domenica 29 marzo 2015

Repubblica 28.3.15
Andreas, suicida e boia la sindrome di Narciso sul volo della morte
di Massimo Recalcati

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Psychiatryonline.it 28.3.15
Volo A320 Germanwings: la Sindrome di Sansone
di Francesco Bollorino

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ilsussidiario.net 27.8.15
Andreas Lubitz, decidere di schiantarsi perché non si riesce più a "volare"
di Luigi Campagner

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il Fatto 29.3.15
Lubitz e i suoi fratelli: piloti fra alcol e medicine
di Mattia Eccheli


UN COMANDANTE RIVELA ALLO SPIEGEL: “ASSENZE PER STRESS IN AUMENTO”
IL PORTAVOCE DI LUFTHANSA: “NON CONOSCIAMO LE MALATTIE DEI DIPENDENTI”

Düsseldorf Determinante prima, irrilevante poi. È il test psico attitudinale per gli aspiranti piloti. Quello senza il quale solo meno di un terzo dei candidati arriverebbe in fondo. L'edizione online di Der Spiegel rivela che, archiviato quello, più del 90% supera l'addestramento. È un esame così importante da non venire mai più ripetuto. Eppure è proprio durante la formazione e nel corso della vita, lavorativa e non, che i piloti (e non solo loro, come qualsiasi lavoratore) accumulano stress e patologie.
UN COMANDANTE di lungo corso, rigorosamente anonimo, “pizzicato” sempre dal magazine tedesco, rivela che le assenze “per sindromi da stanchezza cronica e problemi psichici sono aumentate drasticamente”. Eppure, avverte, i suoi colleghi tirano avanti lo stesso: “Grazie all'alcol e ai medicinali”. Il management mette sotto pressione la categoria (Andreas Lubitz si sarebbe lamentato delle condizioni di lavoro e manifestato timori per il contratto con una ex compagna), ma le compagnie non forniscono dati circa la diffusione dello stress. “La Lufthansa non ha informazioni sulle eventuali malattie che colpiscono i suoi dipendenti. Nel caso dei piloti, abbiamo certificati di idoneità, di non idoneità o di idoneità con riserva al volo”, ha conermato all’Ansa Helmut Polksdorf, portavoce di Lufthansa. Il problema, esattamente come è stato per Andreas Lubitz, è che pochi ufficiali condividono eventuali “disturbi”. I rischi di restare fuori dalla cabina sono troppi. Il copilota del volo 4U9525 era malato (citando fonti investigative, Welt am Sonntag parla di una grave sindrome psicosomatica e di numerosi medicinali rinvenuti durante la perquisizione della sua abitazione): i medici ne erano a conoscenza e il primo ufficiale era in cura. E poi, la vista: quella di Andreas Lubitz si era abbassata già di circa il 30%. È quanto rivelano fonti investigative francesi, citate da Le Figaro. Chi veramente avrebbe dovuto saperlo, il suo datore di lavoro, non poteva esserne informato. Solo così un giovane che sognava di assumere il comando di un aereo civile è riuscito a far schiantare un A320 con a bordo 144 passeggeri e altri 5 membri dell'equipaggio. Ammazzando loro e seppellendo la burocrazia medica e aeronautica. La clinica universitaria di Düsseldorf ha confermato che Lubitz era in terapia, ma non per problemi mentali, anche se di origine forse psicosomatica. L'azione assassina di Lubitz – ma gli inquirenti dicono di non escludere ancora il guasto tecnico – ha messo in risalto le possibili falle di un sistema. Raphael Diepgen, psicologo all'Università di Bochum e esperto pilota civile, ha manifestato dubbi sulla validità degli esami sui candidati: “Che i test siano in grado di distinguere tra quelli idonei è oltremodo discutibile”.
ESISTONO SOCIETÀ specializzate che offrono costosi corsi per affrontare la prova psico attitudinale e la DLR che lo conduce non può sapere chi l'abbia frequentato e chi no. Ci sono aspiranti che ripetono il test più di una volta. Lo stesso numero uno di Lufthansa, Carsten Spohr, già pilota, aveva chiarito che nella selezione non vengono cercati i migliori, ma quelli con determinati caratteristiche. Tra le quali la predisposizione al lavoro di gruppo. Esattamente quello che non aveva Lubitz. La Süddeutsche Zeitung ha scoperto che la cartella di Lubitz era di quelle con la sigla SIC, che sta per Specific Regular Medical Examination. I sanitari devono attestare l'idoneità, ma non sono tenuti ad informare l'azienda del tipo di problemi. Una garanzia della privacy dei piloti, ma non una tutela per tutti gli altri e della quale Lubitz si è servito. L’ex fidanzata del primo ufficiale, ha rivelato alla Bild che il giovane le aveva confessato che “un giorno tutto il mondo conoscerà il mio nome”.

Corriere 29.3.15
Quei punti di contatto tra Lubitz e i killer di massa statunitensi
di Guido Olimpio


Andreas Lubitz somiglia sempre di più agli sparatori di massa americani. Quelli che vanno in ufficio o in una scuola e compiono un massacro. Il killer stermina chi ritiene — ingiustamente — sia responsabile dei suoi guai. E l’atto finale è spesso il suicidio. C’è chi si tira un colpo in testa e chi, come il copilota, spinge l’Airbus verso l’ostacolo naturale. La montagna. In molte storie gli stragisti, con profili diversi, sono passati all’azione per fasi. Quelli di Columbine hanno preparato un piano durato anni, perché si consideravano guerrieri incompresi. Parlavano di «rivoluzione», erano assassini. Adam Lanza, il ragazzo che ha sterminato i bimbi di Newtown, ha colpito alla vigilia di un trasferimento. Non è certo che quella sia la causa, ma è una delle ipotesi. C’è sempre un elemento scatenante ravvicinato. Le notizie che trapelano dalla Germania sostengono che Lubitz dovesse sottoporsi ai test di idoneità. Forse temeva che venissero a galla i problemi fisici. Il suo sogno era stato sempre quello di pilotare aerei, c’era riuscito e voleva diventare comandante. Una carriera ora in pericolo. Di nuovo sono tanti i paralleli con quanti hanno imbracciato un fucile per sfogarsi contro chi non aveva fatto proprio nulla. In queste situazioni ci si chiede sempre se qualcuno, dai medici ai familiari, non abbia mancato di cogliere un segnale. Non sta a noi giudicare, ma spetta agli inquirenti capire. Lubitz avrebbe detto alla sua ragazza: «Un giorno tutti conosceranno il mio nome». Per questo c’è chi suggerisce di non citare mai sui media l’identità dei killer di massa. Per non dare loro la notorietà che cercano.

Corriere 29.3.15
Negli Usa non avrebbe potuto lavorare
Lubitz ai comandi solo in base al training tedesco. In America era «studente pilota» e «pilota privato» Esplode il caso dei test: problemi psicologici spesso negati o nascosti. «Compagnie senza informazioni»
di Danilo Taino


DAL NOSTRO INVIATO DÜSSELDORF La licenza di pilota di aerolinea di Andreas Kubitz era frutto solo dell’addestramento effettuato nella scuola della Lufthansa. Al contrario di informazioni circolate nei giorni scorsi, il ventisettenne che martedì scorso ha schiantato l’A320 sulle Alpi francesi non è mai stato qualificato come pilota di linea dalla Faa americana. A quanto risulta al Corriere , la Federal Aviation Administration negli anni scorsi ha emesso due certificati di iscrizione di Lubitz nei suoi elenchi. Il primo, il 18 giugno 2010 come «studente pilota»: poteva volare accompagnato da un istruttore. In quell’occasione, il giovane fu anche sottoposto a test medico di «terza classe», cioè del grado meno severo tra quelli previsti ma che comunque comprendeva la necessità di una vista di 20 quarantesimi per occhio e l’assenza di disordini della personalità, psicosi, tendenze al bipolarismo.
Il secondo certificato la Faa lo ha rilasciato a Lubitz il 1° giugno 2012, ma come «pilota privato» — quindi ben lontano dalla qualifica di «Airline Transport Pilot» che deve avere chi conduce aerei passeggeri — con la licenza limitata ad aerei a un solo motore e alianti. Per mantenere questa licenza, avrebbe tra l’altro dovuto sottoporsi a una nuova visita medica presso medici autorizzati dalla Faa cinque anni dopo il primo test, per verificare se qualcosa era cambiato: cioè il prossimo giugno. Forse i problemi psichici sarebbe riuscito a nasconderli, quelli alla vista (dei quali si è saputo ieri) difficilmente.
L’addestramento e l’abilitazione a volare su aerei con passeggeri, dunque, Lubitz li ha ottenuti in due centri di training della Lufthansa, uno a Brema e l’altro all’Atca di Goodyear, Arizona, un campo interamente posseduto dalla compagnia tedesca. Era a tutti gli effetti ed esclusivamente un «pilota LH». Fatto che non alleggerisce, anzi, il senso di crisi che in questi giorni l’aerolinea tedesca sta attraversando. I sistemi delle compagnie aeree in fatto di valutazione del personale iniziano a essere messi in discussione e le spiegazioni che il gruppo tedesco sta dando sono obiettivamente deboli. Ieri, Raphael Diepgen, psicologo della Ruhr-Universität di Bochum, pilota egli stesso, ha tracciato per il settimanale Spiegel un quadro del mondo dei piloti nel quale i problemi psicologici sono regolarmente nascosti e negati dietro un muro di auto-repressione e di paura per il posto di lavoro.
La regola diffusa è che, a un certo punto della carriera, la stabilità psichica di un pilota non viene più controllata: difficile dire se per vizio delle aziende o per opposizione di lavoratori che si sentono sotto pressione. Il mestiere di pilota non è da pantofole: si porta livelli di tensione elevati che negli ultimi anni sono anche aumentati in ragione di orari di lavoro prolungati. Un comandante — venti anni di esperienza — racconta allo Spiegel che i certificati di malattia sono aumentati; ma allo stesso tempo molti suoi colleghi non vogliono fare sapere di non stare bene, quindi continuano a lavorare e «alcuni assumono alcol o droghe». Ieri si è saputo che in casa di Lubitz la polizia ha trovato psicofarmaci. Nonostante questa realtà, le compagnie, compresa Lufthansa, non forniscono dati sui disordini mentali dei piloti, sostengono di non esserne a conoscenza.
Ieri, un portavoce ha detto all’agenzia di informazioni Ansa che «Lufthansa non ha informazioni sulle eventuali malattie che colpiscono i suoi dipendenti». Solo certificati di idoneità al volo verificati ogni anno da medici indicati dalle autorità tedesche. Ma niente di specifico sullo stato mentale, che non può ovviamente essere considerato immutabile nel tempo. Situazione che oggi solleva seri interrogativi sull’approccio alla sicurezza dei voli.
È che, fino a una settimana fa, di problemi mentali in cabina di pilotaggio non si poteva parlare. Lufthansa dovrà iniziare a farlo. In fretta.

La Stampa 29.3.15
La chiusura degli Opg spaventa medici e pm: “Rischi per la sicurezza”
Il 31 marzo l’Italia dice addio ai vecchi manicomi criminali. “Con la nuova legge molti internati pericolosi usciranno”
di Paolo Russo

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La Stampa 29.3.15
Ignazio Marino: gli assassini non andranno per strada
“Il consiglio d’Europa li definì luoghi di tortura. Giusto voltare pagina”
intervista di Mattia Feltri

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La Stampa 29.3.15
Fotoreportage
Viaggio negli ospedali psichiatrici giudiziari
di Caterina Clerici

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Il Sole Domenica 29.3.15
La chiusura degli opg
Chi cura i «pazzi morali»?
È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali

Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180
di Gilberto Corbellini e Elisabetta Sirgiovanni


Il 31 marzo 2015 chiuderanno definitivamente gli ultimi istituti deputati in Italia alla cura e detenzione dei malati psichiatrici criminali: gli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Di “manicomi criminali”, come li si chiamava all’epoca della loro istituzione nel 1870, sostenuta dalle teorie di Cesare Lombroso, ne sono rimasti sei: ad Aversa (1876), a Montelupo Fiorentino (1886), a Reggio Emilia (1897), a Napoli (1922), a Barcellona Pozzo di Gotto (1925), a Castiglione delle Stiviere (1939) e a Pozzuoli (1955). Gli Opg rientravano nelle misure di sicurezza controllate dal Ministero della Giustizia per colpevoli di reati gravi che, pur non ritenuti imputabili per le azioni commesse, in quanto diagnosticati infermi di mente, sono pericolosi per la società. Un tempo si definivano “pazzi morali”.
Perché li chiudono? Nel corso del 2010 una Commissione di inchiesta del Senato, dopo sopralluoghi in queste strutture, che ospitano oggi in tutto 700 pazienti circa, rileva in alcune di esse condizioni di degenza sconcertanti, documentate da video e fotografie: scarsa presenza di personale medico e mezzi, sovraffollamento, degrado strutturale e igienico-sanitario, reclusi in pessime condizioni e privi di supporti educativi o ricreativi. Come nel caso di un paziente tenuto nudo in stato di contenzione, legato con garze e con un evidente ematoma sul cranio della cui causa non c’è traccia nelle cartelle. Ma fu trovato anche un internato che, pur avendo ottenuto dalla magistratura l’autorizzazione al trasferimento, veniva trattenuto per mancanza di struttura territoriale adeguata, o altri due malati con ferite non documentate e vari casi di patologie fisiche non curate. In un video si dichiara di aver conosciuto un malato internato anni orsono solo perché usava vestirsi da donna. La descrizione dell’ospedale di Castiglione delle Stiviere (Mn) nella relazione della commissione, invece, si discosta positivamente dalle altre.
Nell’ambito del decreto legge cosiddetto “svuota-carceri” (22 dicembre 2011, n. 211) e sull’onda dell’atmosfera creata dalla condanna dell’Unione Europea per la situazione carceraria in Italia, si decide frettolosamente di far fronte alla situazione con un articolo che subisce rinvii fino all’ultimo (Dl 30 maggio 2014, n. 81) e che impone la definitiva chiusura degli Opg in favore di nuove strutture locali dette Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria), gestite dalle Regioni e dal ministero della Salute. I pazienti più pericolosi verranno trasferiti nelle Rems, gli altri nei reparti psichiatrici degli ospedali territoriali. A oggi, solo dieci Regioni su venti si dicono pronte a gestire questo cambiamento, il ministero della Salute minaccia il commissariamento per le altre e cresce lo sconcerto tra gli operatori della salute mentale che si sentono impreparati a fronteggiare la situazione. A metterci il carico, le assurde pretese delle associazioni in difesa della chiusura che chiedono l’abolizione anche delle Rems, e la riabilitazione completa degli internati.
Il diciannovesimo secolo fu il secolo del “sistema degli asili”, quando si consolidò la cura del malato psichiatrico in luoghi specializzati, che costituivano un’evidente evoluzione terapeutica rispetto alla precedente carcerazione. Fu il medico francese Philippe Pinel nel 1793 a iniziare la sua battaglia per la fondazione di questi istituti proprio con un atteggiamento di tipo etico, che intendeva liberare il paziente psichiatrico dalle mostruosità della detenzione come incatenamenti e violenze brutali. Negli anni Sessanta libri come Asylums (1961) del sociologo canadese Erving Goffman o Manicomi come lager (1966) del giornalista italiano Angelo del Boca denunciavano gli orrori dei trattamenti manicomiali, e in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e antiscientifici.
Quello che il clima ideologico anti-asili degli anni Settanta ha diffuso in Italia è un ragionamento infondato e insidioso, oltre che ascientifico: collegare l’attenzione etica al paziente neurologico e psichiatrico con l’idea falsa che le malattie mentali non esistano affatto e, in particolare, che non possano essere dannose per chi le ha e per coloro che gli sono intorno. Come accade per qualunque malattia, non tutte le condizioni psichiatriche richiedono interventi o causano gravi sofferenze o predispongono a comportamenti gravemente dannosi per sé o per altri. Ma alcune di esse sì. Le malattie psichiatriche non sono il frutto dell’immaginazione dei clinici o peggio uno strumento di potere e repressione, perché quando è così non si tratta di malattie psichiatriche. Anzi, è proprio chi sostiene che le malattie del cervello esistono e vanno diagnosticate e trattate adeguatamente a ritenere che l’isolamento pressoché carcerario e che le situazioni di svilimento e degrado del paziente sono non solo inaccettabili dal punto di vista etico, ma vanno contrastate perché controproducenti e inutili ai fini della cura e del suo benessere.
Aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell’idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri.
Non è il caso di cadere negli stessi errori della legge 180, impropriamente chiamata Basaglia e approvata nel clima politico tormentato del 1978, appena quattro giorni prima del rapimento di Aldo Moro. Anche in quel caso la chiusura degli ospedali psichiatrici prevedeva un’organizzazione territoriale dell’assistenza, che è stata valutata negli anni qualitativamente inefficace e inadeguata non solo localmente da chi doveva gestire con scarsi mezzi e risorse le esigenze del settore della salute mentale, ma anche in modo documentato dalla letteratura internazionale. Mescolare pazienti criminali, potenzialmente manipolatori o violenti, ad altri pazienti vulnerabili è in più una scelta azzardata e ingiustificabile, perché i primi necessitano di cure e attenzioni ancora più specifiche, come la psichiatria forense ha insegnato.

il Fatto 29.3.15
Landini ha piazza e popolo
Il leader Fiom lancia la Coalizione sociale: “Basta slide, Renzi peggio di Berlusconi”
di Salvatore Cannavò


Una piazza rossa, colma di bandiere della Fiom. Se Matteo Renzi pensava che la manifestazione di ieri fosse una “non notizia”, è stato smentito.
Maurizio Landini ha portato a Roma molta più gente di quanta ne abbia portata Matteo Salvini riempendo Piazza del Popolo come non capitava da anni. Lo ha fatto con una organizzazione, la Fiom, che si conferma zoccolo duro del sindacalismo italiano e in cui si preservano le tradizioni di sinistra. Prova ne è la colonna sonora della manifestazione fatta di Bella ciao, l’Internazionale e addirittura Contessa.
A TANTA FIOM non ha corrisposto un’adeguata presenza di soggetti e movimenti che dovrebbero comporre la “coalizione sociale” proposta da Landini. Hanno parlato gli agricoltori del Tavolo verde, i precari della scuola, gli studenti, i movimenti per la casa, è stato letto un intervento di Gustavo Zagrebelsky, solo un disguido ha impedito di ascoltare la voce di Gino Strada dalla Sierra Leone. Ma la giornata è stata della Fiom: “Lo avevamo detto che non ci saremmo fermati” dice Landini “ecco perché siamo qui, la coalizione è ancora una proposta e va tutta costruita”. A descrivere il progetto, però, quasi didascalicamente, ci hanno pensato i due interventi centrali del pomeriggio. Quello di Stefano Rodotà, una lezione di politologia che, oltre a lanciare più di una battuta contro Renzi, accusato di avere “il complesso di inferiorità” rispetto ai “professoroni”, ha spiegato come sia oggi necessario realizzare una “massa critica sociale” capace di trasformarsi in “massa critica politica”. E che sia capace di irrompere anche nelle istituzioni come dimostra il progetto di legge popolare sul reddito minimo, presentato in piazza da Giuseppe De Marzo di Libera, che ieri ha avuto anche un sostegno dal M5S. Un’alleanza che, se dovesse crescere, potrebbe creare un fatto politico nuovo.
Ancora più chiaro è stato poi Landini, nel corso del lungo e molto applaudito intervento. “Si tratta di tornare alle radici del movimento operaio” ha ricordato, riferendosi “all’800, quando nascevano le Unions” (titolo della manifestazione di ieri, ndr.), gli operai inglesi in sciopero. “Si tratta di ripristinare il diritto alla coalizione impedendo la competizione tra gli stessi lavoratori”. Landini prende a prestito i padri nobili del sindacato, Giuseppe Di Vittorio e il suo “Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori”, ma anche Bruno Trentin che pensava “a nuove forme sindacali” (con la vedova, Marcelle Padovani, che però non apprezza). “Coalizzarsi significa allargare la rappresentanza sociale del sindacato e riformarlo democraticamente” ha spiegato, chiarendo che il cuore della proposta è costituito dalla sfida interna alla Cgil.
Nei prossimi giorni la Fiom designerà due coordinatori per il progetto “coalizione” che dovrebbero essere due giovani dirigenti: Michele De Palma, responsabile Auto e già coordinatore dei Giovani comunisti del Prc e Valentina Orazzini, che si occupa di rapporti europei e molto apprezzata all’interno del sindacato. Anche le Fiom territoriali dovrebbero organizzarsi per designare dei responsabili e costruire, così concretamente, la nuova rete.
IL COLLANTE DI TUTTO, sia pure in negativo, è Matteo Renzi. Contro di lui si è espressa la piazza – “Abbiamo un sogno nel cuore, Renzi a San Vittore” – si è esercitato Rodotà intervenuto seduto su una sedia: “Renzi dice che i professori sono pigri, io lo sono così tanto da essere venuto con le stampelle”. Soprattutto, si è dilungato Landini: “Noi abbiamo più consenso di lui”, ha dichiarato a inizio manifestazione per poi bersagliarlo: “Siamo stanchi di spot e slide”, “ha una logica padronale”, “è peggio di Berlusconi”, “la coalizione sociale l’ha fatta con la Bce e la Confindustria”, “in Europa si limita a regalare cravatte a Tsipras”. Ha poi ricordato il Renzi “gasatissimo” in visita da Marchionne opponendogli lo stile del centenario Pietro Ingrao che, quando fu eletto presidente della Camera, come primo atto si recò alle acciaierie di Terni per dire ai lavoratori che i “costituenti” erano loro. Discorso da futuro segretario della Cgil, impostato su temi sindacali (salari, occupazione, orari, contratto) e generali (pensione, scuola, fisco). Lo dimostra anche il gelo con la segreteria nazionale presente con Susanna Camusso, Serena Sorrentino e Franco Martini. Anche altri dirigenti, come la segretaria dello Spi, Carla Cantone, quello della scuola, Domenico Pantaleo, e del Nidil, Claudio Treves, sono stati in piazza. Ma la Cgil si è vista poco, se non in forma simbolica. Susanna Ca-musso è salita sul palco restandone sempre ai bordi e facendo solo una laconica dichiarazione ai giornalisti.
DISTANZA ANCHE con la politica. Sia con le rappresentanze di Sel e Prc (presenti con Nichi Vendola e Paolo Ferrero) sia con Stefano Fassina e Pippo Civati del Pd. Unica eccezione, quando Landini ha parlato di appalti e corruzione, la richiesta di un applauso della piazza per Rosi Bindi in quanto presidente della commissione Antimafia. Le conclusioni sono state dedicate a Giovanni XXIII (“ma non ho la fede”) e a Pablo Neruda: “Prendi il meglio della tua vita e consegnalo alla lotta”. Tripudio della folla.

il Fatto 29.3.15
Il discorso
“Fare massa critica per decidere”
Proponiamo ampi stralci del discorso che il professor Stefano Rodotà ha tenuto in piazza del Popolo ieri pomeriggio
di Stefano Rodotà


Io sono molto felice di essere qui anche invalido (...). C’è un fatto nuovo, un fatto che inquieta molto coloro i quali in questo periodo non sanno confrontarsi con la realtà dei problemi che stanno vivendo. Qui non stiamo disturbando un manovratore (...). Giovanna Cavallo, poco fa, riportava una frase incauta che ha ripetuto il ministro del Lavoro. Cioè “ciò che va bene per l’azienda va bene anche per i lavoratori”. Non so se fosse consapevole Poletti, pronunciando questa frase, che questo è un modo di dire che negli Stati Uniti c’era molti anni fa. E si diceva: “Quello che va bene per la General motors va bene per gli Stati Uniti d’America”. Noi dobbiamo dire una cosa: era sbagliata questa frase negli Stati Uniti di anni lontani. È ancor più sbagliata nell’Italia di oggi. Quello che va bene per i lavoratori è altro. Per i lavoratori va bene il riconoscimento della dignità del lavoro. Per i lavoratori va bene il riconoscimento della pienezza dei loro diritti. (...). Allora invertiamo quelle frasi pronunciate negli Stati Uniti e ripetute in Italia: “Ciò che va bene per i lavoratori va bene per l'Italia”. Questa è la frase che dobbiamo dire oggi (...). Perchè quando soffrono le persone nella loro vita quotidiana un Paese sa che la democrazia è in discussione. Questo è ciò che noi dobbiamo ricordare. Ma senza alzare troppo i toni. Io sono convinto che questa non è né demagogia, né retorica: è nient’altro che la riflessione sulla situazione italiana (...).
IN QUESTO MOMENTO non c’è soltanto una linea di rinnovamento incarnata dal presidente del Consiglio alla quale si oppongono persone arretrate, gufi e via dicendo. Ci sono due linee che sono venute emergendo con molta chiarezza, e una di queste è proprio incarnata da questa piazza. E questa linea, attenzione, a mio giudizio, è quella che bisogna far emergere pienamente.
Perchè se oggi c’è una frase che dovrebbe inquietare tutti. È quel dire “non ci sono alternative”. Quando si dice questo in realtà si dice che la democrazia è in qualche modo mutilata. (...)
Il discorso pubblico della democrazia italiana è povero in questo momento. È povero perchè una serie di voci sono state escluse. “Io non parlo con tutti gli organismi intermedi e quindi in primo luogo con il sindacato”; “iononparloconlasocietàorganizzata”; “iostosmembrandola società”; “salto tutti”; “parlo con i singoli”; “e come parlo? Parlo attraverso itweet”, che non è la buona comunicazione democratica. E allora noi dobbiamo ricostruire il discorso pubblico che significa anche ricostruire l’agenda.
I veri problemi del Paese non sono soltanto quelli indicati da Renzi. (...) L’obiettivo di questa che si è chiamata “coalizione sociale” è esattamente questo: contribuire all’agenda politica del Paese. E questa non è una forzatura, perchè quando in un Paese si rattrappisce l’elenco delle grandi questioni, qualcosa non funziona (...)
Forse Renzi che respinge con una certa sufficienza attribuendo questa maniera di guardare alle cose a qualche “professorone pigro”, io sono così poco pigro che sono venuto con le stampelle. Ma forse lui allude alla pigrizia delle idee. Ma allora la pigrizia delle idee è la sua. (...) E poi permettetemi di dire una cosa: è abbastanza patetica questa storia che ogni volta tira fuori i professoroni. O non ha altri argomenti, o ha una sorta di complesso di inferiorità. (…)
Perchè (...) se lui fosse stato attento, l’occasione della riforma elettorale e della riforma costituzionale ci avrebbe potuto dare davvero un risultato moderno, avanzato, al quale avrebbero guardato altri Paesi. Non si è voluto fare o non si è avuta la cultura per capire le proposte che arrivavano. (...) Oggi abbiamo il problema di far sì che questa disattenzione non permanga. (...) Davanti alla situazione che noi ormai conosciamo dobbiamo creare una massa critica sociale che è nello stesso tempo una massa critica politica. Ma non nel senso della politica partitica. Della politica che dà voce alla società e alimenta la politica. E alimenta io credo anche coloro i quali nei partiti non accettano più questo modo di vivere. Soprattutto nei partiti della sinistra. (…)
UNA SERIE DI IDEE diventano forti quando si può registrare un sostegno nella società. In quel momento anche la politica dei partiti diventa più forte. (...) Siamo in ritardo. (…) Ma non è vero che la partita sia perduta. (...) La decisione è importante ma la decisione è tanto più significativa (...) quando esistono i pesi e contrappesi dei controlli parlamentari, giudiziari e sociali (...) Il controllo parlamentare da alcuni anni è del tutto inesistente, il controllo giudiziario si cerca di azzerarlo, il controllo dei giornali si va sfarinando (...) E allora questa è la strada, una strada che non separa la società dalla politica. Dà alla politica la sua pienezza. Che non è polemica con chi nella politica ufficiale vogliono uscire da questa strettoia (...). È un lavoro difficile ma questa giornata ci dice che è un lavoro possibile. Vorrei aggiungere obbligatorio. La disillusione non deve produrre passività. La passività è l’anticamera della resa. E non mi pare che qui ci siano persone disposte ad arrendersi.

Il Sole 29.3.15
Landini in piazza contro Renzi: basta spot, peggio di Berlusconi
di Giorgio Pogliotti


Il leader della Fiom Maurizio Landini dalla manifestazione romana attacca il governo Renzi: «Sta proseguendo come Monti e Letta e anche con un peggioramento rispetto a Berlusconi». E lancia la sfida al sindacato: «Serve una riforma democratica, coinvolgendo altri soggetti nelle decisioni per allargare la rappresentanza». Landini, che ieri ha lanciato la “coalizione sociale”, annuncia battaglia sul Jobs act: lo cambieremo con la contrattazione.

ROMA Un attacco al governo Renzi : «Sta proseguendo come i governi precedenti Monti e Letta e anche con un peggioramento rispetto al governo Berlusconi». Ma anche una sfida al sindacato: «Serve una riforma democratica, coinvolgendo altri soggetti nelle decisioni per allargare la rappresentanza». Maurizio Landini ieri ha lanciato la “coalizione sociale” con la manifestazione della Fiom-Cgil che ha attraversato il centro di Roma intorno allo slogan Unions – un richiamo alle radici anglosassoni del movimento sindacale, nato per unire il mondo del lavoro – aperta dai lavoratori di Fincantieri, per inviare al governo Renzi un messaggio: «Siamo stanchi di spot elettorali e slide».
Nella stessa giornata gli scioperi organizzati dalla Fiom contro gli straordinari nelle fabbriche Fca facevano registrare un altro flop: a Pomigliano hanno scioperato in 6 su 1.473 lavoratori, in Val di Sangro in 85 su 6.300, alla Fabbrica motori di Ferrara su 1.300 operai hanno incrociato le braccia in 91, secondo fonti sindacali. Tornando al leader della Fiom, dal palco di Piazza del Popolo Landini ha annunciato battaglia contro il Jobs act: «Va contrastato con i contratti nazionali e aziendali, sul piano legale e legislativo, non escludendo alcun tipo di intervento». Le 79mila assunzioni in più a tempo indeterminato registrate tra gennaio e febbraio rispetto al primo bimestre 2014?«Molte persone già lavoravano, non c’è una crescita di posti – ha aggiunto –. Queste assunzioni sono avvenute prima dell’entrata in vigore il 7 marzo del contratto a tutele crescenti, quindi avranno l’articolo 18. Dobbiamo confermare le tutele dello Statuto dei lavoratori anche per le assunzioni dei mesi successivi». Landini ha indicato altre due priorità: «Dobbiamo ottenere la riduzione dell’età pensionabile, ripristinare le pensioni di anzianità e ridurre gli orari di lavoro».
Quanto alle accuse di voler fare politica: « Se si dice che il sindacato non deve diventare un partito, siamo tutti d’accordo – ha detto Landini –, anzi negli ultimi anni un problema è stata la scarsa autonomia dai partiti e dai governi. Il sindacato deve avere un suo progetto su come stanno le persone tanto nei luoghi di lavoro quanto fuori, e per questo deve avere una soggettività politica». Ma al numero uno della Fiom che a proposito dell’autonomia ha citato l’esempio di Trentin, è arrivato il monito della vedova del leader storico della Cgil, Marcelle Padovani: «Landini deve smettere di usare il nome di Bruno Trentin come ispiratore del proprio pensiero e della propria azione. Trentin pensava ed agiva in modo assolutamente diverso rispetto al segretario della Fiom. Era critico verso l'autonomia del politico, ma altrettanto critico verso l’autonomia del sociale che conduce all’isolamento velleitario o al corporativismo». La coalizione sociale, secondo Landini «è la risposta più forte a un Governo che ha già fatto la sua coalizione sociale con Confindustria e Bce». Presente alla manifestazione la leader della Cgil, Susanna Camusso, che ha replicato al presidente di Confindustria che aveva criticato l’iniziativa: «In piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil che sono giustamente in lotta perché la delega sul lavoro riduce i loro diritti – ha spiegato –, vogliono il rinnovo del contratto ed è il settore su cui ha più pesato la crisi».
Tra i parlamentari Pd, assente la componente di area riformista - che invece aveva partecipato alla manifestazione della Cgil di ottobre - ieri c’erano Pippo Civati, Rosy Bindi, Barbara Pollastrini e Stefano Fassina, insieme allo stato maggiore di Sel.

Repubblica 29.3.15
Unions in piazza, Landini sfida il governo “Basta spot, Renzi peggio di Berlusconi”
In migliaia a piazza del Popolo per il lancio di Coalizione sociale
“Abbiamo più consensi del premier, ogni mezzo per cancellare il jobs act”
Nel corteo i pd Bindi, Civati, Fassina
di Sebastiano Messina


ROMA Le mille bandiere che colorano di rosso piazza del Popolo garriscono più forte al vento, quando Maurizio Landini lancia la sua scomunica, l’accusa dalla quale non si può più tornare indietro: Renzi è peggio di Berlusconi. E’ lui, il leader del Pd, il vero nemico dei lavoratori. Perché è il presidente del Consiglio, e non gli industriali metalmeccanici, l’obiettivo numero uno di questa adunata generale convocata a Roma del leader della Fiom, un fiume di gente che ancora continuava ad arrivare in una piazza già strapiena quando già avevano parlato i primi tre oratori. E infatti è a Renzi, che Landini grida che «ci siamo stancati degli spot elettorali, delle slide e delle balle ». E’ a Renzi, anzi «a questi giovani ragazzi che stanno al governo», che manda a dire che «pensiamo di avere più consenso di quello che hanno loro». E’ a Renzi, che rivolge l’accusa di «aver adottato la logica padronale», e poi anche quella di «mettere a rischio la nostra democrazia». Ed è a Renzi, che lancia la sua sfida contro il Jobs Act: «Noi non ci fermeremo finché non avremo cancellato questa legge sbagliata».
Portare in piazza gli italiani che non ci stanno: che fosse questa, la vera parola d’ordine della manifestazione organizzata dai metalmeccanici della Cgil con un titolo anglosassone, «Unions!», l’avevano capito tutti, a cominciare dal gruppone milanese che è arrivato per ultimo in piazza della Repubblica per l’inizio del corteo, e mentre saliva le scale mobili della metropolitana cantava a squarciagola, tra bandiere rosse e campanacci, «Abbiamo un sogno nel cuore/ Renzi a San Vittore» (lo stesso coro che a suo tempo veniva dedicato a Bettino Craxi). E per quanto Su- sanna Camusso — accolta con un bacio di Landini ma tenuta lontana dal microfono — si sforzi ora di minimizzare l’impatto politico dell’evento, e precisi gelidamente dai gradini del palco che «in questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil, che giustamente sono in lotta perché la legge delega sul lavoro riduce i diritti», si avvicina di più alla verità Nichi Vendola, guest star del corteo, quando spiega la vera ragione che ha spinto queste diverse anime del popolo di sinistra, queste cinquanta sfumature di rosso, a convergere su Roma nel primo sabato di primavera: «E’ ora che tutti coloro che non si adeguano all’idea che ci sia un uomo solo al comando, e che non si rassegnano a una deriva autoritaria, facciano massa critica».
E mentre il corteo passava davanti al Grand Hotel, sfidando gli sguardi curiosi ma stupiti dei suoi ospiti, sembrava di fare un viaggio indietro nel tempo risentendo gli stessi cori che — forse cantati dalle medesime voci — risuonavano quasi mezzo secolo fa, «Il potere dev’essere operaio», o ascoltando le canzonette anni Settanta del rivalutato Rino Gaetano che il furgone di testa mandava a palla, a cominciare da Nuntereggaepiù: «I ministri puliti/ i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ sangue blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ nuntereggaepiù!».
Ma se il canto che animava quel variopinto e allegro serpentone in cui si mescolavano anziani militanti e studenti barricaderi era «Bella ciao» — l’inno che tutta la piazza canterà alla fine della giornata — il vero segno unificante è la bandiera rossa. Accanto a quelle della Fiom sventolano le bandiere rosse di Rifondazione, le bandiere rosse della lista Tzipras e persino qualche bandiera rossa del Pci, tirata fuori da chissà quale armadio. Un coraggioso metalmeccanico modenese temerariamente prova ad alzare la bandiera del Pd, ma è subito circondato da gente che gli urla minacciosamente «Via, via, quella bandiera! ». E lui, sia pure protestando («Intolleranti, vergognatevi ») deve ripiegarla e rimettersela nello zaino.
Landini, intanto, marcia dietro lo striscione della Fincantieri. Cosa significano tutte queste bandiere rosse? Lui prima finge di ignorare il senso della domanda: «Significano che il lavoro vuole essere rappresentato ». Poi però sorride, e aggiunge: «A me le bandiere rosse mettono il buonumore». E allora alle sue spalle parte partito il coro: «Avanti o popolo/ alla riscossa/ Bandiera rossa/ Bandiera rossa!».
Adesso quelle bandiere rosse punteggiano piazza del Popolo, salutate dallo speaker che annuncia: «Noi siamo le persone perbene, siamo il Paese reale!». Sventolano per salutare Rodotà, salito sul palco nonostante una recentissima frattura alla gamba, che usa l’ironia per attaccare Renzi: «Non sono un professorone pigro. Sono qui con le stampelle». In piazza ci sono anche parlamentari del Pd, testimoni di un dissenso sempre più evidente. «Sono qui per colmare un deficit di rappresentanza, visto che il governo è molto più vicino ai poteri forti» dichiara Stefano Fassina, mentre Pippo Civati ricorda che lui il Jobs Act non l’ha votato e Rosy Bindi avverte che «anche chi è contro il governo deve essere ascoltato».
E’ il battesimo di un nuovo soggetto politico? Landini lascia tutti nel dubbio, ripetendo alla fine del suo comizio che lui non vuol fare un partito «ma il sindacato deve avere una sua soggettività politica». Poi conclude citando, significativamente, papa Giovanni XXIII: «Quando sei per strada e incontri qualcuno, non gli chiedere da dove viene ma chiedigli dove va, e se va nella stessa direzione, cammina insieme a lui». E chi vuole intendere intenda.

il manifesto 29.3.15
Landini alla piazza: “L’articolo 18 ce lo riprendiamo”
La coalizione sociale a Roma. Decine di migliaia di persone al debutto del nuovo movimento lanciato dalla Fiom
«Renzi alleato a Confindustria e Bce: i diritti li riconquisteremo con i contratti e cancellando il Jobs Act»
Il saluto di Rodotà, gli studenti e le associazioni
"Unions", come agli albori del sindacato
di Antonio Sciotto

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il manifesto 29.3.15
La misura della piazza
di Norma Rangeri

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il manifesto 29.3.15
In viaggio verso Roma: «Coalizione sociale, un progetto che ci piace»
di Riccardo Chiari

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il Fatto 29.3.15
Il premier sceglie l’indifferenza
E sfida: ci vediamo alle elezioni
di Wanda Marra


“Landini dice che ha più consenso del governo? Bene, ci vediamo alle elezioni”. La battuta viene spontanea al renzianissimo responsabile Giustizia del Pd, David Ermini. Per Matteo Renzi non è la giornata delle reazioni plateali, delle dichiarazioni di guerra. La linea, d’altra parte, l’ha data già venerdì sera, nella conferenza stampa post-Cdm. “Una manifestazione contro il governo? No news, non c'è titolo. Se guardo agli ultimi sabato mi pare che manifestazioni contro il governo ce ne siano state moltissime”. Strategia preventiva, dunque: sminuire. Decisa prima di vedere la piazza di Roma: che ieri era piena e tutta contro il premier. Nel quartier generale di Renzi si ostenta sicurezza, indifferenza. Ma l’affondo ufficiale tocca alla vice-segretaria dem, Deborah Serracchiani: “ Che Landini sia ossessionato dal consenso è un dato di fatto. Noi pensiamo che un sindacato dovrebbe essere ossessionato dai contratti a tempo indeterminato, quelli che stanno aumentando grazie alle nuove regole volute dal governo e che Landini contesta senza conoscere”. Il riferimento è al fatto che il leader della Fiom qualche giorno fa in tv ha sbagliato la data da quando sono partiti gli sgravi fiscali del jobs act. Altro sottotesto: ormai Landini è un politico. La sfida: “Quanto al consenso vedremo nel 2018 se ne ha più Renzi o più Landini”
E GLI SLOGAN: “Nel frattempo loro fanno i cortei, noi facciamo Expo. Loro parlano di consenso, noi parliamo di contratti. Loro giocano sulla rabbia, noi sulla speranza. Facciano pure scioperi e manifestazioni, noi andiamo avanti”. L’unica apparizione ufficiale ieri del presidente del Consiglio segue questo schema. Renzi, infatti, si limita a un post sulla sua pagina Facebook, dove elenca i risultati “che stanno portando fuori l’Italia dalla crisi”. Stavolta sceglie dati laterali: “Ad aprile scende ancora il conto della bolletta per l’energia elettrica (-1,1%) e per il gas (-4%). Significa un risparmio medio di 75 euro l’anno”. Poi, la Coldiretti: “I prodotti alimentari hanno registrato un aumento delle vendite del 2,9% a gennaio 2015”, scrive il premier. Ed ancora, “Fincantieri ha firmato un contratto storico con la Carnival per la costruzione di 5 navi da crociera”. Niente di troppo forte per ribadire “al governo ci sto io”.
Per il resto umori sprezzanti: tra i fedelissimi del premier qualcuno si spinge a una citazione ormai d’annata: “Landinichi? ”, ricalcando quel “Fassinachi? ”, destinato dall’allora novello segretario Pd a Fassina, che si dimise da vice ministro dell’Economia. Qualche commento più muscolare, tanto per chiarire il punto, è affidato agli uomini del Presidente su Twitter. Andrea Marcucci (senatore Pd): “Per il leader della Fiom si stava meglio quando si stava peggio, con Berlusconi le manifestazioni riuscivano alla perfezione”. A microfoni spenti, ancora sarcasmo: “È fortunato Matteo ad avere per avversari Salvini e Landini”. Ride bene chi ride ultimo, diceva qualcuno. Il tempo dirà.

il Fatto 29.3.15
Piccolo, Landini “il reazionario” e la Locomotiva di Guccini
di Silvia Truzzi


SULLA HOME PAGE dell’Huffington Post ieri mattina campeggiavano due foto: Maurizio Landini e Francesco Piccolo. Il leader della Fiom e l’ultimo premio Strega, da molti indicato come l’intellettuale di riferimento del renzismo di lotta, soprattutto di governo. Nell’intervista al giornale on line diretto da Lucia Annunziata, Piccolo se la prende con Landini. Se la prende storicamente non personalmente, naturalmente: “È un discorso sulla sinistra che si sente pura, il mio giudizio su Landini è storico, non personale. E lo esprimo nel pieno rispetto delle sue idee e di quelli che le condividono”. Fatta la doverosa premessa, la tesi è: Landini è reazionario. Il che ha lo stesso effetto comico di quando Peppone tuona contro “la signora reazione che con ignobili insinuazioni tenta speculazioni ai danni del popolo”. Ma almeno Peppone faceva il meccanico, non l’intellettuale.
Spiega lo scrittore che lo scontro “si apre ogni volta che la sinistra si fa concreta, diventa di governo, e deve mettere in atto le cose. Di fronte a questo appuntamento, in cui ci si espone alla fragilità del non farcela, c'è sempre nella sinistra un risveglio di purezza. Contrapporre alla fragilità della concretezza la purezza degli ideali è una strada seducente, irresistibile. Stavolta tocca a Landini incarnarla”.
LA SINISTRA concreta è quella di governo. La sinistra del Jobs Act, dell’articolo 18, del superpreside nella buona scuola. La sinistra delle riforme, il pateracchio del Senato dei nominati e dell’Italicum fotocopia del Porcellum. La sinistra del fare che vuol governare a suon di premi di maggioranza e listini bloccati. La sinistra del decreto legge. È questa la sinistra che, dice Piccolo, è diventata adulta. Perché ripeness is all, la maturità è tutto e dunque non si può restare ostaggio delle idee, non diciamo ideologie che sono morte e sepolte da decenni. Il governo del fare mette le mani nelle cose. E questo sarebbe di per sé un bene? Che senso ha l’apologia dell’agire se le azioni sono quelle, molto discutibili, viste in questi mesi? Agire, ma per fare cosa? Sembra una domanda inutile, senza importanza, in quest’orgia laudante del premier facitore. È tutto un elogio della velocità, del piglio, dell’energia. Ma è sul cosa e sul come, che Landini vuol portare l’attenzione e il segretario della Fiom ha ragione quando rivendica come politica la sua iniziativa. Dice lo scrittore che le persone hanno un’irresistibile attrazione verso lo scatafascismo. Ma il mito del progresso (chissà se Piccolo se lo ricorda ancora il treno della Locomotiva gucciniana) è un mito smentito dai fatti: basta guardare la classe dirigente dei tuìt e delle slide. Gente che non risponde mai sul punto, mai nel merito alle obiezioni. Quelle rare volte che le obiezioni vengono considerate e non rispedite al mittente con gentilezze tipo ”tutti gufi e rosiconi”. Prima non andava tutto meglio? È più convincente il “non c’è limite al peggio”. Da “l’ottimismo della volontà”, passando per “l’ottimismo è il sale della vita” della pubblicità, era un fatale arrivare al “preferisco avere il mito del futuro che quello del passato”. Per questo il pessimismo della ragione è più che mai una risorsa.
Da ultimo: chi si autodefinisce intellettuale suscita sempre una certa diffidenza. Non solo perché spesso l’uso del cervello viene confuso con l’uso di mondo, o perché a intellettuale seguono aggettivi come “libero” o “cosmopolita” oppure, perché no, “organico”. Soprattutto per la presunzione di intelligere.

Corriere 29.3.15
Landini in piazza, l’attacco a Renzi
di Alessandro Trocino


ROMA «Renzi è peggio di Berlusconi, sta mettendo in pratica le indicazioni che venivano dalla lettera della Bce. Siamo stanchi di spot, slide e balle. Oggi inizia una nuova primavera per il futuro». Maurizio Landini battezza la sua coalizione sociale in piazza del Popolo, a Roma. Insieme a lui, presente la leader della Cgil Susanna Camusso, una folla che chiede lavoro. Il «futuro» di Landini, nel corteo griffato «Unions» (13-14 mila partecipanti, secondo la Questura, piazza del Popolo piena), si annuncia con un mare di bandiere rosse, di falci e martello e di «Bella Ciao».
Landini rivendica la sua azione «politica»: «Il sindacato non deve diventare un partito, ma ha una sua soggettività politica». La coalizione sociale vede in piazza anche l’associazione «Libera». Il leader della Fiom lancia l’allarme: «Vogliono cancellare lo statuto dei lavoratori». Il Jobs act renziano è il nemico: «Lo contrasteremo con ogni mezzo». Nessun entusiasmo per le 79 mila nuove assunzioni appena annunciate: «Mi auguro che ce ne siano milioni». Landini attacca Renzi: «Ha una logica padronale. Lo vedo sempre attento a rispondere, evidentemente il ragazzo qualche preoccupazione ce l’ha».
In piazza c’è Nichi Vendola, sul palco Stefano Rodotà. Pochi gli esponenti del Partito democratico: Stefano Fassina, Barbara Pollastrini, Pippo Civati, Rosy Bindi, Corradino Mineo. Non c’è Cesare Damiano: «Le nostre critiche partono dai contenuti, qui si rischia di rifluire in una logica di pura protesta». Fassina subisce una mini contestazione. Alcuni manifestanti gli urlano «esci dal Pd». Lui, impassibile, ci mette la faccia, come sempre: «Che ci sto a fare nel Pd? Me lo chiedo. Noi combattiamo per rivendicare il nostro ruolo, ma c’è un serio problema di pluralismo e di autonomia dei gruppi». A Fassina non piace la riforma della Rai: «Si torna agli anni 50». Mineo è ancora più netto: «Il Pd non esiste più. Combattiamo la nostra battaglia, ma se la perdiamo, ce ne andremo». Civati è in piazza ma criticamente: «Non mi piace Landini quando fa la gara a fare il nuovo e delegittima tutti senza distinzioni». Rosy Bindi è soprattutto «in ascolto», come presidente della Commissione antimafia (viene ringraziata da Landini per la presenza): «Questa piazza chiede rappresentanza e va ascoltata. Certo, se ci fossero meno bandiere rosse sarei più contenta». Critico con Landini lo scrittore Francesco Piccolo: «È un reazionario, il male della sinistra».

Corriere 29.3.15
Il gelo di Camusso che resta defilata «Manifestazione di metalmeccanici»
Il bacio imbarazzato con il «rivale», la scelta di fare solo una dichiarazione
di Fabrizio Roncone


ROMA - «Quando parla il selvaggio?», chiede con aria disgustata e complice Carla Cantone, responsabile dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati.
Susanna Camusso si volta, si china leggermente, dagli occhi sprigiona un guizzo azzurrino di sorpresa, come se le avessero chiesto dove andrà in vacanza quest’estate: «Boh. Non ho idea...».
Maurizio Landini non sente. Si infila la felpa della Fiom, fa ciao alla folla, ride, si pulisce gli occhiali. Molti compagni metalmeccanici alzano il pugno chiuso, molte compagne mandano baci con la mano. Grida di evviva, applausi, fischi di eccitazione, ogni tanto certi attaccano a cantare «Bella ciao».
Piazza del Popolo, bandiere rosse nel vento del pomeriggio, Stefano Rodotà sta concludendo il suo intervento.
Da un’ora e 35 minuti tutti però osserviamo Susanna Camusso che è lì, ferma sul penultimo gradino della scaletta di accesso al palco. Ferma, quasi immobile. Mentre il corteo veniva giù dalle rampe del Pincio, avanti lo striscione della Fincantieri, lei - direttamente da Reggio Calabria - è arrivata, è scesa dalla macchina, il servizio di sicurezza della Cgil l’ha tenuta dentro un cordone di braccia e subito l’hanno accompagnata fino a quella scaletta.
E lì è rimasta.
A un gradino dal palco.
Presente, ma plasticamente distante.
E muta.
Anziani cronisti sindacali dicono che mai s’era visto il segretario generale della Cgil non dire mezza parola a una manifestazione della Fiom.
Allora il suo portavoce, il burbero Massimo Gibelli, sbuffando, scuotendo la testa perché certe cose non si dovrebbero pensare e tantomeno chiedere, organizza una bizzarra conferenza stampa: lei, la Camusso, in via del tutto eccezionale, si sporgerà dal suo penultimo gradino e farà una breve dichiarazione.
«Però le domande sono vietate!».
No, scusa, Gibelli: che conferenza stampa è senza domande?
«O senza domande, o niente!».
Irrituale, va.
«Anzi, facciamo così: i microfoni, per sicurezza, li consegnate a me!», ordina Gibelli.
Camusso (senza celare un senso di puro fastidio non per Gibelli, ma per noi che vorremmo sentire cosa pensa): «In questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil che, giustamente, sono in lotta perché la legge delega riduce i loro diritti».
Venti secondi. Punto. Fine.
Sì, certo: dovremmo fare finta che sia solo una semplice manifestazione sindacale. Ma è dura. Perché Landini era stato chiaro da subito. Contro il Jobs act, a Roma, sfilerà una coalizione sociale. Lo slogan è «Unions», richiamo alle origini del movimento sindacale, e però anche numerose sigle non sindacali sono venute in marcia con la Fiom o solo a suo sostegno: Libera, Arci, Articolo 21, Libertà e Giustizia. E poi Rifondazione e L’altra Europa con Tsipras, lo stato maggiore di Sel e pezzi di Pd.
Per giorni, sui quotidiani e alla tivù, il sospetto: Landini sta piantando il seme di un nuovo partito? Tutti i sospetti sono legittimi, in politica. Ma qui, sotto questo palco, diventa invece forte la sensazione che Landini abbia piuttosto cominciato la scalata alla Cgil.
La Camusso, del resto, se ne sta lì immobile ma, ogni tanto, le viene spontaneo alzare lo sguardo e farlo scorrere sui ranghi dei manifestanti. Chi sono? Metalmeccanici, certo, però non solo. Colpisce la presenza dei giovani (premiati nell’attesa dall’esibizione del gruppo musicale romano «Il muro del canto»). Ci sono i bancari, i precari della scuola, i movimenti di chi lotta per la casa. Tante le bandiere del vecchio Pci (sotto una di queste, per un tratto, ha camminato anche l’anziano Aldo Tortorella). Ne hanno alzata una del Pd e il manifestante è stato insultato. Del Pd comunque ci sono, come detto, schegge di minoranza parlamentare: c’è Stefano Fassina, c’è Barbara Pollastrini, c’è Vincenzo Vita. Qualcuno sostiene di aver avvistato anche Rosy Bindi.
I cronisti fanno la conta dei presenti e poi buttano un’occhiata sulla scaletta: sì, la Camusso è ancora lì. Immobile. Chicchissima con il suo completo blu, pantaloni di velluto a coste piccole e maglione dello stesso tono; la bottiglietta d’acqua in tasca, il cellulare con cui telefonare, di tanto in tanto.
Accanto - uno scalino più in basso - Serena Sorrentino. Chi è questa Sorrentino? La sua presenza, spiegano osservatori esperti, non è casuale. Segretaria confederale dal 2010, 37 anni, napoletana, responsabile delle politiche del lavoro: seria, rigorosa, preparata. Ti raccontano che alla Camusso non dispiacerebbe metterla in corsa per la sua successione, quando sarà (nel 2018).
Intanto, però, ecco che risale la scaletta lui.
Maurizio Landini.
Ora voi dovete sapere che Landini è un tipo distratto. Molto distratto. Uno di quei tipi che ti passano accanto e non si accorgono di te.
Landini fa così proprio con lei, con la Camusso.
Così prontamente lo placcano, gli mollano una pacca sulla spalla, oh, Maurizio, guarda che c’è Susanna...
Lui allora si ferma, torna indietro. E l’abbraccia: «Dai! Diamoci pure un bacio!».
Lei, gelida, porge la guancia sinistra.
Bacio.
A questo punto, Gibelli decide che, per rompere il ghiaccio, non c’è niente di meglio che scattare un bel selfie collettivo.
Camusso: «No. Il selfie, grazie, no».

Repubblica 29.3.15
Baci sul palco con la Camusso ma il leader Fiom punta al trono Cgil e non a fare un partito politico
L’obiettivo attuale di Landini è allargare la rappresentanza sociale a chi oggi è fuori dai radar dei sindacati
La Fiom sembra la “quarta confederazione”. Camusso presente ma non parla
Patto di non belligeranza tra Susanna e Maurizio?
di Roberto Mania


ROMA Costretti a coabitare. Susanna Camusso e Maurizio Landini non si amano al di là dei baci, dei sorrisi e degli abbracci mostrati ieri in piazza a favore di teleobiettivi e telecamere. Hanno accettato di marciare temporaneamente l’uno accanto all’altro. Per convenienza reciproca, per non scontrarsi, per non indebolirsi entrambi. Ma con la “Coalizione sociale”, non con un nuovo partito, il leader della Fiom punta a cambiare anche la Cgil, proprio questa Cgil di Susanna Camusso. Poi verrà la politica.
Così quella di ieri è stata un’entrata a gamba tesa nel campo della confederazione. Ormai la Fiom si muove senza più remore come la “quarta confederazione” dopo Cgil, Cisl e Uil. In piazza c’era di fatto solo la Fiom (più l’apparato che gli operai) con sparuti rappresentanti delle altre categorie, dai pensionati ai bancari. Susanna Camusso ha deciso di non parlare dal palco (scelta piuttosto insolita per il capo della Cgil a una manifestazione di una categoria) dove è salita per sottrarsi alla ressa dei cronisti (ai quali ha detto solo che stava lì a sostegno delle battaglie dei metalmeccanici), restandosene per tutta la durata dei comizi in un angolo, circondata dal suo staff e dagli altri due segretari confederali presenti in piazza, Franco Martini e Serena Sorrentino. Lontani da Landini.
“Allargare” è la parola chiave nella strategia del cinquantrenne, emiliano, segretario della Fiom. Allargare la rappresentanza del mondo del lavoro a chi è precario, a chi è autonomo ma è debole come un metalmeccanico, a chi, giovane o anziano, non ha lavoro. Rompendo il dualismo tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Non scontato in una cultura sindacale, e pure di una sinistra politica, che ha ancora i riferimenti nella tradizionale separazione del lavoro. Allargare l’iniziativa sindacale alle lotte nei territori per il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, a un ambiente pulito, alla difesa dei beni comuni. «Se non lo facciamo noi — dice — nessuno lo fa al nostro posto». D’altra parte il governo Renzi (il vero nemico della piazza fiommina) «si è già fatto la sua di coalizione con la Confindustria, la Bce, la finanza. Dobbiamo unire tutto quello che questo governo sta dividendo». «Creare massa critica sociale», come spiega dal palco l’applauditissimo Stefano Rodotà.
Dopo Pasqua (probabilmente l’11 di aprile) si terrà la prima riunione per fissare, tra i soggetti promotori (Fiom, Emergency, le associazioni di Libera, Giustizia e Libertà, ecc.), i punti fondamentali della coalizione sociale. A maggio dovrebbe esserci la convention per lanciare l’alleanza. E intanto si aprirà la partita dentro la Cgil in vista del ricambio del 2018, quando scadrà il mandato sia della Camusso sia di Landini. Camusso non potrà più fare il segretario generale della Cgil, Landini potrebbe passare dalla Fiom alla Cgil.
In autunno è in programma la conferenza di organizzazione del sindacato. È lì che si po- trebbero cominciare a cambiare le regole per l’elezione dei gruppi dirigenti. La Cgil è ancora (l’unica insieme agli altri sindacati) un’organizzazione di massa del Novecento. La selezione dei gruppi dirigenti avviene per cooptazione sulla base del peso delle specifiche cordate (un tempo c’erano le componenti, comunista, socialista e “terza componente”) e delle possibili alleanze. Se restasse questo meccanismo le chance di Landini di salire alla guida della Cgil sarebbero davvero scarse perché non ha il sostegno delle altre categorie, a parte (forse) i pensionati di Carla Cantone. Da tempo, però, si discute di come far partecipare all’elezione dei dirigenti anche la base del sindacato, se non direttamente gli iscritti (l’ipotesi delle primarie è stata del tutto abbandonata) almeno i delegati delle fabbriche e degli uffici. Questa strada potrebbe davvero aiutare la scalata di Landini alla Cgil. La prossima settimana (giovedì 2 aprile) è in calendario una riunione delle commissioni per definire i documenti in vista della conferenza di organizzazione. Appare scontata un’apertura verso una riforma del sistema di elezione. La strada sarà comunque lunga perché comporterà una modifica dello Statuto che può essere decisa solo dal congresso. Il prossimo ci sarà nel 2018. Quando, si è visto, la Camusso uscirà di scena. Un’altra coincidenza favorevole a Landini.
Nel palazzone color salmone di Corso d’Italia, dove è la sede della Cgil, sta circolando comunque una voce: tra Camusso e Landini è stato fatto un patto, obtorto collo. Un patto di non belligeranza. Camusso, infatti, ha sì parlato di «ambiguità» nel progetto di Landini ma non ha infierito, tanto da partecipare (per quanto con ostentata freddezza e non per tutto il tragitto) al corteo della Fiom. Landini non ha mai attaccato la Camusso e anzi ieri è arrivato a dichiarare, sapendo di esagerare: «La vera novità è che qui c’è tutta la Cgil». Il Jobs act di Renzi ha unito Cgil e Fiom. Landini non ha motivi per tornare all’opposizione della Camusso, la quale — in questo scenario — non avrebbe interesse a ostacolare le ambizioni sindacali del leader della Fiom. Poi si vedrà. Landini potrà giocarsi le sue carte ma senza sottovalutare i suoi potenziali avversari. Per ora due: Serena Sorrentino (classe 1978), delfina della Camusso, membro della segreteria confederale, e Vincenzo Colla (classe 1962), segretario dell’Emilia Romagna, già metalmeccanico.

il manifesto 29.3.15
Un bacio ma nemmeno una parola, la giornata particolare di Camusso
a segretaria generale della Cgil per la prima volta partecipa ad una manifestazione di una categoria senza parlare dal palco
A dividere è ancora la Coalizione sociale
di Massimo Franchi

qui

Corriere 29.3.15
Marcelle Padovani
«Lasci stare il nome di mio marito, Bruno Trentin»

«Landini deve smettere di usare il nome di Bruno Trentin come ispiratore del proprio pensiero e della propria azione». È netta la distanza che Marcelle Padovani, giornalista e vedova dell’ex leader della Cgil (nella foto) , vuole mettere tra la figura del marito e l’attuale segretario della Fiom. Nel giorno del debutto della coalizione sociale, Padovani ha sostenuto che Trentin pensava ed agiva in modo assolutamente diverso. «Lui era critico — ha sostenuto — verso l’autonomia del politico, ma altrettanto critico verso l’autonomia del sociale che inevitabilmente conduce all’isolamento velleitario o al corporativismo». L’affondo è indirizzato alla nuova aggregazione pensata da Landini. Il segretario della Fiom ha detto alcune volte di ispirarsi allo storico leader sindacale anche per la neonata coalizione sociale. La moglie di Trentin gli ha chiesto di non farlo più.

Corriere 29.3.15
L’opposizione confortevole della «piazzetta rossa»
di Aldo Cazzullo


Se questo è il popolo di Maurizio Landini, appare un po’ disunito, e non così invincibile.
Intendiamoci: a Roma è accaduto un fatto politico di rilievo. La piazza — o meglio la «piazzetta» — rossa di ieri ha tenuto a battesimo un movimento che forse non diventerà un partito in senso tecnico, ma che si presenterà alle prossime elezioni politiche contro il Pd. Però l’opposizione di Landini da una parte e di Salvini dall’altra, per quanto virulenta a parole, nei fatti più che a una tenaglia pronta a stritolare il premier somiglia a due confortevoli guanciali tra cui riposare. La piazza della Fiom non era neppure lontana parente di quella di Cofferati, anzi non era neppure particolarmente tonica.
Nessuno si aspettava la replica del Circo Massimo; ma colpisce constatare che il superamento ormai compiuto dell’articolo 18 non abbia provocato a sinistra la mobilitazione vista quando Berlusconi l’aveva solo proposto. Nel frattempo è accaduto di tutto, la produzione industriale è crollata, il Paese si è impoverito, la vecchia classe dirigente della sinistra è stata messa ai margini. Renzi non è stato accettato da tutti, anzi molti nel Pd continuano a considerarlo un usurpatore che sta portando il partito verso una mutazione genetica; ma dietro le bandiere rosse non c’è per ora un vero movimento sociale di opposizione. Ci sono militanti vecchi e nuovi (l’età media era altina, più che nella piazza di Salvini del mese scorso) cui il nuovo corso non aggrada. Renzi non è certo un democristiano per toni e per modi, ma è un centrista: nel suo schema c’è spazio per una forza alla sua sinistra; se poi anche la destra a trazione leghista si radicalizza, tanto meglio, almeno per lui. In realtà all’Italia servirebbe un’opposizione credibile, che rappresentasse un’alternativa di governo; ma questo non è nelle possibilità e neanche nelle intenzioni di Landini (e forse neppure di Salvini).Landini ha un progetto diverso: fare leva sul disagio sociale per rifondare la sinistra e restituire alla Fiom e ai movimenti una centralità da giocare su più tavoli; la conquista della Cgil, la competizione con Renzi — e con Marchionne —, l’apertura di una fase di elevata conflittualità. Ma non è di questo che il Paese ha bisogno. E non è questo che il Paese chiede in una fase in cui finalmente si rivede un po’ di sviluppo.
Lo schieramento di Landini può valere percentuali vicine a quelle della Rifondazione comunista di Bertinotti; ma non apre una stagione, non fa cadere un governo, non condiziona il futuro. I primi segnali di ripresa, le aziende anche grandi che tornano ad assumere, il timido riaffacciarsi della fiducia sono segnali che, se confermati, richiudono la «piazzetta rossa» nel perimetro della testimonianza.

Il Sole 29.3.15
«Jobs act completato entro giugno»
Poletti: un referendum sulla riforma del lavoro non serve al Paese
di Nicoletta Picchio


VENEZIA Entro la prima settimana di giugno saranno approvati tutti i decreti attuativi del Jobs act. E verrà risolta, al massimo entro la metà di giugno, quella «situazione complicata» sulle politiche attive, facendo un accordo tra Stato e Regioni per far nascere l’Agenzia nazionale per l’impiego, gestendo la transizione tra la Costituzione attuale, che considera l’argomento di competenza regionale, e la riforma, che invece riporta la competenza allo Stato. Comunque entro luglio tutte le norme saranno a regime.
Giuliano Poletti ha rassicurato la platea delle pmi sui tempi della riforma del lavoro e sulle intenzioni del governo: «Vogliamo accelerare, faremo le riforme. Questa responsabilità ce la prenderemo, ci prenderemo il rischio nel partito e nel paese. Altrimenti cosa serve stare qui», ha detto il ministro del Lavoro, catturando gli applausi della platea del convegno della Piccola di Confindustria. Così come è stato applaudito quando, parlando della riforma del lavoro, ha detto: «Prendere le scorciatoie non è quello che serve all’Italia». La riforma rappresenta il «cambiamento radicale» di individuare il contratto a tempo indeterminato come il modo normale di assumere. Ed ha controbattuto alle critiche della Fiom e alla manifestazione di ieri pomeriggio: «Le opinioni sono tutte legittime, quelle della Fiom le conosciamo, ma non sono condivisibili. Fa riferimento ad una situazione che nei fatti ha dimostrato che con quelle logiche i risultati non si sono ottenuti: solo il 15% delle persone aveva il contratto a tempo indeterminato. Era l’eccezione, deve diventare la normalità».
Sono i numeri per Poletti a dimostrare l’efficacia della riforma: 79mila posti in più. Venerdì era stato il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, a confermare un trend positivo, con 24mila posti in più nella Regione. «L’imprenditore assume perché ne ha bisogno, non per la riduzione dei contributi. Dopo tre anni non è che licenzia le persone perché finisce il vantaggio. Sarebbe inimmaginabile. Quelli che fanno così finiscono presto, si selezionano da soli». La prossima settimana due decreti del Jobs act andranno in Parlamento, gli altri saranno a breve in Consiglio dei ministri. Il pensiero del ministro è che basta con la logica del tutto a tutti. «Bisogna legnare le rendite e premiare le opportunità». Ci sono una «vagonata di ostacoli». Che vanno tolti: «Si danno gli incentivi alle imprese, è come dare le vitamine ad un cavallo e poi impedirgli di correre costruendo un muro davanti. Meglio abbattere il muro». Ad agire c’è il rischio di sbagliare, certo. «Ma è meglio fare, ti puoi correggere, piuttosto che stare fermi dietro le ideologie». Un referendum sul Jobs act «non è quello che serve al paese. Loro fanno le loro scelte – ha detto Poletti riferendosi alla Fiom – io invece vado a parlare agli operai di Mestre. È il mio modo di fare questo mestiere, mi galvanizza sempre». L’Italia ha il potenziale per crescere al 2%: «Si tratta di superare i vincoli strutturali del paese e di essere tutti coerenti nella spinta al cambiamento».

Il Sole 29.3.15
Il piano sulla tv pubblica
Tutta qui la rivoluzione sulla Rai?
di Giovanni Minoli


Canone sì canone no. Questo dubbio, esplicitato ieri dal presidente Renzi, contiene l’incertezza anzi vorrei dire la confusione del governo sulla Rai. Il resto – dice il governo – è tutto chiaro.
Più poteri all’amministratore delegato nominato dal governo, un membro del consiglio di amministrazione eletto dai dipendenti, due consiglieri in meno rispetto al passato e ancora la commissione parlamentare di vigilanza.
Se non va bene così resta la legge Gasparri. Una minaccia o una speranza? Vista la confusione della proposta e la sua modestia il dubbio c’è.
Ci si aspettava di più da Renzi dopo i proclami? Sì.
Tutti i servizi pubblici in Europa – in percentuali diverse – hanno il canone perché l’Europa ha scelto un modello di servizio pubblico con un surplus di responsabilità sociale e culturale che consenta di essere contemporaneamente il motore dell’industria dello showbusiness e dell’identità nazionale. Per sottrarsi all’egemonia dei format standard globalizzati che sono in ogni paese il pane delle televisioni commerciali.
I servizi pubblici nazionali devono o dovrebbero nel mondo globalizzato – multimediale multipiattaforma – avere chiaro cosa vuol dire produrre in via prioritaria il “Made-in” stimolando in questa direzione autori, registi, documentaristi, uomini di spettacolo, di cinema oltre che giornalisti. La Rai può fare questo nello stesso modo con o senza il canone? No.
Naturalmente questo non vuol dire che la Rai organizzata così, con gli uomini che ha, va bene.
A scanso di equivoci penso che oggi la Rai sia quasi una “Bad company” che con 13.000 dipendenti e 1.500 giornalisti è soprattutto una grande società di distribuzione di contenuti non suoi di cui possiede diritti solo in minima parte.
Non una produttrice di prodotti “All rights” per tutte le piattaforme della catena su cui viaggiano e si consumano i contenuti. Con l’eccezione in parte della fiction e del cinema.
Questo perché il prodotto e gli uomini del prodotto sono stati quasi completamente espulsi dall’azienda e dai ruoli decisionali. Comandano manager amministrativi o gestionali che poco o nulla sanno di prodotto.
Ma si dice non tocca al governo descrivere la mission industriale di un’azienda come la Rai. Il governo ha fatto il suo dovere.
E allora ci si chiede: è il governo che “deve” avere una politica industriale in base alla quale poi si scelgono uomini, organizzazioni e prodotti oppure no?
Rispondo con un esempio: l’Ilva deve essere privata, pubblica o pubblica e privata? Chi lo decide, l’amministratore delegato o il governo che lo nomina per realizzare questo o quell’obiettivo industriale? Il tanto invocato primato della politica cosa è se non la capacità di dare linee strategiche per l’azione?
E allora tornando a “canone sì,canone no” il tema è sapere se si vogliono fornire entrate certe per fare investimenti strategici di lungo periodo che siano il volano dell’industria nazionale dello spettacolo, dell’intrattenimento e dell’informazione cioè dell’identità nazionale oppure no. A seconda della risposta cambia completamente lo scenario di riferimento. La scelta spetta alla politica e alla sua capacità di esprimere realmente un primato.
È tutta qui la rivoluzione di Renzi sulla Rai? Speriamo di no. Forse come è abituato a fare lancia il tema, vede le reazioni e aggiusta piano piano il tiro. Per ora però la montagna ha partorito il topolino.

il Fatto 29.3.15
Rottamazioni alterne: Matteo chiude un occhio
Il premier chiede alla minoranza di far fuori Bersani e D’Alema
Ma lui (quando serve) un bel po’ di vecchia guardia se la tiene eccome
di Wanda Marra


Stando a quanto raccontava Repubblica ieri, Renzi avrebbe detto “ai suoi” di smetterla di andar dietro a D’Alema e Bersani. L’oggetto del contendere è la legge elettorale, sul quale il premier vuole un sì definitivo alla Camera senza variazioni. Ma se D’Alema è un antico bersaglio, peraltro già colpito (e ampiamente rottamato ), Bersani come obiettivo esplicito non era mai apparso in questi termini. È la guerra generazionale, il nuovo che avanza. O meglio, il metodo ormai consueto per Renzi: portare a sé i giovani, inglobarli proponendo loro ruoli, posti di potere, magari candidature e isolare i “vecchi”, fino a detronizzarli. Matteo Orfini, Marianna Madia, Debora Serracchiani, ma anche Enzo Amendola e Roberto Speranza prima erano all’opposizione, ora sono o “diversamente” maggioranza, o puntelli del premier segretario nella minoranza. Eppure, se una parte consistente della vecchia guardia (D’Alema, Veltroni, Marini) ormai non conta più nulla, una pattuglia decisamente numerosa non solo resiste, ma avanza. Soprattutto sui territori. Perché di certi pezzi di vecchio potere, il “nuovo” Matteo non può fare a meno.

il Fatto 29.3.15
Memorie
Craxi e il format dell’uomo solo al comando
di Antonio Padellaro


L’ASCESA RAPACE TRA PARTITO E GOVERNO, SENZA FARE PRIGIONIERI, SOTTO L’INSEGNA SPLENDENTE DEL “CAMBIAMENTO”. IL DISPREZZO PER IL PARLAMENTO, L’INSOFFERENZA PER I GIORNALISTI, LA CADUTA. E ORA LA CARRIERA “PARALLELA” DI RENZI: DUE STORIE E LO SPECCHIO DI UN’ITALIA MALATA

L’ultima volta che parlai con Bettino Craxi era il 1998 e lavoravo all’Espresso. Gli telefonai ad Hammamet, fu gentile e alla domanda su cosa si rimproverasse dopo Mani Pulite disse soltanto: “Ho sottovalutato ciò che stava accadendo”. Mi è tornato in mente guardando martedì scorso la prima puntata di 1992, la fiction che va in onda su Sky, quando l’attore che interpreta Antonio Di Pietro sfoglia un giornale che parla di un cinghiale selvatico fotografato alla periferia di Milano e ci fa capire che il vero cinghiale da catturare, anzi il “cinghialone”, come se ne parlava nei giornali, era proprio lui, Bettino. Anche se adesso il Di Pietro autentico nega e dice che “nell’inchiesta quel nome non esisteva”, la verità è che oltre le indagini del pool milanese (e le successive condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito) quello stesso nome, in quegli anni, in quella crisi economica e morale devastante fu il principale bersaglio della protesta collettiva, la calamita dell’insofferenza, il capro espiatorio della frustrazione nazionale. Lemonetinecheglitiraronoaddossoil30aprile 1993 a Roma, davanti all’hotel Raphael, furono la colonna sonora di un’esecuzione: Bettino Craxi era l’uomo più odiato d’Italia. Lui che non molti anni prima, nel 1984, dopo la firma del Concordato con la Chiesa, all’apice della presidenza socialista veniva acclamato come il nuovo uomo della Provvidenza. Come era potuto accadere?
Nani, ballerine, garofani e la calca delle tv
“Si vedono uomini cadere da un’alta fortuna a causa degli stessi difetti che li avevano fatti salire”. L’aforisma di La Bruyere apre il libro Processo a Craxi che nel 1993 scrissi con Giuseppe Tamburrano, dividendoci i ruoli. Io che già dai tempi del Corriere della Sera avevo seguito passo dopo passo l’ascesa del leader socialista esponevo le ragioni dell’accusa, quella politica e quella giudiziaria. Tamburrano, politologo socialista che conosceva come pochi la storia del Psi, esponeva le ragioni della difesa anche se nella foga del dialogo ci afferrava il sentimento comune della delusione. Giuseppe ricordava i tempi dell’ascesa e del trionfo, il congresso dell’acclamazione, la piramide quasi divina dell’architetto Panseca, l’esibizione del potere, la calca dei cortigiani, la ressa dei postulanti, il “partito nuovo” degli emergenti e del made in Italy, le Thema e le Mercedes, i Cartier d’oro e le cene al Savini. Ciò che restava dell’antico socialismo dei valori e della testimonianze fu bruscamente emarginato. Riconosceva anche i meriti del primo politico italiano di spicco che aveva capito le tendenze delle democrazie occidentali, nelle quali il confronto non è tra partiti ma tra leader. Ero presente al famoso congresso di Rimini del 1982 quando Craxi dopo aver lanciato lo slogan “Cambiamento” (ma guarda un po’), nell’apoteosi degli applausi, dei garofani agitati al cielo, nella calca delle televisioni impazzite, stretto tra mille fans, invocato da nani e ballerine viene avvicinato da un signore anziano che timidamente prova a mormorargli: “Bettino sono un vecchio compagno... ”. E lui sarcastico e tra le risate della corte: “Che sei vecchio lo vedo”. Forse fu lì che cominciò la discesa.
La storia si ripete: dal Caf al Patto del Nazareno
Fateci caso, nel 1976 al Midas di Roma, superhotel all’americana appena inaugurato sulla via Aurelia, un giovanotto corpulento in jeans approfitta delle ruggini tra i capicorrente e di qualche fortunata carambola per farsi eleggere segretario del Psi reduce da un mediocre 9,6 nelle stesse elezioni politiche del Pci trionfante al 34,4%. Prende il posto di Francesco De Martino, laconico buddha napoletano che non intende smacchiare il giaguaro comunista e che anzi teorizza l’unificazione Psi-Pci: il che per il partito di Pietro Nenni significa farsi annettere punto e basta. Fate caso alla situazione dei socialisti italiani: federazioni paralizzate dalla lotta fra le correnti, dirigenti in guerra perenne; sezioni degradate a terminali di questo o di quel boss; un corpo di militanti ridotti a servi della gleba dei signori delle tessere; una struttura chiusa, burocratica, polverosa. Vi ricorda per caso il Pd di Bersani? E poi la stessa parola d’ordine sul Cambiamento che non è ancora la Rottamazione che verrà ma il senso è quello. La stessa presa di potere del partito con un blitz che non farà prigionieri. Lo stesso scontro interno con una sinistra interessata unicamente alle proprie rendite di posizione e che il giovanotto prima divide e quindi incamera grazie a qualche strategica poltrona come le Partecipazioni statali a Gianni De Michelis e i Trasporti a Claudio Signorile (e il giovane Incalza). La stessa immagine di un partito ringiovanito, di una forza nuova, rinnovatrice che entra in campo sgomitando e scalciando. Poi, la stessa rapida conquista di Palazzo Chigi. Lo stesso disprezzo per il Parlamento retrocesso a ente inutile. La stessa corsa a salire sul carro del vincitore. La stessa sudditanza dei giornaloni. Lo stesso disegno per mettere sotto controllo la Rai. La stessa guerra alla Cgil. Lo stesso spirito d’intesa con la Confindustria. Allora, il taglio di 4 punti della Scala mobile. Oggi, la modifica dell’art. 18. Lo stesso asse di potere con la destra. C’è molta differenza tra il Caf di Craxi con Forlani e Andreotti e il patto del Nazareno di Renzi con Berlusconi? E ancora, la stessa insofferenza per i giornalisti “dei miei stivali”: quei pochissimi senza collare che quarant’anni dopo nella versione tweet diventeranno “gufi” e “sciacalli”. A parte la stazza e i vestiti sformati, molte le analogie con un altro giovanotto che verrà e che nei giorni del Midas aveva appena un anno. Certo che Matteo Renzi non è Bettino Craxi, né glielo auguriamo per come è finita quella storia. Certo, saprà guardarsi dalle degenerazioni del sistema: quello dei “bilanci falsi di tutti i partiti che tutti sapevano” come ammise il cinghiale ferito nel famoso interrogatorio nell’aula milanese del processo Cusani. Anche perché rivisitato su Youtube quel confronto tesissimo con il pm Di Pietro trasmette un senso di sgomento, di dramma incombente che nessuna fiction potrebbe mai restituirci. Le colpe storiche e giudiziarie di Craxi restano intatte ma oggi lui quasi giganteggia a confronto dei tanti, troppi “tangentopolini” nel formaggio del ventennio successivo, senza dignità e senza verità.
Il percorso iniziale di Renzi può somigliare a quello di Craxi perchè entrambi nascono a sinistra per spaccare la sinistra. Ma anche no per il diverso contesto politico oltreché temporale nel quale si svolgono le due vicende. Esiste tuttavia una coazione a ripetere insita nel sistema italiano, quasi una malattia congenita e recidiva, tra corsi e ricorsi, che comincia con il ventennio mussoliniano e attraversa quello berlusconiano. È il format dell’uomo solo al comando che rapidamente sale e repentinamente precipita. Reso cieco dalla sua stessa superbia e arroganza, mal consigliato, infine abbandonato e tradito finisce per “sottovalutare” i segnali dell’incombente disastro. Ma qui si torna al punto di partenza.
I conti con la fine: tradimenti, falsi amici e cricche
Il più pesante atto d’accusa sull’opportunismo di Giuliano Amato non è contenuto negli articoli del Fatto Quotidiano, che l’ex Dottor Sottile cerca di trascinare in tribunale con una voluminosa querela. Bensì nelle pagine di un libro dal titolo: Io parlo e continuerò a parlare, note e appunti di Bettino Craxi sull’Italia vista da Hammamet (vedi sotto e a fianco). Neppure questo il cinghiale ferito aveva previsto: che un sistema di potere, il suo, che sembrava edificato sulla pietra, e che lungo un quindicennio aveva resistito perfino all’ostilità di Ronald Reagan e della Casa Bianca, si sbriciolasse nell’arco di poche settimane. “Bettino come Benito”, scrisse all’inizio della frana Valentino Parlato sul manifesto: “Come Benito Mussolini? No, come il Benito Cereno di Melville, comandante fittizio di una nave ammutinata, ostaggio nelle mani di un equipaggio in rivolta”. Poi, nella latitanza tunisina subentra la solitudine, la rabbia, la voglia di regolare i conti con i falsi amici e con la storia. Ne fa le spese anche il “migliorista” e futuro capo dello Stato, Giorgio Napolitano in una sorta di chiamata di correo (vedi a fianco). Mentre il nome di Claudio Martelli, il brillante delfino, l’unico autorizzato a rifornirsi nel frigorifero di casa Craxi (secondo la fulminante battuta di Anna Craxi) è relegato in una nota a margine che è peggio di una condanna. Infine i conti con se stesso e una frase che suona come epitaffio: “Io non conosco la felicità. La mia vita è stata una corsa a ostacoli, e non mi sono mai fermato per dire a me stesso ora sei un uomo felice. Bettino Craxi”. Felici non lo sono stati e non lo sono neppure gli italiani derubati da Tangentopoli e poi derubati ancora dalle cricche nella indecente spoliazione della ricchezza nazionale proseguita fino ai giorni nostri, senza apparenti ostacoli. E purtroppo questa non è fiction.

Repubblica 29.3.15
Bisogna aiutare Matteo a difendersi da se stesso
di Eugenio Scalfari


DI FATTI politici ed economici ne sono in questi giorni avvenuti quantità innumerevoli ed anche di fatti di cronaca, uno dei quali, quello dell’aereo caduto sulle Alpi francesi, ha trascinato l’opinione pubblica di tutta l’Europa nel mondo dell’orrore e della disperazione.
Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.
Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c’è una frase che trovo molto significativa: «Napoleone governò per vent’anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l’eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù». Ecco, già queste righe mi confermano nell’idea che è un buon Virgilio.
Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista.
QUINDI ha se non altro i pregi dell’innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d’essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d’essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell’obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente.
Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.
Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un’astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.
Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L’amore per se stessi c’è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati.
Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest’amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.
Il mio Virgilio a questo proposito dice che «l’uomo mira all’utile proprio e non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L’uomo singolo, come l’unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ». Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall’intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista. * * * Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell’azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.
Così si spiega anche l’abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L’effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d’un sistema monocamerale con una Camera in gran parte “nominata” dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.
Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l’effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell’autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.
In questo quadro si iscrive anche l’eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell’amministratore delegato dell’azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d’amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato — come del resto è giusto che sia — dal governo e in teoria dal ministro dell’Economia che ha la completa proprietà dell’azienda. L’ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d’amministrazione e dell’amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l’appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d’azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto. * * *
Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali “disorganici”, operatori, esperti e politici di buon conio (rari).
La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall’incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del “peccato” (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).
* * *
Un altro rimedio per diminuire il rischio d’un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: «Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d’Europa ».
Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all’epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell’associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.
D’altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall’inizio dell’Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d’Italia legge nell’assemblea generale dell’istituto.
Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.
C’erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell’andamento dell’economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l’attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando l’Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell’occupazione. L’ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c’è.

il Fatto 29.3.15
Pd
Quanto vale lo scherzetto dell’autosospensione
di Mariagrazia Gerina


LASCIANO “MOMENTANEAMENTE” DOPO I GUAI GIUDIZIARI. MA CONTINUANO A PARTECIPARE ALLA VITA (E ALLA CASSA) DEL PARTITO

Per comprensibili ragioni di opportunità, non disgiunte dall’alto senso di rispetto che ho sempre avuto nei confronti delle istituzioni, dei colleghi di partito e dei parlamentari tutti…”. Con questa formula solenne, il 19 marzo di un anno fa, il giorno stesso in cui il giudice per le indagini preliminari aveva disposto il suo arresto, il deputato Francantonio Genovese, indagato per i “corsi d’oro” della Regione Siciliana, annunciò la “determinazione” ad auto-sospendersi sia dal partito che dal gruppo parlamentare del Pd. Seguirono settimane convulse. Terminate con il voto a pochi giorni dalle elezioni europee e l’autorizzazione a procedere da parte dell’aula di Montecitorio. “Abbiamo fatto quello che abbiamo detto”, rivendicò il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini. “Il partito nuovo non vuole lasciare adito ad alcun sospetto o ambiguità”, dichiarò Debora Serracchiani.
Un anno dopo, per gli uffici della Camera, Genovese, pur agli arresti, è ancora a tutti gli effetti un deputato del Partito democratico. Nessun errore. Solo che l’autosospensione di un parlamentare dal gruppo a cui appartiene resta un fatto politico interno al gruppo, non viene neppure comunicato agli uffici di presidenza di Montecitorio o di Palazzo Madama. Sospesi o autosospesi per la Camera o per il Senato non esistono, ci sono solo parlamentari iscritti al proprio gruppo. Al limite, a quello misto. E Francantonio Genovese a tutt’oggi risulta iscritto al gruppo del Pd. A dispetto della autosospensione, annunciata un anno fa a mezzo stampa. Come pure è a tutti gli effetti parlamentare del Pd Marco Di Stefano. Indagato, davanti all’accusa di aver preso una tangente di 2 milioni dal costruttore romano Pulcini, a novembre annunciò anche lui la decisione di autosospendersi “momentaneamente” dal gruppo del Pd. “E infatti da allora noi non lo consideriamo più parte del gruppo”, spiega il presidente dei deputati democratici, Roberto Speranza. Loro no, ma la Camera sì. E continua a conteggiarlo in quota Pd.
SCHERZI di una misura disciplinare, che funziona come annuncio-stampa. Meno come strumento moralizzatore di sicura efficacia. Specie quando, a breve, non seguono provvedimenti più incisivi. E la questione, va detto, ha anche un risvolto pecuniario. Perché, mese per mese, i contributi che Camera e Senato erogano ai gruppi parlamentari dipendono dal numero di parlamentari iscritti. E anche qui sospesi o autosospesi contano al pari degli altri. La tesoreria non fa distinzioni. Considerando che lo scorso anno la spesa per il finanziamento dei soli gruppi parlamentari della Camera è stata pari a 32 milioni di euro, si può dire, con un calcolo molto a spanne, che un deputato autosospeso continua a far affluire nelle casse del gruppo circa 4mila euro al mese di contributi. Se poi non intervengono misure ulteriori, il conto non si arresta. E alla fine dell’anno l’autosospeso avrà fruttato al gruppo un tesoretto di circa 50 mila euro. Viene il sospetto che non sia solo per garantismo che, a volte, la sospensione si congela “ad libitum”, senza sfociare in misure più perentorie. Come nel caso di Francantonio Genovese.
D’altra parte, siamo nel paese in cui Giancarlo Galan, dopo aver patteggiato per lo scandalo del Mose una pena di 2 anni e 10 mesi, è ancora presidente della Commissione Cultura della Camera. Lui a sospendersi, misura prevista anche nello statuto dei deputati di Forza Italia, non ci ha proprio pensato.
Dal Parlamento alle istituzioni locali, le contraddizioni non mancano. Prendiamo il caso di Mafia Capitale. All’indomani dei 37 arresti, i politici indagati hanno reagito in ordine sparso. Anche qui il Pd ha voluto dare un segnale in più. Renzi ha commissariato la federazione romana, inviando il presidente Matteo Orfini a fare pulizia, e i consiglieri indagati, non destinatari di misure cautelari, si sono autosospesi dal partito. Ma un conto è il partito, altro i gruppi consiliari. Nel dubbio, l’ex presidente del consiglio Mirko Co-ratti, tornato da poco a frequentare l’Aula Giulio Cesare, si è limitato a partecipare alle riunioni del consiglio. Alla Pisana, il consigliere regionale Eugenio Patané, ha interpretato diversamente l’autosospensione. E dicono che partecipi come prima alle riunioni e alla vita del gruppo. Si è dimesso dalla presidenza della Commissione Cultura. Ma alcuni colleghi hanno notato che occupa ancora il suo vecchio ufficio.

il Fatto 29.3.15
Cantone: “Verifichiamo l’affidamento a Eataly”
di Davide Vecchi


L’AUTORITÀ ANTICORRUZIONE ACQUISISCE LE CARTE. MA IL COMMISSARIO GOVERNATIVO: “LEGITTIMO NON FARE LA GARA SE C’È UNICITÀ”

Firenze. Tra i professionisti della “ricerca del brutto”, evoluzione farinettiana dei “gufi” di Matteo Renzi, c’è anche Raffaele Cantone. L’Autorità anticorruzione che presiede del resto è stata istituita proprio per ricercare il brutto. E in Expo ne ha trovato tanto, compreso l’appalto affidato senza gara a Eataly per gestire la ristorazione in 8 mila metri quadrati del padiglione Italia. “Ho fatto tirare fuori tutte le carte dell’affidamento”, spiega Cantone al Fatto. “È un fascicolo voluminoso, ci stanno lavorando i tre finanzieri del Pool che lavora con me e subito dopo Pasqua riusciremo a fornire una valutazione esauriente”, afferma. Per buona pace di Oscar Farinetti che ancora giovedì a Servizio Pubblico ha descritto l’impegno come un peso gravoso. “Bisogna fare grandi investimenti ma per appena sei mesi, quindi devi avere una forza enorme e il guadagno non è garantito”. E comunque mica è colpa sua “se l’appalto non lo fanno”, ha fatto notare Farinetti.
CONTRO gli affidamenti diretti si è espressa anche la Corte dei Conti poche settimane fa. Un eccessivo impiego delle procedure senza appalti favorisce la corruzione, ha detto il 6 marzo Claudio Galtieri, presidente dei giudici contabili lombardi. “Il fenomeno della corruzione va combattuto anche ponendo attenzione agli effetti concreti di quella legislazione che nell’ottica di semplificare e rendere più tempestiva l’azione amministrativa finisce in realtà col favorire fenomeni di distorsione nell’uso delle risorse pubbliche”. Expo 2015 è già coinvolto in un’inchiesta della Procura di Milano, che ha portato a quattro arresti lo scorso ottobre, sia nell’operazione Sistema dei carabinieri del Ros che con i magistrati di Firenze hanno smantellato la presunta “cupola” del ministero delle Infrastrutture sulle Grandi opere. Cantone riconosce: “Siamo talmente strapieni, la nostra unità operativa su Expo ha un carico di lavoro enorme ma lo porteremo a termine e verificheremo tutto”.
PER CARITÀ: la vicenda dei ristoranti affidati a Farinetti appare marginale ed è estranea alle inchieste delle Procure. Ma forse rientra nel “brutto” di Expo che il pool di Cantone sta verificando. Sicuramente non ci sarà nulla da eccepire. Il commissario del governo per l’esposizione milanese, Giuseppe Sala, ha già spiegato: “Possiamo non fare una gara quando c’è unicità e dal nostro punto di vista Eataly è unico”.
I ristoranti di Farinetti del resto hanno già dimostrato di poter affrontare prove impegnative. L’ultima in ordine temporale risale al 6 novembre 2014 quando la società “Piaceri d'Italia” di Eataly organizzò il catering per gli 800 invitati alla cena di raccolta fondi per il Partito democratico a Milano. Era presente lo stesso Farinetti che mise la sua parte: mille euro. Per poi incassare dal Pd il pagamento della serata. Un po’ come se Silvio Berlusconi si abbonasse a Mediaset premium. Come l’ex Cavaliere, del resto, il papà di Eataly è un imprenditore, un self made man. E anche lui è stato tentato dalla politica: Renzi a febbraio gli propose di entrare nel governo, ma Oscar rifiutò. Preferisce starne fuori, seppure l’amicizia tra i due sia decisamente profonda. Tanto da essere invitato al matrimonio di Marco Carrai, fedele fundraiser e storico Richelieu del premier. Una cerimonia riservata a pochissimi amici. In chiesa c’erano meno di cento persone. Matteo e Agnese testimoni insieme ad Alberto Bianchi (tesoriere delle fondazionidelpremiereogginel cda di Enel), poi il finanziere Davide Serra, l’ex consulente di Cia, Sismi e governo Reagan, Michael Ledeen, l’ambasciatore UsaJohnR. Philips. Epochialtri. Farinetti è arrivato con l’intellettuale renziano Alessandro Baricco. I due si sono conosciuti di recente. Quando la scuola Holden nel 2013 era prossima al tracollo, per tramite di Carrai (già in cda) è intervenuto Oscar a salvarla con un innesto di capitale da 800 mila euro, comprando il 25% della società, poi salito al 36,7%. Tra amici si fa. Perché bisogna guardare al bello. Al brutto meglio non pensarci.

Repubblica 29.3.15
Il sistema Incalza e la Metro C ricatti, sprechi e ritardi costano un miliardo in più
È l’incompiuta di Roma: un ministero e due amministrazioni coinvolte 12 stazioni e 17 chilometri in meno. Nessuna certezza sulla fine dei lavori
di Carlo Bonini e Fabio Tonacci


ROMA Chi è responsabile di una delle più macroscopiche dissipazioni di denaro pubblico del dopoguerra? Come è stato possibile che, nell’inerzia del ministero delle Infrastrutture, del Cipe, di due diverse amministrazioni comunali, la linea C della metropolitana di Roma sia oggi, a 14 anni dal suo inserimento nell’elenco delle opere strategiche della “Legge Obiettivo”, un’Incompiuta per la quale si è passati da 2,7 a 3,7 miliardi di saldo? Quale gioco di prestigio ha reso possibile pagare tra il 30 e il 60 per cento in più la realizzazione di un progetto che ha visto restringersi le dimensioni iniziali (da 42 stazioni per 42 chilometri di tracciato alle attuali 30 per 25,6 chilometri)?
Due inchieste della magistratura penale (Roma e Firenze), una contabile (Corte dei Conti) e una amministrativa (l’istruttoria dell’Autorità nazionale anticorruzione per la quale è attesa una delibera prima dell’estate) promettono un imminente redde rationem giudiziario. Ma le risposte a quelle domande sono già in chiaro. Rintracciabili in una spaventosa mole di carte che è andata silenziosamente impilandosi per tre lustri nei gabinetti di ministeri, Comune e società partecipate, e ora finalmente intelligibile alla luce di quel format che abbiamo imparato a conoscere come “Sistema Incalza”.
IL “BUG” NELL’APPALTO
Sappiamo ormai che, nel Sistema Incalza, la Legge Obiettivo contiene una fal- un bug, che rende la cifra di aggiudicazione della Grande Opera da parte del General Contractor poco più che una convenzione, un numero a nove zeri scritto a matita, perché rinegoziabile in corso d’opera e a mano libera. È sufficiente infatti che controllato e controllore coincidano (il General Contractor sceglie e nomina la direzione dei lavori, che dovrebbe garantire tempi e corretta esecuzione dell’opera) e che le clausole del contratto di appalto consentano un sufficiente grado di discrezionalità nella loro interpretazione tale da rendere possibile un contenzioso (normalmente un arbitrato) in cui rivendicare oneri aggiuntivi (e dunque maggiorazione del prezzo).
Ebbene, la metro C è una scientifica applicazione del Sistema. 20 dicembre 2004: il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica, ndr), con delibera, approva il progetto preliminare e, il 28 febbraio 2006, il consorzio di imprese che ne sarà General Contractor sotto il nome di “Metro C” (Astaldi, Vianini, Consorzio Cooperative Costruzioni, Ansaldo) si aggiudica la gara per 2,7 miliardi con un ribasso del 14 per cento, accollandosi l’onere di anticipare un quinto del costo. Tra i direttori dei lavori scelti figura, guarda caso, anche Stefano Perotti, finito in carcere con Incalza. Non passano neppure 8 mesi e il contratto viene rinegoziato.
Contro la logica — che vorrebbe che i cantieri si aprano nella tratta centrale della città, da San Pietro a San Giovanni, sprovvista di servizio — si decide che la prima parte della linea a dover entrare in funzione sarà quella periferica, già servita dalla ferrovia di superficie. È il primo regalo al General Contractor che si vede anche abbattere la percentuale di anticipo dovuto dal 20 al 2 per cento. Ma non basta.
Nelle clausole del contratto ce n’è una sufficientemente vaga nella sua formulazione da consentire interpretazioni opposte. E riguarda un punto cruciale dell’appalto, la leva che consente di esploderne i costi: le indagini archeologiche, senza le quali solo uno scriteriato può pensare di scavare un tunnel in un’area che abbraccia i Fori Romani, il Colosseo, Piazza Venezia, Largo Argentina. Il cuore del patrimonio archeologico della città. Il più importante del mondo. Ebbene, a chi tocca fare quelle indagini? Il Ministero delle Infrastrutture, il Comune di Roma, la sua società partecipata “Roma Metropolitane” (una pletorica struttura da 80 persone e 13 milioni di euro di stipendi l’anno che ha il solo scopo di controllare lo svolgimento dell’opera) nell’approvare il progetto definitivo della linea ignorano o fingono di ignorare una nota di 53 pagine del Ministero dei Beni culturali con cui, già nel 2003 (tre anni prima dell’affidamento della gara), si segnala che «nessuna campagna di scavo è stata fatta per verificare la situazione archeologica delle tratte T1-T2-T3-T6/C1 (quelle centrali, ndr) ». Metro C, da parte sua, finge di ignorare che, stando al contratto firmato, rientra tra i suoi doveri farle.
ARBITRATI E CONTENZIOSI
Del resto, la colpevole disattenzione alla, l’aspetto archeologico non è un inciampo. È prevista dal canovaccio del “Sistema Incalza”. Strumentale a creare le condizioni di un contenzioso che deve trasformarsi in “ricatto”. E infatti, nell’ottobre 2007, a neppure un anno dalla stipula del contratto i costruttori trascinano il Comune in un primo arbitrato in cui chiedono una maggiorazione dei costi. La questione sembra chiudersi nel 2008, con una prima transazione in cui il consorzio di imprese rinuncia a 210 milioni di euro, ma ottiene lo slittamento della consegna della prima parte dell’opera dal 2011 alla fine del 2013. In realtà, è una cortina di fumo. Infatti, la transazione non “copre” la parte più consistente delle richieste di Metro C, che nel 2010 vengono ricalcolate in 1,4 miliardi di euro.
L’INTERVENTO DI INCALZA
Nel 2012, ecco allora l’intervento di Incalza (Infrastrutture) e del Cipe. Vengono riconosciuti al General Contractor 253 milioni di euro aggiuntivi rispetto alla cifra per cui hanno vinto il bando di gara e l’ennesimo differimento della consegna a fine del 2014. Ma in cambio di cosa? Della rinuncia a tutte le pretese del consorzio di imprese? No. «Di una rinuncia solo parziale ». E infatti, a novembre 2012, Metro C apre un nuovo arbitrato. Questa volta, chiede 153 milioni di euro che si sommano ad altri 252 per «intervenute varianti in corso d’opera» (45, dall’inizio dei lavori). I Radicali, nella loro denuncia che ha fatto aprire l’inchiesta della procura di Roma, lo definiscono «rapporto insano», per cui «nessuna delle tre amministrazioni coinvolte, Comune, Regione e Stato, sente la necessità di accertare se le rivendicazioni dei costruttori siano fondate».
L’ULTIMA STANGATA
A settembre 2013, la nuova giunta Marino, attraverso Roma Metropolitane, firma un «atto attuativo» che vuole e vorrebbe essere la pietra tombale su un gioco al rialzo che va avanti da troppi anni. Il General Contractor rinuncia al miliardo e 400 che ha chiesto. Ma porta a casa un ulteriore slittamento della tempistica, l’accollo a carico del committente delle penali per “ritardata consegna dovuta alle varianti”, i 253 milioni riconosciuti dal Cipe, e altri 60 in applicazione del primo lodo vinto con il Comune. L’assessore alla mobilità Guido Improta (oggi indagato a Roma) invoca la condizione di “necessità”, diciamo pure di ricatto, in cui la Giunta è venuta a trovarsi («cantieri fermi e 1 miliardo e mezzo da pagare»). Il ministero delle Infrastrutture, il suo ministro di allora (Lupi) e il suo Grande Mandarino (Incalza), stanno a guardare. A oggi meno della metà della linea è stata completata, per il tratto dei Fori Imperiali se ne riparla nel 2020, per quello da Piazza Venezia a Piazzale Clodio siamo ancora al progetto.
Secondo alcuni analisti, alla fine la linea C costerà allo Stato quasi 6 miliardi. Fino ad un anno fa esisteva anche un commissario straordinario per l’opera, Maria Fernanda Stagno D’Alcontres. Interpellata su quanto accaduto, risponde così: «Della Metro C non so nulla e non voglio sapere nulla».

il Fatto 29.3.15
Esodi
Pirelli e Fiat, come finisce un grande Paese
di Furio Colombo


Ti dicono che le aziende vanno e vengono, cambia la proprietà, la tecnologia, la formazione dei consigli di amministrazione, dei voti prevalenti, il tipo di manager, il modo di arruolare i dipendenti, la natura dei legami, la qualità dei prodotti, le aree di mercato. Salgono e scendono a volte in relazione alle crisi economiche che tormentano tutti, a volte resistendo meglio e da sole, nonostante il vento forte. E vogliono farti credere che questa evoluzione naturale del cambiamento riguarda anche la nazionalità dell’impresa e la nazionalità della proprietà dell’impresa. Che cosa importa la nazionalità dell’azionista se entra e prende il controllo qualcuno autorevole che viene dall’altra parte del mondo?
PRIMO, garantisce la continuità anche nei giorni difficili. Secondo, rende più facile l’espansione (nuovi mercati, nuove aree, nuovi Paesi). Terzo è una bella garanzia per i dipendenti e i dirigenti che sanno di entrare a far parte di una struttura più grande, che non confina più (soltanto) con il proprio Paese, ma si allarga nel modo e attribuisce un che di universale alla tua fabbrica. Per esempio, in Italia entra la Cina, compra la Pirelli e scrosciano addirittura gli applausi. Come conforto si usa citare il precedente di Krizia, comprata da una avvenente ingegnere (come si dice ingegnere, se è donna? chiedo a Laura Boldrini) di Shanghai, dimenticando la vocazione apolide di quel tipo di impresa, anche quando è grandissima perché è, per vocazione, trasportabile.
Il caso Pirelli, un’azienda italiana simbolo mondiale, che improvvisamente diventa di proprietà cinese è come un fortissimo colpo di gong che dà un annuncio. La parte importante di quell’annuncio è che la Pirelli, benché impieghi gli stessi lavoratori italiani e gli stessi manager italiani a tutti i livelli (certo una garanzia per il prodotto e un grado di sicurezza per i dipendenti) non è più un’azienda italiana. E dunque una pedina importante va rimossa dalla tavola del gioco. Qual è il gioco? È un gioco per metà economico, per metà di influenza e prestigio: quanto conti nel mondo? È un gioco meno grossolano di quello che sembra, perché non parliamo di armi e neppure di ricchezza, ma di prestigio. L’Italia ha, e ha avuto, brutti momenti, ma certi aspetti del suo prestigio (per esempio il suo riconosciuto potere industriale e la dimensione di quel potere) ha mantenuto rilevante e rispettabile la sua immagine nonostante il perdurante spettacolo di sangue di mafia, ’ndrangheta e camorra, allo stesso tragico e ridicolo. Ma come fai a non rispettare, anche nelle relazioni internazionali, anche nei confronti delle piccole e minime imprese (piccole ma italiane), anche nei confronti dei suoi scienziati e dei suoi studenti, un Paese che ha la Pirelli e la Fiat?
Mentre si apre l’evento di cui stiamo parlando (la Pirelli sarà anche stata un prodigio di ingegneria italiana, ma adesso è cinese, e non c’entra la globalizzazione, c’entra la convenienza di qualcuno a vendere) è impossibile non parlare di Fiat, ovvero di Fca. La Fca possiede alcuni stabilimenti in Italia, ma adesso è una fabbrica di automobili americana.
L’America, come la Cina, è un paese forte, egemone, e sproporzionatamente grande. Questo fatto non è geografico, è culturale e politico. Un Paese che può dominare, domina. Anche se non fosse già scritto nel tipo di riassetto voluto dalla ex proprietà italiana della ex Fiat, e benché il fatto sia negato da tutti coloro che non possono permettersi di perdere pubblicità Fca, l’Italia ha perduto per sempre il prestigio che veniva dall’essere la casa (dunque anche il luogo) della Fiat, con il valore, conosciuto e apprezzato, non solo dei prodotti ma anche delle persone addette alla grande fabbrica mondiale italiana. Infatti, per non creare equivoci, la Fca ha rapidamente americanizzato anche la Ferrari, che aveva dato per decenni al Paese Italia il prestigio che nessun governo e nessuna politica avrebbe mai potuto dare. E ormai si deve dire “ai tempi di Agnelli” e “ai tempi di Montezemolo” per indicare epoche diverse in cui tutto ciò che adesso è americano e quotato alla borsa di New York (ma con tasse pagate a Londra e sede legale in Olanda) era italiano.
DUNQUE il caso Pirelli (grande impresa-simbolo italiana, che resta teoricamente in Italia benchè diventata di proprietà cinese) e il caso Fiat, che ha radicalmente traslocato nell’altro Paese egemone, gli Usa, pur lasciando fabbriche minori (alcune ferme) in Italia, sono casi identici di amputazione dal corpo italiano di parti essenziali all’identificazione di questo Paese. Si può capire che il governo se ne occupi poco e finga anzi di leggere a rovescio questi due gravissimi episodi di perdita del prestigio industriale italiano (lealmente Marchionne aveva ritirato la Fiat dalla Confindustria prima della rimozione dei suoi punti decisionali, industriale, fiscale, legale) andando a dire che ci comprano perché finalmente siamo desiderabili.
Renzi, infatti, come Berlusconi, preferisce fabbricarsi il prestigio da solo attraverso il controllo delle notizie e – mentre perde Fiat e Pirelli – mostra di compiacersi (spero non in buona fede) per i grandi risultati raggiunti. Come è noto, una parte dell’indotto ex Fiat si è accodato all’esodo verso Detroit, e la stessa cosa sta succedendo – verso la Cina – intorno alla Pirelli. Ma i contraccolpi saranno duri per la piccola e laboriosa e popolatissima Italia dell’industria minore. Chiunque si presenti in giro per il mondo non viene più dal Paese della Fiat, della Pirelli, della Ferrari. Viene da un Paese di vacanze a cui, fuori stagione, non è così urgente prestare attenzione. Ora la grande impresa (vedere il fatturato) resta la malavita, con sede operativa e manodopera tutta italiana.

Corriere 29.3.15
La scelta della Corte costituzionale: il busto del presidente antisemita resta qui
Respinta la richiesta di rimuovere l’opera che ricorda Gaetano Azzariti. Perché? Non si può sapere
di Gian Antonio Stella


I l busto non si tocca: si sono proprio arroccati, i giudici della Corte costituzionale, in difesa del «loro» Gaetano Azzariti, il fascistissimo presidente del Tribunale della Razza riciclato da Togliatti e poi premiato nel 1957 (tutti smemorati) con la presidenza della Consulta. No, no e no: nessuna revisione. Nonostante spunti fuori una lettera dell’ex vicepresidente della Corte che due anni fa chiedeva già la rimozione del busto. Un atto d’accusa durissimo.
Scriveva Paolo Maria Napolitano il 16 novembre 2012 che l’uscita del libro di Barbara Raggi «Baroni di razza» imponeva che la figura di Azzariti fosse rivista. Per cominciare ricordava il giudizio di Renzo De Felice, il massimo studioso del fascismo, su quel «tribunale» infame voluto dal Duce per concedere a capriccio la patente di quasi ariano o di ebreo che avrebbe poi separato i salvati e i sommersi ad Auschwitz: «Se tutta la legislazione antisemita era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra; essa infatti non si fondava che sull’arbitrio più assoluto…».
Più ancora, in quegli «anni tragici e grotteschi», la «Corte» guidata da Azzariti che da oltre un decennio era l’uomo forte del ministero della Giustizia fascista (e le leggi razziali non poteva scriverle certo un maestro elementare come Mussolini) finì per diventare «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro. E ciò mentre il rigore della legge e delle innumerevoli disposizioni ad essa connesse si abbatteva sempre più pesante su quegli ebrei che non volevano o non potevano piegarsi alla sopraffazione e al ricatto» .
Insomma, scriveva ai colleghi il giudice Napolitano nella scia di De Felice, a prescindere dal funzionamento del «tribunale» (i cui atti guarda caso sono tutti spariti) Azzariti «presiedette, fino alla caduta del fascismo, una commissione di natura politica, pienamente integrata della logica della persecuzione degli ebrei». E certo il Duce non gliel’avrebbe affidata se lui non fosse appartenuto alla «ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime e se non avesse condiviso, almeno nelle linee generali, l’aberrante logica della “difesa della razza”».
Ora, chiedeva in quella lettera il giudice della Consulta, se Azzariti avallò l’«orrenda mutilazione dei diritti» di chi non poteva dimostrare di non essere ebreo e se presiedendo quel «tribunale» condivise «la folle e vergognosa logica» della legislazione razziale perché mai il suo busto deve avere l’onore di restare esposto nel corridoio nobile della Corte costituzionale? Non c’è neppure «un motivo di carattere generale» perché «non vi sono i busti di tutti i presidenti». A farla corta, chiedeva Napolitano, togliamolo. Richiesta respinta. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…
L’uscita mesi fa del saggio di Massimiliano Boni «Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale», ha però riacceso sotto la cenere la brace della polemica. Tanto più grazie a certe citazioni. Come un discorso del futuro presidente della Corte tenuto molto prima che Palmiro Togliatti, scegliendolo come braccio destro, gli desse una ripulita col detersivo di marca Pci: «La diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». E non era una sbandata giovanile: aveva allora 61 anni .
Così, dopo aver raccontato la storia ai lettori del Corriere , quando abbiamo saputo della lettera di Napolitano per due anni tenuta sotto silenzio, abbiamo chiesto ufficialmente alla Consulta il verbale, in teoria pubblico, della riunione della Corte amministrativa in cui la proposta di togliere il busto fu respinta. Risposta gentilissima del Segretario generale: il verbale c’è, ma occorre «sottoporre all’Ufficio di Presidenza della Corte la questione per l’autorizzazione necessaria». L’altro giorno, finalmente, ecco la risposta definitiva: «La Corte costituzionale corrisponde volentieri alla Sua richiesta di informazioni e Le conferma di essersi in effetti espressa, nella seduta del 12.12.2012, sulla proposta del giudice Paolo Maria Napolitano, decidendo di non rimuovere, allo stato, il busto di Gaetano Azzariti».
Grazie dell’informazione che avevamo già, ma il misterioso verbale? Boh…
Cosa sia successo nella riunione che ha partorito quella striminzita risposta, ovviamente, non si sa. Ma la Corte manda a dire: il busto del giudice fascista e razzista, troppo tardi demolito dagli storici, sta bene dove sta. Perché? Perché sì.

Il Sole 29.3.15
il valore della democrazia
L’Europa, il populismo e la cultura della vergogna
di Guido Rossi


Qualche giorno prima del cinquantottesimo anniversario della nascita della Comunità economica europea col Trattato di Roma (il 25 marzo 1957), l’Europa, in attesa delle elezioni di Francia e Spagna, pareva al termine dei suoi giorni.
L’estrema destra francese di Marine Le Pen e il movimento spagnolo della sinistra radicale Podemos sembravano, con i loro programmi di ben diversa matrice, ma assolutamente anti-europei e anti-euro, sicuri di vincere le elezioni dipartimentali in Francia e quelle amministrative per il governo dell’Andalusia. La crescente deriva populista, che si affaccia in quasi tutti gli Stati dell’Unione europea, insieme con gli scontri e le pesanti accuse che si scambiavano – e continuano a farlo – Germania e Grecia, portavano alla ribalta la vecchia dichiarazione dell’ottobre 2013 di Marine Le Pen che: «L’Unione Europea collasserà come collassò l’Unione Sovietica».
Mentre la questione greca, in tutta la sua gravità, è ancora aperta, dalle elezioni in Francia e in Andalusia sono risultati sconfitti sia il Fronte Nazionale di Marine Le Pen - superata dall’Ump dell’ex presidente Sarkozy, ritornato in campo - sia la sinistra radicale di Podemos, ampiamente superata dal partito socialista.
Non è dunque riuscito il tentativo di far cadere l’Europa da parte dei partiti populisti, che pur avevano raccolto anche l’indignazione di una parte della popolazione contro un’economia europea voluta soprattutto dalla Germania che obbediva alle politiche di austerity, imponeva insostenibili richieste sugli Stati della periferia dell’Eurozona, e in modo particolare sulla Grecia, aumentando disoccupazione e povertà e impedendo qualunque possibilità di crescita economica e incoraggiando la deflazione.
Le elezioni francesi e spagnole hanno invece improvvisamente dato una spinta di rinascita all’Unione Europea con una diversa presa di coscienza dei partiti e della politica, anche per un cambiamento da augurarsi degno di quello che impose trent’anni or sono Jacques Delors, divenuto l’ottavo presidente della Commissione Europea. Il risveglio della politica tradizionale, anche nei partiti dei singoli Stati, mette l’accento sul suo prolungato sonno, sorto ancor prima che iniziasse la crisi economica, quando la politica europea aveva ceduto completamente il passo alle tecnocrazie, accettando con superficialità ogni soluzione che veniva dichiarata come assolutamente necessaria. In questo lungo torpore della politica erano stati dimenticati, senza nessuna vergogna, i valori democratici fondamentali che tengono insieme gli Stati membri europei nella loro cultura, e quindi in modo particolare la solidarietà, la garanzia di libertà e di opportunità per tutti, soprattutto per i più deboli, i diritti civili fondamentali, primi fra tutti quelli sociali, evitando le brutali disuguaglianze che invece si sono via via create.
Insomma, la politica sembrava non possedere affatto la cultura della vergogna. Solo recentemente i Paesi europei, spinti anche dai cittadini in mancanza di lavoro, caricati di debiti e con standard di vita al limite della sopravvivenza, hanno cominciato a reagire al male devastante che il sonno della politica aveva tollerato in Europa: la corruzione. Un recentissimo articolo sul Financial Times fa un quadro preciso dei principali Paesi dove è in discussione il fenomeno della corruzione, del quale l’Italia ha purtroppo un intollerabile primato. La pur meritevole opera della magistratura italiana non ha tuttavia per nulla provocato quella essenziale cultura della vergogna, se – come risulta dagli ultimi casi di cronaca – molti dei personaggi già coinvolti nelle indagini di vent’anni fa sono nuovamente alla ribalta. Il tutto sembra avere l’aria del déjà vu, ma fortunatamente qualcosa sta cambiando.
Un altro passo in avanti molto importante nella politica europea è infatti costituito dalla sostituzione del presidente della Commissione Josè Manuel Barroso con Jean Claude Junker, il quale per la prima volta nella storia della Commissione ha ricevuto un esplicito mandato dal Parlamento Europeo. Dal 2014 la selezione del presidente è legata ai risultati delle elezioni parlamentari, che nel maggio scorso furono vinte dal Partito Popolare Europeo, il quale aveva indicato Junker, che si trova oggi a godere di un’autorità maggiore dei suoi predecessori. Anche questa novità costituisce un rilevante allargamento della democrazia politica nei confronti della burocrazia europea, che può segnare la partenza per una nuova ripresa del grande progetto europeo.
Il governo greco sta discutendo il suo programma di riforme con le istituzioni (cioè l’ex troika), per ottenere gli aiuti necessari a evitare il totale fallimento.
L’auspicabile cambiamento della politica di austerità, già ritenuta troppo dogmatica dal Fondo monetario internazionale fin dal 2012, potrebbe aiutare la rinascita europea. Del resto, ultimamente lo stesso presidente della Bce Mario Draghi si è più volte espresso, invitando i governi europei a lavorare con la Banca per incoraggiare consumi e investimenti come stimolo per la crescita economica.
L’operato del presidente della Bce, che è stato finora determinante per la tenuta del sistema, ha suscitato, in un articolo sul New York Times, le speranze di Paul Krugman che proprio nei confronti della Grecia non vengano operate ritorsioni. Il risultato di questa trattativa sarà determinante per il futuro dell’Europa.

Corriere 29.3.15
Detroit

«Diritti e stop alle violenze» Gli afroamericani in marcia

Migliaia di persone hanno preso parte ieri a Detroit alla marcia a sostegno dei diritti della popolazione afroamericana, sponsorizzata da oltre 100 chiese statunitensi. «From Selma to Detroit» era lo slogan che apriva il corteo (foto) in ricordo della cittadina dell’Alabama in cui nel 1965 venne lanciata la campagna per garantire il diritto di voto ai neri americani. In quella circostanza i manifestanti vennero duramente attaccati dalla polizia. Il movimento ha ripreso vigore negli ultimi tempi in tutti gli Stati Uniti anche in seguito all’uccisione da parte delle forze dell’ordine di alcuni giovani di colore, come a Ferguson dove sono esplosi violenti disordini dopo la morte di un giovane fermato dalla polizia. La marcia di ieri, che ha attraversato il centro di Detroit, oltre a reclamare più diritti per le comunità di colore voleva ribadire il carattere non violento e in sintonia con gli insegnamenti di Martin Luther King della battaglia civile degli afro americani.

Repubblica 29.3.15
A Tunisi in marcia contro i jihadisti perché qui l’Islam è democrazia
di Marek Halter


ALL’INDOMANI della strage di Charlie Hebdo , i capi di Stato sfilarono a Parigi contro la barbarie islamista. Oggi a Tunisi Renzi, Hollande e gli altri leader europei marceranno per le strade di un Paese musulmano per portare sostegno e solidarietà alla sola democrazia nata dalle primavere arabe. La loro partecipazione alla manifestazione contro l’attacco al Museo del Bardo ha un forte valore simbolico, perché la Tunisia è la dimostrazione che si può essere islamici e insieme democratici. Questo Paese non può che spaventare i jihadisti, poiché è un esempio che funziona e che potrebbe esser esportato in tutto il mondo musulmano. I tunisini sono perfino riusciti a integrare nel loro sistema politico il partito degli islamisti “moderati”, Ennahda, facendogli accettare le regole democratiche. E nella recente campagna elettorale il presidente tunisino, Beji Caïd Essebsi, ha avuto il coraggio e l’intelligenza di dichiararsi musulmano. Ma Essebsi ha anche detto che la laicità non è contraria all’Islam. I jihadisti sanno bene che se il modello tunisino dovesse affermarsi anche altrove, loro verrebbero in fretta spazzati via dalla Storia.
Stavolta la posta in gioco è di straordinaria importanza perché in Tunisia i jihadisti combattono contro un “loro” modello, nato dall’Islam stesso. Tutte le primavere arabe sono infatti cominciate con la Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia. Purtroppo uno degli obiettivi dell’attentato al Bardo, ossia bloccare la stagione turistica di un Paese che vive di turismo, con la cancellazione di migliaia di biglietti e di prenotazioni, è già stato raggiunto. I jihadisti hanno sabotato, almeno a breve termine, l’avvenire della Tunisia, con tutti i rischi che ciò comporta. Se il Paese non riuscisse a decollare economicamente sarebbe un disastro, perché proverebbe che nel mondo musulmano la democrazia non dà frutti e che solo la sha’ria può funzionare. Bene ha fatto l’Italia a cancellare parte del debito con la Tunisia. Sono infatti convinto che i tunisini faranno di tutto per difendere la loro idea di democrazia. Ma l’Occidente dovrà aiutarli.
Quanto all’altro obiettivo dei terroristi, cioè creare una psicosi del terrorismo, ebbene con le migliaia di tunisini scesi nelle strade a manifestare contro i responsabili dell’attentato, direi che è del tutto fallito. L’ho potuto constatare io stesso, venerdì scorso, al Museo del Bardo, dove, invitato dal presidente Essebsi, ho reso omaggio alle vittime assieme all’arcivescovo di Tunisi, a un pastore protestante, a due imam e a un gran rabbino francesi: la folla che si era radunata davanti al Museo ci ha lungamente applaudito, quando ci ha visto tutti assieme, uomini di confessioni e storie così diverse.
Con la nuova jihad siamo entrati in una guerra totale, contro un nemico senza volto e senza un luogo specifico da dove ordina i suoi attacchi. Una volta c’erano Hitler a Berlino, Stalin a Mosca, Franco a Madrid. Oggi ci mancano le coordinate contro cui combattere e ci troviamo spiazzati. Eppure dietro questi attentati terroristici c’è sempre una strategia globale. L’esercito dei jihadisti, che tutto sono fuorché lupi solitari, è composto da uomini fortissimi, perché non hanno paura di morire, a differenza degli anarchici russi di cui parlava Dostoevskij, dei brigatisti rossi o dei separatisti dell’Eta che uccidevano ma che volevano sopravvivere.
È vero, contro questo nemico ci sentiamo disarmati. Eppure c’è qualcosa che si può opporre ai jihadisti: l’Islam stesso. In Europa, in Francia o in Italia, possiamo soltanto provare a proteggerci dai loro attacchi, rinforzando i nostri servizi di sicurezza e gli apparati di intelligence. Ma sul piano ideologico non possiamo fare nulla, perché la sola carta che siamo in grado di giocare è la nostra illuministica concezione del mondo, e loro dell’illuminismo se ne fregano. Non abbiamo perciò nessuna presa. I soli che possono avercela sono i musulmani, scendendo nelle piazze e occupando attivamente i social network su internet per denunciare i jihadisti come blasfemi. Solo i musulmani possono introdurre un dubbio nell’animo dei kamikaze, dimostrando che il loro vile operato è contrario a quanto scritto nel Corano.

il manifesto 29.3.15
Forum sociale a Tunisi, ora serve una vertenza globale
di Vittorio Agnoletto

qui

Corriere 29.3.15
Sunniti e sciiti tra Maometto e gli imam
Le origini della Grande Spaccatura
di Roberto Tottoli


La divisione tra sunniti e sciiti ha segnato la storia dell’Islam fin dalle origini. La frattura risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per i sunniti il legittimo successore fu Abu Bakr, scelto dai compagni di Maometto e che divenne il primo Califfo, senza alcun ruolo religioso ma solo il dovere di garantire l’ideale unità della comunità. Per i sunniti, infatti, bastano Corano ed esempio del profeta Maometto per guidare i credenti. Gli sciiti sostenevano invece che il legittimo successore di Maometto fosse ‘Ali, suo genero. Il loro nome viene da Shi‘at ‘Ali, che vuol dire «Partito di ‘Ali». Politica e religione si saldano in tale rivendicazione. Secondo gli sciiti, infatti, Dio non poteva lasciare la comunità musulmana senza una guida religiosa. Per questo affermavano che eredi di Maometto dovessero essere gli imam, guide spirituali e allo stesso tempo discendenti e successori di ‘Ali.
Sull’identificazione di questi imam, gli stessi sciiti si divisero ben presto in sette diverse. Lo sciismo oggi più diffuso nel mondo islamico è quello cosiddetto imamita, o duodecimano, perché identifica una successione di dodici imam. Gli imamiti accusano i sunniti di aver alterato il Corano e si differenziano solo in alcuni aspetti del rituale e del credo. Altre sette sciite sono in numeri spesso ridotti e a volte hanno concezioni più estreme, esoteriche o iniziatiche. Basti pensare ai drusi, agli alauiti in Siria, al potere con la famiglia Assad, oppure agli ismailiti noti in Occidente soprattutto per il loro capo spirituale, l’Agha Khan. Oppure ai zayditi dello Yemen, sciiti moderati assai vicini ai sunniti. Le differenze tra loro derivano da contrasti storici nell’identificazione dei legittimi imam, ma soprattutto nel ruolo religioso, più o meno accentuato, che viene loro attribuito.
I sunniti hanno sempre guardato con sospetto ai sostenitori di concezioni sciite. Li accusavano di attribuire troppa importanza agli imam e a volte persino di divinizzarli, e quindi di allontanarsi dalla direzione tradizionale che poi si affermò nel sunnismo, fondata su Corano e Sunna di Maometto. Gli sciiti furono di conseguenza quasi sempre oppositori o pericolosi antagonisti nelle lotte politiche che attraversarono il mondo islamico, anche se conobbero alcuni brevi successi, con dinastie che ne sposarono le tesi e che quindi si fecero promotori di diffondere il loro credo. L’esempio più fortunato è quello della dinastia safavide che si affermò nel 1500 in Iran. Grazie alla loro azione politica e il loro sostegno allo sciismo imamita, l’Iran divenne un Paese a maggioranza sciita. Nel resto del mondo islamico, tuttavia, e nel corso dei secoli, gli sciiti sono stati una minoranza perseguitata, quando non confinata in aree impervie. La loro storia di sofferenze è ben rappresentata dall’imam Hussein, il figlio di ‘Ali, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.
Tale divisione segna la realtà del mondo islamico anche oggi e determina gli schieramenti delle grandi potenze sunnite come Arabia Saudita e Turchia da un lato, e di quelle sciite dall’altro, come Iran e forse, in un prossimo futuro, l’Iraq. Pallidi tentativi ecumenici hanno cercato di riavvicinare nel XX secolo sunnismo e sciismo imamita, ma sempre con scarso successo. Il crollo degli Stati nel mondo arabo iniziato nel 2011 e la conflittualità che ne è seguita ha invece ravvivato la divisone confessionale e riaperto ferite sopite da regimi autoritari. E dopo Iraq e Siria, anche lo Yemen rischia di esserne travolto.

Corriere 29.3.15
Ragazze rapite, perché nessuno parla più di voi?
di Adaobi Tricia Nwaubani


Care ragazze di Chibok,
probabilmente siete convinte che l’intera Nigeria vi abbia dimenticato. Nessun partito politico ha messo la vostra tragedia al centro della campagna elettorale. Vi chiederete se la Nigeria si sia mossa.
In una o due occasioni, i partiti di opposizione hanno, è vero, lamentato il problema della vostra scomparsa, ma sempre e soltanto per guadagnare qualche punto di consenso contro il governo di Goodluck Jonathan, per ricordare agli elettori il suo disinteresse per le difficoltà del popolo. E’ passato quasi un anno dalla notte in cui siete state rapite nel dormitorio scolastico, e il governo del presidente non è stato in grado nemmeno di rintracciarvi. Né il suo avversario, il generale Muhammadu Buhari, vi ha assicurato che sarete liberate, se verrà eletto.
Ma ecco una buona notizia! Qualche giorno fa, il celebrato primo ministro uscente Ngozi Okonjo-Iweala è stato nella vostra cittadina, Chibok, per offrire finanziamenti per ricostruire la vostra scuola. Un anno dopo che le aule e i dormitori furono distrutti dai rapitori, la vostra alma mater sarà finalmente ricostruita!
Inoltre l’esercito, grazie al sostegno rilevante delle forze multinazionali e mercenarie, ha liberato finalmente molte città a nord-est della Nigeria, occupate da mesi dai terroristi di Boko Haram. I militari hanno anche attaccato la famigerata foresta Sambisa, in cui, secondo l’intelligence, siete state portate e trattenute per molte settimane dopo il rapimento.
Non so come mai il governo abbia aspettato così tanto prima di intervenire a favore della vostra cittadina e contro i terroristi, ma meglio tardi che mai, giusto? Dopo aver cacciato Boko Haram, gli abitanti di quei territori liberati non dovrebbero aver avuto difficoltà a raggiungere i seggi e votare Jonathan, il loro salvatore.
Tuttavia, non dovete avere l’impressione che i politici vi abbiano trascurato di proposito, decidendo che voi, in particolare, non siate importanti. Numerose altre questioni urgenti sono state messe in secondo piano finchè non si concluderanno le elezioni e non ne annunceranno i risultati. I partiti politici hanno acquistato per la campagna elettorale ore di passaggi radio e tv, dozzine di pagine sui giornali. Programmi di attualità e spazio sui quotidiani di opinione si sono sprecati nper adulare o giustificare Jonathan o Buhari. Le ragazze di Chibok e noi cittadini non siamo la priorità di nessuno, fino a nuovo avviso.
A volte mi chiedo se siate davvero ansiose di tornare a casa, come credono gli attivisti del movimento #BringBackOurGirls e molti di noi. Siete nigeriane, dopo tutto, e noi nigeriani ci adattiamo alle circostanze disgraziate con una certa facilità, accettando la nostra condizione senza aspettarci grandi cambiamenti. Non ci importa che i politici depredino le risorse nazionali. Se dai rubinetti non scorre più acqua, scaviamo pozzi nel cortile. Se le strade sono sempre più impraticabili, risparmiamo per comprarci il SUV. I due principali partiti ci offrono di scegliere tra un presidente perdente e un ex-dittatore; ignoriamo le numerose mancanze dei candidati per aggrapparci, invece, ai loro scarsi risultati positivi.
Non è che, non aspettandovi alcun cambiamento della vostra situazione, vi siate adattate velocemente alla nuova vita? Siete a vostro agio come mogli di delinquenti e assassini? Avete perso la speranza di rivedere i vostri genitori? Ora comprendete il modo di vivere dei terroristi? Alla fine vi sembra che la loro ideologia abbia senso? Pare che dozzine di ragazze occidentali hanno abbandonato spontaneamente le famiglie per unirsi a quei mostri dell’Isis in Siria. Siete solidali con l’iniziativa di quelle ragazze? In quel caso, però, c’è una bella differenza tra essere rapite nel cuore della notte e la decisione, stupida o meno che sia, di abbandonare la famiglia. Per favore, scusate questa mie speculazioni. Sono cose che si pensano quando la situazione appare sempre più compromessa, magari per stemperare l’orrore al pensiero di una giovane e promettente vita in ostaggio di una crudele prigionia.
Forse la situazione non è così senza speranza come sembra. Dopo tutto, questa è la Nigeria. Spesso penso che la nomea attribuitaci dall’America sia giustificata. La Nigeria è il vero «Paese di Dio». Ogni volta che la situazione appare così grave che gli osservatori ci immaginano vicini all’implosione, ci solleviamo, ci scrolliamo la polvere di dosso e arranchiamo in avanti. La Nigeria è sopravvissuta a una guerra civile, a sommosse religiose e a parecchi scontri tribali. Siamo sopravvissuti a colpi di Stato e tumulti elettorali.
Arriverà il giorno in cui Boko Haram apparterrà alla storia, i ribelli saranno arrestati e puniti. Non vedo l’ora di festeggiare con il resto del mondo la vostra liberazione dalla prigionia. Che venga presto quel giorno.
(traduzione di Ettore Claudio Iannelli )

Il Sole 29.3.15
Arabia, la potenza «riluttante»
Crisi in Medio Oriente. La guerra della coalizione del Golfo contro gli Houthi ha l’obiettivo di contenere l’influenza iraniana
di Ugo Tramballi


Riad guida gli attacchi aerei nello Yemen, ma ha bisogno della forza militare dell’Egitto
Quattro volte i sicari di Ansar al-Sharia sono saliti dallo Yemen per assassinare Mohammed bin Nayef. Per quattro volte hanno fallito ma la scelta del nemico che i terroristi volevano eliminare, rende onore all’autorevolezza del loro bersaglio. Mohammed è stato il capo dei servizi segreti sauditi, dal 2012 è ministro degli Interni e da due mesi, dopo la morte di re Abdullah, è anche vice principe ereditario e vice premier.
A 55 anni Mohammed bin Nayef è l’uomo più potente del regno dopo il monarca, Salman. È stato educato nella West Coast americana e addestrato dall’Fbi, nessuno può vantare gli stessi contatti con i capi dell’intelligence degli Stati Uniti. È il responsabile della lotta al terrorismo qaidista e alle infiltrazioni dell’Isis. Ma, ancora più importante, è lui ad avere in mano il dossier siriano e tutto lascia credere che sia anche al vertice di quello più importante e definitivo per l’Arabia Saudita: l’Iran. Per quanto abbiano ripetutamente tentato di assassinarlo, la minaccia che Mohammed ha il compito di contenere non sono gli islamisti radicali sunniti, ma le mire egemoniche degli iraniani sciiti. La scorsa settimana è stato lui a convocare a Riad un vertice straordinario del Consiglio di cooperazione del Golfo (Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati, Oman e Arabia Saudita), dedicato allo Yemen e nel quale è stato deciso l’intervento militare. E ora, mentre gli Houthi avanzano verso Aden, sta organizzando l’evacuazione dalla città delle forze alleate dell’Arabia Saudita. Anche le agenzie Onu hanno deciso di ritirare tutto il personale.
Mohammed bin Nayef rappresenta il nuovo corso saudita che nei contenuti essenziali non è diverso da quello precedente: la continuità è il pilastro della stabilità monarchica. Ma in alcuni dettagli importanti il regno di Salman differisce da quello di Abdullah. È dall’invasione americana in Iraq, nel 2003, che l’Arabia Saudita ha iniziato a costruire la sua autonomia militare, politica e strategica dagli Stati Uniti, lavorando alla costruzione di un asse sunnita regionale. Le Primavere arabe, il fallimento di diversi Paesi della regione che ne è seguito, e il disimpegno dell’amministrazione Obama, hanno accelerato la creazione saudita di un’architettura sunnita moderata.
L’architettura o “Pax Saudiana”, come spesso è chiamata, parte dal Golfo normalizzato dal Patto di sicurezza interna fra i sei Paesi del Consiglio di cooperazione, entrato in vigore dopo un trentennio di trattative. Nessun regno o emirato potrà essere il rifugio dei dissidenti di un altro. Esprimendo giudizi o posizioni politiche, nessun giornale, intellettuale, partito o movimento negli altri Paesi del Golfo, dovrà mancare di rispetto verso la monarchia saudita. E nessuno potrà avanzare riforme politiche che non siano compatibili con il sistema saudita.
Per tradizione e massa critica – meno di 30 milioni di abitanti- l’Arabia Saudita fatica ad assumere il ruolo di gendarme della regione. Ha l’autorevolezza politica, religiosa e il denaro, ma non la forza militare. Pensando di ristabilire la divisione sunnita dei compiti che c’era ai tempi di Hosni Mubarak, Riad aveva favorito il golpe militare in Egitto contro i Fratelli musulmani, e sostenuto economicamente il generale al Sisi. In una dimostrazione di riconoscenza più che di forza, ieri al vertice della Lega araba di Sharm el-Sheikh, al Sisi si è offerto di assumere l’onere principale in uomini e mezzi di una forza militare inter-araba da inviare nello Yemen.
Ma dovranno passare anni perché l’Egitto si stabilizzi e torni a essere protagonista. I sauditi, che stanno finanziando l’economia del Cairo, lo sanno. Per questo nel 2015 spenderanno quasi 10 miliardi di dollari in armamenti, raddoppiando le spese per la difesa dell’anno precedente. L’obiettivo fondamentale, tuttavia, resta politico, non militare: l’asse sunnita, un’alleanza strategica che inizia in Marocco e arriva al Pakistan, l’unica potenza nucleare islamica (e sunnita) con un arsenale in espansione e finanziato dai sauditi.
Ma per realizzare il grande disegno c’è un ostacolo: i Fratelli musulmani. La questione ha lacerato l’Egitto, devasta la Libia, divide i palestinesi e gli oppositori al regime siriano. Soprattutto sottrae al fronte sunnita due protagonisti: il Qatar che ha il denaro e, ancora più importante, la Turchia che ha la geopolitica. Sono i due grandi sostenitori della fratellanza. Per l’Arabia saudita di Abdullah il movimento islamico era un’ «organizzazione terroristica». Per l’Arabia Saudita di Salman, non più. È questa la discontinuità più importante della nuova monarchia.
È stato Mohammed bin Nayef a incontrare per primo qatarini e turchi per anticipare il cambiamento, poi ufficializzato dal re Salman davanti all’emiro del Qatar e Recep Erdogan, e infine riassunto da Saud al Faisal, il più longevo ministro degli Esteri al mondo: «Non abbiamo problemi con i Fratelli musulmani».
Il Qatar è tornato all’ordine stabilito del Consiglio del Golfo; Erdogan fatica di più a riappacificarsi con l’Egitto e a contrapporsi all’Iran come vorrebbero i sauditi: è dal 1693 che turchi e iraniani non hanno dispute di frontiera. Anche il riconoscente Pakistan vorrebbe mantenere rapporti civili con l’Iran, pensando all’Afghanistan. Ma sono stati gli Houthi yemeniti a dare sostanza alla mobilitazione sunnita deliberata dall’Arabia Saudita. Dopo lo Yemen, sono convinti Mohammed e il suo re, l’espansione sciita iraniana destabilizzerà il Bahrein.

Il Sole 29.3.15
Chi ha paura di un’intesa sul nucleare iraniano
di Alberto Negri


La chiave del negoziato con l’Iran, ripreso a Losanna alla presenza dei ministri del Cinque più Uno, si riassume in una formula, assai semplice ma non banale, e in una frase pronunciata qualche tempo fa da Barack Obama. La formula è «nucleare contro sanzioni»: se l’Iran garantisce che il suo programma nucleare resterà esclusivamente civile avrà in cambio lo smantellamento dell’embargo. Ci sono due deadline, una alla fine di marzo, l’altra a giugno: ma la cosa più importante non è la scadenza, che potrebbe anche slittare, piuttosto il significato dell’intesa.
La paura di un accordo con l’Iran, per Israele, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, entrate in guerra con i loro alleati in Yemen, è sintetizata in una battuta di Obama: «L’Iran potrebbe diventare presto una potenza molto prospera se arrivasse a un accordo», messaggio ribadito in un discorso su Youtube rivolto dal presidente il 21 marzo ai giovani iraniani in occasione del capodanno persiano di Nowruz.
La posta in gioco va oltre la questione delle centrifughe: questo ormai lo hanno capito tutti. L’Iran, in cambio dello sblocco di fondi all’estero per 5 miliardi di dollari, ha già convertito a uso pacifico il 60% del suo stock di uranio arricchito.
Qui si tratta di stabilire il ritorno di Teheran sulla scena internazionale e mediorientale che non soltanto trasforma le relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa ma che può ridisegnare la carta geopolitica della regione.
È quello che sostanzialmente non vogliono le potenze sunnite, che hanno deciso di colpire i ribelli sciiti Houthi in Yemen alleati dell’Iran ma si guardano bene dall’attaccare Al Qaeda, il Califfato o di aiutare la Tunisia a difendere la sua vulnerabile democrazia. Il messaggio della coalizione guidata dal re saudita Salman in questa guerra all’Iran e allo sciismo militante è stato chiaro: Riad è pronta a usare la forza per ridimensionare lo status di potenza regionale di Teheran se sarà firmato l’accordo in discussione a Losanna.
Il negoziato sul nucleare ha avvicinato l’Arabia Saudita a Israele come mai è accaduto in passato. Non solo. Israele, come i sauditi, giudica una minaccia che lo Stretto di Bab el Mandeb cada in mano sciita considerando che l’Iran fa la guardia anche allo Stretto di Hormuz sul Golfo. Sia Riad che Tel Aviv, come ha dimostrato il discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso, non accettano da parte americana uno sdoganamento di Teheran che modifichi gli equilibri regionali.
In Medio Oriente gli Stati Uniti, in realtà, giocano ambiguamente su due tavoli. Sul fronte sunnita sostengono i sauditi nella guerra in Yemen mentre su quello opposto si appoggiano alle milizie sciite nell’offensiva contro lo Stato Islamico in Iraq.
Tenere impegnati sciiti e sunniti in più conflitti contemporaneamente fa parte della sempreverde strategia di Washington di contenimento degli attori regionali. Accadde anche negli anni Ottanta quando Washington, dopo il sequestro degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran, approvò l’attacco di Saddam Hussein all’Iran di Khomeini ma fece in modo che nessuno dei due uscisse vincitore. Gli iraniani, dopo otto anni di conflitto nelle paludi dello Shatt el Arab ebbero un milione di morti e si ritrovarono ancora più isolati; quanto al raìs iracheno finì indebitato con le monarchie del Golfo dopo avere combattuto una guerra per procura contro gli sciiti persiani e uscì fuori da ogni controllo.
È evidente che lo statuto regionale dell’Iran, dopo la caduta dello Shah, è sempre stato motivo di conflitto. Figuriamoci ora che si vuole persino fare la pace con Teheran, impegnata a difendere il governo sciita di Baghdad e il regime di Assad in Siria.
Gli ostacoli maggiori all’accordo sul nucleare non vengono soltanto dalle potenze regionali ma dall’interno dell’establishment americano. Questa è la vera sfida per Obama, che può sospendere le sanzioni ma non annullarle: mentre si avvicina la scadenza del 31 marzo i senatori repubblicani lavorano a una proposta di legge che imponga al presidente di chiedere al Congresso l’approvazione dell’accordo. L’impressione è che una firma a Losanna potrebbe avere un grande peso diplomatico ma non abbattere il muro della diffidenza e delle destabilizzanti rivalità regionali e settarie.

Il Sole Domenica 29.3.15
Giappone
È primavera, celebriamo la fertilità
Il risveglio della natura viene festeggiato nei «matsuri» (festival) con riti sacri e popolari, processioni e battiti di mani: omaggi propiziatori al principio della vita femminile e maschile
di Stefano Carrer


La fioritura dei prugni anticipa quella dei ciliegi e già colora di rosa le colline di Inuyama. La campagna circostante è stata per lo più divorata dagli insediamenti produttivi: la provincia di Nagoya, Aichi, è il cuore industriale del Paese, sede della Toyota e del suo gigantesco indotto. Pochi chilometri più in là, nel nuovo stabilimento della Mitsubishi Aircraft si sta costruendo il nuovo jet a massima efficienza e compatibilità ambientale. Ma nel matsuri (festival) ai templi limitrofi di Oagata e Tagata, il Giappone tecnologico scompare e riaffiora fino a esplodere una ancestralità rurale alla quale la gente mostra di sapersi collegare con sorprendente naturalezza.
L’arrivo della primavera viene celebrato oggi come tanti secoli fa con i riti sacri e popolari della fertilità, in una continuità che testimonia le radici dello scintoismo come culto primigenio della natura perdurante nel sottofondo della società contemporanea. Per l’osservatore occidentale è una scoperta che si tende a inserire in categorie mentali fatte di reminiscenze scolastico-letterarie che finiscono per prevalere sul ricordo delle acute osservazioni sullo shinto di un Fosco Maraini: paganesimo e culti dionisiaci, falloforie e dio Priapo, vitalità fescenninica trasportata di millenni e molte longitudini.
Oagata è dedicato soprattutto al principio femminile che dà vita e rinnova i cicli della natura. Uomini e donne, compunti, chinano due volte la testa, battendo le mani in raccoglimento davanti a una enorme vagina scolpita nella pietra. L’allegra processione si snoda intorno a un mikoshi (altare portatile) che trasporta una grande torta di riso a più piani (kagamimochi) su cui è applicato il simulacro di una enorme aragosta. Le grida di «wasshoi! wasshoi» mutano, al termine del percorso nel tempio, in un liberatorio «banzai» (diecimila anni) di gratitudine propiziatoria per i raccolti e la pesca della nuova annata.
Ci si sposta di pochi chilometri e al sacrario di Tagata si passa a celebrare nel pomeriggio il principio maschile della vita nell’Honen matsuri. Lì tutto è a tema. Nell’attesa dell’arrivo della processione, una lunga fila di oranti si snoda verso il tempio dove il trono è un gigantesco fallo di legno in orizzontale, davanti al quale sono piazzati alimenti e bevande – arance, carote, riso, saké – come offerte votive. Un altro simbolo sessuale maschile di legno più scuro e meno ingombrante, con un collare di paglia, è puntato verso i fedeli, che arrivano e tirano una corda che fa risuonare un campanaccio anch’esso fallico per attirare l’attenzione degli dei. Solito doppio battito di mani e doppio inchino con lancio di monetine nella grata; poi si devia verso un altarino all’aperto passando per un filare di steli di pietra. Ci sono due grandi sfere tra un piccolo membro: quella di destra va toccata per propiziare la fertilità e l’armonia nella famiglia e nel business (soldi compresi), quella di sinistra per favorire l’incontro con un partner e la successiva generazione senza dolore. Intanto i banchetti vendono banane al cioccolato rese anatomiche e altri dolci sul genere: l’impressione che se ne ricava è di naturalezza se sono giapponesi ad addentarli, di volgarità se si tratta di turisti stranieri ridacchianti.
La lunga processione di persone in abiti tradizionali, tra il suono dei flauti, è aperta da un araldo che sparge sale purificatore da entrambi i lati, seguito dal dio Tengu, con la sua maschera rossa dal naso molto allungato, ampie fila arricciate di barba bianca e l’espressione poco rassicurante. Ragazze nubili che in genere dovrebbero avere 36 anni – in abbigliamento bianco e purpureo sormontato da una grande vestaglia di giallo decorato e copricapo sacerdotale nero – portano in braccio, come fosse un bambino, un’inequivocabile pertica di legno chiaro che offrono da toccare ai passanti. Alcuni genitori lo fanno sfiorare alle bambine che tengono in braccio: portafortuna da accostare per catturare salute ed energia vitale, secondo una simbologia diffusa presso molti popoli (una strana eccezione sessuologica della mitologia giapponese, per inciso, riguarda il dio del sole, che è femminile: Amaterasu). L’ingresso nell’area del tempio è rumoroso, soprattutto per il mikoshi con un fallo di legno da due metri e mezzo e 280 chilogrammi (“owasegata”, scolpito ogni anno da un artigiano ricavandolo da un cipresso): viene agitato ritmicamente dai dodici portatori, uomini di 42 anni, – tra grida e stridenti suoni di fischietto – che ruotano più volte prima di posarlo davanti al tempio affiancato da una bandiera con il disco rosso che sventola molto in alto.
Il matsuri di Inuyama è solo uno dei tanti che si svolgono nel Paese. Il Kanamara matsuri di inizio aprile a Kawasaki, per esempio, è il più frequentato – data la vicinanza a Tokyo – da gruppi di residenti e turisti stranieri, che spesso ci vanno in gruppo per una giornata di caciara e foto da postare sui siti web. Mostrandole ad amici e amiche giapponesi di Tokyo, però, spesso incontrano stupore e imbarazzo: il Kanamara matsuri sembra più noto agli stranieri che ai cittadini della metropoli. E allora viene da pensare che le generazioni cresciute in città non siano più esposte alle tradizioni del Giappone rurale e le considerino, al pari del forestiero, un mero retaggio folkloristico sopravvissuto, buono per gli stereotipi sulle “stranezze” giapponesi che continuano a fare notizia all’estero.

Corriere 29.3.15
I 100 anni di Pietro Ingrao
di Paolo Franchi

qui

La Stampa 29.3.15
Ingrao, la schiena dritta di un eterno sconfitto
Domani compie cento anni lo storico leader della sinistra del Pci
Approvò l’invasione dell’Ungheria ma criticò il “comunismo reale”
di Riccardo Barenghi


Una sera d’estate un bambino rifiuta di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Per convincerlo il padre gli promette un regalo, qualsiasi regalo. Il bambino accetta lo scambio, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia».
«Volevo la luna»
Quel bambino domani compie un secolo e si chiama Pietro Ingrao, e questo episodio lo ha raccontato nella sua autobiografia Volevo la luna, pubblicato nel 2006 da Einaudi. Una luna metaforica, chiamiamola comunismo, che Ingrao non ha mai raggiunto. Anche se non ha mai smesso di cercarlo. Nel salotto di casa sua, dove le visite sono limitate a parenti e a pochi amici intimi, ci ritroviamo con la figlia più grande Celeste, suo marito Marco Giorgini e una vecchia amica Giovanna Lumbroso. Ingrao parla poco, stavolta non parla affatto, però ascolta. La stanza è rimasta la stessa da anni, alle pareti molti quadri, qualcuno di Renato Guttuso e di Renzo Vespignani, tutti con dedica a Pietro e Laura. Ci sono molte foto, quelle di viaggi politici, quelle dei figli – cinque: Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido – quelle dei nipoti. Che sono otto, più dieci pronipoti e uno in arrivo. C’è anche un antica scimitarra che gli regalarono «i compagni vietnamiti», costruita col ferro di un aereo americano abbattuto dai vietcong, una foto di Che Guevara «che però piaceva più a mia madre che a mio padre, lui con Cuba non ha mai avuto un rapporto facile», spiega Celeste che nel frattempo gli sta preparando una sorpresa: una torta con cento candeline, naturalmente rosse.
La moglie Laura
La casa di Ingrao sta nel quartiere Italia, a due passi dalla tangenziale che venne costruita nei primi Anni Settanta. Pietro e Laura l’hanno lasciata solo nel 1976, per tre anni, quando lui fu eletto presidente della Camera e loro due si trasferirono nell’appartamento di Montecitorio. La casa allora restò dominio assoluto del figlio più piccolo, Guido, e dei suoi amici ventenni (tra cui chi scrive) che la trasformarono in un fantastico luogo di ritrovo serale, peraltro protetto da due poliziotti che stazionavano giorno e notte dentro il portone del palazzo. E proprio su quegli anni, Celeste e suo marito raccontano un episodio, anzi due finora sconosciuti. Durante il sequestro di Aldo Moro, venne ritrovato su un taxi un borsello con dentro un foglietto su cui era appuntato il numero di targa dell’auto di Chiara. Il fatto fu interpretato come un avvertimento, tanto che Pietro riunì tutta la famiglia e disse: «Se fossi sequestrato dalle Br, qualunque cosa dicessi voi non tenetene conto».
Si va indietro nel tempo, con la memoria e con le chiacchiere. Ma cent’anni sono tanti, un secolo appunto, quel Novecento che come lui stesso ha detto tante volte è stato il periodo che ha visto i cambiamenti, i terremoti sociali e politici più importanti della storia. Dalla rivoluzione russa al fascismo, dal nazismo alla resistenza, dai lunghi anni di scontro con la Dc al crollo del Muro di Berlino e alla morte del Pci, fino alle guerre moderne, cominciate con quella del Golfo nel ‘91 e non ancora finite.
Le lotte nel Pci
Una lotta dopo l’altra, col Partito ma anche dentro al partito. Lotte dure, difficili da vincere, e infatti lui nelle tante interviste o conversazioni fatte nel corso del tempo ha sempre enfatizzato con amarezza il risultato ottenuto: «C’è poco da fare, siamo stati sconfitti». E c’è un’altra metafora che sintetizza perfettamente il concetto, una sua poesia di poche parole: «Pensammo una torre/Scavammo nella polvere». Negli Anni Trenta era appassionato di cinema e di poesia. La scossa politica gli è arrivata con la guerra di Spagna, è a quel punto che Ingrao parte per la sua avventura comunista. Seguirà la resistenza, la clandestinità (il suo nome di battaglia era Guido), la Liberazione, la direzione dell’Unità, il rapporto anche conflittuale con Palmiro Togliatti, il suo famoso editoriale intitolato «Da una parte della barricata» in cui appoggiava l’invasione sovietica dell’Ungheria, di cui non ha mai smesso di pentirsi. E dopo aver scritto quell’articolo, rispettando la disciplina di partito, Ingrao andò a trovare proprio il leader del Pci per comunicargli il suo sgomento per quell’invasione. Togliatti gli rispose secco: «Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più».
Dopo Togliatti
Dopo la morte di Togliatti Ingrao diventa il leader della minoranza del partito. La sua battaglia per la democrazia interna e la critica al comunismo reale, sfociano nel congresso del 1966, l’Undicesimo, dove Ingrao e i suoi (quelli che qualche anno dopo fecero nascere il manifesto e per questo furono radiati con il voto favorevole del loro stesso maestro, altro episodio di cui Ingrao si è sempre autocriticato ferocemente,) vennero duramente sconfitti: «Cari compagni, mentirei se vi dicessi che mi avete persuaso», dice dalla tribuna. Una frase storica perché esprimeva per la prima volta nella storia del Pci il diritto al dissenso. Il lungo applauso è un omaggio che non cambia i rapporti di forza. Che non cambiarono neanche con la segreteria di Enrico Berlinguer, con cui non ci fu mai una vera sintonia, nonostante la stima reciproca.
Il resto è passato prossimo, lo strappo di Occhetto, l’opposizione del vecchio leader (che all’epoca aveva «solo» 75 anni), l’ennesima sconfitta, la sua uscita solitaria dal Pds, la sua ritrosia ad occuparsi della politica politicante anche perché non ha mai amato i nuovi leader della sinistra, da Occhetto a D’Alema (salvava solo Bertinotti, e non sempre). Pensava molto alla guerra come paradigma del mondo. Era nato durante la Grande guerra, aveva vissuto la «terribile» seconda guerra mondiale, ha marciato per il Vietnam, si è schierato contro tutte le guerre «americane» degli ultimi vent’anni. Compie cent’anni senza essere riuscito a vedere un mondo di pace.
Una sera d’estate un bambino rifiuta di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Per convincerlo il padre gli promette un regalo, qualsiasi regalo. Il bambino accetta lo scambio, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia».
«Volevo la luna»
Quel bambino domani compie un secolo e si chiama Pietro Ingrao, e questo episodio lo ha raccontato nella sua autobiografia Volevo la luna, pubblicato nel 2006 da Einaudi. Una luna metaforica, chiamiamola comunismo, che Ingrao non ha mai raggiunto. Anche se non ha mai smesso di cercarlo. Nel salotto di casa sua, dove le visite sono limitate a parenti e a pochi amici intimi, ci ritroviamo con la figlia più grande Celeste, suo marito Marco Giorgini e una vecchia amica Giovanna Lumbroso. Ingrao parla poco, stavolta non parla affatto, però ascolta. La stanza è rimasta la stessa da anni, alle pareti molti quadri, qualcuno di Renato Guttuso e di Renzo Vespignani, tutti con dedica a Pietro e Laura. Ci sono molte foto, quelle di viaggi politici, quelle dei figli – cinque: Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido – quelle dei nipoti. Che sono otto, più dieci pronipoti e uno in arrivo. C’è anche un antica scimitarra che gli regalarono «i compagni vietnamiti», costruita col ferro di un aereo americano abbattuto dai vietcong, una foto di Che Guevara «che però piaceva più a mia madre che a mio padre, lui con Cuba non ha mai avuto un rapporto facile», spiega Celeste che nel frattempo gli sta preparando una sorpresa: una torta con cento candeline, naturalmente rosse.
La moglie Laura
La casa di Ingrao sta nel quartiere Italia, a due passi dalla tangenziale che venne costruita nei primi Anni Settanta. Pietro e Laura l’hanno lasciata solo nel 1976, per tre anni, quando lui fu eletto presidente della Camera e loro due si trasferirono nell’appartamento di Montecitorio. La casa allora restò dominio assoluto del figlio più piccolo, Guido, e dei suoi amici ventenni (tra cui chi scrive) che la trasformarono in un fantastico luogo di ritrovo serale, peraltro protetto da due poliziotti che stazionavano giorno e notte dentro il portone del palazzo. E proprio su quegli anni, Celeste e suo marito raccontano un episodio, anzi due finora sconosciuti. Durante il sequestro di Aldo Moro, venne ritrovato su un taxi un borsello con dentro un foglietto su cui era appuntato il numero di targa dell’auto di Chiara. Il fatto fu interpretato come un avvertimento, tanto che Pietro riunì tutta la famiglia e disse: «Se fossi sequestrato dalle Br, qualunque

il Fatto 29.3.15
Le mitragliatrici e la crisi pacifista di Leonardo da Vinci
di Dario Fo


INVENTORE DI MACCHINE BELLICHE, POI IL DUBBIO: “SGOMENTO A TOGLIERE LA VITA A UNA MERAVIGLIA COME IL CORPO UMANO”

Torna domani sera, alle 21:15, su Rai5 l’appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è “Discorsi su Leonardo e il Cenacolo”. Eccone un’anticipazione.

Leonardo, è risaputo, aveva grande interesse per lo studio sul corpo umano, e si giovava dell’amicizia del medico Paolo dal Pozzo Toscanelli, grazie al quale ebbe modo di approfondire l’anatomia assistendo alla dissezione dei cadaveri reperiti negli ospitali di Milano. Quel tipo di ricerca era severamente punita dalle leggi di quel tempo, e Leonardo, scoperto a compiere ricerche su un cadavere, fu arrestato e menato alle prigioni. Di qui fu poi tolto grazie all’intervento immediato del duca Ludovico il Moro in persona.
“Non solo movimento ma anche spirito”
Nel codice leonardesco di Madrid troviamo in un suo scritto un passo dove egli fa considerazioni sul corpo umano; all’inizio del discorso Leonardo si rivolge al suo immaginario interlocutore dicendo: “Bada tu da che maravigliose strutture ed invenzioni egli corpo è composito che niuno cervello d’ingeniere o sublime meccanico potrebbe immaginare. E anco tu se l’indaghi e lo leggi ad ogni istante te dovrai stupefacere pe’ quanti magnefici aggetti movimentano esso corpo e producono flusso di sangue pe’ tutti li canali, anco li più minuti. Come allocchito te starai dinanzi al moto delle costole che sollevano i polmoni che, simile a uno pussente soffiatore, inspirano l’aria e la ripompano de fuora. Io te dimando come si puote distruggere, uccidendola, una sì fatta macchina, una sì stupefacente creazione della natura. Non truovi tu sia cotesta distruzione orribile e crudele? Ma se poi tu consideri che dentro esso corpo non alloggia solo movimento, vita e potenza che lo aziona, ma si ritruova lo spirito, la ragione che n’è l’anima stessa d’uno suo intelletto pruodigioso, allora se ne intendi il miracolo tu ne rimarrai per intero sgomento all’idea che si possa toglier vita e render morta una sì fatta creatura! ”.
Il “diritto alla vita” e la “gran ruina”
Leonardo quindi considera l’uomo e il suo diritto alla vita come valore inalienabile, ma come possiamo poi all’istante ritrovarcelo a disegnare, concepire, fondere e fabbricare ordigni terribili forgiati per il massacro e l’annientamento? Troviamo qui, sul Codice Ambrosiano come in quello di Londra, progetti e varianti di bombarde multiple, cannoni di lunga gittata, un progetto di mitragliatrice con asse rotante a nove colpi per tornata e perfino disegni che illustrano un proiettile a grappolo, un ordigno che, una volta sparato, espelle un gran numero di bombe più minute che all’impatto col terreno o coi corpi degli uomini esplodono “procurando gran ruina”.
Il “mostro” d’acqua per affondare i briganti
Egli stesso, riosservando le sue invenzioni, più di una volta sembra assalito da una vera e propria crisi e si interroga perplesso se sia giusto renderle “conosciute ed operanti”. Come quando gli nasce l’idea di architettare “uno naviglio che muovesi come affondato sotto il livello dell’acque tale che, gittandosi sotto pancia contro i natanti, puote facilmente squarciare il fasciame d’ogni galera o brigantino e affondarli”. Leonardo in quell’occasione si fa cosciente di quale terribile arma stia progettando e decide di non renderla conosciuta “ché di un numero immenso di annegati sarebbe causa quello facile speronare di navigli d’ogni stazza e possanza”. Ed ecco che appena posto in luogo segreto quel suo progetto di sommergibile, macchina di distruzione e massacro, ritroviamo Leonardo in una fonderia a dirigere la colata d’un pezzo d’artiglieria che “esprime potenza di tre quarti superiore alle normali artiglierie”... incoerente stranezza d’artista?
Il 24 luglio 1503, Francesco Guiducci, magistrato di guerra della repubblica fiorentina, scrisse dal Campo contro Pisa alla Balia di Firenze, cioè a dire la magistratura che si occupava degli affari criminali, per riferire come, il giorno precedente, Leonardo Da Vinci, con Alessandro degli Albizi, avesse illustrato a lui e al governatore il “disegno” del progetto per deviare le acque dell’Arno. Perché deviare l’Arno? Per la ragione che quel fiume transita a poche miglia dal mare dopo aver attraversato la città di Pisa. È inutile sottolineare che quel corso d’acqua era essenziale per la vita della città e dei suoi abitanti, nonché un mezzo determinante nella navigazione nella bassa Toscana. La deviazione di quel fiume avrebbe causato grave disastro, a cominciare dalla sete dei cittadini di tutta la valle, nonché l’arresto immediato dei mulini, sia quelli impiegati per le farine che gli altri che muovono impianti per l’agire d’ogni meccanica. Si trattava di costruire una possente diga che bloccasse il flusso nella valle pisana e conducesse le acque del fiume a scendere in mare molte miglia più abbasso di quanto stesse in quel tempo.
Il progetto (fallito) di far scorrere l’Arno in due canali
Soderini e Machiavelli riuscirono, il 20 agosto del 1504, a decretare l’inizio dei lavori “circha el voltare Arno alla torre ad Fagiano”, per costringere l’Arno a scorrere in due canali ben distinti, fino allo Stagno, verso il mare. Ma le difficoltà e gli impicci imprevisti furono sì numerosi da convincere i progettatori a dichiararsi impotenti. L’Arno sembrava rivoltarsi all’intero progetto, e Ludovico Muratori commentò: “Il fiume si rise di gli volea dar legge”.
Ma gli interessi dello straordinario maestro non si arenavano nel progettare ordigni e macchine di guerra. Egli studiava il volo degli uccelli e ricostruì strutture di ali di cui possiamo osservare la copia straordinaria esposta al Museo della scienza e della tecnica di Milano. Sono modelli che mettono in condizione ognuno di scoprire quanto fosse probabile la riuscita dei progetti sul volo di Leonardo. Mi ricordo il commento surreale di un professore che ci accompagnava nella visita al museo davanti a quelle macchine. Egli esclamò: “Di sicuro non lui di persona, il maestro, riuscì a muovere quei macchinamenti, ma qualcuno dei giovani seguaci che lo aiutavano nei suoi folli tentativi di levarsi in volo”.

il manifesto 29.3.15
Villon, ambiguo e insidioso con le sue maschere
«Il testamento e altre poesie»: nuova traduzione per Einaudi
Martire d’amore, delinquente, venditore ambulante, prosseneta...
Antonio Garibaldi fa rivivere in endecasillabi la ‘memoria mortis’ del poeta francese del Quattrocento
di Patrizio Tucci

qui

La Stampa TuttoLibri 28.3.15
Veronesi: “Ecco Küng, che insegna a morire”
Si può morire felici?
Possiamo lasciare la vita senza paura? Una riflessione antidogmatica che mantiene intatta la fede cattolica
di Umberto Veronesi


Ho sempre seguito con interesse e attenzione l’evoluzione di Hans Küng come esempio di fervente cattolico che ha il coraggio di esprimere un pensiero laico, come fa anche in questo libro. All’inizio del suo percorso, quando era sacerdote a Roma, ha abbracciato la teologia di Karl Barth, cioè la teologia dialettica o della crisi. Barth crede che Dio si sia allontanato dall’uomo e abbia riversato la sua divinità in Cristo, che a sua volta, con il sacrificio della croce, l’ha riversata nell’uomo. Küng si è poi successivamente spinto oltre Barth per esprimere le sue obiezioni alla Chiesa, che si possono ricondurre a tre anti-dogmi principali:
- Il papa non è infallibile: è un uomo, sebbene con responsabilità molto complesse, e come tutti gli uomini può sbagliare. Solo Dio è infallibile.
- La madonna non è una divinità e non è stato corretto da parte della Chiesa divinizzarla tramite un processo di santificazione conculso con il dogma dell’assunzione in cielo del 1950.
- L’esistenza umana va vissuta in base al principio della responsabilità della vita: Dio ci dona la vita, e con questo atto ci dà l’incarico di esserne responsabili, dunque di disporne liberamente . Questo principio va contro il concetto di sacralità della vita, che decreta invece che la vita è dono e proprietà di Dio, che imperscrutabilmente ne dispone.
Su questo terza coraggiosa obiezione antidogmatica si basa il libro
Morire felici?
perché se l’uomo è responsabile della sua vita, lo è anche della fine, perché vita e morte sono inscindibilmente parte dello stesso ciclo. Dunque noi siamo liberi di scegliere quando morire, per essere felici, vale a dire in pace e in armonia con noi stessi. Va detto che per Küng la libertà di morire non è una novità. Nel 1995 scrisse con Walter Jens
Della dignità di morire: la difesa della libera scelta
, quando già aveva scritto le sue 20 tesi sull’eutanasia. E’ molto interessante il fatto che Küng si rifiuti di utilizzare il termine «eutanasia», ampiamente equivocato a causa del nazismo, e preferisca usare «Sterbehilfe», ausilio alla morte. Anche io ho sempre pensato che, benchè la parola coniata da Francis Bacon sia molto bella perché contiene la radice greca «eu», cioè buono o dolce (unita a Tanatos che significa morte), è culturalmente importante trovare un’altra definizione che superi la vergogna dei campi di concentramento, dove eutanasia era sinonimo di decimazione. Ciò che è nuovo in questo libro è il racconto degli eventi che hanno avvicinato Küng allo Sterbehilfe. Il primo è la tragica morte del fratello Georg. Küng racconta che alla sua prima messa a Roma, appena ordinato, assistette gran parte della famiglia, ma non il fratello, a causa di un improvviso svenimento. Quel mancamento era il sintomo di un cancro del cervello che, dopo un anno di atroci sofferenze vissute in piena lucidità, fece apparire la morte come un sollievo. La riflessione di Küng fu allora: è possibile che Dio abbia voluto questa sofferenza? E’ possibile che Dio abbia voluto proprio questa morte?
La sua fede vacillò e rimase a lungo attaccata ad un filo sottile, finchè accettò il principio che la volontà di Dio è imperscrutabile e dunque noi uomini non possiamo sapere cosa egli vuole per ognuno di noi.
Il secondo episodio fu la morte nel 2013 di quel Walter Jens con cui scrisse il libro. Il paradosso che lo colpì fu che il suo carissimo amico morì in una situazione paradossalmente opposta a quella di Georg, perché nel 2005 gli fu diagnosticato il morbo di Alzheimer, che gli fece perdere gradualmente la lucidità, senza causare grandi sofferenze fisiche. Ma per Walter la percezione dello strazio della mente è stato doloroso come lo strazio del corpo. La riflessione su queste due esperienza ha indotto Kung a concludere che lo Sterbehilfe in alcuni casi è comprensibile, anzi doveroso. Per questo Küng si è iscritto a Exit, nella coscienza che aiutare a morire è un intervento molto difficile, che deve essere riservato a persone serie e preparate, come appunto quelle che appartengono all’associazione svizzera.
Leggendo le sue pagine sofferte mi sono reso conto dello sforzo intellettuale del teologo che mantiene intatta la sua fede cattolica, pur contestandone un dogma fondamentale, come appunto la sacralità della vita. Come esprime nell’intervista a Anne Will, che il libro riporta, Küng ritiene che la religiosità debba essere illuminata per essere buona e che la areligiosità illuminata sia altrettanto buona. L’essenziale è che l’uomo emani una luce, intesa come forza positiva. Questa posizione va nella direzione del dialogo fra scienza e fede e fra fedi diverse aprendo il dibattito sul fine vita a un ventaglio di questioni etiche e umane che ci tutti da vicino, credenti e non credenti.

Corriere La Lettura 29.3.15
Il sacro viavai della reliquia
Il prepuzio di Cristo gira l’Europa, arriva a Roma e sparisce
Chiodi, legno della croce, sangue: i temi della devozione
di Luigi Accattoli


Circonciso Gesù, la Vergine Maria custodì con ogni cura il «santo prepuzio» e non lo sperse neanche durante la fuga in Egitto. Lo donò infine alla Maddalena e possiamo immaginare che ciò sia avvenuto dopo l’Ascensione al cielo, non essendoci più sulla terra altro vestigio della carne di Cristo. Da Maria di Magdala a Carlo Magno abbiamo uno stacco di secoli e non sappiamo dove l’abbia preso l’angelo che lo consegna all’imperatore in Aquisgrana, mentre toccherà a Carlo il Calvo portarlo a Roma. Sarà un lanzichenecco tedesco a entrarne in possesso nella magna confusione del Sacco di Roma (1527) e a portarlo a Calcata, che è un borgo a nord di Roma, verso Viterbo. Lì resta fino al 1983 quando viene rubato dalla casa del parroco don Dario Magnoni, come costui denuncia ai carabinieri. O forse don Dario lo fa sparire in obbedienza a ordini superiori? Perché il sacro ha tempi lenti ma anch’esso — come tutto — scorre e un prepuzio che prima attira rischia poi di allontanare, tant’è che il Sant’Uffizio la venerazione di quella reliquia l’aveva già proibita all’inizio del Novecento. Ma i parroci continuarono a esporla nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a ogni capodanno, nella festa che si chiamava in Circumcisione Domini , nella Circoncisione del Signore.
Nel frattempo c’era stata la riforma del calendario liturgico e il Rito Romano al primo dell’anno festeggiava Maria Santissima Madre di Dio. Se cambia la messa vuol dire che cambia il mondo, devono aver pensato a Calcata nel 1970 all’arrivo del nuovo calendario, che misteriosamente preludeva al distacco dall’incredibile prepuzio. Una delle più singolari reliquie della cristianità, tra le quali ci fu il Graal e c’è ancora la Sindone, nonché il Velo della Veronica, anch’esso finito fuori mano come il prepuzio, ed ora si trova — se è lui — a Manoppello in Abruzzo.
Che sia destino delle reliquie convergere a Roma e ripartirne? Pare anche loro destino mantenere margini di mistero, com’è ovvio per chi prende forza dall’aver toccato (appunto) il mistero.
Qui infatti abbiamo ridotto a un racconto lineare la vicenda del prepuzio che è fatta di comparse e scomparse, duplicazioni, moltiplicazioni. Sarebbero almeno 32 le località europee nelle quali il prepuzio di Cristo è stato segnalato nei secoli, racconta ora Tonino Ceravolo in Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (Rubbettino). E c’era per un tempo sia a Roma — in San Giovanni in Laterano — sia a Calcata e si argomentava che l’uno fosse il prepuzio e l’altro l’ombelico, ovvero il cordone ombelicale, che oggi si conserva in vista dell’utilizzo delle staminali e un tempo si conservava chissà perché, ma nel caso di Gesù di sicuro con buoni motivi. Del cordone infatti parla la fonte più antica che nomina il prepuzio e si tratta di un apocrifo del Nuovo Testamento, il Vangelo arabo-siriaco (forse dell’VIII secolo): «Lo circoncisero nella grotta. Quella vecchia ebrea prese il pezzetto di pelle — ma altri dicono che si prese il cordone ombelicale — e lo mise in un’ampolla di vecchio olio di nardo».
Oggi il cordone ombelicale lo conserviamo in azoto liquido: c’è dunque una lampante continuità tra l’apocrifo e le regole del nostro sistema sanitario. Ma come si presentava il «sacrosanto prepuzio», o «bellico» che fosse? L’osservarono da vicino a metà del Cinquecento due inviati di Paolo IV. Uno dei due, a nome Pipinelli, premendo con le dita «lo spezzò in due» e le due parti furono così descritte dalla Narrazione critico-storica della Reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio (che è del 1802): «L’una della grossezza d’un picciolissimo Cece, l’altra d’un granellino di seme di Canapa».
Come c’erano tanti prepuzi così c’erano — in giro per l’Europa — tanti sangui di Cristo: e qui non s’intende più quello del cordone, ma quello della Passione, uscito dalle ferite della flagellazione, delle spine, dei chiodi, del costato. Una parte l’aveva raccolta Longino, il soldato del colpo di lancia che stava pronto lì sotto. Un’altra aveva impregnato il guanto di Nicodemo, che aveva schiodato Gesù e aveva nascosto il guanto nel becco d’un uccello. Ma anche Maria e la Maddalena avevano raccolto qualcosa là sul Calvario. Troppo sangue e pezzi della croce e spine della corona, che presto scatenarono satire e invettive, da Boccaccio a Chaucer, a Calvino, fino a Garibaldi e Joyce. Erasmo da Rotterdam affermava non senza ironia che ai suoi tempi circolavano talmente tanti frammenti della croce da costruire una nave. San Paolino però aveva preso sul serio la proliferazione delle schegge e trovato una soluzione: la reintegrazione della croce: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma la croce restava sempre integra. Boccaccio da parte sua, nella novella decima della sesta giornata, mette in scena l’ineffabile Frate Cipolla, che promette a certi contadini di mostrare «la penna dell’agnolo Gabriello», ma poi — avendo subito il furto della penna — si accomoda a mostrare i «carboni che arrostirono San Lorenzo».
A quei tempi satira e devozione si toccavano: una «santa lacrima» versata da Cristo su Lazzaro morto era conservata a Vendôme e a Roma, in San Lorenzo in Lucina, c’era e c’è uno spezzone della graticola di San Lorenzo.
Il culto delle reliquie non cessa con l’arrivo del terzo millennio. Come già i frammenti della croce così sono oggi innumerevoli i filamenti del saio di Padre Pio che girano per il mondo, o le fialette con il sangue di Wojtyla raccolto da don Stanislaw — novello Nicodemo — in occasione di un prelievo al Gemelli. Né cessa la filiera delle reliquie da contatto, o reliquie di reliquie. Già vedemmo moltiplicati per ogni dove i berretti e le camicie di Garibaldi e oggi vediamo i pellegrini che offrono uno zucchetto di loro fattura a papa Francesco, che se lo mette in testa per un momento e subito lo restituisce all’offerente, avendolo fatto suo «per contatto». E l’entusiasmo dei napoletani per la presenza in città delle «ceneri» di Pino Daniele? E gli autografi non sono una reliquia? E la mania dei selfie? Reliquia per contatto, reliquia per imago . Le reliquie cambiano, ma non cessano perché è proprio della vita lasciare reliquie e forse il mondo è tutto un reliquiario.

Corriere La Lettura 29.3.15
Quanto è moderna Pompei. Il mito ha sedotto l’Europa
Picasso e Le Corbusier, Martini e Moreau. Così la tragedia cambiò la sensibilità degli artisti
di Paolo Conti


Una, cento, mille Pompei. Non solo quella oggettiva, emersa dagli scavi dopo il 1748. Ma anche quella sognata, reinterpretata, metabolizzata in mille vicende culturali in Europa e in tutto l’immaginario dell’Occidente, citata e rivista attraverso il filtro della fantasia e del gusto del momento. Pablo Picasso, Arturo Martini, Gustave Moreau, solo per citare tre artisti di periodi e sensibilità diversi e lontani, ebbero in Pompei, nei suoi scavi, nei suoi colori una fonte di poetica ispirazione. Ma l’aria di Pompei spira fortissima, e anche qui bastano come esempi, nel comune gusto di due sovrani come Ludwig I di Baviera, che nel 1840 volle un Pompeianum tutto per sé al castello di Aschaffenburg, e l’imperatrice Elisabetta d’Austria, che nel suo Achilleion a Corfù fuse citazioni del mondo greco con altre dell’universo pompeiano.
È la suggestiva scommessa della mostra Pompei e l’Europa 1748-1943 che aprirà il 27 maggio tra il Museo Archeologico nazionale di Napoli e gli scavi di Pompei, per chiudere il 2 novembre. La curatela è affidata a Massimo Osanna, titolare della Soprintendenza speciale di Pompei, Ercolano e Stabia, con Maria Teresa Caracciolo e Luigi Gallo. La macchina organizzativa coinvolge anche il Grande Progetto Pompei (crocevia di collaborazioni tra diversi dicasteri), la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli, Electa per l’organizzazione (e il catalogo) e l’architetto Francesco Venezia per l’allestimento.
Nel 2013 si polemizzò a lungo, in Italia, sul gran successo della mostra londinese Life and death in Pompeii and Herculaneum , organizzata al British Museum dal 28 marzo al 29 settembre di quell’anno (mezzo milione di visitatori, dieci milioni di sterline di ricavi dal merchandising ). Furono in tanti a chiedersi come mai un museo britannico fosse in grado di organizzare una rassegna così ricca e attraente, mentre noi italiani, con Pompei ed Ercolano sul territorio, sembriamo capaci solo di litigare sui fondi, sulle proteste sindacali, sui cancelli chiusi, sull’assenza di infrastrutture, sui frequenti cedimenti strutturali. Inevitabile pensare che la risposta arrivi da questa articolata mostra, dai 17 prestiti di musei francesi (compresi il Louvre, il Musée D’Orsay e il Musée Picasso, nonostante la recente riapertura a ottobre 2014 dopo cinque anni di chiusura), dai cinque britannici (compresi il British Museum e il Victoria and Albert) e dagli altri invii da Germania, Svizzera, Austria, Danimarca e Svezia.
Sorride, su questo punto, Massimo Osanna: «Non vivrei la nostra proposta con un senso di competizione. Mi sento un cittadino europeo e il successo della mostra del British Museum, che fu frutto di una collaborazione con noi, non mi ha sorpreso. Posso però dire che questa è la prima grande e organica mostra su Pompei da dieci anni a questa parte. E non si tratterà del prevedibile appuntamento sulla vita quotidiana, ma di una riflessione approfondita su come e quanto il mondo emerso dagli scavi abbia influenzato tutta la cultura europea, anche nella nostra contemporaneità. Due esempi tra i tanti, e li racconteremo: Le Corbusier che visita Pompei e poi prende spunto dalle case di quella città per il “suo” modello di abitazioni. O Picasso che scopre Pompei e ne resta rapito, come dimostra Due donne che corrono sulla spiaggia del 1922, prestato dal Musée Picasso».
Il fascino emanato da Pompei comincia quando l’aristocrazia intellettuale del Settecento apprende, meravigliata e incuriosita, degli scavi e delle scoperte. Nel 1747, parlando di Ercolano appena un anno prima dell’inizio degli scavi pompeiani, l’intellettuale veneto Scipione Maffei, fondatore del museo epigrafico di Verona, scrive: «O qual gran ventura dei giorni nostri è che si discopra non uno o altro antico monumento, ma una città!».
È esattamente qui il magnetismo emanato da Pompei. Dalla grandiosa monumentalità romana (il Colosseo, i Fori) si passa alla scoperta di una civiltà sepolta dalla lava in un qualsiasi giorno di normale vita. Scrivono in una nota i tre curatori: «Sigillate dalla lava e dai lapilli, le antiche città e la loro ricca messe di reperti e di affreschi, dagli inediti accordi cromatici, accesi e perfettamente conservati, restituivano con immediatezza il mondo che le aveva create. Le case sembravano rianimarsi e raccontare la quotidianità degli uomini che le avevano abitate, i loro miti, i loro eroi, il loro credo. Tutta una vita, brulicante, troncata dall’implacabile falce dell’eruzione e della morte». Ecco perché Pompei è stata così capace di dialogare, da città viva, con il mondo di volta in volta contemporaneo: il Settecento e i Lumi, il Romanticismo dell’Ottocento, la modernità del Novecento. Si diceva dello stupore di Picasso e di Le Corbusier dopo le loro visite. Erano stati preceduti da Chateaubriand che dichiarò l’area degli scavi «il più meraviglioso museo della terra». La fortuna di Pompei nell’immaginario europeo sarà testimoniata, nella mostra, da 250 sculture, dipinti, disegni, stampe, fotografie, oggetti e libri riuniti tutti insieme per la prima volta.
Probabilmente buona parte della prevedibile fortuna della rassegna riguarderà la riproposizione dei calchi dei corpi degli abitanti della città, genialmente ricavati nel 1860 da Giuseppe Fiorelli dalle orme lasciate nel materiale lavico. Gli straordinari e drammatici pezzi (che ispirarono Arturo Martini: vedremo la sua scultura La sete o Uomo che beve del 1934) verranno esposti nell’Anfiteatro di Pompei dopo il recente restauro curato dalla Soprintendenza.
Ma Pompei sarà protagonista anche a Milano durante l’Expo. Si stanno definendo i dettagli della mostra Natura, mito e paesaggio dalla Magna Grecia a Pompei che aprirà il 22 luglio a Palazzo Reale per chiudere il 10 gennaio 2016. Spiega Osanna: «Nel contesto proporremo, oltre agli affreschi della Casa del Bracciale d’Oro, alcuni reperti organici: resti di frutta, di uova, di pane carbonizzato, e poi i vasetti dei pittori con i loro pigmenti miracolosamente salvati». Ancora una volta, Pompei contemporanea.

il Fatto 29.3.15
Furto a Londra
L’ultimo segreto di Lawrence: rubata la corrispondenza araba
di Caterina Soffici


Londra Qualcuno ha rubato le lettere di Lawrence d’Arabia. Un feticista, probabilmente. Un furto da appassionati, perché il materiale è troppo famoso e ghiotto per essere rivenduto. Erano delle missive autografe scritte dal leggendario agente segreto e archeologo gallese all’inizio del Novecento ed erano conservate nell’archivio del Palestine Exploration Fund, la società che aveva mandato Lawrence in Medio Oriente nella missione durante la quale imparò a sopravvivere nel deserto.
IL GROSSO DEL MATERIALE di archivio che riguarda il personaggio – che fu alla testa della Rivolta Araba all’inizio del secolo scorso - autore de I sette pilastri della saggezza e che ispirò il film con Peter O’Toole vincitore di sette premi Oscar nel 1962, è conservato alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, dove lui aveva studiato e si era specializzato in archeologia. Ma questo gruppo di missive erano particolarmente importanti, secondo gli studiosi, perché fu dopo quel viaggio che maturò le sue idee e la sua passione per il mondo arabo, tematiche affrontate anche nella pellicola di successo che ha permesso di far conoscere l’uomo di avventura al grande pubblico. Nel gennaio del 1914, Lawrence e il suo collega archeologo Wooley furono cooptati dai militari britannici come copertura per una ricognizione militare nel deserto del Negev. Il Palestine Exploration Fund finanziò una ricerca per ripercorrere il viaggio fatto dai figli di Israele attraverso il cosiddetto “deserto di Zin”. Il vero proposito della spedizione era di permettere ai cartografi di Sua Maestà di disegnare una mappa del deserto che sarebbe servita ai veicoli alleati nella guerra imminente. Il Negev era di particolare importanza strategica, perché avrebbe dovuto essere attraversato dall’esercito ottomano per attaccare l’Egitto in caso di guerra. Wooley e Lawrence pubblicarono poi un rapporto sui reperti archeologici di questa lunga spedizione nel deserto e arrivarono fino ad Aqaba e Petra. Ma il risultato più importante, al di là delle vicenda in sé, è che quel viaggio, secondo gli studiosi, fece scattare la malattia “araba” di Lawrence. A dare notizia della sparizione delle lettere è stato The Times, dove si racconta che il furto è probabilmente avvenuto parecchio tempo fa, ma è stato scoperto solo recentemente, quando uno studioso – o un cultore della figura di Lawrence d’Arabia – ha fatto richiesta del materiale. Secondo la ricostruzione dei responsabili del fondo, le lettere dovrebbero essere state sottratta tra il novembre del 2013 e il gennaio dell’anno scorso.
L’ULTIMO ad aver visto il gruppetto di missive è stato Anthony Sattin, autore del libro Il giovane Lawrence, che stava consultando il materiale per i suoi studi. Sattin afferma di averle lasciate su un tavolo e un archivista doveva poi riporle nel faldone.
La scomparsa deve essere avvenuta il quel momento, ma nessuno se ne era accorto. Almeno ufficialmente. Il che la dice lunga sul modo “rilassato” in cui il Pef gestisce il proprio archivio.
“Venderle sarà difficile – ha detto al Times la responsabile del fondo, Felicity Cobbin – perché tutte riportano il timbro del Palestine Exploration Fund. Ma è una perdita enorme”.

Repubblica 29.10.15
La Società che difende la vera scienza
di Piergiorgio Odifreddi


TRE giorni fa si è celebrato a Modena il centocinquantesimo anniversario della Società dei Naturalisti e Matematici, fondata il 26 marzo 1865 con lo scopo di diffondere la cultura scientifica. Ce n’è bisogno anche oggi, naturalmente, in un’era mediatica che accende le luci della ribalta su nani e ballerine, e le tiene spente sui giganti del pensiero. Ma ce n’era forse ancora più bisogno allora, a sei anni dalla pubblicazione del capolavoro di Darwin L’origine delle specie e dalle polemiche da esso suscitate. Già il 30 giugno del 1860 si era tenuto a Londra un dibattito fra il vescovo Samuel Wilberforce e lo scienziato Thomas Huxley. Il primo aveva spiritosamente domandato al secondo se riteneva di discendere da una scimmia da parte di nonna o di nonno, ma dovette incassare questa seria risposta: «Io trovo meno vergognoso discendere da una scimmia che da una persona che usa la propria intelligenza per oscurare la verità». Il libro di Darwin fu tradotto in Italia nel 1864 da Giovanni Canestrini, primo presidente della Società. Che fu fondata proprio perché le polemiche spaccarono la comunità scientifica. Sia Darwin che Huxley ne divennero membri e il loro nome splende ora nell’albo d’oro della Società, che mantiene alto il nome e l’onore della scienza.

Il Sole Domenica 29.3.15
Mario Missiroli (1886-1974)
Un Paese frenato dalla religione
di Gennaro Sangiuliano


«Bisogna rassegnarsi e trovare in noi stessi le regioni di conforto. Che vuoi? La nostra generazione è stata una generazione bruciata; e la colpa non è né nostra né degli uomini, ma delle cose», sono i primi passi di una lunga lettera privata che Mario Missiroli, all’epoca direttore del Messaggero, scrive all’amico Giuseppe Prezzolini che è esule volontario negli Stati Uniti, a New York.
Missiroli e Prezzolini sono due inguaribili pessimisti, dove il pessimismo assume i caratteri di un tratto distintivo del loro conservatorismo liberale, secondo la celebre definizione che dette Thomas Mann.
La lettera è del 1951, Missiroli è uno dei più affermati giornalisti italiani, dal settembre del 1946 è il direttore de «Il Messaggero», un anno dopo, nel 1952 assumerà la direzione del «Corriere della Sera» che guiderà fino al 1961. Prezzolini vive da oltre vent’anni in America e come dal titolo di una sua famosa rubrica sul «Borghese» guarda l’Italia dal cannocchiale. Li separa l’Oceano, «non è escluso che un giorno venga a prendere un caffè da te a New York», li unisce l’amore per la libertà e l’ironia irriverente. «Noi ci avviamo ad una graduale proletarizzazione dei ceti medi e ad un ulteriore impoverimento dei ceti poveri. Questo mi preoccupa moltissimo poiché questa è la strada che porta alla catastrofe», aggiunge Missiroli. E prosegue: «Ho fatto un viaggio di recente nel Nord d’Italia, nel Veneto, e ho notato che le persone di alta posizione sociale, quelle che hanno in mano la cosa pubblica, gli affari, la finanza, tutto, non comprano nemmeno il giornale e quando lo comprano non lo leggono».
L’Italiano è sempre colui che nasconde dietro la retorica dei buoni sentimenti una forte dose di cinismo e servilismo. La critica serrata che Missiroli muove alla natura dei suoi connazionali aveva trovato già una compiuta teorizzazione nel saggio La monarchia socialista, pubblicato alla vigilia della Prima guerra mondiale suscitando non poche polemiche.
La storia d’Italia, o meglio la storia di quei limiti che ci impediscono di essere compiutamente nazione, può essere ridotta ad un solo unico problema, quello religioso, la troppa influenza del cattolicesimo e l’assenza di quello spirito riformatore che il protestantesimo ha dato al Nord Europa. La tesi è chiara, diretta, e ad oltre cento anni di distanza contiene molti spunti di attualità, valutazioni che potrebbero essere applicate alle criticità dell’Italia di oggi. Il saggio è stato ripubblicato, poche settimane fa con un’articolata introduzione dello storico Francesco Perfetti e un’appendice che raccoglie alcuni commenti allo scritto, fra cui la recensione che fece Giovanni Gentile.
La grande rivoluzione civile e morale degli italiani, che meglio di tutti era stata auspicata e delineata da Giuseppe Mazzini, si era rivelata «impossibile presso un popolo che aveva perduto la sua ora tre secoli prima, durante la formazione dei grandi Stati e che si era smarrito in una decadenza letteraria quando gli altri si rinnovavano nella riforma religiosa». Come osserva Francesco Perfetti, «alla base del ragionamento di Missiroli c’era la convinzione che lo Stato moderno che trae la propria legittimazione da se stesso e non già da una fonte esterna come la religione, sia una creazione storica direttamente collegabile alla Riforma protestante».
Quel rinnovamento unitario che il Risorgimento voleva conseguire fallisce di fronte alle «insufficienze nazionali che respingono le soluzioni eroiche», in questo modo «il popolo non conquista, ma è conquistato: tutto è gratuito. Il fallimento ideale è totale». È il tema della debolezza morale, corruzione e trasformismo allignano nella doppia morale in cui gli italiani sono maestri, una diffusa retorica ammanta l’assenza di uno spirito liberale e repubblicano.
Da giovane Missiroli aveva coltivato e nutrito profonda ammirazione per Alfredo Oriani, l’autore de La rivolta ideale e de La lotta politica in Italia, libri che segneranno le generazioni del primo Novecento capaci di porre in termini crudi e chiari il tema del “Risorgimento mancato”, o meglio del “Risorgimento tradito”. Poi era stato contiguo all’esperienza della rivista «La Voce», quella che Malaparte definirà la «serra calda del fascismo e dell’antifascismo», il programma fu chiaro nel motto di Giovanni Amendola «l’Italia come oggi è non ci piace», che esprime la delusione per il deficit delle classi dirigenti, carenti di quello spirito della nazione che Prezzolini aveva trovato nella giovane democrazia americana e Missiroli in quella antica britannica.
«Solo Giuseppe Mazzini ebbe sempre viva, pur fra tanti deliri poetici e tanti smarrimenti, la coscienza delle grandi ragioni ideali del nostro Risorgimento», ricorda Missiroli. L’Italia aveva mancato una Riforma protestante che in altre nazioni occidentali aveva conferito alla vita civile una carica di eticità. Affiora una sorta di «hegelismo», inteso come capacità di rintracciare nella storia una dialettica delle idee che spiega la realtà.
Il fallimento del Risorgimento era stato puntellato con il matrimonio fra la monarchia e il socialismo, mediato dall’azione di Giolitti. L’aspirazione a fare dell’Italia una nazione basata su una diffusa coscienza civile e un’identità comunitaria, secondo l’insegnamento di Mazzini, era stato abbandonato; la politica preferiva assumere una dimensione quasi esclusivamente economica. Più tardi sarà Piero Gobetti a fare sua questa interpretazione storica, ponendo al centro della sua speculazione l’assenza di un principio etico diffuso e condiviso.
La monarchia socialista viene ripubblicato una prima volta nei primi anni Settanta, Missiroli lo annuncia a Prezzolini in una lettera del 1971. Il libro non è un successo editoriale ma è accolto bene dagli spiriti meno conformisti del giornalismo italiano, Indro Montanelli, che lo recensisce sul «Corriere della Sera» e Alberto Giovannini che riscontra «una diagnosi amara e spietata di una realtà dolorosa e spesso umiliante».
«Sto in media dodici ore al giornale e sono le ore della maggiore serenità. Tutto sommato siamo dei certosini sbagliati», scrive ancora Missiroli all’amico Prezzolini. E la sera a cena con gli amici, dopo la lunga giornata si lascia andare ai suoi sfoghi sulla situazione italiana, ripetendo spesso: «Ci vorrebbe un giornale dove scriverle queste cose!».
Mario Missiroli, La monarchia socialista , Le Lettere, Firenze, pagg. 150, € 15,00

Il Sole Domenica 29.3.15
Lo stile gesuita
Ecco chi ha ispirato Bergoglio
di Giovanni Santambrogio


Chi legge un testo sui gesuiti si pone oggi domande nuove. Al tradizionale interesse per un ordine battagliero e controverso, dalla storia contrastata – fu soppresso da Papa Clemente XIV nel 1773 e riammesso nel 1814 da Pio VII – e non priva di misteri con veri o fantasiosi complotti, si aggiunge ora la curiosità di capire Jorge Mario Bergoglio, il primo Papa gesuita da due anni al governo della Chiesa. Che indicazioni offre la storia della Compagnia di Gesù, fondata nel 1540 dal basco Ignazio di Loyola, per comprendere la personalità di Francesco, il suo stile pastorale nonché la sua impostazione spirituale? Dal saggio di Claudio Ferlan, appena edito da il Mulino, si ricavano utili informazioni che possono diventare chiavi di lettura dei comportamenti di Bergoglio. Il libro – frutto di un approfondito lavoro di scavo nella ricca documentazione disponibile – mette in evidenza con piacevolezza narrativa la personalità di Loyola e dei suoi fedelissimi tra i quali Pierre Favre e Francesco Saverio; racconta l’avventura dell’ordine presto divenuto un valido aiuto per il Papato. Il testo di sant’Ignazio, gli Esercizi spirituali stampato nel 1548, accompagna da sempre l’essere gesuita, ne è il fondamento della vocazione e la fonte di formazione continua.
Jeronimo Nadal, uno dei primi seguaci riassume in un enunciato lo stile del gesuita: «Agire con il cuore, con lo spirito e con la pratica». Il volume di Ferlan, diviso in sei sezioni, mette in luce tre grandi stagioni della Compagnia: la fondazione, la rinascita (1814), l’identità rinnovata (1945-2013). Nella prima e nella terza si rintracciano le fonti ispiratrici del pensiero e della personalità di Bergoglio. Come non vedere nelle scelte del giovane Ignazio – il vivere d’elemosina, la pratica della misericordia corporale, la catechesi di strada – l’insistente richiamo di Francesco alle periferie, alla condivisione con chi soffre, all’equità, alla condanna del denaro come mezzo di potere? La stessa proclamazione dell’anno giubilare straordinario, con a tema la misericordia, ricorda gli ideali ignaziani e la spinta missionaria che subito caratterizzarono l’ordine. Francesco Saverio diventerà il testimone dell’apertura al mondo e della evangelizzazione oltre i confini della vecchia Europa: opererà in India, si spingerà fino alle Molucche e al Giappone, morirà con il desiderio irrealizzato di sbarcare in Cina che sarà invece teatro dell’apostolato di Matteo Ricci alla fine del Cinquecento.
Nella stagione della “Terza Compagnia”, quella che inizia con il Vaticano II e vede l’elezione a generale di Pedro Arrupe, figura complessa e discussa, prende avvio una sensibile trasformazione dell’identità dell’ordine ignaziano che pone al centro il rinnovamento delle strutture interne, la formazione culturale dei giovani, la vita spirituale. Bergoglio vive questo tempo nel luogo più esposto della Compagnia, l’America Latina della teologia della liberazione, mantenendo vivi gli ideali ignaziani rispetto alle derive politiche e alla militanza d’ispirazione marxista. La sua elezione, a sorpresa per gli stessi gesuiti, apre un nuovo e imprevedibile capitolo tutto da scoprire.

Claudio Ferlan, I gesuiti , il Mulino, Bologna, pagg. 194, euro 13,00

Il Sole Domenica 29.3.15Quante storie per una matita!
Una gemma letteraria dell’artista su come l’uomo ha scoperto la qualità e capacità di disegnare e creare un mondo nuovo
di Tullio Pericoli
 
Migliaia di anni fa gli uomini vivevano sulla terra credendo di essere dentro un dipinto, un grande dipinto, opera perfetta di un ignoto maestro. Pensavano che tutto quello che avevano attorno, mobile o immobile, fosse un insieme di linee, colori e macchie, e che quindi la terra, le pietre, gli animali e le nuvole fossero fatti di materia pittorica. In questo sconfinato dipinto anche loro erano dipinti, personaggi di quell’ immenso paesaggio, disegni di un disegno più grande.
Un giorno – circa ventimila anni fa – uno di loro, quasi senza pensarci, prese un tizzone dal fuoco ormai spento, lo appoggiò sulla parete della caverna e lo strofinò da sinistra verso destra facendo comparire un segno. Nella caverna esplose una gigantesca e roca risata. Non era ilarità, ma un vero e proprio ridere di piacere. E il suono di quella festosa esplosione rimbalzò immediatamente, di eco in eco, nelle valli abitate del pianeta: era nata la linea.
Da quel momento tutto cambiò. Con la comparsa di quella linea fu come se un pezzo del dipinto, di cui gli uomini erano sempre stati parte, si fosse spostato sulla parete. D’improvviso fu chiaro a tutti che le cose non stavano come avevano sempre pensato: gli uomini non erano fatti di linee e di colori, ma di carne, di ossa e di sangue, e il mondo non era fatto di linee e di colori: le pietre erano di pietra, gli alberi di legno, l’acqua di acqua e così via.
Eppure quella linea che adesso era lì, isolata sulla parete, continuavano a percepirla come una parte del loro corpo, che se ne era staccata quasi per forza maggiore.
Ma perché quel gesto suscitò un così grande piacere? Perché una risata così clamorosa?
Il piacere nasceva dal fatto che quel segmento nero, apparentemente sgusciato fuori da un braccio per andare a imprimersi sulla parete, confermava in modo ancora più concreto, e quanto mai visibile, la loro esistenza. Sì, quel segno li faceva esistere: la stessa linea, in modo misterioso, sembrava al tempo stesso unirli e separarli dal mondo. Intuirono anche che quella linea, partorita da loro e quindi di loro proprietà, poteva aiutarli a conquistare l’intero dipinto. A diventarne padroni, padroni del mondo e della loro stessa vita.
E in un certo modo fu così.
Ci volle tempo, ma un po’ alla volta gli uomini cominciarono ad avere nelle loro mani le cose, perché con quella linea riuscirono a contornarle e delimitarle, dando così una forma alla natura e ai suoi abitatori: ai bisonti, alle giraffe, agli uccelli, ma anche al sole, ai pianeti e alle costellazioni. E a loro stessi. Così si estraniarono dal mondo quel tanto che bastava a vedere i contorni: in breve a vederlo, e quindi a indagarlo, studiarlo, decifrarlo. E anche a ricrearlo. Da creati divennero creatori.
* * *
Questa storia, una specie di sogno, mi è venuta in mente ricordando che mio figlio Matteo, piccolissimo – due anni, anche meno – all’apparire della linea scoppiava in una grande risata. Appena mi vedeva prendere un piccolo tizzone, cioè una matita e tracciare un segno nero sulla parete di quella caverna tutta sua che era il foglio di carta, Matteo si abbandonava alla stessa risata dei suoi progenitori. Non aspettava che la linea diventasse un cane, un treno, una farfalla: solo a veder apparire quel piccolo segno impazziva di felicità.
Non ricordo se è da allora che tengo sempre in tasca un pezzetto di matita, ma ogni volta che mi capita di toccarla o di stringerla mi torna in mente quel tizzone, e penso a quante cose gli sono successe e a quante ne ha fatte succedere, e alle trasformazioni che ha subìto prima di diventare la mia matita tascabile. L’oggetto che segna si è trasformato nell’oggetto che incide, nello scalpello con cui graffiare le pareti dure, di pietra e di roccia, e tracciare i primi segni da cui sono nate le parole scritte, e poi le storie, i racconti e l’amore per la lettura.
Da quella prima linea, come un dono, è nata anche la pittura. Che cos’è infatti la pittura se non un impasto, un accostamento, una sovrapposizione di linee che celano altre linee, linee sottili accanto a linee spesse, linee trasparenti o corpose, rette o tremolanti, nere o colorate?
A partire da allora tra la linea e gli uomini si è stretta una vera alleanza, che ha procurato a questi ultimi altri mezzi, altri strumenti per decifrare il mondo come lo avevano visto e conosciuto da sempre: per delinearlo, contornarlo, ridisegnarlo. E la linea è cresciuta di importanza sino a diventare essa stessa oggetto di studio, come un essere pensante. Si è cercato di interrogarla, di farla parlare e raccontare, di indagarla, scoprirne l’anima. Un’anima sempre segreta e inafferrabile, per via delle innumerevoli, quasi infinite, metamorfosi che ha attraversato. Ritornando ogni volta nuova e più giovane.
Quando nella tasca dei pantaloni torno a stringere tra le dita la mia matitina tascabile, poco più lunga di un paio di centimetri, immagino che nel segmento nero racchiuso in quel cilindretto di legno siano nascoste e stipate tutte le vicende che sin qui ho cercato di raccontare, che vanno dalla risata di mio figlio a quella dei suoi progenitori, insieme a tutte le storie del mondo e dei mondi che conosciamo. E tutto il materiale contenuto in quei pochissimi grammi di grafite potrebbe di nuovo sprigionarsi e, come in un piccolo aleph, farci rivedere, ridisegnandolo, tutto quello che ha conosciuto. Ma non solo. Il suo spirito creatore potrebbe anche inventare un universo nuovo con nuovi personaggi, che increduli crederebbero di essere ancora disegni di un disegno. E io, uno di loro.
Tutto questo sarebbe possibile solo se avessi il talento di tenere tanto magistralmente in mano quella piccola matita da saperne far rinascere la vita e la storia che contiene. Ho detto «tenere in mano»: ma forse non dovrei dire così. Per prima cosa un matita non si dovrebbe tenere in mano. Si dovrebbe avere in mano, dovrebbe essere nella mano, essere nelle dita. (...) Una matita si muove bene quando non ci accorgiamo più di lei, come succede con le nostre dita. Quando diventa il sesto dito della nostra mano.
Il Sole Domenica 29.3.15
La verità vi prego sul matrimonio
L’amore, ispiratore naturale di ogni unione autentica, nei millenni è stato sempre sacrificato al princìpio di autorità
di Silvana Seidel Menchi


Un autore che utilizza la parola “appuntini” nel titolo del suo libro deve essere molto sicuro del fatto suo. Alberto Melloni in Amore senza fine, amore senza fini. Appuntini di storia su chiese, matrimoni e famiglie ( Il Mulino, Bologna, pagg. 142, € 12) ha da dire cose importanti e lo sa. Il tema di Melloni è il matrimonio in quanto amore. Questo tema occhieggia dietro un ventaglio di argomenti che sono attualmente tra i più dibattuti nella società civile italiana – nozze omosessuali, regolazione pattizia della convivenza (già “concubinato”), ammissione alla comunione ecclesiale dei divorziati risposati, femminicidio come frutto del sessismo. Il saggio tematizza anche gli scontri che stanno a monte di questi dilemmi attuali e che continuano a condizionarli – cioè l’alternativa tra matrimonio religioso e matrimonio civile, le battaglie per il divorzio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, per la contraccezione ormonale, contro l’accanimento medicale. Dietro a queste questioni che hanno dominato in passato o dominano oggi il nostro orizzonte quotidiano, riemerge sempre di nuovo il problema cruciale di questo saggio, nel quale tutte le sue molteplici componenti convergono e trovano una loro unità, anzi si potenziano reciprocamente: il matrimonio inteso nella sua accezione più forte e dirompente, cioè in quanto «legame più irresistibile e più fragile che la vita regali». Proprio come preannuncia il titolo.
La storia del matrimonio che l’autore ricostruisce partendo da Adamo ed Eva, toccando (fugacemente) il matrimonio nel diritto romano, fermandosi in modo più analitico sul matrimonio medievale di puro consenso, delineando incisivamente le caratteristiche del matrimonio tridentino, del matrimonio civile sancito dal codice napoleonico e dai codici che a esso si sono improntati, fino al matrimonio come contratto tutelato dagli stati moderni, appare caratterizzata da una continuità millenaria, nella quale lo sguardo severo di questo autore non coglie incrinature sostanziali. Il matrimonio codifica oggi come sempre ha codificato il «principio di autorità» che regola l’intera società, sancisce anzi «santifica» l’inferiorità femminile, scinde tendenzialmente il coniugio dall’amore, subordina il dono coniugale alla costruzione della famiglia e aggrava la famiglia stessa – la sede di quei «dolori e gioie semplici di cui l’affetto custodisce il senso» – di un compito straniante e deviante, cioè costituire «la cellula della società». Quale prova più lampante di questa formula – coniata da Jean Bodin al declino del secolo XVI, rilanciata dai giuristi gallicani al servizio della corona di Francia nel secolo XVII, adottata pari pari da Pio XII nel secolo XX –, quale argomento più stringente per provare la perfetta osmosi tra cultura cristiana e cultura secolare, tra matrimonio come sacramento e matrimonio come contratto, ovverosia «l’interscambio tra il matrimonio religioso del regime di cristianità e matrimonio civile del regime di modernità»? Questa santa alleanza – suggerisce l’autore – celebra i suoi trionfi a spese dell’essere umano individuo, del suo senso della vita, della sua aspirazione alla felicità: a spese di quell’amore, insomma, che non è etero o omo, non divino o umano, non spirituale o carnale, perché «l’amore è uno».
Quello che in particolare suscita lo sdegno lucido dell’autore è il concetto de «i fini propri del coniugio». Tali fini (denunciati fin dal titolo) sarebbero, auspice Agostino, il porre rimedio alla concupiscenza e il mettere al mondo dei figli. Questa dottrina, sancita da una catechesi secolare, ispira all’autore formulazioni che tagliano come lame: perché il matrimonio inteso come atto d’amore, come osare di «mettere la [propria] vita nelle mani di un altro o di un’altra» non ha altro fine che sé stesso, né altra logica che la sua difficile, fragile, dolorosa logica interna. Saldandosi con la visione della famiglia come «cellula della società», la teoria dei «fini» subordina la sussistenza del matrimonio alla procreazione, o alla volontà della procreazione, risolvendo e dissolvendo il dialogo d’amore tra due esseri umani, tra due persone, in una istituzione, in una piccola collettività, in una proiezione fuori del sé. La ribellione dell’autore contro questo straniamento dell’amore a sé stesso si esprime in una tendenziale scissione, a livello linguistico, tra «matrimonio» e «famiglia», una scissione che si esprime nel fatto che la «famiglia», quando è intesa come «fine», e quindi non coincidente con l’amore, è collocata tra virgolette in tutto il corso del saggio. L’amore può, sì, espandersi e fiorire in una famiglia, ma questo fiorire deve essere libero, non imposto, non costrittivo, non punitivo.
Nel tentativo di orientarmi, come storica del matrimonio, nei tornanti di questa prosa di grande vigore e densità, che impone una lettura lenta – in quanto osa mettere in discussione tutta la pastorale cattolica degli ultimi cinque secoli in materia coniugale – confesso di essermi messa alla ricerca di una professione di fede: che cosa vuole Alberto Melloni? E credo di averla trovata, questa professione di fede, nell’epilogo. E poiché essa mi ha scosso, non posso fare a meno di riprodurla qui, come condensato di un percorso di coscienza e autocoscienza che mi appare di folgorante lucidità e intensa sofferenza: «Alla fine del Vaticano II monsignor Helder Camara immaginò un finale spettacolare per il Concilio del XXI secolo. Il papa da solo usciva da san Pietro e domandava perdono dell’autoritarismo ai vescovi, che lo perdonavano e si univano a lui; procedevano ora insieme, papa e vescovi, a chiedere perdono ai laici. Stessa scena. Poi i cattolici chiedevano perdono agli altri cristiani, e questi insieme agli ebrei e poi ai credenti delle religioni; e poi tutti alle donne per un soggiogamento blasfemo e durato dalla notte dei tempi». A questa schiera di esseri umani ai quali la Chiesa Cattolica in capite et in membris potrebbe, dovrebbe, ora chiedere perdono Alberto Melloni propone di aggiungere – questa è una mia ipotesi – la fiumana di coloro ai quali il diritto canonico e una catechesi estraniatasi dal Vangelo hanno reso difficile l’esercizio dell’amore, di quell’amore che non si identifica sempre con la charitas, di quell’amore che è anche – non solo – eros.
Un manifesto/testimonianza come quello che Alberto Melloni ha dato alle stampe ha due coordinate. Una di esse è il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, la brezza che spazza via l’aria ristagnante (da secoli?) nei recessi direttivi della Chiesa Cattolica; la seconda è il Vangelo, e in particolare il messaggio di Cristo (per Melloni: Gesù), che va dissepolto, specialmente in un Paese come il nostro, del tutto privo di cultura biblica. «La lingua del perdono e della misericordia e la forza che gli deriva dall’essere il linguaggio del Vangelo e di Gesù» devono essere riscoperte. Il manifesto/testimonianza di Alberto Melloni, sprigionatosi dalla sua lotta corpo a corpo con la Chiesa in cui vive e di cui vive, e anche con la società in cui vive, nasce al punto di intersezione di queste due coordinate. Mi auguro che questo libro, ingannevolmente snello, arrivi nelle mani di Jorge Mario Bergoglio. E posso immaginare che esso sia destinato a essere ristampato, un giorno, con un apparato di note cinque volte più ampio dell’attuale.

Il Sole Domenica 29.3.15
Filosofia politica
Confucio incontra Adam Smith
di Sebastiano Maffettone


Wang Hui, professore di letteratura e storia presso la prestigiosa Università di Tsinghua a Pechino, è oltre che un valente studioso un public intellectual assai noto in Cina. Si ritiene anche che la sua opera in quattro volumi Rise of Modern Chinese Thought costituisca un passaggio necessario per chiunque voglia approfondire la storia intellettuale della Cina. Questo corposo lavoro, però, che io sappia non è stato tradotto in lingue occidentali, e la traduzione inglese di China from Empire to Nation State costituisce una sorta di Introduzione e sommario assai utile per farsene un’idea. Il tema centrale del libro è sostanzialmente quello indicato nel titolo, sarebbe a dire la compresenza non sempre chiara nella storia intellettuale cinese di due narrative contrapposte, quella basata sulla centralità dell’impero e quella basata sulla prevalenza della nazione. Là dove la centralità dell’impero viene spesso considerata come la causa della mancata modernizzazione cinese, che sarebbe invece potuta avvenire solo passando al modello della nazione in maniera analoga a quanto fatto dalle nazioni europee.
Queste domande intersecano il problema più generale che riguarda la natura della modernità e i rapporti della Cina con essa. Wang Hui indaga questo problema alla luce di una letteratura scientifica vasta e affascinante che parte dalle fonti cinesi a quelle giapponesi, passando per i più autorevoli studiosi occidentali della questione, da Adam Smith e Hegel a Weber e Marx. La ricerca finisce per affrontare poi gli studi sul rapporto tra capitalismo e imperialismo, in una prospettiva che per molti di noi è del tutto inusuale. Nella trattazione della storia cinese, e in particolare del periodo della dinastia Qing, l’autore rintraccia la complessità della transizione alla modernità in Cina, con la difficoltà connessa ai tentativi di “egualizzare” la storia cinese stessa ai percorsi europei e occidentali. In questa ottica, appare evidente che la ricostruzione occidentale classica finisce per trascurare aspetti essenziali della storia cinese. Questi ultimi obbligano ad esempio chi studia queste vicende a prendere sul serio il confucianesimo, il suo impatto culturale e le sue mutazioni nel tempo. In particolare, l’interpretazione del “principio celeste” confuciano è legata al tema principale del libro, rappresentando da un lato un legame di tipo religioso con il passato e dall’altro potendo essere letto – come fece la scuola di Kyoto – in chiave secolarista e nazionalista. Da tutto ciò emerge che fasi antiche del pensiero cinese non sono state rimosse e superate, ma vivono per così dire sottotraccia nel presente.
Molto stimolante, ancorché talvolta un po’ troppo complessa, è la ricostruzione del processo di nazionalizzazione in Cina partendo criticamente dalla tesi – che si deve a Benedict Anderson – che questo processo vada di pari passo alla formazione di uniformità tra scritto e parlato. In conclusione, Wang Hui presenta la world-history in una prospettiva affatto ignota al lettore non professionale, e che diviene sempre più rilevante invece conoscere in un mondo globalizzato nel quale la Cina si afferma sempre più come attore significativo.
Wang Hui, China from Empire to Nation State, translated by Michael Gibbs Hill, Harvard University Press, pagg. 200, euro 27,00

Il Sole Domenica 29.3.15
Manipolazione del cervello
Possiamo trapiantare anche i ricordi?
di Fabrizio Benedetti


Noi siamo fatti delle nostre memorie, cioè di situazioni, persone e cose che si sono depositati nel nostro cervello fin dalla più giovane età. Ciò che siamo noi adesso, in questo momento, è un insieme di ricordi che ci fanno sentire noi stessi, che producono quell’esperienza unica e individuale che ci fa dire “Io sono”. Senza queste memorie la nostra stessa soggettività non esisterebbe. Solo noi, dentro di noi, comprendiamo realmente il legame fra ricordi lontani e ricordi più recenti. Solo noi, dentro noi stessi, cogliamo la reale continuità di eventi appartenenti ai primi anni della nostra vita, agli anni più recenti, e a quello che abbiamo fatto ieri. Insomma, in una sola parola si potrebbe dire che noi siamo la nostra memoria.
Nel nostro cervello ci sono aree responsabili di tutto ciò. Da quando siamo nati fino a questo momento il nostro cervello ha ricevuto un numero incalcolabile di stimoli che ha acquisito, elaborato, depositato in precise strutture. Una di queste è l’ippocampo, così chiamato per la sua forma di cavalluccio marino, da tempo conosciuto come uno dei principali artefici dell’elaborazione delle nostre memorie. Da quelle visive a quelle uditive, e dai ricordi tattili a quelli olfattivi e gustativi. Per esempio, spesso associamo un odore sgradevole o un profumo piacevole ad un’epoca della nostra vita, ad un luogo, ad una persona. E sono proprio queste esperienze e memorie personali e private che danno origine al nostro Io.
Immaginiamo allora che fosse possibile trapiantare i ricordi da un individuo ad un altro, cioè che le memorie di una persona fossero trasferite al cervello di un’altra persona. Per esempio, si potrebbe trapiantare l’ippocampo di un mio amico nel mio cervello, e con esso tutte le sue memorie. Dopo un trapianto di questo tipo, sarei ancora io? La risposta più logica è “no”. Se io sono la mia memoria, dopo il trapianto io diventerei la memoria del mio amico. Cioè, in altre parole, sarei il mio amico, con i suoi ricordi lontani e vicini, con le esperienze sensoriali della sua infanzia e della sua adolescenza, con quella continuità di memorie che caratterizzano tutta la sua vita personale.
Diversi film di fantascienza si sono cimentati in questo avveniristico scenario, nelle situazioni e storie più disparate. Tuttavia, oggi non sembra sia più necessario fare ricorso alla fantascienza per una prospettiva del genere. Un gruppo di neuroscienziati francesi ha recentemente creato memorie artificiali nei cervelli di topo. Alcuni neuroni dell’ippocampo responsabili della navigazione, cioè dell’esplorazione dell’ambiente, sono stati identificati e registrati con elettrodi durante il sonno. Mentre gli animali dormivano, i ricercatori hanno associato l’attività di questi neuroni rappresentanti luoghi specifici dell’ambiente circostante con la stimolazione dei centri del piacere. In tal modo sono state prodotte memorie artificiali in cui un determinato luogo era associato con una sensazione piacevole. Quando gli animali si sono svegliati, i primi luoghi verso cui si sono diretti sono stati proprio quelli che erano stati stimolati durante il sonno. Perciò, l’ippocampo contiene neuroni che rappresentano le memorie dell’ambiente circostante, e tali memorie possono essere inserite artificialmente nell’ippocampo durante il sonno. Il punto centrale è che ai topi sono state inserite false memorie o, in altre parole, è stata creata una falsa associazione fra un determinato luogo e una sensazione piacevole. In realtà, un’esperienza piacevole di questo tipo i topi non l’avevano mai vissuta.
Le ricadute scientifiche, pratiche ed etiche di questo nuovo approccio sperimentale possono essere enormi. Nonostante questo studio sia stato effettuato in topi, dal punto di vista strettamente scientifico e filosofico appare chiaro come in linea di principio sia possibile creare un altro Io, con nuove memorie, falsi ricordi e comportamenti artificiali. Sebbene per ovvie ragioni etiche non sarà certamente facile effettuare simili studi nell’uomo, le ricadute pratiche possono essere facilmente intuibili, come per esempio la sostituzione di memorie negative con memorie positive.
È facile anche intuire la possibile ricaduta etica, nonché legale, della creazione di nuove memorie in un individuo. Sebbene la manipolazione dei ricordi sia oggi un tema di gran moda delle neuroscienze, per esempio con l’identificazione dei neuroni responsabili dei ricordi negativi, questo nuovo studio è il primo a creare false memorie in un cervello di topo che influenzano direttamente un comportamento conscio, cioè quello di dirigersi verso il luogo creato artificialmente durante il sonno. La creazione del nuovo Io può quindi produrre effetti concreti, come l’attuazione di comportamenti artificiali, nonché ricordi e testimonianze di vita in realtà inesistenti, con implicazioni legali facilmente intuibili.
Come al solito, sia la scienza di base che quella applicata dovranno fare i conti con gli aspetti positivi e quelli negativi di questo nuovo possibile scenario. Starà alla saggezza di noi uomini la corretta applicazione di queste scoperte, sperando che il trapianto di memorie possa essere usato a scopo terapeutico in malattie neuropsichiatriche e non per manipolare cervelli a scopi criminali e bellici.

Il Sole 29.3.15
Biologia quantistica
La bussola del pettirosso
La fisica quantistica dell’infinitamente piccolo, lo strano comportamento di particelle che possono influenzarsi a vicenda anche distanti l’una dall’altra, per tentare di spiegare cos’è la vita?
di Riccardo De Sanctis


La fisica quantistica dell’infinitamente piccolo, lo strano comportamento di particelle che possono influenzarsi a vicenda anche distanti l’una dall’altra, per tentare di spiegare cos’è la vita? Sembra un’impresa un po’ folle ma è quello che fanno da circa vent’anni due scienziati inglesi dell’Università del Surrey.
Jim Al-Khalili è un fisico teorico e un divulgatore, Johnjoe MacFadden un biologo molecolare. I due ci hanno messo tre anni per scrivere il primo libro sulla biologia quantistica dedicato a un pubblico non di soli addetti ai lavori. Un’impresa e un volume affascinanti (Life on the edge. The coming of age of quantum biology).
La biologia molecolare, si basa sulla chimica e sulla fisica convenzionale. È difficile immaginare che le piccolissime particelle quantistiche (parliamo di scale nanoscopiche ), che posseggono strane proprietà come quella di essere contemporaneamente in più posti, la capacità d’attraversare barriere d’energia, o di interagire anche a grandi distanze, possano avere un ruolo decisivo nel macro mondo della biologia. Che la fisica quantistica in altre parole possa addirittura aiutare a comprendere il mistero dei misteri: cos’è la vita, come funziona, cos’è la coscienza.
La tesi di fondo del libro è che svariati processi del vivente, dai metodi degli uccelli per orientarsi alla fotosintesi o alle reazioni provocate dagli enzimi, si basano su effetti quantistici.
Molte specie di animali, come le balene, le aragoste, le rane, gli uccelli e perfino le api, sono in grado di compiere viaggi che metterebbero a dura prova anche esperti esploratori umani. Come fanno a orientarsi è stato un mistero per secoli.
Oggi si è scoperto che adoperano diversi metodi: seguendo il corso del sole o delle stelle, o facendosi guidare dagli odori... Ma il senso di navigazione più misterioso di tutti è quello di cui è dotato un uccellino: il pettirosso europeo (Erithacus rubecula). Questo uccello, due volte l’anno, vola dalla Svezia all’Africa e viceversa per migliaia di miglia. Il meccanismo che gli permette di sapere per quanto tempo volare e in che direzione è nel suo Dna. È una specie di sesto senso per orientarsi con il campo magnetico terrestre. Il problema è che questo per essere individuato deve poter provocare una reazione chimica da qualche parte nel corpo dell’animale (è il modo con cui tutte le creature viventi, noi inclusi, abbiamo percezione di un segnale esterno), ma la quantità di energia fornita dall’interazione del campo magnetico terrestre con le molecole dentro le cellule viventi è di un miliardesimo inferiore all’energia necessaria per creare o infrangere un legame chimico. Come fa allora il pettirosso – si chiedono i nostri scienziati – a percepire il campo magnetico ?
La spiegazione è quantistica. Quando un fotone (una particella luminosa) viene percepito da un certo fotorecettore nell’occhio del pettirosso, crea due elettroni “intrecciati” (i fisici lo chiamano entaglement). Cioè, semplificando, e di molto, lo stato di uno dipende da quello dell’altro anche se sono separati e distanti l’uno dall’altro. Una delle proprietà più misteriose della fisica quantistica... E i due elettroni “intrecciati” che ruotano nell’occhio sono estremamente sensibili alle variazioni del campo magnetico e funzionano per il pettirosso come una bussola quantistica. Questa ovviamente è una sintesi semplificata di molte pagine del libro, dove tutto è spiegato anche con ragionamenti non sempre facili da seguire.
Capitolo dopo capitolo i nostri autori affrontano tanti altri “misteri”. Come – ad esempio – percepiamo il profumo di una rosa, o come i nostri geni riescono a replicarsi con estrema precisione. E tanti di questi fenomeni sono spiegabili ipotizzando un ruolo importante della fisica quantistica. La fotosintesi, ad esempio, si basa su particelle subatomiche che hanno la capacità di essere in diversi posti allo stesso tempo.
O gli enzimi che costruiscono le molecole all’interno delle n ostre cellule: una delle loro funzioni principali è quella di spostare gli elettroni nelle molecole o trasferirli da una molecola all’altra (l’ossidazione). Nel farlo producono un’accelerazione che la chimica e la biologia tradizionale non riescono a spiegare fino in fondo. Se però applichiamo la fisica quantistica, si potrebbe trattare di “quantum tunneling”. Cioè le particelle subatomiche (elettroni e protoni) usano le strane proprietà della quantistica che le immagina anche come “onde” e quindi in grado di superare una barriera energetica.
Negli ultimi capitoli del libro ci si occupa anche della mente e del problema dei problemi, che cos’è la coscienza e se anche questa possa essere attribuita alla quantistica. Gli autori sono cauti, coscienti di essere su un campo minato, ben consapevoli della tesi del matematico Roger Penrose che la ipotizzava già alla fine degli anni Ottanta. Preferiscono lasciare al lettore la decisione.
Più di una volta si ritorna alla domanda su cosa sia la vita. Nonostante gli straordinari successi della scienza – basti pensare alla biologia sintetica e alle tecniche di clonazione – sino ad ora nessuno ancora è riuscito a creare la vita se non dalla vita. Oggi Al-Khalili e MacFadden si domandano: che l’ingrediente essenziale mancante sia nella fisica quantistica?
Jim Al-Kalili, Johnjoe MacFadden, Life on the edge. The coming of age of quantum biology, Bantam Press, London, pagg. 368, £ 13,60

Il Sole 29.3.15
Biologia comparata
Anche i pulcini contano!
Gli studi di Vallortigara e Pancera rivelano che la cognizione intuitiva della numerosità è indispensabile per la sopravvivenza
di Arnaldo Benini


La rappresentazione di numeri e di quantità nell’uso di oggetti e denaro, nella valutazione di distanze e intervalli, nella memoria, in calcoli, riflessioni e ricerche è una delle capacità fondamentali della mente. La mente esegue la cognizione numerica, cioè la percezione, la rappresentazione e il conteggio di quantità, in due modi, secondo che si tratti di un insieme di oggetti percepiti nello spazio (la numerosità) o del simbolo matematico, espresso con cifre da 0 a 9.
Una caratteristica degli esseri umani, indipendentemente dalla scolarizzazione, è il senso intuitivo della numerosità, cioè delle grandezze numeriche, che è la percezione di una caratteristica spaziale degli oggetti. Alcuni aspetti della cognizione numerica sono presenti in molte specie non umane, per cui si suppone che la rappresentazione numerica nell’uomo avvenga tramite strutture biologiche evolutive, in parte comuni ad altre specie. Essa è una funzione cognitiva distinta dal conteggio e da capacità simboliche e matematiche e non è collegata al linguaggio perché è presente in specie non verbali e nei neonati umani. Fino a pochi secoli fa la stragrande maggioranza dell’umanità era analfabeta, eppure sapeva cavarsela bene negli scambi e negli affari quotidiani. La cognizione numerica è evoluta da sistemi nervosi remoti, e nell’homo sapiens avviene tramite strutture e meccanismi cerebrali collocati prevalentemente nei lobi parietali (specie a destra) e nella corteccia prefrontale. Nell’uomo il linguaggio ha conferito alle informazioni elettrochimiche cerebrali della numerosità la simbologia che è diventata, dicono Vallortigara e Panciera nel libro I cervelli che contano, «il territorio sconfinato della matematica» con la sua storia millenaria.
La cognizione intuitiva della numerosità è indispensabile per sopravvivere. Il pulcino appena uscito dall’uovo corre a beccare il cibo dove ci sono più chicchi. Se le rane hanno di fronte un gruppo di quattro e uno di otto larve, riferiscono Vallortigara e Panciera, dirigono la caccia verso il gruppo di otto. Se i gruppi sono di quattro e sei larve, le rane scelgono invece senza regola. La loro capacità di distinguere le numerosità dipende quindi dal rapporto (1:2 nel primo, 4:6 nel secondo caso) e non dalla differenza lineare. La destrezza cognitiva numerica può essere determinante per la riproduzione e il mantenimento della specie. Il cowbird o molotro, uccello parassita nordamericano delle dimensioni di un passero, non fa nidi suoi e depone le uova nei nidi di uccelli di oltre 200 specie. L’abilità della femmina del molotro consiste non solo nell’individuare l’ospite adatto, che non butti fuori dal nido uova e pulcini non suoi, ma anche il momento giusto per deporre le uova, che deve coincidere con l’inizio dell’incubazione delle uova dell’ospite. Il tempo d’incubazione del molotro è di 12 giorni, quello dei suoi ospiti involontari fino a 16. Come sapere quando l’incubazione inizia e come evitare di deporre l’uovo quando essa sta per finire? La femmina del molotro comincia a visitare nidi ogni giorno: se la covata ospite non aumenta, vuol dire che l’incubazione sta per iniziare. E così, all’alba, aggiunge il suo uovo. L’uccello è in grado di controllare tre grandezze: quella spaziale di dove si trovano i nidi da tener d’occhio, quella temporale dell’incubazione e la numerosità delle uova covate dall’ospite. In uomini e animali, spiegano Rugani e Coll., i giudizi numerici sono più facili se la differenza fra i numeri è grande (effetto distanza), più difficili se la grandezza dei numeri aumenta oltre certi limiti (effetto dimensione): il pulcino e noi distinguiamo mucchietti di cinque e dieci, ma non di novanta e cento chicchi.
Corroborata la tesi che la percezione spaziale della numerosità è comune a uomini e a molti animali, rimane la domanda di come si ordinano le quantità e se anche in ciò gli animali impiegano meccanismi analoghi ai nostri. Se ci sono quantità da ordinare, la mente di persone che scrivono da sinistra a destra utilizza la metafora spazella mental number line (Mnl), di collocare e immaginare le piccole quantità a sinistra e via via le grandi a destra. Se ne sopraggiunge una più grande o più piccola, essa è posta all’estrema destra, rispettivamente a sinistra. L’ordine numerico è connesso col senso dello spazio: «più di» significa «a destra di». Nella terribile condizione di neglect, dovuta di regola a una lesione ischemica o emorragica del lobo parietale destro, la parte sinistra di sé e del mondo é scomparsa dall’attenzione e dalla memoria, come se non fosse mai esistita. Se si chiede a un paziente col neglect quale sia il punto di mezzo fra due e sei risponde di regola cinque, perché la parte sinistra della linea numerica per lui non esiste più. Gli arabi, che scrivono e leggono da destra a sinistra, hanno una Mnl inversa rispetto alla nostra e pongono le quantità piccole a destra e le grandi a sinistra. Per gli israeliani, senza regole fisse per leggere e scrivere, il verso della Mnl è individuale. E gli animali che intuiscono le numerosità, come le ordinano? Si pensava che solo l’uomo, l’unico dotato di linguaggio, avesse la metafora spaziale della Mnl, cioé dell’associazione fra numeri e spazio con la collocazione delle quantità crescenti secondo la direzione della scrittura.
Dal momento che i simboli numerici sono comparsi pochi millenni fa, non è probabile che per essi sia emersa una rete neurale specializzata: è più verosimile che vengano utilizzate strutture nervose e cognitive emerse per compiti non numerici. «Strutture nervose [...] già esistenti nei cervelli dei nostri antenati» scrivono Vallortigara e Panciera, «devono essersi fatte carico del nuovo sviluppo, del passaggio dalla numerosità approssimata al concetto di numero come entità discreta basata su simboli esterni». Da questo «riciclaggio neuronale» deriva, forse, la difficoltà a imparare la matematica, a differenza della spontaneità con cui si apprende la lingua madre. Se era indubbio che le numerosità non vengono ordinate a caso, non era chiaro se la direzione della Mnl fosse esclusivamente umana e se, nell’uomo, fosse modulata o interamente determinata da fattori culturali. Gli esperimenti sofisticati e geniali della Rugani e Coll., si avvalgono di animalini graziosi, pazienti e affidabili come i pulcini, il cui cervello sembra avere, circa le numerosità, aspetti in comune col nostro. Il lavoro, pubblicato su «Science» è commentato dal neuropsicologo di Zurigo Peter Brugger.
Gli esperimenti dimostrano che esiste un Mnl da sinistra a destra anche nei pulcini. Un gruppo di loro, tre giorni dopo la nascita, è allenato a cercare il cibo dietro un pannello sul quale sono disegnati cinque punti, un altro gruppo dietro un pannello con 20 punti. Il primo gruppo è poi posto davanti a due pannelli, uno accanto all’altro, sui quali ci sono due punti. Il 71% dei pulcini cerca il cibo dietro quello di sinistra. Se i punti sono, in entrambi i pannelli, otto, lo cerca nella stessa proporzione dietro quello di destra. Se il gruppo allenato davanti a 20 punti è posto davanti al pannello con otto punti, il 70% cerca il chicco a sinistra. I pulcini allenati davanti al cinque pongono l’otto a destra nello spazio, quello allenati davanti al 20 pongono l’otto a sinistra. Di fronte a 32 segni, il pulcino va a destra nel 77% dei casi. Esattamente come nella nostra Mnl, i pulcini collocano piccole numerosità a sinistra e quelle grandi a destra. “Grande” e “piccolo” non sono valori assoluti, ma dipendono dalla situazione. Il pulcino è quindi in grado di distinguere quantità assolute e relative. Il libro di Vallortigara e Panciera, lo studio della Rugani e Coll. e il commento di P. Brugger sono aggiornamenti preziosi su uno dei meccanismi conoscitivi più importanti della vita, con la conferma che esso non è limitato agli esseri umani e che il cervello nasce con circuiti per valutare le numerosità nello spazio indipendentemente dal linguaggio.
La competenza numerica non emerge col linguaggio umano ma é evoluta da un sistema numerico non verbale. La Mnl sembra essere, negli esseri non verbali, orientata da sinistra a destra, in accordo con la partizione dei compiti fra i due emisferi cerebrali, dove il destro domina nell’informazione spaziotemporale e numerica. Negli uomini sembra che la cultura sia in grado di orientarla secondo la scrittura. Leggere e scrivere sono la codificazione spaziale e direzionale delle informazioni. Il comportamento direzionale del linguaggio, una volta acquisito, sembra dominare la cognizione numerica. Questi studi di biologia comparata sono di grande interesse per valutare quanto, dei meccanismi della mente, è strutturale e congenito e quanto possa essere influenzato, attraverso la neuroplasticità e analoghi meccanismi, dall’esperienza e dall’educazione.
ajb@bluewin.ch
R. Rugani, G. Vallortigara, K. Priftis, L. Regolin, Newborn chicks map numbers to space similarly to humans, «Science» 347 (6221) pagg. 534-536, 2015
G. Vallortigara, N. Panciera, Cervelli che contano, Adelphi, Milano,
pagg. 190, euro 25,00
P. Brugger, Chicks with a number sense Chicks and humans map numbers to space in a similar way, «Science» 347 (6621), pagg. 477-478, 2015

Il Sole 29.3.15
Bella scoperta
La Piramide di Cheope: ecco le carte
Eccezionale ritrovamento della Missione francese sulla costa di Suez: una caverna restituisce papiri che raccontano il colossale cantiere attraverso date, organizzazione del lavoro e trasporto dei materiali
di Paolo Matthiae


È stato il più gigantesco cantiere architettonico di tutti i tempi per l’intera durata dell’Antichità e del Medioevo, fino agli albori dell’Età moderna. Considerata in età ellenistica una delle sette meraviglie del mondo, la Piramide di Cheope, eretta negli anni attorno al 2600 a.C., impegnò migliaia di operai e artigiani di altissima specializzazione. È probabile che il suo architetto sia stato il principe Hemiunu, figlio del vizir Nefermaat e della sua sposa Itet e nipote di Snofru, fondatore della IV Dinastia, vizir anch’egli e «sovrintendente dei lavori del re», che fu sepolto in una delle tombe a mastaba localizzata su uno dei lati del gigantesco sepolcro di Cheope. La sua immagine ci è conservata in un’impressionante scultura del Pelizaeus Museum di Hildesheim.
Inattese testimonianze sulla complessa organizzazione dei lavori che permisero la realizzazione della straordinaria ultima dimora del faraone che una tradizione assai antica, ancora viva all’inizio del III secolo a.C (quando il sacerdote Manetone scrisse per i nuovi signori dell’Egitto di stirpe macedone dopo la conquista di Alessandro) dipingeva come un inflessibile tiranno, vengono dalle scoperte recenti di una Missione archeologica francese dell’Università di Paris-Sorbonne e dell’Institut Français d’Archéologie Orientale, guidata da Pierre Tallet, allo Wadi el-Jarf sulla costa occidentale del Golfo di Suez.
In questa località sono venute alla luce installazioni marittime, che sono state definite a ragione le più antiche del mondo, databili tra la fine della III e gli inizi della IV Dinastia del regno faraonico: un molo composto di due segmenti ortogonali lunghi 160 e 120 metri, proteggeva un bacino d’ancoraggio di più di due ettari di superficie dove sono ancora più di una ventina di ancore disperse sul fondo del mare. A circa 200 metri di distanza sono state identificate cellette disposte a pettine in due campi, dove sono state trovate un centinaio di ancore in calcare, alcune iscritte in caratteri geroglifici corsivi con i nomi di battelli o di equipaggi. A una distanza di circa 6 chilometri sono stati identificati i resti di accampamenti faraonici con serie di gallerie scavate nella roccia che dovevano servire per custodire materiali appartenuti a equipaggi di piccole imbarcazioni dei primi decenni dell’antico Regno.
All’ingresso di una di queste gallerie, bloccate da grossi massi squadrati che dovevano sigillare questi apprestamenti quando furono abbandonati, sono stati trovati un’ampia serie di resti di papiri nei quali compare ripetutamente il nome di Cheope. In una cinquantina di frammenti di papiro, che costituiscono la più antica documentazione papirologica finora scoperta in Egitto, si trovano inattese informazioni sui lavori preparatori della costruzione della Grande Piramide, risultanti da due serie distinte di documenti, che possono essere definiti, da un lato, contabilità e, dall’altro, veri e propri giornali di bordo.
Uno dei documenti contiene una data che corrisponde al 26° o 27° anno di regno di Cheope, mentre i testi fanno riferimento alle equipe impegnate nella costruzione dell’immenso sepolcro, che raccoglievano un migliaio di lavoratori e che erano suddivise in manipoli, detti “tribù”, di 200 operai, di cui sono riportati i nomi: la «Grande», l’«Asiatica», la «Prospera», la «Piccola». Una perfetta macchina organizzativa era prevista: nei documenti sono registrati, per ciascun manipolo, l’ammontare della dotazione prevista, quello di quanto realmente consegnato e, infine, il residuo presente nell’accampamento, mentre tra le registrazioni appaiono i nomi dei nòmoi, le provincie dell’antico Egitto, con quanto avevano versato in granaglie per il mantenimento dei lavoratori.
Per quanto concerne, invece, i giornali di bordo, questi, in maniera del tutto inaspettata, fanno riferimento proprio al trasporto per via fluviale verso Giza delle gigantesche lastre della pregiata pietra di Turah che venne utilizzata per il rivestimento della Grande Piramide, il cui nome antico era «Orizzonte di Cheope»: i papiri citano il transito delle pietre verso la «Porta dello Stagno di Cheope», che doveva essere la sede del distretto amministrativo creato per il coordinamento dei lavori di realizzazione del gigantesco progetto.
Erodoto, più di 2000 anni dopo la costruzione, afferma che per la costruzione della Grande Piramide lavorarono 100mila uomini per 20 anni. Nelle ricostruzioni moderne si ritiene verosimile che furono in realtà impiegati tra 20mila e 30mila uomini divisi in gruppi di 2mila lavoratori per l’estrazione, il trasporto e la messa in opera di blocchi di pietra del peso, solo in media, di circa 2 tonnellate e mezza.
Le recenti straordinarie scoperte della Missione francese permettono oggi di controllare queste teorie, per verificare le quali nella stessa Giza negli anni passati fu costruita una piccola piramide moderna chiamata la piramide «Nova» secondo le tipiche e suggestive procedure dell’archeologia sperimentale.
Ma nessuno poteva immaginare che stupefacenti documentazioni epigrafiche contemporanee del grande faraone potessero confermare gli audaci calcoli degli egittologi di oggi.

Il Sole 29.3.15
Repèrtori
Machiavelli in tutte le edizioni
di Giancarlo Petrella


La tradizione a stampa di Machiavelli, e di conseguenza anche la nuovissima bibliografia allestita dopo anni di meticolosa indagine da Piero Innocenti e Marielisa Rossi, inizia con l’affaire, tutt’altro che piacevole, della contraffazione all’edizione fiorentina del Decennale . Ne veniamo a conoscenza dalla missiva a Machiavelli di Agostino Vespucci, in data 14 marzo 1506: «trovando io et con fatica che uno Andrea da Pistoia havea facto ristampare el vostro compendio, cursim et properanter andai ad el luogo ubi imprimebantur … non vi starò a dire la ribalda cosa che le sono: al tutto alla giuntesca … lettera caduca, scorrecta in più luoghi». Andrea Ghirlandi e Antonio Tubini avevano dunque dato impunemente alle stampe un’edizione pirata, pessima per qualità e scorrettissima nel testo, che venne prontamente sequestrata. Cosa rimane dell’esordio di Machiavelli a stampa? Della princeps autentica (riconoscibile per l’ultima pagina bianca e un breve titolo alla prima) un unico esemplare finito alla Houghton Library di Harvard. Della contraffazione, forzatamente corretta dopo gli accordi, due esemplari alla British Library e alla Pierpont Morgan di New York.
Dopo questi fatti passarono una dozzina d’anni prima che Machiavelli conoscesse ancora l’onore della stampa: l’Arte della guerra per gli eredi di Filippo Giunta a Firenze nel 1521 e un paio di edizioni sine notis, ma forse anteriori, della Mandragola. Tutto ciò mentre è ancora in vita. Solo dopo la morte dalla cerchia degli amici e dei parenti filtrano le più impegnative opere politiche, così che in poco più di un anno, tra il 1531 e il 1532, il Machiavelli maggiore può dirsi tutto a stampa. A Roma Antonio Blado, ottenuto un privilegio da Clemente VII (con curioso voltafaccia nel 1559 la Chiesa non esiterà invece a mettere l’autore all’Indice), brucia sul tempo i fiorentini e licenzia nel 1531 i Discorsi. Poi, in rapida successione, le Historie e a gennaio del 1532 addirittura Il principe, che a Firenze Bernardo Giunta può immettere sul mercato solo a maggio, con qualche mese di ritardo rispetto alla concorrenza.
A partire dal 1559 la circolazione, subisce, se non una netta cesura, quantomeno un rallentamento, complice l’inclusione di Machiavelli fra gli autori di prima classe nel severissimo Indice di Paolo IV, come bene ricorda Paolo Procaccioli nel primo dei saggi introduttivi. «Qui sono state vietate e proibite a vendersi tutte le opere del nostro Machiavello e voglion fare una scomunica a chi le tiene in casa, ma sino a qui nessun libraio ne può più vendere sotto gravi pene» scrive in proposito da Venezia Giovambattista Busini nel 1561. Ci avrebbe pensato il mercato clandestino ad aprire una breccia nelle rigide maglie dei controlli, rifornendo i librai italiani di edizioni stampate Oltralpe. È in questo contesto che matura il progetto dell’inglese John Wolfe (su cui il saggio di Alessandra Petrina) che negli anni Ottanta organizzò la fragorosa beffa di stampare per i suoi torchi londinesi tutto Machiavelli coll’espediente dei falsi dati tipografici «Palermo appresso gli heredi d’Antoniello degli Antonielli».

Piero Innocenti e Marielisa Rossi, Bibliografia delle edizioni di Niccolò Machiavelli: 1506-1914. I. 1506-1604. Istorico, comico e tragico , Manziana (Roma), Vecchiarelli editore, pagg. 462 con cd allegato di indici e documentazione fotografica, € 70,00.