalla magistratura, “dimenticando” (c’è bisogno di scomodare Freud?) che le pagine del filosofo, e l’attualità politica, dicono, anche, dell’autonomia della magistratura dall’esecutivo che proprio la legge sulla responsabilità civile dei giudici mette in pericolo.
Insomma: Renzi dimentica che la tesi di Montesquieu “il potere limita il potere”, significa anche (a volte soprattutto) controllo della magistratura sulla politica. Nonostante il premier divaghi e occulti i dati reali – ed è significativo che avvenga nell’università della Confindustria – svalutare le toghe vuol dire cancellare Montesquieu in nome di una presunta autonomia esclusiva della politica.
LA VERITÀ è complessa. Soprattutto a chi non vuole vederla. Se l’avviso di garanzia non produce effetti, che fine fa la giustizia? Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. Vero. Se, tuttavia, bisogna aspettare dieci anni, la corruzione distruggerà lo Stato. Impossibile negarlo. Renzi invoca la presunzione d’innocenza. Sacrosanto. Ma intanto c’è un magistrato che indaga, ci sono accuse, intercettazioni, ipotesi di reato... Senza voler emettere la sentenza prima dei giudici, è bene che l’inquisito (se politico) faccia un passo indietro. Accade in tutti i Paesi di democrazia avanzata: dall’Inghilterra di Locke alla Francia di Montesquieu. Perché non nell’Italia di Beccaria? Del nostro filosofo si ricorda spesso la difesa della “presunzione d’innocenza”. Non sarebbe male evidenziare che parlò anche di terzietà del giudice, inteso quale “indifferente ricercatore del vero”. Un’inchiesta giudiziaria non può essere svalutata, denigrata a priori come se il magistrato fosse un avversario politico (Renzi: “Qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo”). Non è così: un giudice è “un indifferente ricercatore del vero”, fino a prova contraria.
Di più: Beccaria parlò di “proporzione fra i delitti e le pene”, indicando il danno alla società, quale “vera misura dei delitti”: “La vera misura dei delitti, cioè il danno alla società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbiano bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte (…) pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori”. Domanda: quale danno alla società, al nostro Paese, produce il politico inquisito che resta pervicacemente attaccato alla poltrona, agli interessi, ai suoi intrallazzi?
Beccaria era garantista, d’accordo; tuttavia, senza esprimere condanne preventive, oggi inviterebbe il politico indagato a farsi da parte per il tempo necessario a chiarire. Per amore della Comunità. “L’attenzione alla società” (insieme a quella per il singolo) era – benché poco citata – un’idea importante nella sua dottrina.
INFINE. Una questione sottile ma non meno importante. L’etica e il diritto. Renzi dichiara che le dimissioni si danno per motivi morali, non per un avviso di garanzia. Scinde in modo troppo netto la morale dal diritto. È corretto? “Secondo l’indirizzo prevalente – scrive Norberto Bobbio – il carattere specifico del diritto rispetto ad altre forme normative (come la morale sociale) consiste nel fatto che ricorre in ultima istanza alla forza fisica per ottenere il rispetto delle norme. ” Un principio morale accettato dalla Polis trova nel diritto una codificazione che si avvale della forza. Anche un avviso di garanzia – per dirla alla Hegel – è un frammento del diritto che incarna in sé un valore morale. Ma è inutile volare così alto: la frase di Renzi nasce, purtroppo, dalla bassa cucina del potere, dall’arroganza (in questo ha ragione D’Alema), che pretende di avere l’ultima parola anche sul diritto. I sottosegretari inquisiti non si dimetteranno: sono al di là del bene e del male. Nietzsche + volontà di potenza + cecità della sinistra = renzismo. Quanto tempo ci vorrà ancora per capire che la società civile e una forte coalizione sociale sono l’unica alternativa (vera) al Duce di Firenze?

il Fatto 26.3.15
Contro la corruzione, come per la mafia serve l’associazione per delinquere
di Antonio Mazzone


Una seria azione di contrasto al fenomeno della corruzione richiede l’introduzione di una norma che reprima i “cartelli” che inquinano e infiltrano le pubbliche amministrazioni. Né più, né meno di quanto si è fatto nel 1982, quando, di fronte alla recrudescenza della criminalità mafiosa, si è delineato il nuovo reato di associazione mafiosa, una nuova norma che ha costituito la base di ulteriori interventi sul processo, le misure di prevenzione, l’esecuzione della pena adeguati a reprimere le condotte tipiche dei gruppi mafiosi.
Il fenomeno della corruzione è grave per la sua capacità di coinvolgere settori pubblici, imprenditoriali e professionali e per la sua capacità di inquinamento delle pubbliche amministrazioni. Per questo serve un intervento sul piano politico-criminale. In un editoriale del Corriere della Sera Galli della Loggia ha parlato di “intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita; è – si direbbe – la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine”.
Servono risposte immediate ed efficaci. Non basta limitarsi a qualche ritocco delle pene per alcuni reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione. Occorre andare alla radice del fenomeno. Vi è un sistema organico d’infiltrazioni nelle pubbliche amministrazioni. Vi sono “cartelli” illeciti diretti a gestire e a controllare le pubbliche amministrazioni.
Il diritto penale deve relazionarsi alla realtà criminale, una risposta legislativa adeguata pretende una specifica figura di reato associativo: l’associazione con finalità di gestione e di controllo della pubblica amministrazione, che descriva il fenomeno criminale, per prevenirlo e reprimerlo. Una specifica fattispecie associativa, quindi, per tutelare, l’ordine pubblico, inteso nel suo significato più profondo di corretto svolgimento delle relazioni istituzionali e funzionali, il buon andamento e l'imparzialità della P. a.
La nuova fattispecie dovrà caratterizzarsi per la necessaria partecipazione di almeno un pubblico ufficiale, perché è dal coinvolgimento di questi che ne deriva il suo disvalore specifico. E allora, un’incisiva risposta sul piano politico-criminale richiede che sia punita la condotta di tre o più persone, tra cui almeno un pubblico ufficiale, che si associno per commettere più delitti contro la pubblica amministrazione (tra i quali peculato, concussione, corruzione, malversazione, abuso d'ufficio, turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente, frode nelle pubbliche forniture) o per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività amministrative o economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi o di assunzioni o di concorsi pubblici mediante l’abuso della qualità o dei poteri di un pubblico ufficiale e al fine di conseguire un ingiusto vantaggio.

Il Sole 26.3.15
Premiare chi denuncia
di Luigi Zingales


È positivo che il governo si stia impegnando attivamente nella lotta alla corruzione. La corruzione è un cancro che se non viene estirpato si diffonde. Poche persone giustificano moralmente la corruzione, ma molte la accettano perché il costo di non essere corrotti aumenta con il numero di corrotti.
È come il costo di rispettare la fila per prendere uno skilift. Quando pochi la rispettano: chi lo fa non va avanti, ma va indietro. Tanto più elevata è la percezione della corruzione, tanto più i cittadini si sentono giustificati nell’accettare e pagare tangenti, perché sanno che rispettando le regole non riceveranno mai i servizi dovuti. Non a caso sulle nostre piste di sci vediamo i tedeschi, che in patria rispettano rigorosamente le code, tagliare le nostre con gusto. Gli inglesi hanno perfino un detto “quando sei a Roma fai come i Romani” (e non si riferiscono al cappuccino).
Prima che la metastasi uccida il nostro Paese è necessario agire. Il Governo ha scelto due direzioni di attacco: da un lato una nuova legge sulla corruzione, dall’altro un nuovo regolamento anticorruzione per le società partecipate dal governo. Apprezzo soprattutto la seconda. Il Governo non è credibile nella lotta alla corruzione se non comincia prima di tutto in casa propria. La normativa è piena di ragionevoli precetti: trasparenza, monitoraggio, rotazione.
Manca però un aspetto fondamentale, che gli Americani chiamano “tone at the top”, i valori condivisi dai vertici aziendali. Per sradicare la corruzione ci vuole una forte volontà di pulizia al vertice. Nessuna organizzazione può prevenire gli atti di un singolo impiegato disonesto. Ma qualsiasi organizzazione può, se lo vuole, evitare la corruzione diffusa. Per farlo, però, l’esempio deve partire dal vertice e si deve applicare la tolleranza zero. Non solo chi viola le norme interne, ma anche chi le rispetta in modo solo formale deve venire penalizzato la prima volta e licenziato la seconda.
Purtroppo viene esteso in modo improprio il garantismo anche alla responsabilità manageriale. Per licenziare un dirigente non occorre dimostrare in tribunale la colpevolezza, basta che si rompa il rapporto fiduciario. Quando i vertici di una società si impegnano chiaramente nella lotta alla corruzione, anche solo il “girarsi dall’altra parte” di fronte ad un episodio di corruzione rompe questo rapporto. Non solo l’atto corruttivo, ma la tolleranza dell’atto diventa motivo di licenziamento. La protezione del posto di lavoro di fronte ad episodi di questo tipo è insostenibile.
Apprezzo meno il disegno di legge anticorruzione, che tra l’altro sta andando molto a rilento. Qualsiasi aumento delle pene si può applicare solo per i reati commessi da qui in avanti, e solo quando le persone saranno condannate. Quindi i primi effetti si vedranno tra dieci anni. Troppi per chi, come l’Italia, è devastata dal cancro. Occorre un intervento ad effetto immediato. Questo intervento può essere un sistema di incentivi per i “whistleblower”, quelli che noi ingiustamente chiamiamo “delatori”, ma che si dovrebbero chiamare denunzianti civici. Oggi chi denuncia la corruzione rischia non solo di essere licenziato, ma di non essere piu' riassunto. Un malcelato senso di solidarietà, ostracizza i denunzianti civici, anche quando hanno ragione ed espongono i piu' orrendi crimini. Guardate cosa succede alla povera Kathryn Bolkovac nel film “The Whistleblower”. È la storia vera di un poliziotto del Nebraska che espone una rete di traffico sessuale gestita da funzionari dell’Onu in Bosnia. Alcuni eroi, come lei, sporgono denunzia nonostante le conseguenze, ma un Paese non funziona se ha bisogno di troppi eroi.
L’idea di premiare i denunzianti civici in America nasce durante la guerra civile. L’esercito di Lincoln era devastato da fornitori fraudolenti di armi e divise. Per sradicare questo problema fu introdotto un premio per chi denunciava i colpevoli. Ed anche grazie a questo meccanismo Lincoln vinse la guerra civile. Lo stesso meccanismo è stato reintrodotto in America da Ronald Reagan nel 1986 con il False Claims Act. Chiunque può fare causa contro chi defrauda la pubblica amministrazione, ricevendo in compenso pari al 15%-25% dei rimborsi ottenuti dalla stato. Questo meccanismo scoraggia i falsi delatori, che devono pagare le spese processuali senza ottenere nulla, mentre incoraggia chi ha una notizia vera di una frode. Nella maggior parte dei casi, il denunziante inizia solo la causa. È poi il Governo a proseguirla, garantendo il 15% dei ricavi al denunziante. Dal 1986 grazie al False Claims Act, gli Stati Uniti recuperano ogni anno più di un miliardo di dollari attraverso questo meccanismo, quando prima recuperavano al massimo 50 milioni all’anno. Ma l’aspetto più importante del False Claims Act non è la punizione, ma la deterrenza. Sapendo che ognuno si può trasformare in un denunziante civico, i corruttori temono perfino i propri complici. Questo rende la corruzione molto piu' difficile.
In un meraviglioso episodio, la National Public Radio americana racconta come un manager di un grande gruppo italiano sia riuscito a sradicare l’assenteismo in un impianto del Sud rendendolo più produttivo dell’impianto principale. Lo ha fatto con una combinazione di valori al vertice ed incoraggiamento dei denunzianti civici. Se con questi due ingredienti si è riusciti a sradicare la piaga dell’assenteismo, si può anche eliminare la corruzione. Basta volerlo.

il Fatto 26.3.15
Le strane vacanze di Poletti
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, l’ultima volta che ho visto Poletti, in tv o nei titoli dei giornali, era ministro del Lavoro. Capisco che abbia poco da fare perché il lavoro non c’è, ma perché deve invadere un altro ministero parlando di scuola e di vacanze?
Federica

LA TROVATA di Poletti fa venire in mente la ricerca disperata di una citazione in tv o di un titolo di giornale. Infatti ciò che il ministro dice sulle vacanze scolastiche non ha molto senso. È vero che, partecipando al Consiglio dei ministri, deve avere imparato a fare la cosa sbagliata in modo sbagliato dai suoi colleghi politici. Infatti il ministro della Giustizia che gli siede accanto ha tagliato le ferie ai magistrati “perché 45 giorni erano troppi”, senza chiedersi (e senza rispondere all’inevitabile domanda): troppi rispetto a che cosa? E qualcuno avrebbe potuto spiegargli che – per riformare qualcosa – si comincia esaminando il lavoro, non il tempo libero. Avrebbe imparato la necessità di disporre di ore e di giorni per scrivere la motivazione delle sentenze, e trovato altre strade, che sono dentro l’organizzazione del lavoro e non nella vacanza, per affrontare il problema dei tempi lunghi. Ora Poletti si butta in una materia che non sa (e non gli compete) con una stravagante idea di lavoro tipo quella dei suoi figli modello che, invece di annoiarsi, scaricavano casse di frutta (devono essere grandini e probabilmente non lo hanno fatto ai mercati generali, ma nel giardino di casa o nell’azienda di papà in cambio di una paghina, o no? Se no, attendo smentita). Come si fa a entrare con le scarpe dentro un argomento (quanto lunga la vacanza o il riposo scolastico?) che ha tenuto e tiene impegnati nel mondo i migliori pedagogisti ? Negli Usa, per esempio, il problema dibattuto è se bambini e ragazzi siano mandati a scuola troppo presto, al mattino. Infatti, spiegano pediatri e psicologi, nell’età scolastica è necessario dormire almeno un'ora di più. In ogni caso a Poletti si può rispondere in molti modi (per esempio si contano i giorni di vacanza in un anno, non nell'estate per sapere di quanto riposo godono i bambini. Si tiene conto del fatto che in Italia, a scuola come in Parlamento, l’interruzione avviene tutta insieme senza pause intermedie e senza organizzazione delle altre parti dell’anno). Ma l’obiezione fondamentale è la pedagogia metodo Po-letti dell’imparare il lavoro trasportando cose o facendo lavori manuali senza rispondere alla prima domanda: chi li assicura? Alla seconda: chi li paga? Alla terza: chi autorizza il lavoro minorile, dunque lo sfruttamento? La persuasione che bambini e ragazzi liberi si annoiano se non ci sono degli adulti a mandarli al lavoro chi gliela avrà inculcata? Manca del tutto l’idea dello sport, che resta un privilegio dei bambini e ragazzi agiati ma – se i Poletti di governo lo decidessero – dovrebbe essere disponibile a tutti e vincerebbe su qualunque dubbio di noia, dalla vela alla arrampicata libera. È triste l’idea di ingabbiare il più presto possibile dei ragazzini nel trasporto di casse di frutta, come in un mini-servizio militare. Tra i ragazzi che hanno finito la scuola non si nota un problema di vagabondaggio, ma un problema di disoccupazione. Qualcuno spieghi a Poletti che i due fenomeni, anche se mostrano delle apparenti somiglianze, non sono la stessa cosa.

il manifesto 26.3.15
Il Ddl Buona Scuola alla Camera il 31 marzo. Forse
Istruzione. Scomparsa da settimane, la riforma ieri è stata avvistata dalle parti del Quirinale
di Roberto Ciccarelli

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il Fatto 26.3.15
Stop vitalizi ai condannati: guerra di pareri al Senato


REVOCA DEI VITALIZI ai parlamentari condannati per gravi reati: si può, non si può? È legittimo o illegittimo sotto il profilo costituzionale? La querelle infuria dietro le quinte a Palazzo Madama, sia pure in punta di diritto. Sono arrivate nelle ultime ore ai componenti del Consiglio di presidenza, altri pareri di insigni giuristi in cui si sviscerano le ragioni, i pro e i contro di un orientamento del governo di Palazzo Madama, ossia il Consiglio di presidenza, in cui il peso del presidente Pietro Grasso, favorevole alla legittimità della revoca ha un suo peso non indifferente. Va avanti il tira e molla di queste settimane e investe il potere autonomo delle Camere, i principi di irretroattività delle pene: dopo il parere contrario del presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, al quale Grasso di proprio pugno un mese fa ha contrapposto una propria valutazione, Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta e altri, hanno fatto pervenire dietro specifica richiesta, un proprio parere. Quello di Cassese è contrario alle norme previste dalla bozza del Consiglio di presidenza in quanto “prestano il fianco a numerose critiche perché illegittime costituzionalmente”.

il Fatto 26.3.15
Il Pd riapre l’Unità lasciando i giornalisti con le case pignorate
La vecchia Società non ha pagato le condanne per diffamazione
Sono centinaia di migliaia di euro
di Tommaso Rodano


Dopo il via libera concesso dal Tribunale fallimentare di Roma, l’Unità è pronta a tornare in edicola. Potrebbe accadere in tempi stretti: forse già dalla data simbolica del 25 aprile. La notizia era attesa dal 1° agosto dello scorso anno, giorno in cui erano cessate le pubblicazioni del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Un’ottima notizia per il pluralismo dell’informazione italiana e per una testata storica, la fine di un incubo per una parte dei lavoratori del giornale. L’accordo tra il nuovo editore, Guido Veneziani, e il Comitato di redazione del quotidiano prevede infatti la riassunzione solo per alcuni dei giornalisti finiti in cassa integrazione straordinaria. Saranno 25 sui 56 totali della vecchia redazione, insieme a quattro poligrafici.
L’INTESA è stata criticata dalla Federazione nazionale della stampa, il sindacato dei giornalisti e da diverse associazioni regionali di stampa, che hanno espresso “preoccupazione per le modalità che hanno portato all’accordo fra la Nie in liquidazione (la vecchia società di Matteo Fago, ndr) e l’Unità di Guido Veneziani”. La Fnsi, si legge nel comunicato, “non può non rilevare che oltre al progetto editoriale, che rimane ancora non chiaro, non convincono le scelte imposte sulla riduzione dell’organico, sulle mansioni, sul taglio delle retribuzioni e sui criteri di selezione dei 25 giornalisti della nuova l’Unità“.
L’accordo sottoscritto dal Cdr (e approvato con 44 sì, 6 no e 7 astenuti) non comporta solo il sacrificio di buona parte della vecchia redazione: c’è un’altra partita che è stata completamente ignorata nell’intesa con Veneziani. Quella dei direttori e dei giornalisti che hanno subito condanne civili per diffamazione insieme alla vecchia società Nie. Le regole, a volte non scritte ma sempre applicate a l’Unità come altrove, prevedono che se ne faccia carico l’azienda, ma la Nie era in liquidazione, solo ora è stata ammessa al concordato preventivo, e non ha pagato. Abbandonando dipendenti ed ex al proprio destino. Drammatico per loro ma anche per la libertà di informazione, specie se si considera che le testate in pericolo sono tante e che il nostro mestiere diventa quasi impossibile quando singoli professionisti si trovano a sopportare rischi propri dell’impresa editoriale. Alcune condanne sono già esecutive e i direttori e i cronisti coinvolti si ritrovano gli ufficiali giudiziari in casa. Letteralmente. Atti di precetto e pignoramenti di compensi e conti correnti, ma anche delle abitazioni in cui i giornalisti vivono: la prossima tappa, non così lontana, sarà la vendita all’asta degli immobili. Ai giornalisti i creditori non chiedono solo la loro parte ma anche quella, più consistente, dell’editore che non c’è più. Decine, a volte centinaia di migliaia di euro. E il contenzioso pendente è ragguardevole, poco meno di un milione.
IL CDR de l’Unità, impegnato in una trattativa complessa e in posizione di debolezza, non si è occupato granché di questa vicenda. Meno che mai ha intenzione di farlo l’acquirente Veneziani. Il nuovo proprietario, già editore di riviste di gossip comeStope Vero, ha il 60 per cento e sarà affiancato dal Gruppo Pessina (35%) e dalla Fondazione Eyu del Partito democratico (per il restante 5 per cento). Ed è proprio al Pd, tornato a detenere una quota significativa del giornale, che si è appellata in questi giorni la Federazione della stampa (Fnsi). Dopo il silenzio dei mesi scorsi la nuova dirigenza della Fnsi eletta a fine gennaio sta cercando di tutelare i giornalisti coinvolti: se ne occupa il presidente Santo Della Volpe. Il tesoriere dem Francesco Bonifazi è stato il primo a esultare per la sentenza che ha aperto il nuovo corso de l’Unità. A lui e al suo partito, come agli editori vecchi e nuovi del giornale di Gramsci. Al partito il sindacato chiede un intervento per tutelare chi è rimasto completamente escluso dall’accordo. La stessa Fnsi ha messo a disposizione i propri fondi di solidarietà per i colleghi lasciati soli, ma coprono solo una minima parte delle cifre in questione.

il Fatto 26.3.15
Dopo il gossip
Dal cane Gunther al bracco, ora tocca al compagno Veneziani
di Salvatore Cannavò


C’è sempre un cane nei destini dell’Unità. Prima, al tempo dell’Unità di Renato Soru, si trattava del cane più ricco del mondo, il pastore tedesco Gunther, proprietario del Gunther Reform Holding amministrato da Maurizio Mian. Nel tempo l’alleanza tra Mian e Matteo Fago è saltata fino alla messa in liquidazione della società. Quello attuale è anch’esso un cane di ottima razza, un bracco italiano, molto elegante, intelligente, affabile. È di Guido Veneziani, e gira liberamente per gli ampi uffici del nuovo magnate dei media che sta per rilevare l’Unità dopo un accordo sindacale che garantirà a 25 giornalisti (su circa 60) di rientrare al lavoro.
Il cane di Veneziani non avrà voce in capitolo negli affari del padrone e non è intestatario di nulla. Rappresenta una vera e propria mascotte aziendale ostentata con orgoglio dal suo proprietario che, con la vicenda del quotidiano di Gramsci, si è messo in testa di occupare il suo posto al sole nel panorama editoriale italiano.
VENEZIANI è un cinquantenne torinese (ma nato a Reggio Calabria) che, dice chi lo ha conosciuto, è simile a un altro editore rampante, Umberto Cairo. Con lui ha lavorato nel 1996, lasciandolo dopo qualche anno per mettersi in proprio. Prima di Cairo ha cercato di rilevare La7, senza riuscirci. Come Cairo nasce nel mondo della pubblicità, si mette in proprio, fonda un periodico dopo l’altro, si allarga alla tv fino a cercare la ribalta nazionale con il rapporto organico con il Pd di Matteo Renzi. Un imprenditore aitante, tatuato, molto sicuro di sé, pronto alla battuta. La sua Spa ha una Porsche e una Aston Martin. Se hai un appuntamento con lui all’ora di pranzo, dal sesto piano degli uffici di via della Chiusa a Milano, dietro l’elegante San Lorenzo, si sale al settimo dove c’è un tavolo apparecchiato con uno chef personale che cucina a vista.
L’impero editoriale è formato da una fitta schiera di periodici super-popolari: Vero, Stop, Top, Vero Casa, Vero Salute, Vero Cucina, Rakam. Dal 2013 c’è anche Vero Tv, investimento significativo per sbarcare sul canale 55 del digitale ma finora con poco successo. Il volume di affari si aggira sui 180 milioni e la plancia di comando sta nella Guido Veneziani Spa che controlla le società sottostanti. Tra queste ci sarà l’Unità srl, dove verranno ospitati con piccole quote anche la Pessina costruzioni e la società costituita dal Pd Eyu (al 5%).
“La mia Unità dovrà parlare agli elettori del Pd e non ai suoi iscritti” è la frase con cui ha conquistato Matteo Renzi e che ripete ai suoi interlocutori. Il progetto, ancora in mente dei, dovrebbe prevedere un giornale dedicato alla politica e all’economia ma con un ampia sezione Life Style, dal contenuto più leggero, come quello ispirato dal giubbotto renziano esibito da Maria De Filippi. Nomi che circolano per la direzione (ma senza alcuna conferma) quello di Gaia Tortora, (conduttrice Tg7) e di Maria Teresa Meli, (Corriere della Sera). Con Renzi Veneziani condivide anche l’approccio ai sindacati. Da editore non è affiliato alla Fieg, la federazione degli editori e preferisce avere rapporti solo con i sindacati aziendali, come ha dimostrato anche all’Unità. Su questo fronte, però, non vanta grandi successi. Dopo aver acquisito le tipografie di Rotoalba ha licenziato anche due sindacalisti, poi reintegrati e ha avuto più scontri con i dipendenti che lamentavano il tardato pagamento degli stipendi. Alla fine del 2014 la Rotoalba è stata messa in concordato preventivo e i sindacati si augurano che questo possa tutelare le loro spettanze. Se questi sono problemi noti, più recente è invece la “costituzione in mora e la diffida ad adempiere” inviata alla Guido Veneziani Srl, controllata dalla casa madre, per la riscossione di due crediti vantati dalla Photomasi Srl e dalla Twinam Group rispettivamente di 40 e 33 mila euro per fatture non pagate.
La stessa Unità Srl non comincia bene. Tra i soci, infatti, come riportato dal fatto-  quotidiano.it , c’è la Investimenti e sviluppo, tra i cui soci c’era il finanziere Corrado Coen, arrestato a novembre per aggiotaggio in un’inchiesta della procura di Milano sul crac della Norman 95. “Rapporto scomodo”, ha commentato lo stesso Veneziani che ha definito “ingenuo” aver accettato l’offerta “molto generosa fatta da Coen per il 5% della sua società. Ma Veneziani sembra tutto fuorché ingenuo.

il manifesto 26.3.15
Il manifesto all’asta
Mi riprendo il manifesto. Entro aprile si svolgerà la prima fase della vendita della nostra testata
di Norma Rangeri

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il Fatto 26.3.15

L’Ad più pagato con gli operai più poveri
Marchionne taglia a tutti, ma non a sé
Nessuno al mondo batte i suoi 60 milioni di stipendio, ma uno studio Usa rivela che i dipendenti costano 10 dollari all’ora meno di quelli dei concorrenti Ford e GM
A Pomigliano un altro anno di cassa integrazione
di Camilla Conti


Milano Sergio Marchionne svetta al primo posto della classifica, seppure non ancora definitiva, dei top manager di Piazza Affari più pagati nel 2014. L’amministratore delegato di Fca si è portato a casa 6,6 milioni di euro. Più 24,7 milioni di premio per il successo della fusione con Chrysler, più 12 milioni di una tantum da esercitare alla fine della carica e uno stock grant (il diritto di ricevere gratuitamente titoli del gruppo) da 1,62 milioni di azioni, che ai corsi attuali valgono circa 23 milioni. In tutto, dunque, al compenso ordinario si aggiungono quasi 60 milioni tra premi e pagamenti differiti.
MEGLIO non farlo sapere agli operai americani della Fiat Chrysler che sono meno pagati rispetto ai colleghi assunti dai concorrenti. Secondo un rapporto pubblicato dal Center for Automotive Research, infatti, il costo del lavoro nelle fabbriche statunitensi di Marchionne sono ora alla pari con Toyota e Honda e circa 10 in meno all’ora rispetto a General Motors e Ford. Il costo del lavoro orario è a 57 dollari per Ford Motor, 58 dollari per GM, 48 dollari per Fca. Dal 2009 negli Stati Uniti, la retribuzione del management è cresciuto di circa il 50 per cento più veloce di reddito sindacali dei lavoratori. Nell'industria automobilistica americana, i salari reali sono diminuiti del 24 per cento dal 2003. I dati sono stati pubblicati alla vigilia della convention di Detroit organizzata dal sindacato Usa dell’industria dell’automobile (Uaw, acronimo di United Auto Workers) che ha riunito i delegati di tutti gli Stati Uniti per decidere le prossime strategie di contrattazione. Il contratto Uaw che dura quattro anni con tutte e tre le case automobilistiche scade il prossimo 14 settembre. E il modello Marchionne rischia di essere contagioso. Secondo alcune indiscrezioni raccolte da Bloomberg, infatti, i vertici di General Motors e quelli di Ford avrebbero intenzione di trattare con i sindacati un nuovo livello di lavoratori a basso reddito. In sostanza, si tratterebbe di introdurre un nuovo tasso di retribuzione per alcuni lavori meno qualificati per competere meglio con i rivali asiatici ed europei che in genere pagano meno.
IN ITALIA, intanto, la ripresa della trattativa con Fca e Cnh Industrial per il rinnovo del contratto collettivo specifico di lavoro (Ccsl) è prevista a Torino per il 17 aprile. La conferma è arrivata da Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, ieri a Modena per il Consiglio provinciale dei metalmeccanici. Non solo. Sono stati prorogati di un anno i contratti di solidarietà per circa 1800 lavoratori dello stabilimento Fiat Chrysler di Pomigliano d’Arco, che effettueranno anche più giornate di lavoro. Le trasferte di parte dei lavoratori nello stabilimento di Melfi, consentiranno a chi è rimasto a Pomigliano, di lavorare qualche giorno in più al mese. Contestualmente è emersa la possibilità di estendere gli ammortizzatori sociali anche nel reparto logistico Fca di Nola, dove sono ancora in Cig, da quasi 7 anni, circa 200 operai. “Entro luglio – hanno spiegato i rappresentanti della Uilm Campania per il settore auto – l'azienda proverà a portare più lavoro nel reparto logistico di Nola, in modo da poter attuare anche lì i contratti di solidarietà, al posto della cassa integrazione che ancora interessa parte delle maestranze”.
Ma altre novità ieri sono arrivate dal fronte finanziario. Indiscrezioni di stampa ipotizzano un'accelerazione dei colloqui con General Motors per un'eventuale fusione. In realtà gli analisti di Mediobanca Securities credono che una fusione tra Fca e un player importante come General Motors, Volkswagen e Ford, sia la “fine del gioco” della strategia di Marchionne. “Ci potremmo aspettare un tale accordo non prima del 2016, dopo lo spin-off della Ferrari, il rilancio dell'Alfa Romeo e l'utile depresso di quest'anno dell'azienda” che è stimato a 1,334 miliardi di euro, dai 214 milioni del 2014, per poi accelerare a 2,161 miliardi nel 2016. “Ma i colloqui con il potenziale partner possono modificare questo schema”, avvertono i broker di Piazzetta Cuccia.

La Stampa 26.3.15
Scadute da 7 anni le linee guida della legge 40 #fecondazione #legge4 0
L'associazione Luca Coscioni diffida il ministero della Salute a provvedere altrimenti partirà una nuova valanga di ricorsi. Il ministero: "Le abbiamo ultimate"
di Flavia Amabile

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il Fatto 26.3.15
L’Aifa: niente ricetta per la pillola dei cinque giorni


NON SERVIRÀ la ricetta per assumere la pillola dei cinque giorni dopo. A meno che non si tratti di minorenni. A deciderlo è stata la commissione tecnico scientifica dell’Aifa che ha approvato, per l'Italia, una disposizione che si discosta solo parzialmente dalle indicazioni dell’Agenzia Europea del Farmaco. Tra le prime modifiche, la scomparsa dell'obbligo di eseguire il test di gravidanza. “Il farmaco non ha grandi problematiche - dice il direttore dell’Aifa Luca Pani - ma sull’uso ripetuto e incontrollato non ci sono dati sufficienti per garantirne la sicurezza” . Non si tratta di una prevenzione solo italiana. Anche altri paesi hanno lasciato questo obbligo. “Per tutelare le più giovani e visto che in Italia esiste la possibilità di prescrivere la pillola in ogni momento in ospedali e consultori, è stato deciso di lasciare questo limite . Si tratta - ha concluso Luca Pani - di una decisione ancora più moderna di quella dell’Ema”. Qualche settimana fa il Consiglio superiore di sanità, nel parere richiesto dal ministro Lorenzin sulla questione, sembrava essersi espresso a favore della ricetta per qualsiasi età.

Repubblica 26.3.15
L’anatema contro la teoria di genere
di Chiaro Saraceno


ANCORA una volta, per voce del capo dell’episcopato italiano, il cardinale Bagnasco, la Chiesa cattolica ha lanciato il proprio anatema contro la “teoria del genere” in quanto promuoverebbe la confusione tra maschile e femminile dando vita, per ciò stesso, ad un «transumano», ad una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde, «privo di meta e di identità». È fin troppo facile pensare che dietro a queste parole si celi innanzitutto la condanna di ogni tentativo di normalizzare l’omosessualità come uno dei modi in cui uomini e donne sperimentano la propria sessualità. Esse tuttavia rappresentano una visione dell’umanità che ci riguarda, donne e uomini, a prescindere dall’orientamento sessuale. Si tratta di una visione in cui la differenza sessuale diviene totalizzante, assorbe e spesso impedisce ogni altra differenza, una forma di naturalizzazione priva di storia e riflessività che di fatto ipostatizza non tanto le differenze sessuali, quanto il modo in cui, a partire da esse, si sono costruiti rapporti e identità sociali e interi modelli organizzativi e culturali.
Proprio contro questa visione, sulla base di studi antropologici, storici, sociologici e filosofici, alcune studiose femministe hanno proposto il concetto di genere, per indicare quanto di costruzione sociale — per lo più entro rapporti di potere asimmetrici — ci fosse e ci sia tuttora in ciò che viene definito maschile e femminile: nelle caratteristiche, capacità e possibilità attribuite all’uno e all’altro sesso e alle regole che dovrebbero governare i rapporti tra i due. Sono costrutti sociali così potenti da essere diventati, direbbe Durkheim, “fatti sociali”, dati per scontati e utilizzati sia come modelli organizzativi in società e in famiglia, sia come mappe mentali che guidano le scelte soggettive e danno perfino forma ai desideri. Per questo può apparire “innaturale” che una donna non desideri avere figli o che voglia avere sia figli che una carriera professionale, o che un uomo si dedichi più alla cura dei figli che alla propria carriera, che uomini e donne vogliano scegliere le proprie mete e avere identità meno rigide e polarizzate lungo il crinale della differenza sessuale. È a motivo della potenza di quella visione pseudo-naturale che in alcune società le donne sono considerate “naturalmente” esseri inferiori agli uomini, che questi possono usare e controllare a piacimento.
Se nelle società democratiche si è raggiunta una qualche misura di uguaglianza tra uomini e donne è perché si è permesso a uomini e donne di sviluppare le proprie capacità e interessi senza essere confinati nella propria, pur importante, reciproca differenza sessuale ed insieme essere più liberi di vivere quella differenza. La cultura, l’incessante opera di costruzione sociale che è la caratteristica del vivere umano, è diventata più riflessiva anche su questo fondamentale aspetto dell’umanità, la differenza sessuale, come univoco e immodificabile destino. Una conquista, non uno «sbaglio della mente umana», secondo le parole di papa Bergoglio riprese da Bagnasco.
Anche l’orrore per l’omosessualità e l’assimilazione di questa al rifiuto della differenza sessuale nascono da quella visione di una umanità stereotipicamente dicotomizzata. A chi riduce l’identità delle persone prevalentemente, se non esclusivamente, al loro corpo sessuato, l’omosessualità non appare solo una devianza sessuale che rompe la norma dell’eterosessualità complementare. Appare anche un “innaturale” ibrido umano, in cui si confondono maschile e femminile. Tutto sommato, è la vecchia concezione della omosessualità come inversione sessuale, come il fare l’uomo in un corpo di donna e viceversa.
Per chi appiattisce le potenzialità e varietà degli esseri umani alla dicotomia della differenza degli organi sessuali e dell’apparato genitale, l’omosessualità appare mostruosa, letteralmente, sia sul piano della natura sia su quello sociale, come un ippogrifo, o un uomo-cavallo. Ma altrettanto, se non mostruoso, pericoloso appare ogni comportamento di uomini e donne che smentisce l’ovvietà degli stereotipi. Mentre agitano lo spettro della «colonizzazione da parte di una teoria del genere che mira alla creazione di un transumano», le parole di Bagnasco testimoniano il persistere di teorie e pratiche che, in nome della natura, vogliono costringere uomini e donne nella corazza di ruoli e destini rigidi e asimmetrici, riduttivi della ricchezza, varietà e potenzialità degli esseri umani. Non è questo che vogliamo per noi stesse e per i nostri figli e figlie.

il Fatto 26.3.15
Il Social Forum lava il sangue di Tunisi
In 70 mila nella Capitale colpita dal terrorismo islamico discutono di diritti e alternative al capitalismo
di Cosimo Caridi

Tunisi Continua la caccia all’uomo. Le autorità tunisine hanno arrestato ieri altri appartenenti alla cellula terroristica responsabile dell’attentato al museo del Bardo. Tra loro, ha fatto sapere Rafik Chelli, segretario di Stato presso il ministero degli Interni, c’è il leader e ideatore dell’attacco nel quale sono morte 23 persone. Il nome dell’arrestato non è ancora noto, ma sembra che sia un cittadino tunisino abitualmente residente in Belgio. Resta in fuga Maher Bin Al-Moulidi Al-Qaid il terzo attentatore del commando che ha aperto il fuoco contro i turisti al Bardo. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti Al-Moulidi non avrebbe avuto la forza o il tempo di entrare al museo e avrebbe quindi preferito la fuga. L’attentatore sarebbe legato agli ambulanti, rivenditori di frutta e verdura, che avrebbero dato copertura ai terroristi nei giorni precedenti all’attacco.
Secondo fonti ministeriali la cellula terrorista sarebbe stata composta da 4 gruppi, per un totale di 16 persone, molte delle quali già in custodia della polizia tunisina, ognuno con compiti precisi: individuazione dell’obbiettivo, logistica, d’assalto e il quarto che avrebbe dovuto filmare, pubblicare e rivendicare l’attacco.
LA CELLULA È NOTA alle autorità con il nome Okba Bin Nafaa e risponde agli ordini dell’algerino Lokman Abou Sakher. Del leader del gruppo era nota l’affiliazione ad Al-Qaeda, tramutatasi, lo scorso inverno, in un giuramento di fedeltà all’Isis di Al-Baghdadi. Potrebbe essere questo il tassello mancante per comprendere il viaggio, di almeno due miliziani di Okba Bin Nafaa, nei territori siriani controllati dal Califfo.
Secondo le stime dell’antiterrorismo sono oltre 3.000 i giovani tunisini che hanno imbracciato le armi e si sono uniti alle milizie jihadiste in Siria e Iraq. Dal paese del Maghreb, che con la sua rivoluzione dei Gelsomini ha innescato le altre primavere arabe, parte la più sostanziosa fetta dei mujaheddin stranieri che combatte per la costruzione dello Stato Islamico. Nonostante la Tunisia sia considerata una repubblica laica, con rappresentanti eletti democraticamente, il governo sembra incapace di emarginare il fenomeno.
“La Tunisia è libera. Fuori il terrorismo”, urlavano gli oltre 50mila che martedì sera hanno marciato per le vie di Tunisi - manifestazione che verrà replicata domenica, presente anche Renzi - fino alle porte del Bardo. Erano solo una parte dei 70mila delegati, provenienti da 128 paesi, che ieri hanno aperto il Forum Sociale Mondiale. Sono oltre 5mila associazioni e movimenti che si sono dati appuntamento a Tunisi, la seconda volta in 3 anni, per la 15a edizione del Forum. Il Social Forum, nato come controproposta al meeting di Davos, dove ogni anno s’incontrano i leader politici ed economici, ha scelto Tunisi perché “qui la popolazione ha lottato duramente – spiega Morgan statunitense che si occupa di investimenti nel sociale - per ottenere diritti e libertà”. Tra i banchetti altermondisti spiccano tanti poster a sostegno di Venezuela, Palestina, continui i richiami all’esperimento politico del Rojava (entità statale curda, ndr) e di Kobane e basta un accenno all’Isis per scatenare discussioni. “Non bisogna dimenticare che le potenze occidentali hanno nutrito la bestia per anni – dice Xavier Doreste sindacalista delle Canarie - siamo contro il terrorismo, ma anche contro le politiche che hanno fatto crescere il terrorismo”. Quest’anno il Forum oltre a parlare di lotta contro la fame, diritti del lavoro e migranti, cambiamenti climatici, uguaglianza di genere, deve fare i conti con l’attualità sanguinosa che ha investito il mondo arabo.

il manifesto 26.3.15
In 60 mila senza paura
Tunisi. Si apre il social forum senza nessuna defezione e tanti incontri
di Giuliana Sgrena

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il manifesto 26.3.15
La «normalità» è la resistenza dei giovani tunisini. E non soloI partecipanti al Forum sociale . «Non daremo ragione ai terroristi cambiando le nostre vite». Ma ora il timore del Fronte popolare è che cresca nel Paese la richiesta di un governo forte e dittatoriale. Se ne parlerà nella conferenza nazionale di maggio
di Vittorio Agnoletto

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il manifesto 26.3.15
Memoria e identità perdute in Israele
Shira Geffen ha presentato in anteprima a Sguardi Altrove «Self Made», la sua opera seconda, nella sezione dedicata alle prospettive femminili in Medio Oriente
di Giovanna Branca

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La Stampa 26.3.15
Se la Spagna si scusa con gli ebrei
di Roberto Toscano


Si pensa di solito che i grandi misfatti della storia siano irrimediabili, ed in effetti così è, se pensiamo alle vite stroncate, alle sofferenze, alle intere comunità eliminate dal genocidio o spinte con la violenza sulle strade dell’esilio. Eppure sarebbe sbagliato ignorare il valore morale del riconoscimento delle ingiustizie perpetrate anche quando il riconoscimento avviene da parte di chi in nessun modo ne potrebbe essere considerato responsabile. Non esiste certo una colpa collettiva, ma riconoscere l’ingiustizia commessa abbandonando il troppo diffuso e volgare giustificazionismo in chiave storica («erano altri tempi, vigevano altri principi») è un gesto nobile su cui sarebbe ingeneroso ironizzare.
Ieri le Cortes, la Camera dei deputati spagnola, hanno compiuto questo gesto riconoscendo ai discendenti degli ebrei espulsi nel 1492 il diritto ad ottenere la cittadinanza spagnola. Si trattò allora di una colossale ingiustizia, e anche di un segno di ottusità che oggi definiremmo «fondamentalista», se pensiamo che gli ebrei non solo facevano parte integrante della società spagnola, ma ad essa contribuivano in modo molto sostanziale sotto il profilo economico e intellettuale. Quelle centinaia di migliaia di ebrei lasciarono «Sefarad» e si dispersero in tutta l’Europa, soprattutto nell’Europa mediterranea e in particolare nell’Impero Ottomano. Si racconta che il Sultano dell’epoca esprimesse tutta la sua sorpresa: «Curiosi questi sovrani spagnoli. Impoveriscono il loro regno ed arricchiscono il mio».
Gli ebrei sefarditi si sono radicati in diverse realtà ma non hanno mai dimenticato la Spagna, spesso conservando quasi miracolosamente le loro tradizioni e soprattutto la lingua, il «ladino», uno spagnolo reso particolare dalle radici arcaiche e dalle influenze di altre lingue mediterranee. Dopo l’espulsione del 1492, la persecuzione degli ebrei rimasti in Spagna in quanto convertiti fu l’obiettivo principale dell’Inquisizione spagnola, alla caccia spietata di convertiti accusati di mantenere segretamente la loro fede e i loro riti. Quelli che erano definiti «judaizantes», o molto più brutalmente, «marranos» (porci).
Ma la storia del rapporto fra Spagna ed ebrei non si riduce soltanto all’ espulsione del 1492 e alla persecuzione dei convertiti. Quello che è interessante, e che non molti sanno, è che non solo i sefarditi non hanno mai dimenticato la Spagna, ma nemmeno la Spagna ha dimenticato i sefarditi. Non lo ha fatto per la consapevolezza - una consapevolezza che nemmeno il più radicato fanatismo religioso poteva cancellare - che anche loro erano Spagna, così come è Spagna l’eredità musulmana di Al-Andalus. Questo spiega perché durante la Seconda Guerra Mondiale i diplomatici della Spagna franchista abbiano in molti casi dato protezione agli ebrei, fra l’altro senza distinguere fra sefarditi e askenaziti, ebrei del Centro-Est Europa. Molto probabilmente in Franco, astuto opportunista, c’era anche l’intento di costruirsi un’immagine positiva con gli Alleati, utile nel caso di una sconfitta tedesca, ma certamente non c’era solo questo.
Non si sa quanti tra i teoricamente aventi diritto chiederanno la cittadinanza spagnola, ma si può prevedere che non saranno in pochi, soprattutto per il forte legame sentimentale con un passato e una terra mai dimenticati. Si può invece prevedere che non molti saranno quelli che si trasferiranno effettivamente in Spagna.
Non mancano comunque le critiche, ad esempio per i requisiti imposti dalla nuova legge: sostanzialmente quello di essere in grado di dimostrare «un vincolo speciale con la Spagna» (come avere un cognome riconoscibile come sefardita o conoscere il ladino) - requisiti che saranno verificati da parte degli «Istituti Cervantes». Ma qualcuno comincia anche a sollevare una questione ben più politica. Perché non approvare una legge analoga per i «moriscos», i musulmani spagnoli convertiti espulsi dalla Spagna all’inizio del ’600? Anche loro erano una componente significativa di una Spagna culturalmente plurale, ricca e creativa prima che si imponesse l’opprimente morsa dell’uniformità.
Si discuterà, ovviamente, di questo e di altro. Ma sarebbe ingeneroso non dare alla Spagna il riconoscimento di un gesto che andrebbe anzi imitato da altri Paesi al fine di riconoscere, e rimediare quanto meno simbolicamente, le troppe ingiustizie della storia. Ingiustizie che ben pochi possono sostenere di non avere commesse.

Il Sole 26.3.15
Il Pese in mano ai ribelli, sprofonda nel caos
La polveriera Yemen
di Alberto Negri


Lo Yemen - come Libia, Siria, Iraq - è un’antologia degli errori di grandi e medie potenze che fanno nascere e prosperare il terrorismo jihadista e lasciano disgregare uno stato nel cuore della penisola arabica.
Sulle rotte dello Stretto di Bab el Mandeb, di fronte al porto di Aden, passa il 40% del petrolio mediorientale. Quello stesso porto e terminale petrolifero che adesso, con il deposto presidente Mansour Hadi ancora in fuga, sta per cadere in mano ai ribelli sciiti Houthi ed era, fino a poco tempo fa, la base della flotta internazionale che conduceva la lotta alla pirateria somala.
Ma quando nel 2009, tra le montagne scoscese e i deserti pietrosi del Nord, cominciò la rivolta degli Houthi il mondo guardava, come spesso accade, da un’altra parte. Nessuno si chiedeva cosa volessero gli Houthi e il defenestrato generale Petraeus, allora comandante del Centcom, cominciò con i droni la battaglia contro al Qaeda informandoci che qui c’erano più qaedisti che in Afghanistan e nel Waziristan pakistano.
Cinque anni dopo ad al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa), che proprio dallo Yemen ha rivendicato l’attentato a Charlie Hebdo nel gennaio scorso, si è aggiunto il Califfato che recluta proseliti e organizza attentati kamikaze spaventosi: 150 morti venerdì scorso in due moschee sciite a Sanaa.
Ma questo è assai più di un conflitto tra sciiti e sunniti e di una guerra per procura tra Riad e Teheran.
Lo Yemen è un fiasco colossale per gli americani e per i loro storici alleati sauditi che ora ammassano truppe al confine per un intervento militare che potrebbe rivelarsi assai più complicato del previsto, tanto è vero che l’Egitto del bellicoso generale Al Sisi si è sfilato e la Lega Araba esita a prendere inziative. Gli Houti, portabandiera dello sciismo zaydita che fino al 1960 ha dominato per secoli il Paese, nel settembre scorso sono discesi dai loro santuari del Nord conquistando Sanaa con l’appoggio finanziario e militare e dell’Iran, sciogliendo poi nel gennaio scorso un governo e un parlamento ridotti a ectoplasmi come del resto lo stesso presidente Hadi, comandante in capo di un esercito senza truppe. Un vuoto di potere che gli Houthi hanno riempito alleandosi con le brigate fedeli all’ex presidente Abdullah Saleh che ieri ha mandato i suoi uomini a occupare l’aereoporto di Aden. Una rivincita non da poco per un raìs che dopo trent’anni al potere era stato sbalzato di sella nel 2012 nell’ennesima illusoria primavera araba.
Il fallimento americano è bruciante perché mette in dubbio tutta la strategia del “leading from behind”, cioè guidare da dietro la lotta al terrorismo e indirizzare gli eventi mediorientali. Soltanto sei mesi fa, per giustificare il “non intervento” in Siria, il presidente Barack Obama aveva citato lo Yemen come modello vincente nella lotta al terrorismo. «Noi li uccidiamo dall’alto mentre sosteniamo i partner sul campo di battaglia: una strategia che abbiamo perseguito con successo in Yemen e in Somalia».
Questo successo sbandierato da Obama si è tramutato in un disastro. Non soltanto al Qaeda imperversa in Yemen, con la concorrenza del Califfato, ma gli Houthi, gruppo sciita sostenuto dall’Iran e nemico giurato dell’Arabia Saudita, si è impadronito della più importante base americana mettendo le mani su aiuti militari per 500 milioni di dollari con cui gli Stati Uniti avevano inutilmente foraggiato l’esercito di Sanaa.
La debàcle saudita, per i suoi precedenti, forse è ancora più umiliante. Nel 2009 Riad aveva cominciato a bombardare gli Houthi al Nord ma la guerriglia, affamata e senza grandi mezzi militari, aveva resistito ai raid mentre gli ufficiali sauditi, in tenuta da battaglia, attraversavano ogni giorno il confine per assoldare i militari yemeniti che avrebbero dovuto fare la guerra ai ribelli. Ma questi poveri soldatini combattevano per denaro, certo non per convinzione. Fu un’operazione fallimentare che dovrebbe essere rimasta ben impressa ai sauditi.
Il regno dei Saud dal punto di vista geopolitico sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente: a Nord confina con il Califfato e con le milizie sciite impegnate in Iraq nell’offensiva di terra allo Stato Islamico; a Sud è a stretto contatto con i nemici sciiti Houthi, al Qaeda e ora anche con l’Isil. Ha perso l’alleato Mansour Hadi e sta per abbandonare Aden, terminale petrolifero anche di Riad.
È una sorta di nemesi per i custodi di Mecca e Medina. Lo Yemen è considerato il “giardino di casa”, dove i sauditi hanno sempre influenzato le politiche locali manovrando le fazioni con le loro abbondanti riserve di petrodollari. Ma con l’irruzione degli sciiti il meccanismo si è inceppato, come del resto è già accaduto altre volte quando il regno wahabita ha appoggiato i gruppi radicali più estremisti, ma vicini all’ideologia fondamentalista del regno, che poi sono sfuggiti di mano e hanno destabilizzato il Medio Oriente. Impareranno mai la lezione?

Corriere 26.3.15
Le parate della discordia 70 anni dopo Pechino e Mosca irritano l’Occidente
di Guido Santevecchi


Merkel diserta la Piazza Rossa, sulla Tienanmen solo Putin. Il conflitto mondiale divide
PECHINO La Marina giapponese ha preso in consegna ieri la nave più grande della sua flotta dai tempi della Seconda guerra mondiale. La «Izumo», lunga 248 metri, costata un miliardo di dollari, è un caccia portaelicotteri nella definizione ufficiale di Tokyo. Ma il suo ponte può permettere di lanciare anche gli apparecchi Bell Boeing V-22 Osprey, che decollano in verticale come un elicottero e poi volano come un aereo ad ala fissa. Secondo cinesi e sudcoreani la «Izumo» è una «portaerei camuffata».
La distinzione non è di poco conto, perché la costituzione pacifista scritta sotto supervisione americana dopo la disfatta nella Seconda guerra mondiale vieta al Giappone la partecipazione a conflitti armati e la proiezione di forze all’estero. Gli esperti militari sono divisi sulle reali capacità operative della nuova ammiraglia giapponese: un’unità destinata alla sorveglianza delle coste e ai soccorsi umanitari o una nave da guerra che imbarca anche 500 fanti di marina pronti a salire sugli Osprey? Il pensiero va inevitabilmente alla contesa sulle isole Senkaku, controllate dal Giappone e rivendicate dalla Cina come Diaoyu.
In Asia bisogna fare i conti con i simboli e la memoria del passato. Quest’anno cadono i 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e russi e cinesi hanno annunciato l’organizzazione di due grandi parate: a Mosca il 9 maggio per la vittoria sulla Germania nazista e a Pechino il 3 settembre per la disfatta del Giappone imperialista nel teatro del Pacifico.
I due appuntamenti hanno tutte le caratteristiche di una sfida di potenza diplomatica. L’avventura di Vladimir Putin in Ucraina ha già fatto decidere alla Casa Bianca e alla maggior parte dei capi di governo europei di disertare la Piazza Rossa, anche se poi la cancelliera Merkel il 10 andrà con Putin a deporre una corona al Milite Ignoto russo. Come al solito l’Europa si muove in ordine sparso: si discute ancora sull’opportunità di far partecipare gli attaché militari dell’Unione in borghese invece che in uniforme. Tra i 26 leader che assisteranno alla sfilata il maresciallo nordcoreano Kim Jong-un e il presidente cinese Xi Jinping. Putin renderà il favore andando a Pechino.
Il problema politico più serio è quello della parata a Pechino. La Cina è la seconda potenza economica del mondo e gli europei fanno la fila per stringere accordi commerciali (l’ultimo esempio è l’adesione di Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia alla Banca per le infrastrutture in Asia, guidata da Pechino e osteggiata da Washington). Però, nella visione cinese, la commemorazione del 3 settembre deve servire a ricordare al mondo «la vittoria del popolo cinese nella guerra di resistenza all’aggressione giapponese». Gli occidentali rischiano così di fare da testimoni e comparse in una grande rappresentazione di retorica anti-giapponese.
Per Shinzo Abe sembra quasi una trappola. Il leader giapponese insegue una normalizzazione nei rapporti con la Cina, ma non vuole rinunciare alla sua linea nazionalista. Il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, ha detto che Abe è invitato «come tutti i rappresentanti dei Paesi interessati al conflitto». Ma poi ha aggiunto: «Daremo il benvenuto a chi ha animo sincero: 70 anni fa il Giappone ha perso la guerra, 70 anni dopo non deve perdere la sua coscienza. Il nostro obiettivo è ricordare la storia, commemorare i martiri, curare la pace e guardare al futuro, vedremo se il Giappone saprà togliersi dalle spalle quel peso per la guerra d’aggressione». Tradotto: Pechino esige scuse profonde da Tokyo.
Abe ha convocato un consiglio di saggi per decidere l’atteggiamento. Sia che accetti l’invito, sia che resti in patria (come indicano fonti del suo governo), dovrà fare un discorso anche lui, per ricordare quella mattina del 2 settembre 1945 quando i delegati del Sol Levante firmarono la resa incondizionata sul ponte della corazzata «Missouri» nella baia di Tokyo. Si sa che il premier è tentato dall’idea di cancellare la parola «aggressione» dal suo discorso di scuse per il passato imperialista.
Secondo fonti diplomatiche a Pechino citate dal Financial Times anche i leader europei hanno dubbi. Si può andare ad assistere a una prevedibile umiliazione dell’alleato giapponese e a una contemporanea esibizione di forza militare sulla Tienanmen? Si dice che i cerimonieri di Pechino stiano pensando per questo di far sfilare mezzi e reparti in forma ridotta al Ponte Marco Polo, dove il 7 luglio del 1937 i giapponesi crearono un incidente che diede inizio alla guerra.

Corriere 26.3.15
Guerra di missili e parole Fra Russia e Danimarca
risponde Sergio Romano


L’ambasciatore russo in Danimarca ha minacciato di usare armi nucleari contro le navi danesi se la Danimarca rappresenterà una minaccia contro la Russia. A prima vista sembra una minaccia esagerata, ma è proprio così? Non le sembra che la Nato stia esagerando?
Virgilio Avato

Caro Avato,
Come ha ricordato Luigi Ippolito sul Corriere del 23 marzo, le parole dell’Ambasciatore russo a Copenaghen, Mikhail Vanin, sono in un articolo pubblicato in un giornale danese. Non credo che si sarebbe espresso in questi termini se la sua linea non fosse quella del governo di Mosca. Affermazioni di questo genere, del resto, sono già state fatte in parecchie occasioni, negli scorsi anni, sia durante la presidenza di Dmitrij Medvedev, sia durante quella di Vladimir Putin. Quando la dirigenza russa annunciò che non avrebbe esitato, in determinate circostanze, a schierare missili nella regione di Kaliningrad (la vecchia Königsberg, una città che si affaccia sul Baltico tra Polonia e Lituania), non ignoravamo che quelle armi avevano una dotazione nucleare e sapevamo quali sarebbero stati i loro obiettivi. La storia comincia nel 1972 e merita di essere brevemente ricordata.
Nel maggio di quell’anno gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica firmarono uno dei più lungimiranti accordi della Guerra fredda. Ciascuno dei due Paesi aveva missili capaci di distruggere in volo un missile nemico ed era perfettamente in grado di costruire intorno al proprio territorio una fitta rete protettiva. Ma le due maggiori potenze, in tale caso, si sarebbero inevitabilmente impegnate in una gara costosa e potenzialmente pericolosa. Per evitarlo fu firmato un documento, noto come Trattato Abm, con cui gli Stati Uniti e l’Urss s’impegnavano a costruire soltanto due basi antimissilistiche, ciascuna delle quali sarebbe stata dotata di 100 missili. Mosca e Washington, in altre parole, si impegnavano formalmente a non perseguire la loro totale invulnerabilità: una condizione fondamentale per raffreddare il micidiale clima competitivo della corsa agli armamenti.
Il trattato durò sino a quando il presidente George W. Bush , nel 2002, dichiarò che gli impegni del 1972 impedivano all’America di creare una rete antimissilistica contro gli «Stati canaglia» e decise di denunciare il trattato. Quando fu chiesto quale fosse il potenziale nemico, Washington levò il dito contro l’Iran, ma l’affermazione non parve convincente anche perché la nuova base, nelle intenzioni dello Stato maggiore americano, sarebbe stata costruita in Polonia, mentre l’indispensabile radar sarebbe stato collocato nella Repubblica ceca. La Russia offrì un proprio radar situato in Azerbaigian, luogo particolarmente adatto a intercettare missili iraniani. Ma gli americani non accettarono. Le ricordo, caro Avato, che questo avveniva mentre la Nato aveva già iniziato la sua avanzata verso l’Unione Sovietica e che ne avrebbe oltrepassato le frontiere due anni dopo, nel marzo del 2004, incorporando Estonia, Lettonia e Lituania. Non è sorprendente, a questo punto, che la Russia si considerasse potenzialmente minacciata.
Il presidente Obama ha parzialmente modificato il progetto del suo predecessore e ha annunciato che i missili anti-missili saranno installati a bordo di navi americane e di Paesi disposti a collaborare. Se gli Stati Uniti speravano di dare in questo modo una risposta soddisfacente alle apprensioni russe, sbagliavano. Mosca continua a pensare, non senza qualche ragione, che la denuncia del trattato Abm dimostri l’esistenza di una politica americana alquanto diversa da quella di uno dei momenti migliori della Guerra fredda.

Repubblica 26.3.15
Abu Mazen
Nella casa natale dove giocava con l’amico ebreo
di Gad Lerner


ZFAT (ALTA GALILEA)NEL giorno del suo ottantesimo compleanno forse interesserà sapere a Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, residente nel palazzo della Muqata’a a Ramallah, che la casa di Zfat dov’è nato e da cui è fuggito come profugo nel 1948, quando aveva 13 anni, è ritornata disponibile.
«Sì, metto in vendita la casa che fu di Abu Mazen perché io e mia moglie siamo pure noi ottantenni, vecchi e malati. Ci siamo trasferiti da mio figlio. Lei quanto offre?».
Chi mi propone la trattativa è Avraham Pinko, immigrato dalla Romania con la signora Malka nel capoluogo mistico dell’alta Galilea pochi anni dopo che la famiglia Abbas aveva trovato ricovero di là dal confine, in Siria. Pinko ci tiene a precisare che ha tutti i documenti in regola: la casa è sua perché l’ha riscattata dal Fondo Immobiliare Nazionale incaricato di gestire le proprietà arabe rimaste disabitate dopo la guerra d’Indipendenza. Nel caso di Zfat, si trattò di ridistribuire fra gli immigrati e i sopravvissuti della Shoah i nove decimi delle abitazioni. Nel 1948 vivevano a Zfat 1200 ebrei e 11 mila arabi. Nel corso di una sola tragica notte piovosa, fra il 10 e l’11 maggio, la popolazione palestinese si radunò in un wadi e lasciò completamente deserta la città.
La palazzina che fu degli Abbas, con ciuffi di lavanda che gettano dalla pietra chiara e un albero di melograno in mezzo al patio sopraelevato, si trova al numero 100 di Jerusalem Street, in pieno centro storico. Resta la strada più animata di Zfat, piena di negozi con insegne ebraiche che vendono abbigliamento, smartphone, falafel. Accanto, la mutua Rosenberg. Ma appena più in basso svetta ancora un minareto solitario, senza più moschea.
Mi trovavo anch’io a Zfat da alcune settimane per studiare il fenomeno del messianismo ebraico che, a partire dal Sedicesimo secolo, ha visto riunirsi fra i cunicoli delle antiche sinagoghe i più venerati maestri della Kabbalah, da Yitzhak Luria detto l’Ari (“il Leone”) a Yosef Caro, da Chaim Vital a Moshé Cordovero. Ignoravo naturalmente di aver preso alloggio a pochi passi dalla casa natale del leader palestinese, come lo ignorano i chassidim nerovestiti che le formicolano intorno, i mistici yemeniti col turbante e la jiba di foggia orientale, i ragazzi all’apparenza hippie non fosse per quei lunghi cernecchi intrecciati che gli pendono sulle spalle.
Quando fotografo la casa, un automobilista si ferma a chiedere spiegazioni, e subito protesta: «Ti sembra il caso di accendere ancor di più quel tipo? Bada bene: era la casa di Abu Mazen. Non scrivere che è casa sua».
Non c’è pericolo. Lo stesso presidente dell’Anp che, a quanto pare, fece una visita in incognito a Zfat nel 1994, ha più volte ribadito la sua rinuncia ad accampare diritti sul suo luogo natale. Vuole costruire uno Stato palestinese accanto a Israele, non al suo interno. Nel 2014 ha inviato un messaggio agli israeliani il giorno della Shoah riconoscendo che lo sterminio degli ebrei è stato il crimine più efferato del secolo scorso (anche per rettificare certe affermazioni al limite del negazionismo scritte nella sua tesi di laurea a Mosca).
Vado in cerca di qualcuno che abbia fatto in tempo a conoscere Mahmud Abbas nell’ultimo tratto della secolare convivenza fra arabi ed ebrei a Zfat. La città, com’è inevitabile, è costellata di lapidi e monumenti di una memoria tutta a senso unico. All’ingresso del quartiere delle sinagoghe, sovrastante il cimitero in cui tuttora sono venerati i maestri cabalisti, hanno lasciato così com’era, perforato dalle pallottole e dai colpi di mortaio, l’edificio in cui resistettero asserragliati i combattenti del Palmach. Da lì cominciava l’antico insediamento arabo, con le sue moschee e le palazzine dagli archi orientali. Oggi viene chiamato Quartiere degli Artisti, sede di atelier e congregazioni religiose. Al museo HaMeiri finalmente mi indirizzano da un anziano membro della omonima famiglia persiana immigrata a piedi da Shiraz sette generazioni orsono.
Si chiama Gabi Hameiri, i suoi occhi luccicano ricordando l’amicizia fra suo padre Schlomo e Mohammed Abbas, il padre del presidente palestinese: «Erano grossisti di generi alimentari. Gli Abbas avevano anche della terra e un po’ di vacche. Diventarono soci, fra loro bastava guardarsi negli occhi e stringersi la mano. Per anni hanno gestito insieme un caseificio in cui si producevano i migliori formaggi di Zfat. Mai uno screzio, fra l’arabo e l’ebreo, nonostante che dal 1929, e poi di nuovo nel 1936, la situazione fosse precipitata. Vi furono pogrom nel quartiere ebraico, omicidi barbari come quelli del Daesh».
Sarà Gabi Hameiri a guidarmi verso la casa di Abu Mazen, proprio come fece con lui, tenendolo per mano, suo padre nel 1947, prima che tutto precipitasse: «Dovevano verificare insieme la contabilità, e io gli chiesi di accompagnarlo. Mamma non voleva perché la tensione era già alta. Abitavamo a pochi metri dalla sinagoga dell’Ari. In una cantina nascondevamo anche noi delle armi. Il mio fratello più grande, Naim, era stato arrestato dagli inglesi perché militava nell’organizzazione sionista clandestina Betar. Lo stesso ho fatto il mio capriccio e sono riuscito a convincere mio padre a portarmi con sé nel quartiere arabo».
Per la strada il piccolo Gabi era colpito dalla deferenza con cui i palestinesi salutavano il grossista ebreo Schlomo Hameiri, chiamandolo per onorarlo “Abu Naim”, cioè “padre di Naim” (proprio come Mahmud Abbas vuole essere chiamato Abu Mazen, in ricordo del defunto primogenito Mazen).
«Arrivati in Jerusalem street, ci togliamo le scarpe e veniamo fatti accomodare nella sala degli ospiti, contornata di giacigli, alle pareti foto incorniciate d’oro e versetti del Corano. Ricordo la mia gioia per i baklawa e le bevande squisite dispensate agli ospiti. Per curiosità di vedere gli ebrei in casa loro, scesero anche i figli del signor Abbas. Proprio così, ho giocato con Mahmud. In una palazzina che ricordo non sfarzosa ma rivelatrice di un solido benessere».
Fu, quella, la prima e l’ultima volta di Gabi in casa Abbas. E il perché è presto detto.
Mohammed Abbas, il palestinese: «Come ti vanno le cose, caro Abu Naim?». Schlomo Hameiri, l’ebreo: «Non così bene. Mio figlio è stato arrestato dagli inglesi ».
«Arrestato? Ma allora è un terrorista! ». «Non è un terrorista. Vuole solo che non si ripeta mai più quel che ci avete fatto nel ’29 e nel ‘36».
Seguirono minuti di silenzio da tagliare con il coltello. «Poiché i conti economici erano stati saldati, mio padre mi prese per mano, disse ‘ alekum salam’ e ce ne andammo pieni di spavento».
Era il 1947, l’anno della frattura definitiva. Il 16 aprile 1948 il comando britannico sollecitò Rabbi Moshé Podhorzer, capo della comunità ebraica di Zfat, a evacuare per lo meno le donne e i bambini, essendo soverchiante la forza di quattro eserciti arabi concentrati nella difesa della città. Ma il quartier generale dell’Haganà decise al contrario che bisognava restare, e non ci furono defezioni.
Nei combattimenti successivi il Palmach coadiuvato da azioni clandestine dell’Irgun espugnò la Cittadella di Zfat e circondò i quartieri arabi. Un monumento ricorda i 42 soldati ebrei caduti in quella battaglia. Molte case arabe furono saccheggiate (c’è chi dice dai militari siriani, libanesi, iracheni e giordani in fuga; chi dai combattenti sionisti).
Quel giorno le donne della famiglia Abbas, insieme al tredicenne Mahmud, erano già state fatte allontanare, mentre gli uomini si fermarono a combattere. Invano. L’evacuazione totale della Zfat araba si completò in poche ore, prima dell’alba dell’11 maggio. Il 14 maggio 1948 David Ben Gurion proclamava a Tel Aviv la nascita dello Stato d’Israele.
Chiedo a Gabi Hameiri se se la sente di inviare a mezzo stampa auguri di buon compleanno al suo coetaneo Mahmud Abbas, nato come lui a Zfat il 26 marzo 1935. Ci pensa un po’, deglutisce, esita: «Per potergli fare gli auguri, io ebreo che ho giocato con lui, ospite in casa sua, ma ne sono uscito pieno di paura, ho bisogno che prima Abu Mazen dica al suo popolo la verità». Quale verità? «Da 120 anni versiamo il sangue dei nostri due popoli. Basta. Abu Mazen, dì alla tua gente che questa terra non è estranea agli ebrei, che lo stesso Maometto è arrivato dopo, i nostri diritti non possono essere negati. Dopo che lo avrai detto, sarò felice di augurarti mazal tov per i tuoi ottant’anni, e invitarti a rivedere la casa della tua lontana infanzia».

Repubblica 26.3.15
Il Nobel senza pace
Dopo la cacciata del capo del comitato di Oslo che assegna il riconoscimento più controverso, viaggio tra i luoghi e gli uomini dell’istituzione che premiò in passato Luther King e Mandela
Ora colpita da veleni e da sospetti di un intrigo internazionale con la Cina
di Andrea Tarquini


OSLO DA OLTRE un secolo, è onore, e più ancora difesa e scudo, dei più coraggiosi eroi della dignità umana: anche per le dittature più spietate, arrestare o perseguitare chi lo riceve è a volte imbarazzante. Ma eccolo diventato luogo di scontro e di veleni. Come in un bel libro giallo della letteratura scandinava dei nostri giorni, fazioni opposte si contendono il diritto di definirne autonomia, prestigio, legittimità. E ombre del potere si stagliano, minacciose secondo alcuni, come limiti della sua libertà. Poteri nazionali di una democrazia matura come la Norvegia, e superpotenze autocratiche e spregiudicate quali la Repubblica popolare cinese, o la Russia di Putin. Sì, parliamo proprio di lui: il premio Nobel per la pace, il più prestigioso dei riconoscimenti che Alfred Nobel lasciò in eredità al mondo per espiare la sua colpa di aver inventato un’arma sterminatrice delle guerre moderne, la dinamite. Giallo, guerra di veleni, confronto duro tra diplomazie, e chi sa come finirà l’avventura.
«Quel che è appena accaduto è una prima volta, ecco in breve i fatti. Per la prima volta dal 1901, da quando il premio esiste, è accaduto che un capo del Comitato norvegese per il Nobel per la pace è stato costretto a lasciare l’incarico contro la sua volontà». Il sole invernale scalda appena il luminoso bel centro di Oslo, mentre ascolto Asle Sveen, il grande storico del Nobel e massima voce critica. «E parliamo di Thorbjoern Jagland, un politico laburista di spicco, ex ministro, ex premier, ora attivo a livello europeo a Strasburgo, insomma non d’un personaggio qualunque ». Poltrone di nomina politica, da sempre, quindi vulnerabili sebbene non condannate per forza a ogni cambio di maggioranza. Nel bel paese dei fiordi la destra conservatrice ha sconfitto in libere elezioni i laburisti. Al posto di Jagland, i conservatori hanno voluto la signora Kaci Kullmann Five, statista di tutto rispetto. Ma nel clima dei veleni, tra il palazzo reale spettatore infastidito, lo Storting (Parlamento) e la bella palazzina neoclassica al civico 51 di Henrik Ibsen Gata, sede del Norwegian Nobel Committee, gli sconfitti hanno parlato di segnali alla Cina, che dopo il Nobel a Liu Xiaobo aveva congelato ogni rapporto con Oslo.
«Eh no, andiamoci cauti con le accuse», mi dice Olav Njoelstad, direttore dell’Istituto per il Nobel, la massima autorità amministrativa, nel suo austero ufficio stracolmo di bei libri antichi al secondo piano di Henrik Ibsen Gata, «la signora Kullmann Five sedeva nel comitato che, guidato da Jagland, scelse Liu, e lei sostenne la decisione a spada tratta ». È anche vero, ma il clima non si rasserena. «Cosa sia realmente accaduto nel Comitato non lo sapremo mai», nota Sveen, e aggiunge suspence al Nobel-thrilling di fine inverno. «Forse i partiti di destra in maggioranza hanno voluto uno di loro, è legittimo. E l’integrità di Kullmann Five è insospettabile. All’opposizione, lei guidò la Commissione parlamentare per il Tibet. Ma vede, caro amico, una cosa è all’opposizione, altro è governare: il ministro degli Esteri conservatore ha rifiutato di ricevere il Dalai Lama, incoronato col Nobel proprio da noi, e ha definito prioritario un disgelo con la Cina. Ecco dove nascono i boatos di attacchi all’indipendenza ». Qualsiasi motivazione abbia mosso la nuova maggioranza di Oslo, a Pechino non basta per nulla. Inutile, osserva la Confindustria norvegese, sperare in un disgelo che sarebbe prezioso per la pur floridissima economia. «Tanti leader del Comitato prima di Jagland rimasero in carica, anche avendo una maggioranza contro », nota Sveen. E allora, quanto è serio il colpo alla credibilità del premio che difese Martin Luther King, Lech Walesa e Nelson Mandela dagli oppressori? «Al tempo, Liu Xiaobo scelto anche dalla destra è stata una sfida alla Cina, consapevoli che il nostro export ne avrebbe risentito in nome di valori costitutivi».
Decenni di storia, attraverso le tragedie del mondo in cui viviamo, scorrono in flashback veloci. Polemiche e attacchi investirono il Norwegian Nobel Committee già negli anni Trenta, quando scelse il grande antinazista Carl von Ossietzky, poi assassinato in un lager: a qualcuno non piaceva turbare l’appeasement verso Hitler. «Allora lo Storting decise che nessun ministro poteva sedere nel Committee. Era il 1937, poi la Wehrmacht invase. E la Norvegia si divise tra il movimento partigiano fedele al re esule a Londra e i collaborazionisti di Quisling.
Scelte controverse compromettono tutti, osserva Sveen: il Nobel a Obama fu visto da molti come frettoloso omaggio a un presidente che comunque conduce guerre, ma al contrario del Dalai Lama Obama fu ricevuto qui, anche come detentore del premio. Sul Nobel all’Unione europea, hanno sparato a zero alcuni illustri premiati, da Mairead Maguire a Desmond Tutu, ad Adolfo Perez Esquivel. È tempo di tornare ai valori originari, al testamento di Alfred Nobel, dice l’appello lanciato da The Nobel Price Watch e firmato da politici e intellettuali di tutto il mondo. «Però attenzione», incalza Nyoelstad, «sarà la natura dei media ma è singolare che i grandi giornali che attaccarono la scelta di Jagland come golpe laburista oggi criticano la sua sostituzione ». Verità amare, sembrano suggerirmi i miei due Virgilio virtuali nella capitale della pace. Che governino sinistre democratiche o destre democratiche, la fedeltà ai valori con cui il Nobel difese il padre e conciliatore del nuovo Sudafrica, un coraggioso elettricista di Danzica, una bella lady birmana indomita di fronte a generali spietati, uno scienziato atomico disgustato dal gulag e una straordinaria ragazza pakistana, nel mondo d’oggi ha in ogni istante fianchi scoperti. «Eppure sono ottimista per le scelte future, anche i conservatori nel Committee hanno interiorizzato orgoglio d’indipendenza», sorride Asle Sveen. «La maggioranza delle scelte sono destinate a essere controverse, e sono quelle che media e pubblico ricordano più a lungo. Eppure il nostro Nobel, per conservare un ruolo nel mondo dei mille conflitti, deve restare controverso, scudo ai perseguitati, riconoscimento a chi rischia come Rabin o Sadat che poi finirono assassinati, o incoraggiamento a chi inizia come Obama, o come l’Europa unita, addio a secoli di guerre soprattutto tra Germania e Francia».
Ottimismo della volontà, ribattono qui i media, ricordando l’onnipotenza crescente e spregiudicata della Cina pigliatutto: il premio non sposa partiti, ma difendendo valori vuole essere politico, dicono a Henrik Ibsen Gata. Vedremo, dicono i nostri duellanti gentiluomini, chi sarà premiato in questo 2015 martoriato da atrocità e aggressioni, dall’Is alle guerre ibride russe. «Certo», conclude Sveen, «l’obiettività assoluta non esiste, ma ho le mie speranze: sarebbe bello scegliere Novaja Gazeta, l’organo d’informazione che sfida Putin». Non è impossibile, fa capire Njoelstad. Vedremo, sarà il test decisivo per lo scudo degli eroi del nostro tempo.

Repubblica 26.3.15
 Dario Fo: “Altro che neutralità i veri padroni sono i politici”
di Anna Bandettini


«PER fortuna i responsabili del Nobel che mi hanno assegnato il premio hanno una storia ben diversa, e soprattutto un prestigio culturale opposti a quelli del Nobel norvegese», scherza, ma nemmeno poi tanto, Dario Fo. L’artista, 89 anni compiuti il 24 marzo, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1997, spiega: «Un conto è il premio che viene assegnato tutti gli anni a Stoccolma, uno dei più seri al mondo a guardare la situazione generale dei premi, selezionato con regole rigidissime, controlli incrociati sui candidati e così via. Un conto, per quello che ne so, è il Nobel della Pace, assegnato in Norvegia, deciso da un comitato composto da persone scelte dal Parlamento norvegese, condizionato come si vede in questi giorni dai cambiamenti politici di quel paese».
Questo condizionamento della politica le sembra normale?
«Macché! E’ una bella sberla alla neutralità che un premio davvero prestigioso dovrebbe avere. Tanto per essere chiari: non verrebbe mai in mente a nessun governo svedese di far saltare tutto l’impianto del Nobel per la Letteratura o per la Chimica, in conseguenza di un cambio politico. Questo stabilisce la misura della diversa serietà dei due premi Nobel».
Come riformare allora quello della Pace?
«Non mi intendo di statuti ma, so che, almeno negli ultimi premi, è stato assegnato anche a persone che la pace l’hanno semmai calpestata».
Si riferisce a Obama, Nobel per la Pace controverso per il suo ruolo di comandante in capo delle forze armate?
«No, il premio a Obama lo posso anche capire. In fondo era da intendersi come una sollecitazione, un segno simbolico alla più grande potenza del pianeta: tu che sei il primo presidente nero americano, democratico, mantieni le promesse per una trasformazione reale del tuo paese anche rispetto al suo ruolo nello scenario internazionale, battiti perché il tuo paese non finanzi più le guerre nei vari punti del pianeta come è stato finora, perchè in Iraq Obama, in fondo, ci si è ritrovato per colpa di Bush. Personalmente trovo più inaccettabile il premio assegnato all’Europa nel 2012. Una gaffe vergognosa».
Che c’è di scandaloso? In Europa non c’è una guerra da settant’ anni.
«L’Europa non le fa ma ha l’arsenale bellico più ricco del pianeta e partecipa alle guerre fornendo alle nazioni belligeranti tonnellate di armi: francesi, tedeschi, italiani. E poi basterebbe vedere come sta lasciando morire senza battere ciglio tanti profughi che muoiono non lontano dal suo territorio o che tentano di salvarsi qui da noi. Chiaramente aver dato il Nobel della Pace all’Europa era una scelta politica di sostegno ai governanti che hanno in mano le sorti del nostro continente».
Ma allora come dare un valore autentico al Nobel per la Pace?
«Forse non serve così, per avallare questa o quella politica. Servirebbe invece se fosse la testimonianza simbolica da dare a chi fa davvero un lavoro importante e chiaro di denuncia. Contro chi grazie alla guerra si arricchisce di soldi e potere».

Corriere 26.3.15
Il pamphlet di Tomaso Montanari (Einaudi)
Giù le mani private dai Beni culturali
Ma l’alternativa è una fragile utopia
di Pierluigi Panza


L’ impegno che caratterizza lo storico d’arte e critico militante Tomaso Montanari lo porta nel suo ultimo j’accuse ( Privati del patrimonio , Einaudi, pp. 166, e 12) a fissare in un episodio del ‘600 il mito fondativo del rapporto che dovremmo stringere con i Beni culturali. È l’episodio dei contadini della Val Brembana che rifiutarono di cedere quadri in cambio di fieno durante una carestia. È un archetipo condivisibile, come lo è l’idea che sia il «patrimonio a farci nazione non per via di sangue, ma per via di cultura» (dal che deriva che intendiamo restare una nazione, senza cedere quote di sovranità). Condivisibili sono molte altre affermazioni del pamphlet-j’accuse di Montanari: «Non è accettabile la mercificazione ad ogni costo», «c’è da chiedersi se sia giusto andare verso un continuo aumento della dimensione commerciale dei musei» così come, aggiungiamo, verso una dimensione virtuale delle mostre. Inoltre, se il fine della trasmissione del patrimonio è la conoscenza, «lo Stato non deve prestare qualsiasi opera pubblica a qualunque mostra», «non deve riconoscere abnormi contropartite in cambio di sponsorizzazioni» o «adattarsi a fare il maggiordomo in fondazioni di cui è il massimo contribuente» o «consentire a uno stilista di disporre di un ponte di Firenze come sala da pranzo».
Tutte queste considerazioni definiscono il perimetro di un alto ideale che trova casa nel «migliore dei mondi possibili». Ma un ministro dei Beni culturali e gli operatori di settore di un Paese che sta svendendo aziende, lavoro... possono davvero operare tenendo conto di tutte queste indicazioni? È difficile; inoltre credo che nel settore della tutela dei Beni non sia più tempo per pensare teorie o sovrapporre ideologie, perché l’unica via è quella del pragmatismo nelle regole (da cambiare), è il primum vivere per salvare i moribondi mutilati di un teatro di guerra. Anche se tagliassimo una parte di spese militari davvero pensiamo che in un Paese con duemila miliardi di debito il ricavato andrebbe interamente ai Beni culturali? E gli anziani? Gli ospedali? Le politiche d’integrazione? Le energie alternative? Il dissesto idrogeologico?
In queste condizioni continuare a declinare che sia tutela che gestione debbano essere esercitate esclusivamente dallo Stato, e tutto il resto sia un atto di Submission alla odiosa finanza globale, diventa una predicazione sotto le bombe. Accompagnata dalla stesura di una lista di proscrizione verso coloro che hanno parlato, almeno una volta nella vita, di Beni culturali come «petrolio nazionale». L’elenco inizia con Craxi e Berlusconi, passa da Veltroni per arrivare a Renzi, transitando per giornalisti o studiosi diventati, per Montanari, «accoliti del culto privatistico», ovvero adepti di una religione del male contro la quale combattono gli illuminati del bene.
Certo, se la premessa è che il capitalismo sia male e ogni gesto privato nasconda un bieco interesse, ogni proposta è sospetta. Forse, filosoficamente è vero che ogni umano gesto attenda una ricompensa, ma allora che facciamo delle fondazioni private che funzionano? E del non profit? Dei donatori? Del crowdfunding?
È tempo di agire in un sistema di rinnovate regole: i beni non si sfruttano, con i beni non si mangia, ma si mantengono. Caro privato, non ti do un ricco museo lasciando a me onerosi siti archeologici! Se vuoi il primo devi farti carico dei secondi. E se vuoi usare fuori orario un bene per uso privato e consono, ti chiedo molti soldi in favore della conservazione degli altri beni.
Certo, se poeticamente abitasse l’uomo sulla terra (Heidegger) uno Stato efficiente e giusto si curerebbe di ogni bene. Ma non è stagione per il dottor Pangloss: in un secolo il mondo è passato da uno a sette miliardi di abitanti, l’Europa ha perso il dominio economico e dilaga una religione del mercato che non può essere abbattuta partendo dalle nostre venerabili ruine.

il Fatto 26.3.15
L’altra Heimat. La saga di Reitz non è finita
di AM Pas.

Non solo serie tv americane. È in uscita nelle sale solo per due giorni (31/3 e 1/4) il 4° capitolo della celebre saga Heimat, ideata e diretta Edgar Reitz. Evento speciale fuori concorso a Venezia 2013, L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht) racconta in 230’ le avventurose vicende degli antenati della famiglia Simon a partire dal 1840, nella cittadina immaginaria di Schabbach, della Prussia rurale. Realizzato a 7 anni di distanza da Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale, Heimat 4 è più sintetico dei precedenti senza rinunciare all’epica emozional-familiare di cui la saga è notoriamente portatrice. Per presentarlo all’uscita italiana, Reitz è in un tour promozionale che ha toccato Milano, Torino, Roma e oggi Bari al Bif&st.