martedì 7 aprile 2015

il Fatto 7.4.15
L’intellettuale Yasemin Inceoglu

“La Turchia sotto il tacco del Sultano”
di Roberta Zunini

Per la seconda volta nel giro di un anno, la Turchia interrompe il flusso di post, immagini e tweet. Tutti i social network ieri sono stati bloccati e lo sono ancora, tranne Facebook rimesso in moto dopo la rimozione delle foto del terrorista del gruppo marxista Dhkp-C mentre puntava la pistola alla testa del procuratore Kiraz. Un riflesso c’è stato anche in Italia: era ricercato per terrorismo dal 1995 Unal Erdel, 45 anni, il turco con cittadinanza austriaca rintracciato a Mestre dalla polizia e ritenuto un reclutatore proprio per conto della Dhkp-C.
In Turchia l’accusa di propaganda del terrorismo sbandierata dalla magistratura – sempre meno indipendente a causa delle sostituzioni dei pubblici ministeri e dei giudici liberi con quelli amici del “sultano” Erdogan – non fa altro che rispecchiare la nuova e assai restrittiva legge sulla sicurezza ispirata dal presidente e approvata un mese fa dal partito di maggioranza, l’Akp, fondato per l’appunto da Erdogan. “Qualsiasi scusa è buona per le autorità turche, in questo caso i magistrati, al fine di intimidire l’opinione pubblica e sopprimere i diritti cardini delle democrazie: la libertà di stampa e di critica. E infatti la Turchia moderna, fondata da Mustafa Kemal detto Ataturk, è sempre stata catalogata come democrazia ibrida”, dice Yasemin Inceoglu, docente universitaria di giornalismo presso l’Università pubblica di Istanbul, saggista nonché femminista storica.
La ventata di speranza portata 12 anni fa dall’apparizione sulla scena politica del moderato islamico Erdogan, super sponsorizzato dagli Stati Uniti, dalla rivolta di Gezi park del 2013 si è andata affievolendo sempre di più. Sia come premier sia ora come presidente della Repubblica, Erdogan sembra sempre più intenzionato a guidare il paese con pugno di ferro e precetti islamici ogni giorno più radicali. È un’impressione?
È la realtà. Il presidente Erdogan non ascolta più alcun consigliere se non la figlia, è sempre più isolato nella sua residenza dall’architettura megalomane, detesta le donne emancipate e laiche, non vuole critiche da parte della stampa e non vuole vedere gente in piazza che lo critica. Per questo ha voluto che venisse messa a punto una legge che dietro il pretesto della sicurezza dello Stato limita fortemente le libertà civili e dà un potere enorme alla polizia e ai servizi segreti. Chiunque intenda organizzare manifestazioni di protesta con questa nuova legge potrà essere arrestato senza bisogno della richiesta del magistrato e chi porterà una pietra o un oggetto che possa provocare danni verrà equiparato a un terrorista. Intanto i giornalisti vengono denunciati dalle autorità e incarcerati anche solo per la pubblicazione di una foto di un fatto di cronaca, come è successo per la pubblicazione della foto del procuratore con la pistola puntata alla tempia. Ma la stampa ha il dovere di pubblicare le notizie, di informare, non di nasconderle per fare il bene di un presidente o di un governo.
Perché proprio adesso?
Perché le elezioni di inizio giugno sono alle porte ed Erdogan, pur di assicurare al ‘suo’ partito la maggioranza dei due terzi del Parlamento in modo che possa cambiare la Costituzione e modificare lo status della Turchia, da Repubblica parlamentare a presidenziale, sta facendo di tutto, vedi appunto la legge di cui ho parlato.
L’equazione sarebbe dunque questa: volendo far stravincere le elezioni al suo partito, il presidente che ha saputo del calo di popolarità dell’Akp, è disposto a restringere ulteriormente le libertà civili, anche se il suo atteggiamento fomenta il terrorismo?
Sì. È così, pur di limitare le critiche contro di lui e il suo partito per non perdere ulteriori consensi, visto che negli ultimi mesi i sondaggi sulle intenzioni di voto hanno mostrato un calo di popolarità dell’Akp, non si preoccupa di fomentare il terrorismo e le rivolte.
Il terrorismo gli potrebbe anche far comodo per dimostrare che la Turchia ha bisogno di essere governata da un uomo forte, con pieni poteri?

In un certo senso, sì. E quando poi dimostra di voler inseguire i suoi nemici e i terroristi ovunque, come è successo ieri proprio in Italia dove è stato rintracciato il presunto reclutatore del gruppo responsabile della morte del procuratore, consolida il bacino elettorale dell’Akp ed erode elettori al Mhp, i nazionalisti islamici di destra tornati in auge nei sondaggi.
La Stampa 7.5.15
Sorrentino, Moretti, Bellocchio
Così Cannes guarda all’Italia
Potrebbe essere un’edizione con la presenza di tanti nostri autori, in gara e non
di Fulvia Caprara


Tutte le generazioni del cinema, il presente, il passato, il futuro. Chi ha vinto la Palma d’oro, chi l’ha sfiorata, chi l’ha solo sognata. Outsider, talenti emergenti, maestri celebrati. Quest’anno la presenza italiana al Festival di Cannes, che si apre il 13 maggio, potrebbe essere massiccia, quasi un’occupazione. Secondo
Variety, massima voce dello show-business internazionale, l’Italia avrebbe in serbo per la kermesse un «robust showing» (robusta rappresentazione) composto dai nostri autori migliori e dalle star internazionali ingaggiate nelle loro ultime opere. Una coincidenza felice e lungimirante, perchè se accanto al regista venerato c’è anche il divo, la «montee des marches» diventa più glamour e il film acquista maggiore attenzione.
In prima linea, fin dall’annuncio del progetto c’è La giovinezza del premio Oscar Paolo Sorrentino che stavolta dirige Michael Caine, Jane Fonda, Rachel Weisz, Harvey Keitel per descrivere, sullo sfondo di un elegante resort alpino, riflessioni e pulsioni di due amici alle soglie degli 80, l’uno compositore e direttore d’orchestra e l’altro regista, che si specchiano, con atteggiamenti differenti, in quella fase della vita che dà il titolo al film e che, per loro, è ormai irrimediabilmente perduta.
In competizione con Sorrentino potrebbero trovarsi (e non è la prima volta per nessuno dei due) sia Nanni Moretti, che dal 16 è nelle sale con Mia madre, che Matteo Garrone, regista di Tale of Tales, affresco fantastico ispirato alla raccolta di fiabe di Giambattista Basile Lo cunto de li cunti, risalente al diciassettesimo secolo e definito da Benedetto Croce «il più bel libro italiano barocco». Nel cast, in un mondo popolato di re e draghi, cavalieri e regine, strani animali e oscuri misteri, recitano, tra gli altri, Salma Hayek, Vincent Cassel, Alba Rohrwacher: «Gli scritti di Basile - ha dichiarato Garrone - si prestano particolarmente a una trasposizione cinematografica basata su effetti visivi e pittorici».
Tradizioni arcaiche e feroci credenze popolari attraversano anche la narrazione dell’Ultimo vampiro di Marco Bellocchio, altro maestro in pole position per la competizione. Girato a Bobbio, dove è nato, sviluppando l’esperienza del laboratorio di cinema che segue personalmente da anni, il film, ha spiegato il regista di Vincere, ricostruisce la vicenda, finita in tragedia, di «una suora innamorata del suo confessore e poi accusata della morte di quest’ultimo». Tra gli interpreti, in un film «d’azione, anche se racconta fatti che riguardano l’interiorità dei personaggi», i due figli di Bellocchio, Elena e Piergiorgio.
Solo Moretti (che arriverebbe nei cinema prima della presentazione a Cannes, a differenza degli altri, proiettati in anteprima mondiale sulla Croisette, come dettano le regole del concorso) torna a battere la strada dell’autobiografia, raccontando il delicato momento di vita di una regista di successo (Margherita Buy) alle prese con la malattia della madre e con una relazione agli sgoccioli, di suo fratello (lo stesso Moretti) che la incita a reagire, e di un attore (John Turturro) poco incline alla disciplina del set.
Della scintillante pattuglia italiana, potrebbero infine far parte, magari non in gara, ma in sezioni collaterali importanti, l’outsider Piero Messina che ha girato, nella sua Caltagirone, in una Sicilia «onirica e fredda», L’attesa, protagonista Juliette Binoche, e Luca Guadagnino che in A bigger Splash, «re-interpretazione» del celebre noir La piscina, dirige la stella del momento Dakota Johnson. I giochi non sono ancora fatti, bisogna attendere la conferenza stampa parigina del Festival, ma già la rosa delle probabili presenze e la varietà delle ispirazioni, fa pensare a un cinema italiano attivo, vitale, sull’orlo dello stato di grazia.
La giovinezza Riflessioni di due amici alle soglie degli 80
Tutte le generazioni del cinema, il presente, il passato, il futuro. Chi ha vinto la Palma d’oro, chi l’ha sfiorata, chi l’ha solo sognata. Outsider, talenti emergenti, maestri celebrati. Quest’anno la presenza italiana al Festival di Cannes, che si apre il 13 maggio, potrebbe essere massiccia, quasi un’occupazione. Secondo Variety, massima voce dello show-business internazionale, l’Italia avrebbe in serbo per la kermesse un «robust showing» (robusta rappresentazione) composto dai nostri autori migliori e dalle star internazionali ingaggiate nelle loro ultime opere. Una coincidenza felice e lungimirante, perchè se accanto al regista venerato c’è anche il divo, la «montee des marches» diventa più glamour e il film acquista maggiore attenzione.
In prima linea, fin dall’annuncio del progetto c’è La giovinezza del premio Oscar Paolo Sorrentino che stavolta dirige Michael Caine, Jane Fonda, Rachel Weisz, Harvey Keitel per descrivere, sullo sfondo di un elegante resort alpino, riflessioni e pulsioni di due amici alle soglie degli 80, l’uno compositore e direttore d’orchestra e l’altro regista, che si specchiano, con atteggiamenti differenti, in quella fase della vita che dà il titolo al film e che, per loro, è ormai irrimediabilmente perduta.
In competizione con Sorrentino potrebbero trovarsi (e non è la prima volta per nessuno dei due) sia Nanni Moretti, che dal 16 è nelle sale con Mia madre, che Matteo Garrone, regista di Tale of Tales, affresco fantastico ispirato alla raccolta di fiabe di Giambattista Basile Lo cunto de li cunti, risalente al diciassettesimo secolo e definito da Benedetto Croce «il più bel libro italiano barocco». Nel cast, in un mondo popolato di re e draghi, cavalieri e regine, strani animali e oscuri misteri, recitano, tra gli altri, Salma Hayek, Vincent Cassel, Alba Rohrwacher: «Gli scritti di Basile - ha dichiarato Garrone - si prestano
Corriere 7.5.15
Il Cern riparte a doppia velocità Inizia la caccia alla materia oscura
Riacceso il super acceleratore. Gianotti: sarà come entrare nel giardino delle meraviglie
di Giovanni Caprara


I protoni sono tornati a correre più velocemente nel superacceleratore Lhc del Cern di Ginevra. E ora si apre una nuova stagione di ricerca che potrebbe essere ancora più straordinaria della prima capace di rivelare l’esistenza del bosone di Higgs regalando il Premio Nobel all’omonimo scienziato che l’aveva prevista mezzo secolo fa. «Ma la grande scoperta era solo l’inizio del viaggio di Lhc», commenta Fabiola Gianotti protagonista del grande risultato e ora nuovo direttore designato del Cern.
Il superacceleratore era stato spento due anni fa per poter effettuare una serie di interventi che lo mettesse in condizioni di accelerare le particelle, i protoni appunto, sino a raggiungere l’energia voluta di 13 Tev (13 mila miliardi di elettronvolt). Così si riuscirà a riprodurre le condizioni in cui si trovava l’universo una frazione di secondo dopo la sua nascita, 13,7 miliardi di anni fa, scoprendo le condizioni della materia e delle sue componenti alle origini. Quei momenti sono ancora avvolti da un denso mistero perché portarono ad un universo di cui conosciamo soltanto il 4,9 per cento, cioè quello che vediamo formato da stelle e pianeti. Ma il resto, vale a dire la maggior parte, è costituito per il 26,8 per cento da materia oscura e per il 68,3 per cento da energia oscura e di cui si ignora la natura.
Ora con Lhc gli scienziati, 600 dei quali italiani dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) possono sondare per la prima volta i primissimi passi del nostro mondo. La scoperta del bosone di Higgs è stata ottenuta con i due esperimenti Atlas e Cms diretti da Fabiola Gianotti e Guido Tonelli: scontrando i due fasci di protoni che correvano l’uno contro l’altro nell’anello sotterrano del Cern sino ad un’energia di 7 Tev. Ora si raddoppia grazie agli interventi eseguiti sulle 10 mila connessioni che uniscono i magneti superconduttori rendendoli più sicuri. Anche i protoni viaggeranno più impacchettati rispetto al passato consentendo di aumentare di cinque volte la quantità di dati e prima dell’estate la macchina raggiungerà la potenza massima di 13 Tev. A quel punto si aprirà la finestra sulle grandi attese e i fisici porteranno lo sguardo su un territorio inesplorato. «Sarà come entrare in un giardino delle meraviglie», dice con entusiasmo Gianotti.
Tra i primi obiettivi della nuova stagione c’è l’indagine del plasma iniziale, una sorta di zuppa di quark e gluoni ma soprattutto la verifica dell’esistenza della supersimmetria vale a dire un mondo popolato da particelle come lo sneutrino, il selettrone, lo squark o il fotino in parallelo al mondo di neutrini, elettroni, quark e fotoni come li conosciamo ora.
Le particelle supersimmetriche previste teoricamente nell’ambito della teoria delle stringhe ancora negli anni Settanta non sono mai state osservate. Si sperava di trovarle già nella prima fase delle ricerche. «Il fatto di non averle ancora avvistate non significa che non esistano — nota Fabiola Gianotti — potrebbero infatti manifestarsi ad energie maggiori quali ora avremo a disposizione». L’interesse a individuare queste e altre particelle è rilevante perché potrebbero essere i costituenti della materia oscura sciogliendo così uno dei grandi enigmi dell’universo.
Repubblica 7.5.15
Cervello
Memoria segreta così il sonno aiuta a ricordare
Dormire è fondamentale per imparare
di Francesco Bottaccioli


Il test: una pennichella di 90 minuti permette di immagazzinare molte più parole rispetto a chi invece rimane sveglio

IL CERVELLO, anche quando dormiamo, lavora. Diverse ricerche ormai concordano nell’assegnare al cervello che dorme un ruolo centrale nella fissazione dei ricordi e quindi nell’apprendimento.
La dimostrazione di questo apparente paradosso viene da ricerche sulla “pennichella”: volontari sottoposti a prove di recupero mnemonico di una lista di parole apprese, se, tra l’apprendimento della lista e il recupero, avevano interposto un sonnellino di una novantina di minuti, ricordavano più parole di quelli che non avevano dormito.
Questo fenomeno è stato riscontrato addirittura in bambini piccolissimi, come ha dimostrato un gruppo di psicologi della tedesca Università della Ruhr, che recentemente ha pubblicato su Pnas uno studio realizzato su bambini tra i 6 e i 12 mesi di età. Il cervello dei bambini, a questa età, ha già sviluppato una forte capacità imitativa. I ricercatori hanno utilizzato questa competenza per verificare se il sonnellino potesse migliorare la memorizzazione di semplici azioni con oggetti. I bambini che avevano dormito più di mezz’ora, dopo l’esposizione alla manipolazione di oggetti, erano più capaci nel riprodurre queste azioni di chi aveva dormito meno di mezz’ora.
I dati più sorprendenti vengono però dagli studi sugli adulti. Infatti, il paradosso è che il consolidamento della memoria, attività prettamente cognitiva e quindi impegnativa, avviene quando siamo negli abissi del sonno profondo, quando la macchina cerebrale è al minimo del consumo di ossigeno, il sangue scorre lento e l’elettroencefalogramma mostra onde ampie, lente e lentissime.
È noto che durante il sonno l’attività del nostro cervello è molto variabile: si alternano cicli, di circa un’ora e mezzo ciascuno, che contengono fasi dominate da onde elettriche lente e lentissime e invece fasi caratterizzate da onde miste, a predominanza veloce. Quest’ultima è chiamata fase Rem (Rapid Eye Movement ) perché le onde veloci si accompagnano a movimenti rapidi degli occhi. In questa fase facciamo sogni molto dettagliati e coerenti, che hanno più facilità di essere ricordati. All’elettroencefalogramma, il cervello mostra un profilo molto simile a quello della veglia. Per questo, per molto tempo si è pensato che la fase Rem fosse quella più legata all’attività cognitiva notturna. Invece, è ormai chiaro che è la fase a onde lente e ultralente, chiamata Sonno a onde lente (Slow Wave Sleep) che fa parte della più ampia fase Non-Rem, ad essere implicata nella memorizzazione notturna. Bjorn Rasch e Jan Born, neuroscienziati dell’Università di Zurigo, in un’ampia rassegna su Physiological Review , documentano che l’esposizione a un odore, durante un compito di apprendimento cognitivo, sollecita il consolidamento della memoria solo se le stesse persone vengono riesposte allo stesso odore mentre sono nella fase del sonno profondo e non in quella Rem. Ma quali sono i meccanismi cerebrali ipotizzati? La fissazione di un ricordo è un processo che richiede la collaborazione di due aree cerebrali: la corteccia e l’ippocampo. La prima fissa l’attenzione sull’oggetto da memorizzare, lo inquadra, gli dà un codice e poi trasferisce questa prima codifica all’ippocampo che consoliderà la traccia per poi ritrasferirla alla corteccia, dove potrà essere integrata nei vari cassetti della nostra memoria e rimanere a disposizione per ulteriori richiami. In questo dialogo, le due aree vanno a diverse velocità: la corteccia è caratterizzata da onde veloci e da onde teta, che sono onde relativamente lente, hanno un ritmo (4-8 Herz) che però è più del doppio di quelle lente, le delta (1-4 Herz) che invece dominano l’ippocampo e la fase profonda del sonno. Durante la veglia quindi, la prima fase della memorizzazione avverrebbe nel segno delle onde teta, mentre durante il sonno profondo, l’ippocampo consoliderebbe il ricordo con una attività lenta e ultralenta (meno di 1 Herz).
Che prove abbiamo di questa spiegazione? L’applicazione di una corrente transcranica (operazione assolutamente indolore) con frequenza delta, sull’area della testa che corrisponde alla corteccia prefrontale durante la prima fase del sonno, incrementa la memoria di un esercizio fatto prima di dormire. Se invece si somministra una frequenza teta la memoria viene soppressa. Ma, al contrario, se si somministra una frequenza teta durante la veglia, quando si è impegnati nell’apprendimento, la memoria viene migliorata.
Un’ulteriore prova è venuta il 15 marzo scorso quando un gruppo di neuroscienziati austriaci ha dimostrato sul Journal of Cognitive Neuroscience che l’attività teta durante l’apprendimento è direttamente collegata alla capacità di ricordare dopo una notte di sonno. In sostanza, dicono i ricercatori, durante il sonno ad onde lente, l’ippocampo seleziona i ricordi da salvare e quelli da buttare e lo fa seguendo un’etichetta che è stata apposta loro durante la veglia, l’etichetta teta.
Infine, c’è un altro tipo di memoria che è condizionata dal sonno: quella immunitaria. Volontari che hanno ricevuto una singola dose di vaccino contro l’epatite A, se la notte successiva al vaccino non hanno dormito, il livello anticorpale (che indica l’efficienza della vaccinazione), controllato dopo quattro settimane, è molto più basso che in quelli che hanno dormito.
* Direzione Master in Psiconeuroendocrinoimmunologia, Univ. dell’Aquila
La Stampa 7.5.15
E Cappuccetto Rosso rottamò la nonna
Tra implicazioni psicanalitiche e valenze rituali l’indagine di Yvonne Verdier alla ricerca delle versioni più antiche e dimenticate della fiaba
di Massimiliano Panarari


Le fiabe possiedono implicazioni psicanalitiche e valenze rituali «toste». Gli analisti, che si erano parecchio dedicati fin da subito a illuminarne i dark side, potrebbero sbizzarrirsi nuovamente intorno al racconto di Cappuccetto Rosso, visto che ne esistono alcune versioni dimenticate. Nel libro L’ago e la spilla (che esce ora in italiano per le Edizioni Dehoniane Bologna, pp. 106, € 10; prefazione di Augusto Palmonari), l’etnologa e sociologa Yvonne Verdier (1941-1989) compie un autentico lavoro di genealogia, riportando alla luce le varianti misconosciute di una delle fiabe europee universalmente più famose, la cui funzione era quella di comunicare nel tempo una serie di preoccupazioni «pedagogiche» (sulle quali si potrebbe oggi eccepire ampiamente) delle comunità in cui circolavano.
La variante hard
L’innalzamento letterario ha quindi edulcorato e trasfigurato il contenuto vero (e sottaciuto) della tradizione orale che veicolava la storia di Cappuccetto Rosso. Che coincide per noi con due versioni soltanto: quella di Charles Perrault (1697), in cui la malcapitata protagonista viene sbranata dal lupo, o, in alternativa, quella ancora più nota e diffusa, e a lieto fine, dei fratelli (Jacob e Wilhelm) Grimm, nella quale «arrivano i nostri», vale a dire il cacciatore che squarta il lupo cattivo e ne estrae sane e salve nonna e nipotina. La prima più hard e cruda, la seconda fantastica - e, appunto, favolistica - anche nell’happy ending, ma entrambe differenti dalle antiche tradizioni orali delle province francesi da cui questa narrazione ha tratto origine ed è stata perpetuata. La studiosa transalpina aveva deciso di andare «alla sorgente», e si mise così a passare al setaccio le versioni popolari e folcloriche raccolte presso varie fonti orali dagli etnografi di fine Ottocento specialmente in alcune aree (bacino della Loira, Nivernese, Velay, Forez, regione settentrionale delle Alpi), finendo per arrivare a contarne ben 34. Mentre, per contro, non esisteva una tradizione orale di trasmissione della favola in Germania, con l’eccezione di una porzione del Tirolo italiano.
Il colore della pubertà
Dopo avere comparato quello che i narratori delle varie zone si tramandavano, Verdier scoprì che esistevano almeno due varianti «sensibili» rispetto agli adattamenti letterari. La prima concerneva la scelta del percorso prospettata dal lupo alla nostra Cappuccetto Rosso nel momento in cui le loro strade si incrociano. «Quale sentiero vuoi prendere, le disse, quello degli spilli o quello degli aghi»? (da cui il titolo della ricerca). A una prima occhiata qualcosa di incomprensibile, se non addirittura di assurdo, di cui l’etnologa compie l’esegesi sulla base delle consuetudini (anche linguistiche) delle campagne francesi ottocentesche, dove l’ago (ossia il cucire) indicava le attività domestiche, mentre la spilla (che veniva donata dai ragazzi durante la fase del corteggiamento) rimandava all’agghindarsi e al farsi belle. Lavoro e «frivolezza», due opzioni solo in apparenza contrapposte (perché, alla fine, in moltissimi casi si tenevano tranquillamente insieme), che compendiavano l’assai limitato (per non dire inesistente) «orizzonte di possibilità» delle giovani nell’universo contadino dell’epoca.
La vicenda di Cappuccetto Rosso manifesta allora la natura di «apologo educativo» per le ragazze della Francia profonda e rurale (e non solo). E assume anche, antropologicamente, il carattere di rito di iniziazione e passaggio, come evidenziano gli «stadi» del soggiorno di Cappuccetto nell’abitazione della nonna-maestra di vita, dove l’ingresso corrisponde alla morte e la partenza alla rinascita, una volta raggiunta la nuova condizione di adulta. Tanto l’ago quanto la spilla, oggetti aguzzi e appuntiti, in grado di ferire e far sgorgare il sangue, rappresenterebbero, giustappunto, la pubertà femminile (ribadita pure dal colore rosso del vestiario della bambina che sta per diventare grande).
Un pasto cannibalesco
Ad accomunare le versioni popolari c’è poi - seconda cospicua variazione rispetto al racconto di Perrault - il «pasto cannibalesco» e antropofago, quello che il lupo travestito da nonna offre all’inconsapevole bambina, la quale finisce per mangiarsi dei brandelli dell’antenata. Questo momento decisamente splatter e gore identifica (diremmo ora) il «conflitto generazionale» - o, forse, un’ancestrale rottamazione ante litteram… - come richiesto dalle ferree e primitive regole di quel mondo rurale, dove le più giovani scalzavano le anziane innanzitutto sulla base (e lo palesa la componente iniziatico-rituale) dell’acquisizione o della perdita delle facoltà riproduttive. Che rappresentavano precisamente il mezzo, insieme con l’ago e la spilla (e a ciò che sottintendevano), in virtù del quale le ragazze potevano addomesticare il lupo cattivo (la società maschile patriarcale) che si era appena sbranato la donna in età avanzata, facendo il lavoro sporco imposto proprio dalle spietate convenzioni comunitarie. E, dunque, Cappuccetto Rosso «attenta al lupo» - o forse no…
Corriere 7.4.15
Nascita della Turchia, storie di popoli e di frontiere
risponde Sergio Romano


Il 10 agosto 1920 l’Impero ottomano firmava a Sèvres il trattato di pace che definiva i termini dell’accordo con le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. In pratica, venivano definiti quelli che avrebbero dovuto essere i nuovi confini della Turchia. A quel punto subentrò quella che fu chiamata «Sindrome di Sèvres» e si dovette attendere sino al ‘23, con il trattato di Losanna, per risolvere definitivamente la questione dei confini. A che cosa fu dovuto questo ritardo e in cosa consisteva la «sindrome di Sèvres»?
Daniele Tellino

Caro Tellino,
La «sindrome di Sèvres» non è una malattia o una linea politica. È la percezione turca dell’umiliante trattamento che il Paese dovette subire dopo la Grande guerra. L’Impero ottomano era già stato spartito a tavolino, prima della fine del conflitto, da due esperti di problemi mediorientali. Muniti di matite e righelli, il diplomatico francese François Georges Picot e l’ufficiale inglese Mark Sykes avevano spezzettato le province arabe dell’Impero a cui sarebbe stata garantita una indipendenza puramente formale. La sorte della Turchia ottomana, invece, fu decisa a Sèvres con uno dei molti trattati che compongono la «pace di Versailles».
Le mutilazioni furono numerose. La Turchia perdette il controllo degli Stretti, cedette una parte del suo territorio a un futuro Kurdistan e un’altra parte alla Repubblica d’Armenia. Dovette garantire alla Grecia una zona d’influenza intorno a Smirne, una seconda all’Italia nella provincia di Adalia e una terza alla Francia nei territori al confine con la Siria. Il piano andò all’aria quando un generale che si era distinto durante la battaglia di Gallipoli, Mustafa Kemal, riorganizzò l’esercito, cacciò i greci dal territorio nazionale, destituì il sultano, abolì il Califfato e proclamò una Repubblica di cui sarebbe stato il leader indiscusso sino alla morte con il nome di Kemal Atatürk.
Grazie alle sue vittorie militari, il Trattato di Sèvres venne sostanzialmente modificato a Losanna nel 1923. Italia e Grecia dovettero rinunciare alle loro rispettive zone d’influenza, curdi e armeni perdettero alcune delle prerogative conquistate due anni prima e le grandi potenze dovettero riconoscere che il regime delle capitolazioni, di cui i loro cittadini avevano beneficiato sino alla vigilia della Grande guerra, apparteneva ormai a un passato non più resuscitabile. Ma la nuova Turchia cedette Cipro alla Gran Bretagna e il Dodecaneso all’Italia.
Vi fu anche, caro Tellino, uno scambio di popolazioni. Un milione e mezzo di greci dovettero abbandonare la Turchia e trecentomila cittadini ottomani di religione musulmana lasciarono Creta e i territori della Grecia meridionale in cui erano si erano installati sin dall’epoca della conquista. Fu una brutta pagina di storia europea, una formula che sarebbe stata adottata durante il Novecento anche in altri continenti su scala molto più grande. Penso in particolare al colossale esodo di popolazioni hindu dal Pakistan e musulmane dall’India dopo la proclamazione dei due Stati nel 1947.
Repubblica 7.4.15
Cengiz Candar
“Il governo ha paura delle elezioni”
Il voto potrebbe terminare con un risultato non gradito
Per questo vuole bloccare le fonti di informazione
intervista di M. Ans.


ANKARA . «Il blocco di Twitter e Facebook? E’ il risultato di un clima creato da un governo che ha fatto della lotta contro i social network una routine, e parte della soppressione dei media. In questo contesto l’attacco al pullman del Fenerbahce sembra, più che un atto di hooliganismo, una provocazione legata alla Turchia, alla sua stabilità, alle prossime elezioni».
Chi fa queste osservazioni ha voce in capitolo per dire la sua. È, uno dei massimi opinionisti turchi, inviato di politica estera per il quotidiano Radikal , ma al tempo stesso tifoso del Fenerbahce, di cui è un noto commentatore in tv.
Il blocco dei social da parte del governo è già avvenuto durante la rivolta di Gezi Park.
Cosa succederà adesso?
«Questa è una pratica ridicola. Ma quanto è successo è visto come una prova di quello che il partito al potere e il governo possono tentare di fare durante le elezioni. La maggioranza assoluta non è garantita per il Partito della Giustizia e dello Sviluppo. E il voto potrebbe terminare con un risultato non gradito per il presidente Erdogan. Bloccare i social media è uno dei modi per sbarazzarsi di controlli ed equilibri».
Gli utenti sono però riusciti ad aggirare il sistema. Una sconfitta per chi tenta di bloccarli?
«Sono riusciti a superare i divieti con altre misure elettroniche. E mentre Twitter era bloccato, il capo del principale partito di opposizione, il socialdemocratico Kemal Kilicdaroglu, twittava dicendo che la libertà di espressione non può essere limitata. Così, anche se ci saranno altre restrizioni, molti turchi sono pronti a sfidarle ».
Il premier Davutoglu ha tolto l’accredito ai media ai funerali del giudice ucciso parlando di “propaganda terroristica” per la pubblicazione della sua foto.
«Davutoglu non ha l’autorità morale e politica per farlo. Questa è stata la sua interpretazione sulla conduzione dei media e ciò non ha nulla a che fare con i fondamenti del giornalismo. Sostiene che la foto aiuta i terroristi attraverso una propaganda che vorrebbero fare. Questo non ha senso. Al contrario, mostra la loro aberrazione mentre puntano un’arma alla testa di una persona indifesa. Il governo ha fallito nell’operazione, terminata con la morte del giudice, e Davutoglu nasconde la sua responsabilità dietro l’azione andata male».
Quali sono per lei i motivi dell’attacco al pullman del Fenerbahce?
«E’ stata un’azione terribile, senza precedenti. Un lavoro da professionisti. Fino alle elezioni del 7 giugno ci saranno molti attacchi destinati a polarizzare il Paese e a pregiudicare il risultato del voto».
il Fatto 7.4.15
La scrittrice Yael Dayan
“Israele, Bibi porterà solo guerra”
di Gianluca Roselli


Netanyahu è un premier che non crede nella pace. Per questo motivo, per Israele, Bibi è una guida pericolosa”. Yael Dayan è la figlia di Moshe Dayan, il generale israeliano famoso per la benda sull’occhio sinistro che, da ministro della Difesa, guidò le truppe nella guerra del Kippur.
Una personalità controversa, quella del generale, che per buona parte della sua carriera politica e militare è stato considerato un “falco”, salvo poi smussare le sue posizioni negli ultimi anni di vita. Sua figlia Yael è una scrittrice e giornalista, da sempre in campo sul tema dei diritti civili. Anche lei in politica, è stata eletta per tre volte alla Knesset, il Parlamento israeliano.
Fra timori per l’accordo fra Occidente e Iran sul nucleare, e le minacce di nuove guerre contro Hamas nella Striscia di Gaza, è ancora Netanyahu a fornire le linee guida della politica di Tel Aviv: e i toni del primo ministro sono sempre molto preoccupati.
Signora Dayan, cosa ne pensa della vittoria di Netanyahu alle ultime elezioni in marzo?
Tutto il male possibile. Bibi ha vinto facendo leva sulle paure ancestrali del popolo israeliano, sul suo timore di perdere la Terra promessa, giocando sull’aumento della sensazione di pericolo. Ha preso molti voti tra le classi meno abbienti e poco istruite, quelle che hanno più paura del mondo arabo. Purtroppo i suoi avversari non sono riusciti a mettere in campo una proposta convincente.
Cosa accadrà ora?
Io sono pessimista. Innanzitutto temo una nuova avanzata dell’occupazione e dei coloni nei territori palestinesi, con tutte le conseguenze che ci si può immaginare. Israele invece dovrebbe ritirarsi dalla Cisgiordania. Inoltre temo un’altra guerra, a Gaza.
Dopo la vittoria elettorale, però, Netanyahu ha già smussato alcune posizioni…
Per fortuna sì, ma questo la dice lunga sul personaggio, pronto a tutto pur di prendere voti. E comunque Israele è una realtà troppo complessa per essere governata da un uomo che va avanti solo con gli slogan.
Bibi è in rotta di collisione anche con l’Amministrazione Obama e l’accordo con l’Iran ha messo altra benzina sul fuoco
Da tempo molti israeliani non percepiscono più gli Stati Uniti come loro protettori. E allora pensano: dobbiamo difenderci da soli. E votano Netanyahu. Senza capire che non è con la guerra o con le posizioni radicali che si può costruire la pace. E la pace per noi non è più un lusso, ma una necessità. La guerra, invece, è un gioco dove perdono tutti.
Netanyahu ha paragonato il leader palestinese Abu Mazen all’Isis.
Incredibile. I paesi arabi moderati temono l’Isis come l’Occidente. Ora sarebbe il momento di costruire un’alleanza tra Israele e i paesi arabi contro l’Isis. Ma questo al momento è impossibile per colpa del nostro premier, che non vuole alcun dialogo.
Si può ancora parlare di processo di pace con il popolo palestinese?
Assolutamente sì. Bisogna lavorare affinché tra i palestinesi si affermino posizioni moderate in modo da facilitare anche la possibilità di uno stato autonomo. Bibi invece ha tolto la speranza al popolo palestinese, che si sente sempre più oppresso. Ma su questo fronte anche Usa ed Europa dovrebbero far sentire più forte la loro voce.
Lei è figlia del generale Moshe Dayan. In Israele è finito il tempo dei militari in politica?
Credo di sì. Premesso che siamo sempre un Paese militarizzato, quando mio padre è entrato in politica erano altri tempi, all’epoca Israele era veramente minacciata, la sua esistenza era in pericolo. Quindi era più normale che un militare fosse anche un leader politico. Ariel Sharon, per esempio, è diventato addirittura primo ministro. Ma ora non ce n’è più bisogno. E infatti da tempo non si vede un militare in un ruolo politico di primo piano.
Corriere 7.4.15
«A Teheran c’è fiducia in Rouhani Qui nessuno crede più al nucleare»
La scrittrice Mohebali: i conservatori hanno subìto un duro colpo
di Farian Sabahi


«Di ritorno da Losanna, il ministro degli Esteri Zarif è stato accolto da un’esplosione di gioia che non mi aspettavo. Oggi c’è più fiducia nel governo Rouhani, finalmente raccogliamo i frutti del suo impegno in politica estera». Così commenta l’accordo sul nucleare Mahsa Mohebali, autrice del romanzo Non ti preoccupare , pubblicato in persiano poco prima delle proteste dell’onda verde del 2009. Quarantaquattro anni, capelli cortissimi sale e pepe, Mahsa racconta il disagio generazionale anticipando le rivolte represse nel sangue. E infatti «Abbiamo la città in pugno! Nostra è la città e la difenderemo! Costi quel che costi, non ci fermeremo!» diventeranno gli slogan dei giovani. Censurato ma solo all’undicesima edizione, il romanzo si trova facilmente al mercato nero, l’autrice non può pubblicare e firmare sceneggiature ma continua a vivere a Teheran.
Perché ci sono voluti dodici anni di trattative per un accordo?
«A ostacolare i negoziati sono stati i Sepah (le Guardie rivoluzionarie) e le Bonyad-e Mostazafan (le fondazioni religiose) che all’indomani della rivoluzione del 1979 hanno incamerato i beni — mobili e immobili — confiscati. Traggono vantaggio dalle sanzioni, esercitano un potere parallelo allo Stato, non pagano tasse né dazi e fanno affari importando beni di consumo attraverso Paesi terzi. Senza contare i soliti introiti che fanno delle fondazioni entità il cui budget supera quello del governo. Per esempio, la fondazione dell’imam Reza di Mashad fa affari vendendo parcelle di terra nei cimiteri vicino al mausoleo. Parcelle che gli arabi sciiti residenti nelle monarchie sunnite del Golfo pagano a peso d’oro, consapevoli delle persecuzioni nei loro confronti in patria».
Quali sono le aspettative sul fronte interno?
«Proprio perché la questione del nucleare e delle sanzioni si sta risolvendo, la gente si aspetta che la situazione all’interno del Paese migliori al più presto. Se il governo supererà anche questa prova, allora i conservatori subiranno un duro colpo e difficilmente potranno recuperare credibilità».
In che direzione va l’Iran di Rouhani?
«Sta spingendo per garantire maggiori libertà, anche culturali. Com’era successo con il riformatore Khatami, è contrastato dagli ultraconservatori ed è difficile prevedere l’esito di questo confronto».
C’è ancora consenso sul programma nucleare?
«No, la maggior parte degli iraniani è ormai contraria all’energia nucleare e solo una minoranza si illude che possa fare del Paese una grande potenza».
Quali conseguenze hanno avuto le sanzioni?
«La pressione delle sanzioni non ha colpito il governo ma è stata totalmente scaricata sulle classi più deboli. Incuranti della popolazione, i dirigenti della Repubblica islamica hanno investito all’estero, soprattutto in Libano e Siria, con l’illusione di diventare una potenza regionale. Nel frattempo in Iran i poveri sono allo stremo, la classe media si è assottigliata e i ricchi sono ancora più ricchi. Le sanzioni hanno permesso a una piccola élite di arricchirsi con il contrabbando attraverso la Turchia, l’Azerbaigian e gli Emirati Arabi. Questo passaggio attraverso Paesi terzi accresce il costo dei prodotti per il consumatore finale e così i prezzi aumentano, anche a causa dell’inflazione. È vergognoso che un Paese con tanto petrolio ed enormi risorse naturali abbia una popolazione affamata, solo a causa delle politiche sbagliate del governo».
Anche la diaspora è stata colpita dalle sanzioni?
«Sì, l’embargo bancario ha impedito a tante famiglie di inviare denaro ai figli che studiano all’estero».
In Iran i tassi di fertilità sono simili a quelli italiani — meno di due figli a donna. Che cosa pensa della recente proposta di legge per limitare la contraccezione?
«I conservatori vogliono fare dell’Iran la prima potenza del Medio Oriente e per questo hanno bisogno di un grande esercito sciita. Pianificano a lungo termine perché hanno bisogno di giovani da inviare nei Paesi in crisi, pensiamo al Libano e alla Siria. Soldati pronti a combattere e a farsi ammazzare».
Nel suo romanzo, ambientato a Teheran, i giovani non sono interessati alla guerra. Protagonista è Shadi, ossessionata dalla ricerca spasmodica di oppio. Scritto in prima persona, il libro non è piaciuto alla sua famiglia. Perché ha sentito il bisogno di scrivere del consumo di droga?
«Nella Repubblica islamica il consumo di droga non è reato e acquistarla, nelle sue varie declinazioni, costa pochissimo. Sembra che le autorità vogliano renderla accessibile affinché i giovani non pensino ad altro. Ma è assurdo che sia reato consumare alcol ed essere accompagnati da una persona di sesso diverso con cui non si è imparentati, mentre se si viene beccati strafatti non succede nulla».
Il leader Ali Khamenei ha 75 anni, corre voce sia malato di tumore alla prostata. In che direzione potrebbe andare l’Iran dopo di lui?
«Credo siano illazioni e comunque ad essere malata è la Repubblica islamica, poco cambia chi diventerà la prossima Guida suprema. Come afferma Hegel, la storia non è legata ad un solo uomo».
Il Sole 7.4.15
I Repubblicani cercano i nodi ma l’Obamacare funziona
di Paul Krugman


Una delle trame secondarie più peculiari della saga della riforma sanitaria negli Stati Uniti sono gli sforzi quasi patetici dei Repubblicani per inventare storie horror legate all’Obamacare.
Vista la complessità della legge e le risorse quasi illimitate a disposizione della macchina propagandistica, ero convinto che sarebbero riusciti a scovare qualche caso da sbandierare come personificazione dei terribili effetti della legge su americani innocenti.
Eppure non ho ancora visto un solo esempio credibile: tutti i casi usati nelle pubblicità dei fratelli Koch o nei discorsi di esponenti repubblicani riguardano persone che sarebbero potenziali beneficiari della riforma, se solo fossero disposte ad analizzare le opzioni effettive a loro disposizione.
La deputata repubblicana Cathy McMorris Rodgers, dello Stato di Washington, recentemente ha pubblicato su Facebook un appello a inviarle storie di disastri provocati dalla riforma sanitaria: è stata inondata da una valanga di testimonianze di persone che grazie all’Obamacare hanno ottenuto una copertura sanitaria e cure mediche importantissime.
Perché i Repubblicani non sono riusciti a scovare storie horror pur sapendo (perché loro lo sanno) che esistono? Matthew Yglesias su Vox coglie il succo della questione sottolineando che l’Obamacare, di fatto, ridistribuisce da pochi a tanti: «Una delle cose più importanti che fa è aumentare considerevolmente le tasse a scapito di un numero piuttosto limitato di individui ad alto reddito per garantire polizze sanitarie sovvenzionate a un numero notevolmente più ampio di individui a basso reddito», ha scritto il 26 marzo. «E questa è una delle cose che meno piacciono ai Repubblicani della riforma!».
Ma c’è anche qualcosina in più. Non sono solo i milionari che si trovano a pagare tasse più alte a essere danneggiati (almeno un po’) dalla riforma.
Se siete giovani e in buona salute (soprattutto se maschi) e vivete in uno Stato che prima della riforma non imponeva il community rating (il divieto per le assicurazioni sanitarie di imporre premi diversi – secondo fattori di rischio come l’età o le condizioni di salute – agli assicurati residenti in uno stesso territorio), è possibile che la vostra polizza prima costasse poco e che sia salita di prezzo dopo l’entrata in vigore della legge; e se oltre a questo siete anche benestanti non riceverete sussidi per acquistare la vostra assicurazione sanitaria. Insomma, qualcuno che ci ha rimesso effettivamente c’è.
Il problema per i Repubblicani è che sono il tipo di vittima sbagliato. Quello che cercano loro sono americani poveri, veraci, preferibilmente vecchi e con malattie costose, non maschi sani e ben pagati tra i venti e i trent’anni.
Ma il profilo della vittima ideale della riforma sanitaria di Obama coincide, quasi esattamente, con il profilo della persona che la riforma punta ad aiutare.
E l’incapacità del Partito repubblicano di tirar fuori autentiche storie dell’orrore è, a suo modo, una dimostrazione che la legge sta funzionando come previsto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 7.4.15
Il viaggio di Domenico Quirico alle origini del Grande Califfato
di Francesca Caferri


IL GIORNO in cui il progetto del Grande Califfato si palesò per la prima volta agli occhi di Domenico Quirico, poco lontano infuriava la battaglia: «Cristiano, tu non sai niente, il vero cambiamento è nelle mani di Dio — gli disse Abu Omar, l’emiro che lo teneva prigioniero in Siria — con l’aiuto di Dio noi spazzeremo via Bashar e uccideremo tutti gli alawiti, anche le donne e i bambini. Costruiremo, grazie a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria. Poi sarà la volta degli altri capi traditori, in Giordania in Egitto in Arabia. Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all’Asia». A quasi due anni da quelle giornate, parole che avrebbero potuto apparire visionarie paiono solidamente ancorate alla realtà: i compagni degli estremisti siriani che per cinque mesi tennero prigioniero Quirico hanno allargato il loro dominio, arrivando a conquistare mezzo Iraq e a minacciare la stessa capitale Bagdad. Alle loro gesta si richiamano lupi solitari come i fratelli Khouaci, autori della strage a Charlie Hebdo, e Man Haron Monis, che ha tenuto l’Australia con il fiato sospeso minacciando la strage in una cioccolateria di Sidney. Al loro capo, Abu Bakr al Baghdadi, giurano fedeltà i mujahiddin di mezzo mondo, dai Boko Haram in Nigeria ai guerriglieri che stanno frantumando la già fragile Libia alla Tunisia. Ne Il Grande Califfato Domenico Quirico ci guida dentro il “cuore di tenebra” di questa realtà che in pochi mesi ha spazzato via ogni residuo equilibrio mediorientale. Lo fa muovendosi sullo sfondo della geopolitica, ma dando al Califfato e ai suoi adepti un nome, un volto e delle ragioni: come quelle di Ayyub, ex combattente idealista che voleva cacciare Bashar al Assad ed è morto da islamista nelle fila dell’Is. Lo fa tornando nei luoghi dove tutto ha avuto inizio molti anni fa, la Cecenia e l’Algeria, e raggiungendo i nuovi confini dove la nuova realtà si sta imponendo, come la Nigeria a nord del decimo parallelo. E lo fa dando un nome e un volto anche alle vittime: fra tutti, i bambini cristiani di Erbil, che nei loro pochi anni di vita hanno già imparato cosa è la morte. Ne esce un quadro completo, con un unico difetto: quello dell’ineluttabilità. Ci sono, nelle terre del Califfato, tante persone che a rischio di tutto a questo disegno si oppongono. Sarebbe stato bello ascoltare anche la loro voce.
IL LIBRO Il Grande Califfato di Domenico Quirico (Neri Pozza, 16 euro)
Repubblica 7.4.15
Ayaan Hirsi Ali.
“I morti nelle scuole sono un orrore Il mondo ha bisogno di un nuovo Islam”
L’attivista è entrata nel mirino del fanatismo
“Nessun bambino nasce fanatico, tutto dipende dalle idee e da quale istruzione riceve
Ma c’è anche chi non si arrende come il blogger saudita condannato a mille frustate”
Dieci anni fa, quando partecipò al documentario “Submission”
Dopo la strage dell’università in Kenya, invita i musulmani a riformare il proprio credo: “Devono trovare il loro Illuminismo, in nome della libertà”
di Enrico Franceschini


LONDRA «SONO inorridita dall’attacco degli estremisti islamici somali contro gli studenti universitari in Kenya. Ed è per me la conferma che il problema del riformare l’Islam riguarda non un paese o una regione, ma ormai tutto il mondo». Ayaan Hirsi Ali, la 46enne attivista politica e scrittrice somala naturalizzata americana, è nel mirino del fanatismo islamico da un decennio, quando partecipò al documentario “Submission” del regista e suo amico olandese Theo Van Gogh. Nel 2005 un estremista musulmano olandese assassinò lui; da quel momento fu emessa una fatwa anche contro di lei, che da allora vive sotto scorta 24 ore al giorno. Ma le minacce non l’hanno fatta retrocedere. In una serie di libri diventati best-seller internazionali ha denunciato l’Islamismo e poi l’Islam nel suo complesso come una religione che fomenta l’odio e la violenza. Nel saggio pubblicato ora, “Eretica, cambiare l’Islam si può” (in Italia esce per Rizzoli), sostiene che la religione di Maometto necessita una grande riforma per ritrovare una vocazione moderata, tollerante e pacifica. Sposata con lo storico britannico Niall Ferguson, adesso Ali vive negli Stati Uniti con il marito e il loro figlio. «L’America e l’Europa rappresentano la libertà a cui tutti aspirano, nessun bambino nasce fanatico», dice al telefono dagli Usa.
Che effetto le ha fatto l’attacco degli estremisti islamici somali di Al Shabab contro l’università in Kenya, la strage di studenti che ne è risultata?
«Mi ha scioccato e inorridito. Il capo del gruppo somalo che ha condotto l’attacco è un classico esempio di quelli che nel mio libro definisco i “musulmani di Medina”: un giovane educato in Arabia Saudita, di buona famiglia, seguace di un’ideologia che riconosce una sola via di giustizia e purezza, quella di Maometto ».
Perché si ripetono sempre più spesso attacchi dell’Islam estremista contro musei, scuole, università?
«Perché è un tipo di Islam che riconosce una sola storia: la propria. Perciò vuole distruggere tutte le altre e, se potesse farlo, distruggerebbe ogni museo, ogni forma artistica, ogni università e centro di sapere sulla faccia della Terra».
Nel suo libro afferma che l’Islam si può, anzi si deve riformare: come?
«Propongo cinque emendamenti al credo islamico, in sostanza una separazione tra fede e politica, tra moschea e Stato e una rinuncia alla Sharia, poiché la peggiore legge laica è comunque migliore della legge islamica. Propongo di rispondere alla guerra santa con una guerra per la pace».
Questa è la teoria, ma chi dovrebbe combattere in pratica per una simile riforma?
«I dissidenti, che non mancano nel mondo islamico, come il ragazzo punito con 1.000 frustate in Arabia Saudita, o gli egiziani che marciavano contro i Fratelli Musulmani».
Ma il nuovo presidente egiziano Al Sisi è accusato di essere un dittatore.
«È un despota, ma va appoggiato in questa fase perché riconosce che bisogna cambiare l’Islam, e che questa è la priorità per vincere contro il fanatismo, altrimenti non ci sarà mai fine alla guerra».
Qualcuno obietta che anche l’Antico Testamento è un libro sacro che esorta alla violenza e alla guerra in nome di Dio.
«Sì, ma dopo l’Antico Testamento è venuto il Nuovo Testamento, che ha cambiato quel messaggio di violenza in un messaggio di pa- ce e amore. Ebbene io dico che il mio libro propone un Nuovo Testamento per l’Islam».
L’Islam è nato 700 anni dopo il cristianesimo e 700 anni fa anche i cristiani bruciavano gli eretici, le donne, gli scienziati, poi l’Europa ha avuto l’Illuminismo.
«Ma è proprio dell’Illuminismo che ha bisogno anche l’Islam, solo che io non penso servano 700 anni per colmare il ritardo, credo che basterebbero una o due generazioni. La Primavera Araba mi ha dato speranza. E poi chi pensava nel 1989 che l’Unione Sovietica sarebbe crollata? Chi credeva nel 1939 che il nazifascismo sarebbe stato sconfitto e sarebbe praticamente scomparso dal cuore dell’Europa? Quando un cambiamento si mette in moto può essere rapido e profondo».
Crede che la democrazia liberale sia la forma più evoluta del pensiero umano e potrà un giorno trionfare ovunque, dalla Cina alla Somalia?
«Credo che non ci sia niente di meglio della democrazia liberale. Credo che un bambino appena nato non sia già un fanatico musulmano, ma che tutto dipenda dalle idee e dall’istruzione che riceve. Non sono una utopista, so che l’uomo può scegliere il bene o il male e che entrambi vivono dentro di lui. Tuttavia non credo che i diritti umani e la libertà vadano bene solo per gli occidentali. Li chiamiamo diritti umani perché riguardano tutti gli esseri umani, di ogni colore, nazione, religione ».
Cosa ha provato dopo l’attacco a Charlie Hebdo?
«Orrore e anche rabbia, perché quel giornale e i suoi redattori erano già stati minacciati altre volte. Se fossero stati protetti meglio, forse non sarebbero morti».
Cosa risponde a coloro che accusano Charlie Hebdo di avere esagerato con le vignette, di avere sbagliato a insultare una religione?
«Non apro una discussione con chi ha tesi simili. Sarebbe fiato sprecato. Basta leggere i proclami degli islamisti per comprendere che il loro odio non è una riposta a quello che fa l’Occidente, ma un programma che nasce dalla visione di un Islam che vuole riportare indietro il mondo, verso oscurantismo e barbarie ».
E lei non ha paura?
«Io ho paura da più di dieci anni, ma non per questo chiudo la bocca. Il mio amico Theo Van Gogh è morto e io sono viva solo perché lui non aveva protezione e io ce l’ho 24 ore su 24. Tutto qui. Ma spero che un giorno non sarà più necessario proteggere qualcuno minacciato solo per le sue idee di libertà, pace e tolleranza».
Il Sole 7.4.15
Se Tsipras è tentato dal «centro»
di Vittorio Da Rold


La Ue starebbe facendo pressioni su Atene perché Alexis Tsipras diventi un «premier e non il leader del partito radicale di Syriza». In altre parole affinché il premier greco scarichi le frange più estreme di Syriza e apra a una coalizione centrista che possa accettare un compromesso sulle riforme che prevedano altri tagli sociali e sacrifici in cambio dei 7,2 miliardi di euro in sospeso da agosto.
Molti rappresentanti dell’Ue avrebbero suggerito in conversazioni private, - riporta il Financial Times - che solo una decisione di Tsipras di «abbandonare» l’ala dell’ultra sinistra del suo partito Syriza potrebbe rendere possibile un accordo. L’idea che circolerebbe è quella che Tsipras formi una nuova coalizione con il tradizionale partito di centro sinistra Pasok, e con il nuovo partito di centro sinistra To Potami, contro cui si è battuto nelle elezioni di gennaio. Per Syriza To Potami, invece è una formazione che non accetterebbe di combattere gli interessi consolidati, soprattutto nel settore delle licenze dei media televisivi. Anche l’ex premier Antonis Samaras di Nea Dimokratia, si è detto pronto a sostenere un governo di unità nazionale per ottenere
i prestiti.
Le voci di intervento di Bruxelles stanno rinfocolando le polemiche sul rapporto tra il rispetto della volontà nazionale, espressa nel voto, e gli obblighi con i creditori e gli organismi europei. Panagiotis Lafazanis, l’esponente della sinistra di Syriza, ha detto che ogni cedimento del governo verso le richieste di politiche di austerità sarebbe l’equivalente di un «suicidio politico» di Syriza. Anche sul tema della privatizzazioni si assiste a una cacofonia di voci nell’esecutivo: prima la vendita del porto del Pireo è stata bloccata, poi è stata riaperta, infine si è parlato di joint-venture e oggi forse neppure di quella. Il bastione del sindacato dei marittimi, il porto del Pireo, è l’esempio della confusione che regna nel governo, dilaniato tra il rispetto delle promesse elettorali e le casse vuote.
Anche il ministro Varoufakis è entrato nel dibattito: «L’approccio nei confronti del nostro governo, sul tema della liquidità, è diverso rispetto a quello verso il precedente. Questa politica di discriminazione minaccia il principio di non intervento da parte delle istituzioni negli affari nazionali degli Stati membri Ue». Varoufakis ha anche smentito l’ipotesi di dimissioni. «Il ruolo di ministro delle Finanze è in mezzo tra il parafulmine e la sedia elettrica».
Il ministro greco, in realtà, sta trattando con l’Fmi sulla possibilità di rinviare a tempi migliori due temi più spinosi da far digerire alla sinistra di Syriza: un nuovo taglio alle pensioni sul tema dei prepensionamenti e il passaggio accelerato dal sistema retributivo, che ancora sopravvive in alcuni fondi speciali, a quello contributivo; un rinvio alla “calende greche” dell’annunciato aumento del salario minimo. Abbassare i toni e prendere tempo con i creditori sarebbe la strategia vincente per Syriza.
La Stampa 7.4.15
“Atene cambi governo”
Pressing Ue ma Tsipras apre a Russia e Cina
Bruxelles punta a un rimpasto dell’esecutivo greco
di Tonia Mastrobuoni


Alla vigilia di una settimana complessa, che culminerà con il vertice con Putin a Mosca, il premier greco Alexis Tsipras affronta un nuovo guaio, stavolta politico. Citando fonti governative europee, «inclusi alcuni ministri delle Finanze», il Financial Times sostiene che starebbero aumentando le pressioni sul premier perché stravolga la composizione del suo governo, sostituendo la minoranza di sinistra di Syriza con formazioni più moderate come i socialisti del Pasok e il partito centrista To Potami. La verità è che si tratta di un’idea vecchia: tre giorni dopo le elezioni del 25 gennaio, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz fu il primo politico europeo ad andare ad Atene. Secondo fonti governative greche, il tedesco suggerì la stessa cosa a Tsipras, che si era appena alleato con il partito di destra Anel, guidato da Panos Kammenos.
In quel momento, Tsipras respinse con forza quell’ipotesi: nella Grecia divisa ormai da anni in partiti pro- e anti “memorandum”, come è definito il piano di riforme e tagli imposto dalla Troika, e dopo un governo, quello di Samaras, di grande coalizione tra socialisti e conservatori, i greci si sono schierati soprattutto pro e contro l’austerità, molto meno per la destra o la sinistra, alle ultime elezioni. Pasok e To Potami sono due partiti “pro”, Syriza il partito che aveva impostato l’intera campagna elettorale “contro”. Ecco perché è stato naturale per Tsipras allearsi con la destra di Kammenos e molto meno con un partito come quello di Venizelos o di Theodorakis, sulla carta più vicini, ma identificati, in Grecia, con le vecchie oligarchie.
Ora che la minoranza di Syriza, capeggiata dall’ex anti euro Panagiotis Lafazanis, sta minacciando di non votare le riforme che potrebbero essere concordate con il Brussels group, Tsipras ha effettivamente un problema. Ma prima di tradire il mandato elettorale in modo clamoroso, coalizzandosi con il principale avversario della sua campagna elettorale, il Pasok, cui è riuscito oltretutto a sfilare milioni di voti promettendo di fare l’opposto di quanto fatto dai socialisti negli ultimi cinque anni, ce ne vuole.
L’unica certezza, al momento, sono le scadenze. Il 9 aprile Atene deve rimborsare 458 milioni di euro al Fondo monetario internazionale, mentre 1,4 miliardi di euro di titoli scadono il 14 di questo mese. Secondo indiscrezioni, se la Grecia riuscirà a rimborsare queste cifre, avrà difficoltà a pagare stipendi e pensioni, ad aprile. Intanto, il leader di Syriza si sta muovendo su fronti alternativi a quello europeo, per incassare denaro. Lo sblocco recente della privatizzazione del Pireo, cui è interessata la cinese Cosco ma che era stata congelata subito dopo le elezioni di gennaio, ha indotto Pechino a investire 100 milioni in bond ellenici. La scorsa settimana, il vicepremier Yannis Dragasakis è tornato ad Atene dalla capitale cinese con la promessa di altri acquisti di titoli a breve.
L’altra opzione che preoccupa Bruxelles e Berlino, è che Tsipras cerchi una maggiore vicinanza con Putin. Un’opzione che rischia di avere anche ripercussioni pesanti sul dossier ucraino. Sin dal suo insediamento, il governo Tsipras ha espresso riserve sulle sanzioni contro la Russia. Ma in un’intervista dei giorni scorsi all’agenzia russa Tass, il premier ellenico si è detto contrario alle restrizioni economiche imposte a Mosca: colpirebbero l’export greco.
Il Sole 7.4.15
Le biblioteche: il futuro del libro
Il crepuscolo di un certo modo di conservare
di Armando Torno


In che situazione si trovano le biblioteche? Riescono ancora a giustificare economicamente la loro esistenza? Hanno un futuro o sono destinate a trasformarsi in banche informatiche? A tali domande è possibile replicare con numerose risposte, di certo la loro crisi – soprattutto in Italia - è facile avvertirla. Quando si incontra un direttore, anche di raccolte celebri, subito vi ricorda che i tagli alla cultura di questi ultimi anni hanno reso difficoltosi persino gli acquisti degli aggiornamenti di talune opere; sovente mancano i soldi per conservare il patrimonio antico con i necessari interventi di restauro; i bilanci si fanno magri, quasi agonici. E altre amenità simili. Anche grandi progetti per le biblioteche del futuro, così presenti un quindicennio fa, sono stati appesi all’attaccapanni delle speranze e se ne parla con i verbi al condizionale. Il genere è destinato all’estinzione, come i dinosauri?
A tale quesito risponde un libro di Virgile Stark, autore con oltre dieci anni trascorsi alla Biblioteca Nazionale di Francia: “Crépuscule des bibliothèques” (Edizioni Les Belles Lettres, pp. 212, euro 17). Il titolo evoca il latino “crepusculum”, derivato di “creper”, il quale altro non significa che “oscuro”, “alquanto buio”. Nell’uso figurato il termine indica la fase declinante di un fatto; insomma il tramonto, la fine. Del resto, Stark presenta senza colpi di tosse la sua tesi: “L’autodafé simbolica è cominciata. La notte cala sullo spirito. Una barbara fornace si alza nello smorto orizzonte della cultura. I libri bruciano. I nostri libri”. O meglio, egli specifica più avanti, le biblioteche stanno per essere trascinate via dell’onda numerica, o quanto meno sostituite con “iperluoghi”, “biblioteche 2.0”, “learning center” e cose simili. I “templi del sapere” – sottolinea Stark – non ci sono più; meno che mai qualcuno oserebbe ancora parlare di “guardiani del libro”. Ormai si incontrano soltanto dei “tecnici rabbiosi” (utilizza proprio l’aggettivo “enragés”), tra l’altro “becchini della loro eredità”. Insomma, il funzionario-scrittore della Bibliothèque nationale de France utilizza un linguaggio pesante per dire che i barbari sono ormai dentro le grandi raccolte librarie dell’umanità e intendono sterilizzarne le secolari emozioni; anzi, le “troupes èlectrogènes” intente a “dematerializzare”, lasceranno soltanto la possibilità di “costruire un’arca”. L’immagine, presa in prestito dalla Bibbia e a quanto accadde con Noè nei giorni del diluvio universale, non ha bisogno di spiegazioni.
In margine al pamphlet di Virgile Stark va detto che i costi economici delle biblioteche tradizionali sono sempre meno sopportati in Occidente e, soprattutto in Italia, non manca mai un’occasione per tosarne i contributi. D’altra parte, l’informatizzazione crescente e la possibilità di accedere a banche dati sempre più vaste ha messo in crisi non soltanto le istituzioni tradizionali dette biblioteche ma l’idea stessa che per secoli è rimasta immutata. Le grandi raccolte aziendali italiane sono già state smantellate agli albori della rivoluzione informatica e non pochi archivi pubblici si trovano sovente nell’impossibilità di pagare anche le spese ordinarie.
Certo, Stark utilizza immagini non lievi. Affermare, per esempio, che “l’autodafé simbolica è cominciata”, significa sostanzialmente denunciare con questo termine dell’Inquisizione spagnola - avveniva con un corteo nel quale si consegnavano alla giustizia secolare i relajados o condannati a morte – che è stata decretata la fine della biblioteca tradizionale. Non si tratta di un incendio, come quelli che colpirono grandi raccolte in ogni periodo della storia, ma del “crepuscolo” di un modo di conservare e trasmettere il sapere.
Il saggio di Stark è utile anche per capire che il futuro del libro si slega ormai alle regole tradizionali. Sino a qualche anno fa era il mezzo di comunicazione privilegiato della cultura, ora ne fa semplicemente parte. La sua durata diventa sempre più breve, la sua importanza ha perso peso specifico. Alcune riviste, soprattutto di carattere scientifico, non sono più confezionate con la carta ma vivono in abbonamenti Internet. E così è (e sarà) dei repertori, dei dizionari, delle enciclopedie. All’Università Cattolica di Milano si sono realizzati lessici avanzatissimi su Platone, Aristotele, Stoici, Plotino (e ora su Stobeo) in un numero di copie che stanno sulle dita delle mani perché sono state stampate artigianalmente su richiesta; l’ingente lavoro, coordinato da Roberto Radice, è in una banca dati elettronica che può essere messa a disposizione della Rete. Il futuro della cultura, insomma, non ha più il cuore antico del libro.
il Fatto  7.4.15

Diego Novelli
La stella polare (rossa)
“Essere compagni è un tormento Ma non mi pento: io resto comunista”
intervista di di Silvia Truzzi


Giornalista a l’Unità, sindaco di Torino per un decennio durante gli anni di piombo, deputato per quattro legislature: falce, martello e ricordi DIEGO NOVELLI è nato a Torino il 22 maggio 1931. Nel 1950 entra all’Unità, di cui nel 1961 assume la direzione della redazione piemontese. Ha fondato (nel 1972) e diretto la rivista Nuova Società, è presidente dell'Associazione L’Altraitalia che nell’88 ha promosso la nascita del settimanale Avvenimenti. È stato direttore editoriale del settimanale La Rinascita della sinistra. Nel 1975 viene eletto sindaco di Torino, carica che ricopre fino al 1985. Dal 1979 al 1982 è stato presidente della Federazione mondiale delle città unite, che riunisce i sindaci dei cinque continenti. Eletto al Parlamento europeo nel 1984, dal 1987 al 2001 è stato deputato della Camera per quattro legislature. È stato membro del Comitato centrale del Pci fino allo scioglimento del partito. Nel ‘91, con Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, Claudio Fava, Alfredo Galasso ha dato vita al movimento politico e culturale La Rete.
Pensi: vai a casa di uno dei pochi comunisti rimasti in circolazione e ti aspetti almeno di vedere una falce e martello, un ritrattino di Gramsci... Invece no: qui ci sono tantissime madonne e cristi di legno. Di tutte le misure: sarebbe la gioia del Don Camillo di Giovannino Guareschi. “Ho la passione per le vecchie statue lignee”, spiega Diego Novelli con la testa ancora china su un articolo che sta ultimando per Nuova società. “In giro si trovano soprattutto immagini sacre. La religione non c’entra”. Sul grande tavolo Ritratti, volti del mio Novecento, il libro uscito per Melampo. E già le bozze del prossimo Testimoni del nostro tempo.
C’era una volta l’età dell’oro, una famiglia che “stava molto bene: aveva una villa, la Balilla con l'autista. E la governante, si chiamava Ultimia... Ah e poi l’ombrellone sulla spiaggia di Pietrasanta: mio padre era direttore generale dello stabilimento di una società belga”. Ma sono gli anni bui del Regime e quindi c'è anche un nonno socialista ammazzato di botte dai bravacci con le camicie nere, e un papà che perde molti lavori perché si rifiuta di prendere la tessera del Pnf. “È lì – racconta il padrone di casa – che comincia un’epoca di povertà, di dignitosa miseria. Ed è lì che nasco io. Mia madre comincia a lavorare per le forniture militari. Aveva tirato fuori dalla soffitta la macchina della nonna, la Singer, e si era messa a cucire le divise per i soldati. Mi mettevo vicino a lei, con le forbici, a tagliare i pezzi. Intanto mio padre non può più entrare nei locali pubblici. E incomincia a frequentare l'oratorio dei Salesiani, dove c'era una filodrammatica per soli uomini. Un prete, don Provera, gli trova un posto da manovale al vecchio ospedale San Giovanni, a impalare carbone dentro le caldaie. E va avanti così, fino al ‘41. Però nell'oratorio ci ritroviamo tutti, perché eravamo quattro ragazzi. Walter era effettivo seniores, Ezio era degli effettivi juniores. Così come io, a scuola, ero Figlio della Lupa, Alfio era Balilla, Ezio era Avanguardista”.
Che ricordi ha del Fascismo?
Quando arrivava qualche gerarca importante, un giorno prima veniva un questurino a casa mia. Era tanto una brava persona, mia madre gli offriva il caffè e poi preparava la borsa con il pigiama e le ciabatte. Portavano papà al commissariato nella camera di sicurezza, perché era catalogato ‘sovversivo’. Lui li chiamava ‘quelli dal pulàst’ perché avevano quell’aquila dorata, schiacciata sul cappello, che sembrava un pollo. Nel ‘41 improvvisamente la miseria si attenua un po’. Mio papà trova lavoro al silurificio di Rijeka, a Fiume. Una volta ogni tre settimane tornava a casa con ogni ben di Dio. C’era il tesseramento: non c’era lo zucchero, non c’era la pasta, non c’era l’olio... non c’era il sale! Arrivava con una valigia strana, fatta di fogli di compensato e tutta sigillata con la ceralacca, con un cartellino ‘Arsenale Militare di Torino, Piazza Borgo Dora - Vietato aprire’. Papà passava tutti i posti di blocco della Polizia annonaria. Lì siamo risorti...
Poi nel 42 vi bombardano casa.
Era l’8 dicembre. Il nostro palazzo aveva le cantine e gli infernotti, che erano diventati il rifugio di tutto il quartiere perché era un posto sicuro. La bomba ha centrato l’angolo dell’edificio: calcinacci, urla, feriti e qualche morto. Una cosa bestiale, un inferno. Mi ricordo la polvere, i pezzi della volta a botte. Io sono stato il primo a uscire, perché ero mingherlino. Dal cortile sono andato in strada, dove c’era tutto un bordello di pompieri e poliziotti. Hanno sgomberato le scale che si erano riempite di macerie e hanno liberato tutti. Noi ragazzi siamo andati a raccogliere gli infissi che lo spostamento d’aria aveva staccato dai balconi e dalle finestre. Abbiamo fatto un grande falò e ci siamo riscaldati così, fino al pomeriggio tardi. Poi è arrivato mio zio, il fratello di mia madre, a vedere cosa era successo, se eravamo vivi. Ci ha portati a Lombardore, dove lui abitava, a 18 chilometri da Torino. Facevo su e giù da Torino tutti i giorni per andare a scuola. In bicicletta o in treno.
Che succede dopo la guerra?
Torniamo a Torino. All’oratorio, un giorno, un prete chiede a me e a un altro ragazzino di andare a vendere dei libri usati. Prendiamo il tram numero 20 e scendiamo in Piazza Castello con una valigia pesantissima. Ma il negozio è chiuso. E allora la scelta di una fermata del tram decide la mia vita. Il mio amico voleva andare a prendere il tram in Piazza Castello, ma io avevo insistito per andare alla fermata di via Po che era più vicina. Mentre siamo lì ad aspettare, di fronte a noi vediamo la vecchia libreria Gissi. E in vetrina un cartello ‘Compriamo libri usati’. Ci siamo fiondati dentro e abbiamo cominciato a trattare con il padrone. Si chiamava ragionier Momigliano. Alla fine mi dice: ‘Ragazzo, verresti a lavorare da noi durante l’estate’? Sono andato e poi, siccome erano contenti di me, un giorno il padrone ha chiamato mia mamma e le ha detto: ‘A noi piacerebbe tanto che Diego rimanesse. Gli paghiamo la scuola privata serale’. Così son rimasto lì a lavorare e sono andato a scuola di sera. Poi ho trovato lavoro in un’altra libreria famosa di Torino, l’Internazionale Treves. Mi piaceva moltissimo, perché c’erano libri rari ed era ben frequentata. Per esempio Cesare Pavese veniva sempre da noi.
Che tipo era Pavese?
Uno che rompeva un po’ l’anima perché mi buttava sempre all’aria il bancone delle riviste. La nostra era l’unica libreria di Torino che teneva tutte le pubblicazioni internazionali: dal Krokodil russo ai periodici americani... Pavese è morto proprio nelle mie ultime settimane di lavoro lì. Ero un fanatico di Pratolini, il mio idolo. Poi leggevo tantissimo, durante la giornata, quando in negozio non c’era nessuno... Comunque Pavese mi consigliava di variare le letture. Intanto con i suoi libri, ovviamente. Ma i romanzi di Pavese non mi entusiasmavano, l’ho letto meglio dopo.
Era già comunista?
Nel ‘45 mi ero iscritto al Fronte della Gioventù, dove erano presenti tutte le forze politiche del Comitato di Liberazione: l’avevano fondato Eugenio Curiel ed Enrico Berlinguer. I miei fratelli erano stati partigiani ed erano comunisti. Nel ‘48 avviene la rottura con l’oratorio.
La scomunica dei bolscevichi sovversivi?
Con un gruppo di amici iscritti al Fronte della Gioventù, vediamo che una domenica, prima della messa, vengono distribuiti dei volantini per la Democrazia cristiana: ‘Votate Gioacchino Quarello’, direttore del Popolo Nuovo. La domenica dopo senza dir niente, andiamo lì con i volantini del Fronte popolare, comunisti e socialisti che si presentavano alle elezioni sotto il simbolo di Garibaldi. Don Zanantoni, il direttore dell’oratorio, sale sul pulpito e ci arringa per nome, ‘giovani depravati’. Apriti cielo: c’invita a lasciare i banchi, con mia madre, terziaria francescana, che piange a dirotto.
Quando comincia a fare il giornalista?
Nell’estate del ‘50, quando scoppia la guerra in Corea: due giorni prima avevo ricevuto una telefonata da Celeste Negarville che era uno dei dirigenti del Pci cui poi ci saremmo molto legati. Intendo noi che nel ‘56 esprimemmo riserve sull’aiuto ‘fraterno’ dei carri armati sovietici al popolo ungherese. A Torino in sei abbiamo firmato un documento, scritto al tavolino di Pollastrini, il ristorante che stava di fronte alla redazione de l’Unità. Con me c’erano Italo Calvino, Paolo Spriano, Gianni Rocca – che poi è diventato vicedirettore di Repubblica – Adalberto Minucci, futuro membro della segreteria del partito, e Luciano Pistoi, il critico d’arte. C’era stato l’assalto alla redazione dello Szabad Nép, l’Unità ungherese. Qualche compagno – i primi della classe, quelli che dopo si sono “scongelati” – diceva ‘noi siamo col mitra davanti alla sede dello Szabad Nép per sparare contro gli insorti fascisti e agli amici cardinale Mindszenty! ’. È stato Negarville a esprimere riserve in direzione con Giuseppe Di Vittorio. Mentre il buon Pietro Ingrao, al quale ho mandato un telegramma adesso per i suoi cent’anni, aveva pubblicato il famoso articolo di fondo sull’Unità, ‘Da che parte stare’.
Torniamo al suo esordio all’Unità.
Negarville mi chiama e dice: ‘Diego, sei l’unico compagno che abbiamo sul mercato librario di Torino. Dobbiamo chiudere la libreria dell’Unità di via Roma e portarla dentro la sede del giornale: dovresti venire a dirigerla’. E io, quando il partito chiama... A un certo punto, qualche tempo dopo, mi dicono: ‘Non potresti il pomeriggio buttare un occhio sull’archivio del giornale? ’. È stato il più bel lavoro che ho fatto: avevo il mondo in mano. L’archivio – pensa alle cose della vita – era confinante con la stanza della cronaca cittadina: ‘Diego, non potresti fare un giro in bicicletta? ’. Stavo due ore in archivio il pomeriggio e poi con la bici facevo il giro dei commissariati. Ho cominciato con la cronaca nera. Il primo articolo firmato in terza pagina, è del luglio ‘51. S’intitolava: ‘Scelba ha paura di Berlino’. C’era il festival internazionale della gioventù democratica e Scelba non voleva dare i passaporti ai giovani italiani...
Quando comincia a occuparsi di politica?
Dopo la nera ho iniziato a fare la sindacale. Dopo, la giudiziaria e nel ‘55 mi hanno messo a fare la politica, in modo particolare il Comune, la cronaca delle sedute. Nel ‘60 mi chiedono: ‘Potresti candidarti al consiglio comunale? ’. Tieni conto che ho sempre avuto una strana posizione. Non ero proprio un funzionario di partito a tempo pieno. Cioè, ero un battitore libero. Di fatti dicevano ‘Eh, ma Diego non è un dirigente politico, l'è un giurnalè’... per sfottermi, no? Così inizia la mezzadria con la federazione del Pci, perché io non ho mai lasciato il giornale. Adesso devo dire che mi fa tristezza l’Unità chiusa... Ma hanno ragione quelli che dicono che, se riapre, bisogna togliere Gramsci dalla testata.
Nel ‘75 diventa sindaco.
Anche lì per sbaglio. Mi chiedono di fare il capolista, visto che ero già capogruppo. Io dico ‘Sì, ma sappiate che fra sei mesi mi dimetto perché non ne ho più voglia’. Correvo il rischio che in municipio gli uscieri mi scambiassero per una suppellettile e mi togliessero la polvere: cinque anni come cronista, tutti i giorni lì e poi dal ‘60 al ‘75 consigliere comunale.
Lei ha scritto reportage da tutto il mondo.
Mi prendevo delle pause. Allora funzionava così: ti chiamavano e ti dicevano parti e vai in Giappone. Mentre sei in Giappone, per risparmiare, fai un salto in Australia. Si dà il caso che in Giappone era estate, in Australia era inverno. Tortorella, che era il mio direttore allora, mi telefonò: ‘Diego comprati un maglione, vai in Australia che ti aspettano i compagni immigrati lì, e ci fai un’inchiesta sui lavoratori italiani’. Nel ‘71 sono stato due mesi in Sicilia, con Berlinguer perché si era ammalato il resocontista ufficiale. Non il ghostwriter perché Enrico non si è mai fatto scrivere i discorsi. Però aveva un giornalista, Ugo Baduel, molto bravo che lo seguiva.
Parliamo di Berlinguer.
Una persona eccezionale, lo dico sottovoce perché non mi vorrei far prendere da questa mania del pantheon, delle figurine. Enrico era esattamente il contrario della personalizzazione, della mitizzazione. Anche se quella malalingua che era un altro mio grande amico, Giancarlo Pajetta, diceva: ‘Si è iscritto da bambino alla segreteria del partito’. Anche Giancarlo aveva grande stima di Berlinguer, ma aveva sognato di fare lui il segretario... Era proprio negato, Pajetta, a fare il segretario.
Premier e ministri, i nuovi dirigenti del Pd
sono i nipotini di Berlinguer?
Ma dove sono gli eredi di Berlinguer? Dammi un nome. Uno. Mi fa tristezza anche il modo in cui si comportano tra di loro, si rimangiano le dichiarazioni. Berlinguer diceva: ‘Se il giorno dopo devi spiegare quello che hai detto, vuol dire che hai sbagliato’. Questa classe dirigente mi preoccupa, mi angoscia. Non ho nostalgia, perché considero la nostalgia un disvalore. Ho memoria però, che è una cosa diversa. E questi la memoria dove l’han messa? Presa e gettata nel cestino? Sarà davvero tutto da buttare, tutto da rottamare?
Ritorniamo al 1975.
Eh, succede il patatrac del 15 giugno. Noi vinciamo le elezioni: trenta consiglieri del Pci e undici dei socialisti. Un seggio di maggioranza. Sono andato avanti cinque anni con un seggio di maggioranza. Se c’era uno con l’influenza ero finito. La sera dei risultati era tutto un gridare: ‘Diego sindaco, Diego sindaco’. Ero terrorizzato, poi io somatizzo tutto, mi piglia il reflusso, mi è venuta anche l’ernia iatale lì. Avevo la nausea. Mi sono perfino augurato un malore, non grave, come via d’uscita.
Si trova ad affrontare una situazione disastrosa in quegli anni...
Il bilancio del Comune era in passivo, al contrario del pareggio che avevano presentato per anni: i conti erano un disastro, feci subito l’inventario della città. Ci volevano centinaia di milioni per fare tutte le cose necessarie, e dove andavo a prenderli? I primi mesi non avevo i soldi per pagare i tranvieri, per pagare i vigili urbani. Abbiamo fatto dei mutui.
Mi riferivo alla situazione politica, però.
Torino in quegli anni era una polveriera: qui il terrorismo aveva messo le sue radici. Tutte le mattine uscivo di casa e non sapevo cosa mi aspettava. Tutti i giorni c’era un gambizzato, un attentato, un incendio in una fabbrica, un blocco stradale.
Qualche anno dopo poi la Fiat comincia a licenziare.
Già, ho vissuto anche la marcia dei quarantamila. Che anni!
Com’erano gli Agnelli?
Erano due persone completamente diverse, Gianni e Umberto, e secondo me Umberto ha del credito nei confronti di Torino e anche nei confronti della famiglia. L’Avvocato era tutto scoppiettante, non ti lasciava mai parlare. Ti invitava, perché voleva sapere, conoscerti... poi parlava sempre lui. Umberto invece aveva capito molte cose. Nella stanza di là abbiamo fatto una riunione, riservatissima, con lui, Luciano Lama, e il segretario della Camera del Lavoro di Torino, Emilio Pugno. E lui mi aveva mandato due giorni prima un documento, che conservo: 14 cartelle dattiloscritte. Provavo a far dialogare la Fiat con la sinistra: non mi riuscì.
Che pensa dei sindaci della sinistra dopo di lei, per esempio Fassino e Chiamparino?
Chiamparino è uno un po’ spregiudicato, un filino di cinismo in lui c’è... Poi è una persona intelligente, è uno della squadra che abbiamo allevato. Fassino, Chiamparino... li abbiamo allevati tutti noi, io, Pecchioli e Minucci. Fassino è un generoso, è un lavoratore instancabile. Anche se quando uno dichiara ‘non sono mai stato comunista’... O, come ha detto in un’intervista ‘mi sono iscritto al Pci per combattere il comunismo’... E Veltroni che afferma ‘non mi sono iscritto al Pci, mi sono iscritto al partito di Berlinguer’. Dico: ma Berlinguer cos’era, il presidente della Confraternita di San Vincenzo?
Perché comunista è diventata una brutta parola? E non penso a Berlusconi.
È stata stuprata dal socialismo reale, da milioni di morti. Noi da ragazzi sognavamo il socialismo, poi abbiamo visto cos’era la realtà: il socialismo reale. Tant’è che, nei primi anni Sessanta, mi rifiutai di andare a fare il corrispondente a Mosca, su proposta di Mario Alicata. Per un giornalista dell’Unità andare a Mosca era come per un prete andare in Vaticano.
In Italia l’esperienza del Partito comunista non è stata una storia di gulag e dittatura. Non è stata certamente sinonimo di quelle porcherie lì!
Però i rapporti con la Russia sono stati più che equivoci...
Lo abbiamo ampiamente ammesso. Gianni Cervetti l’ha scritto che prendevamo dei soldi. Come gli altri li prendevano dall’America, del resto. Ricordo una riunione del comitato centrale: io sono seduto nelle prime file, si discute del finanziamento pubblico ai partiti. Ero contrario, Berlinguer viene a saperlo. Quando entro nel salone al quinto piano del comitato centrale, mi manda Armando Cossutta. Che mi dice: ‘Sai, Enrico voleva chiederti se puoi evitare di sparare contro il finanziamento pubblico... ’. ‘Ma io la penso così, Armando. Non so... ’. ‘Enrico mi ha chiesto di farti sapere che noi in questo modo ci liberiamo da vecchi legami, e te lo dice uno che questi legami li ha coltivati personalmente per molti anni’.
Lei è ancora comunista?
Perché non dovrei? Non ero comunista perché avevo la tessera in tasca, oggi non sono un non comunista perché non ce l’ho più. Mi sento un vedovo, anche se una volta mia moglie mi ha pregato di usare un’altra metafora...
... lo sa che in città dicono, ancora oggi!, che a Torino ci sono molti Rom perché lei aveva una moglie Rom?
Ma sopravvive ancora, questa leggenda? Ovviamente è una sciocchezza. Il fatto è che la nostra amministrazione aveva regolamentato i campi. C’era un posto di blocco: chi entrava doveva dare i documenti e se non li aveva glieli facevano all’istante, comunicando che da quel momento non poteva più cambiar nome come spesso facevano. Ho messo anche le docce.
Non ha risposto: che vuol dire oggi essere comunisti?
Credere nei valori dell’uomo. Ti racconto un altro aneddoto. Una sera avevo un appuntamento in Curia, con una grande personalità, un uomo eccezionale, il professor Pellegrino, il cardinale. Un uomo dal volto ieratico, sembrava Buster Keaton. Io ero un po’ giù in quel periodo. E mi lascio scappare: ‘Non ne posso più, se potessi pianto lì tutto. Lei ha la fede, io non ce l’ho più’. Lui mi guarda con uno sguardo feroce e risponde: ‘Lei pensa che la fede sia una cosa così banale? Guardi che la fede è un tormento, perché tutti i giorni le chiede delle verifiche sul campo. E poi non è vero che lei non crede in Dio. Se la ricorda la proprietà transitiva? A è Dio, B sono gli uomini, C è lei: C dice che non crede in A, ma dice che crede nei valori dell’uomo, cioè in B. L’uomo è Dio, perché fra i valori dell’uomo c’è Dio. Lei crede nei valori dell’uomo, nella solidarietà, nell’onestà, nell’uguaglianza. E questi sono i principi che ritrova nel Vangelo. Se la veda un po’ lei’. Hai capito, che roba?
Anche essere un comunista è un tormento?
Certo, soprattutto quando vedi certe cose fatte da gente che si qualifica comunista.
L’altra Chiesa...
Ma guarda che la caricatura del Pci come mostro noioso, serio, monolitico non corrisponde al vero. Le sezioni erano posti da frequentare anche la domenica sera, per ballare. Alle 23 la musica s’interrompeva per un breve ‘richiamo politico’. Un discorso, la solidarietà ai lavoratori di una fabbrica in crisi o una lotteria. Il biglietto all’ingresso dava diritto a un’estrazione a premi. Vincevi libri o abbonamenti a Vie nuove. Le sezioni del Pci producevano iniziative in continuazione. E non solo politiche.
A proposito delle riforme alcuni costituzionalisti hanno parlato di svolta autoritaria.
Lei è d’accordo?
Che ci siano degli atteggiamenti che suonano in un modo preoccupante, non c’è dubbio. Il ragazzo – lo dico senza paternalismo, ma è davvero giovane – quando è iniziata la sua ascesa, l’ho seguito con curiosità. Non mi dispiaceva. Da come ha fatto fuori Letta però si capiva già molto. Troppa supponenza e scarsa tolleranza per chi non la pensa come lui. Altro che il tanto vituperato centralismo democratico!
il Fatto 7.4.15

Addio a Giovanni Berlinguer
“C’è il pericolo di essere travolti dalla corruzione come Dc e Psi”
di Giovanni Berlinguer


Il 17 novembre 2001, Piero Fassino vince il Congresso dei Ds. Il candidato della minoranza di sinistra, il cosiddetto Correntone, incassa però un inaspettato 34 per cento: è Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, morto ieri a 90 anni. Il suo intervento a Pesaro è una contro-relazione interrotta 27 volte dagli applausi. E, alla fine, tutto il Congresso si alza in piedi. Pubblichiamo un estratto dei passaggi più significativi del discorso.
Il nostro partito, i Democratici di sinistra, è un corpo sano, anche se invecchiato. Corriamo grandi rischi se non saremo capaci di evitare anomalie e forzature come quelle verificate nel tesseramento e nelle votazioni congressuali. Questi fenomeni, seppur limitati, vanno corretti subito. Il rischio è quello di compiere il primo passo verso quella corruzione che in passato ha già travolto Democrazia cristiana e Partito socialista italiano.
Il governo Berlusconi rappresenta il rovesciamento della democrazia liberale, perché tende sempre più a sfumare la separazione dei poteri e anche ad abbassare il livello della moralità pubblica. La politica oggi guarda agli interessi di pochi e permette agli imputati di farsi le leggi. Non solo, la politica mette in discussione conquiste che sembravano solide come quella della ipotizzata abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abolizione che ci spingerebbe indietro di un secolo, a quando i braccianti aspettavano chiamata, per mano dei caporali e ci allontanerebbe dall’Europa che dice sì alla contrattazione collettiva.
Sulla scelta riformista dei Ds tra noi non c’è dissenso. La differenza non è tra chi è riformista e chi non lo è, ma su quale partito e quale linea mettere in campo. Nessuno, infatti, qui pensa di sostituire questa società con un’altra magari basata su ideologie totalizzanti, ma il segretario Fassino sbaglia quando fa riferimento alla creazione di una forza unica del riformismo socialista, perché una revisione delle radici storiche di questo partito è compito degli storici e non dei politici. Il primo a dire che noi eravamo parte integrante del socialismo europeo fu Alessandro Natta. Da allora per troppi anni è stato solo ripetuto, per troppi anni siamo stati lì a questuare riconoscimenti, a offrire il sangue per la verifica del Dna socialista dei Ds, tanto da rischiare di diventare anemici. Visto che siamo a Pesaro, città natale di Rossini, vi dico che non basta solo parlare di riformismo, altrimenti si rischia di dover dire come lui davanti a una nuova opera che un giovane gli proponeva: c’è del bello e del nuovo, ma ciò che è bello non è nuovo e ciò che è nuovo non è bello.
Corriere 7.4.15
Addio a Giovanni Berlinguer, il politico scienziato
di Paolo Fallai


Era il fratello di Enrico Berlinguer e per decenni nessuno ci ha fatto caso. Sobrietà, impegno professionale e coerenza l’hanno accompagnato per tutti i suoi 90 anni, fino all’ultimo giorno: Giovanni Berlinguer è morto a Roma, che alle 18 ha aperto il Campidoglio per ospitare il suo feretro, accolto dal sindaco Ignazio Marino e da Walter Veltroni. La camera ardente sarà aperta anche oggi dalle 8 e fino alle 20 e domani alle 10 sarà l’Università La Sapienza ad ospitare il funerale del suo docente di Medicina sociale.
In un paese di familismo esasperato, spesso fondato sul niente, Giovanni Berlinguer era nato in una famiglia importante, sarda ma dalle lontane origini catalane: figlio di Mario, deputato socialista; fratello di Enrico, con lui ha condiviso l’adesione — giovanissimi — al Partito comunista italiano. Un percorso che conosceva benissimo: «Mio nonno Enrico — ripeteva — era un esponente politico in Sardegna. Poi c’è stato mio padre. E mio fratello. E i miei cugini, Luigi e Sergio. Tutte persone impegnate in politica. Che cosa avrei dovuto fare? Stare tappato in casa? Ma ho sempre pensato di avere anche un nome e mi sono comportato tenendolo bene a mente. Ho fatto le mie scelte pur subendo molte influenze, a cominciare da quella positiva di Enrico. Ho avuto il mio percorso, ho deciso di occuparmi di quelli che nella filosofia marxista si chiamano problemi sovrastrutturali perché per Marx la struttura è tutta nell’economia. Scienza, scuola, ambiente, tecnologie sono i miei campi».
Così mentre ottiene la presidenza dell’Unione internazionale degli studenti, primo incarico politico tra il 1949 e il 1953, si laurea in Medicina e negli anni successivi si abilita all’insegnamento di Medicina sociale e igiene. È un percorso professionale che non abbandonerà mai, neanche durante le tre legislature alla Camera dei deputati, le due da senatore, l’ultima da europarlamentare. E ieri, quando molti hanno voluto rendergli omaggio hanno dovuto oscillare tra lo scienziato che nel 1959 lanciava col libro La Medicina è malata con Severino Delogu la critica al sistema sanitario italiano, e il politico che ha messo la sua esperienza per difendere la sanità pubblica, la legge 194 sull’aborto, quella sulla chiusura dei manicomi. Dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «personalità brillante e dotata di alto senso morale» e di «profonda umanità»; a Giorgio Napolitano che ha ricordato proprio «il contributo alla elaborazione della riforma sanitaria del 1978», mentre Matteo Renzi lo ha ricordato come «l’affilata coscienza critica della sinistra italiana ed europea».
Proprio questa è stata la sua ultima battaglia, quando nel 2001, a 77 anni, venne candidato alla segreteria dei Ds. Quella sinistra nella sinistra, che lui ispirò ad un rigore oggi profetico: «Nel partito — disse al congresso di Pesaro — ci sono episodi e situazioni di anomalie della dialettica congressuale che vanno corrette subito. Da qui ad avere forme di corruzione il passo è breve». Una lezione, dallo scienziato che aveva spaziato dalla bioetica al collettivismo degli insetti, che gli fruttò un insperato successo, il 34,1% dei voti, assumendo per sei anni la guida del correntone e l’impegno di evitare scissioni a sinistra. Ma anche l’uomo coerente che nel 2007, alla nascita del Pd, lo avrebbe portato all’adesione alla Sinistra democratica di Fabio Mussi.
«Intellettuale raffinato sempre pronto al dialogo», lo ha definito Piero Fassino che lo aveva sconfitto proprio in quel congresso del 2001. Commosso il ricordo di Achille Occhetto alla «serenità illuminata dell’uomo di scienze e la mitezza fondata su ostinati e saldi principi». E ancora Massimo D’Alema: «Un protagonista che seppe unire la passione politica e civile alla curiosità scientifica»; la leader della Cgil Susanna Camusso, «Un uomo giusto, un fine politico, sempre vicino al sindacato e ai lavoratori»; e il leader di Sel Nichi Vendola, «Era una persona di sinistra mite ma combattiva, curiosa del futuro, non sopportava i pregiudizi. Una bella persona».
Repubblica 7.4.15
Addio a Giovanni Berlinguer fu il leader del Correntone


ROMA Si svolgeranno domani alle 10, nell’aula magna dell’università La Sapienza, i funerali di Giovanni Berlinguer, a lungo deputato e senatore del Pci e poi dei Ds, fratello dell’ex segretario del Pci Enrico, morto a 90 anni domenica notte a Roma. Unanime il cordoglio del mondo politico, che gli rende omaggio nella sala della Protomoteca del Campidoglio dove è stata allestita la camera ardente, aperta anche nella giornata di oggi (dalle 8 alle 20). Moltissimi i messaggi di cordoglio, a partire dal presidente della Repubblica Mattarella, dell’ex presidente Napolitano, dal presidente del Senato Grasso. Ad accogliere il feretro, al suo arrivo in Comune, il sindaco Ignazio Marino. Presenti tra gli altri anche l’ex primo cittadino Walter Veltroni, Gianni Cuperlo e Luigi Manconi. A dare l’ultimo saluto a Giovanni Berlinguer tutti i suoi familiari, i figli Luisa, Mario e Lidia; i nipoti Luca e Marta, Bianca Berlinguer, direttore del Tg3. Figura di spicco del Pci, Giovanni Berlinguer era stato eletto deputato nel 1972, e quindi per altre due legislature. Poi ancora due legislature al Senato, prima di passare al Parlamento europeo. Non solo uomo politico però, ma anche medico, scienziato e docente universitario, con particolare attenzione alla medicina sociale. Nei Ds aveva militato nella corrente di sinistra, fino a contendere a Fassino nel 2001 la segreteria. Nel 2007, prima dello scioglimento dei Ds e della fondazione del Pd, lasciò il partito aderendo a “Sinistra democratica”, il movimento lanciato da Fabio Mussi.
Repubblica 7.4.15
Il presidente dei sindaci: “Incontro prima del Def”
Fassino: Renzi ci riceva subito siamo stufi di tagli da dirigenti che non hanno amministrato neanche un condominio
intervista di Diego Longhin


Negli ultimi 6 anni si è chiesto troppo ai Comuni e poco a altre amministrazioni pubbliche
Noi abbiamo contribuito al risanamento con oltre 17 miliardi di euro. E i ministeri?”

TORINO «Dopo sei anni in cui si è chiesto molto a noi e poco agli altri è giunto il momento che si chieda molto agli altri e meno a noi». Il presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, sul Documento economico finanziario gioca d’anticipo, chiedendo al governo un incontro prima del varo definitivo.
Sindaco Fassino, siamo al solito balletto tra governo ed enti locali su tagli e spesa?
«Io non voglio aprire alcun balletto. Con il governo è necessaria una discussione a monte, prima che decisioni e cifre diventino immodificabili. Anche perché in questi anni sono stati i Comuni i primi ad aver contribuito al risanamento del Paese».
Ci dia le cifre?
«Dal 2010 i Comuni hanno contribuito al risanamento con oltre 17 miliardi, di cui 8,5 miliardi per il Patto di Stabilità e altri 8,5 come riduzione della spesa. Sforzo mai chiesto in uguale misura a nessuna altra amministrazione pubblica, partendo dai ministeri, mentre l’incidenza dei Comuni sul debito e sulla spesa pubblica è molto bassa».
Vuol dire che i Comuni sono i più “vessati” anche se sono i più virtuosi dell’intera macchina pubblica?
«Voglio dire che alle amministrazioni che hanno la maggiore responsabilità del debito e della spesa pubblica non è stato chiesto un sacrificio pari a quello che hanno dovuto sopportare i sindaci. Facendo cento il debito, solo il 2,5% è imputabile agli enti locali. Facendo cento la spesa, solo il 7,5 si può attribuire ai Comuni. Dopo sei anni diciamo basta. Quando si parla di spesa nei Comuni bisogna sapere che cosa significa: asili nido, scuole materne, assistenza domiciliare, riassetto del territorio e promozione cultura. Siamo stufi di sentirci spiegare come bisogna gestire i Comuni da dirigenti ministeriali che un Comune non lo hanno mai visto. E non hanno mai amministrato nemmeno un condominio».
Insomma, volete più soldi?
«No, non vogliamo neanche un euro in più. Vogliamo che la forbice si fermi. I trasferimenti di fondi ai territori ormai sono a zero, gli unici quattrini che lo Stato dà sono per la Sanità e il Trasporto Pubblico, in misura insufficiente. Tutto il resto i Comuni se lo pagano già da soli. Nel momento in cui noi ci paghiamo i servizi è paradossale che qualcuno ci dica come spendere i soldi».
Nel 2016 debutterà la “local
tax”. È d’accordo con l’impostazione del governo Renzi?
«Della local tax eravamo già pronti a discutere a novembre. Vorremmo che sia introdotto un principio semplice: i tributi locali siano di competenza esclusiva della città. Oggi non è così, ci sono quote di compartecipazione dello Stato, come sull’Imu seconde case: il 50% va nelle casse dello Stato. Tocca al sindaco calibrare le “sue” tasse, rispondendo ai cittadini. Basta con l’invasione di campo dello Stato su come si governano le città: vincoli di spesa, di personale, sul fisco e sugli investimenti ».
Volete avere mano libera?
«Chiediamo una svolta basata sul binomio responsabilità e autonomia. Lo Stato ha il diritto e il dovere di stabilire ogni anno i macro- obiettivi. Come realizzarli lo si lasci all’autonomia dei sindaci. Si fissa un risparmio di spesa dell’1%? Bene, deciderà ogni Comune come fare. Misure utili a Torino non è detto che siano opportune a Napoli o a Venezia. La pretesa che un burocrate di un ufficio romano sappia come intervenire nella gestione di 8 mila Comuni è piuttosto presuntuosa e velleitaria ».
Cosa chiederete in prima battuta al governo?
«Un decreto enti locali che contenga la ricostituzione di un fondo perequativo sulla Tasi di 625 milioni per evitare che 1.800 Comuni nel passaggio dalla vecchia Imu alla Tasi abbiano un minore gettito. Va affrontato il tema fiscalità sui terreni agricoli e montani e si devono trovare soluzioni per dare risorse alle Città metropolitane».
Alle Città metropolitane si vogliono ridurre i fondi. Cosa risponde?
«Non si possono tagliare le gambe ad enti che hanno iniziato a muovere i primi passi: le Città metropolitane vanno messe nelle condizioni di rispondere alle aspettative dei cittadini. Il governo sottovaluta la situazione. Si tratta di enti che hanno ereditato competenze importanti come la manutenzione scuole e strade, oltre alle politiche di sostegno ai piccoli Comuni».
Il sindaco di Roma Marino propone 2 euro di tassa sui transiti aeroportuali per sostenerle. È d’accordo?
«È una nostra proposta già prevista nel decreto legislativo sul federalismo fiscale. Un contributo minimo che non influisce né sui cittadini né sul settore trasporti. Un modo per risolvere parte dei problemi senza chiedere allo Stato soldi in più».
Repubblica 7.4.15
“Garanzia Giovani approssimativa il progetto è a rischio flop”
I dubbi della Corte dei Conti europea sul programma per i ragazzi disoccupati
di Rosaria Amato

ROMA Ci sono forti rischi che la Garanzia Giovani non arrivi a nulla. Finanziamenti probabilmente inadeguati, poca attenzione alla qualità delle offerte di lavoro e insufficiente monitoraggio delle iniziative dei vari Paesi potrebbero sfociare in «un’attuazione inefficace e incoerente» del programma Ue che si propone di offrire un’opportunità di lavoro o tirocinio ai giovani che non lavorano e non studiano. Uno spreco di risorse ingenti, considerato che la Youth Guarantee tra il 2014 e il 2020 utilizzerà almeno 16,7 miliardi di euro tra finanziamenti Ue e dotazione nazionale. L’allarme, che stavolta non si limita all’Italia, ma investe l’intero apparato della Youth Guarantee, è stato lanciato dalla Corte dei Conti Europea (Eca), in una relazione pubblicata alla fine di marzo dal titolo: “Garanzia Giovani: intrapresi i primi passi ma si profilano rischi di attuazione”.
Gli auditor dell’Eca non contestano l’iniziativa in sé ma le modalità di attuazione: «Restano senza risposta interrogativi importanti - spiega Iliana Ivanova, il membro della Corte responsabile della relazione - Abbiamo ravvisato rischi potenziali nell’adeguatezza del finanziamento del sistema, nella natura “qualitativamente valida” dell’offerta proposta ai giovani disoccupati e nella modalità con cui la Commissione monitora i risultati del sistema e li comunica ». In dettaglio, l’esecutivo Ue «non ha condotto una valutazione d’impatto specificando costi e benefici attesi, benché questa sia la procedura convenzionale per tutte le sue grandi iniziative». Di conseguenza, «non sono disponibili informazioni sul potenziale costo globale dell’attuazione del sistema nell’intera Ue e sussiste il rischio, pertanto, che il finanziamento complessivo non sia adeguato». Inoltre, la regolamentazione della Garanzia Giovani dispone che i giovani presi in carico debbano avere un’offerta di lavoro “qualitativamente valida”. Una definizione appesa al nulla: l’Eca suggerisce alcuni criteri, dalla definizione della durata e del tipo di contratto all’ancoraggio della remunerazione al costo della vita, oltre alla coerenza tra le competenze del giovane e il lavoro che gli viene offerto.
Alla relazione sono seguiti commenti molto duri. «Gli stessi auditor ammettono di non aver ancora trovato un solo giovane che abbia ottenuto un lavoro grazie alla Youth Guarantee», ha scritto EurActiv. com, network specializzato in notizie Ue. «Se qualcuno pensava che con la Garanzia Giovani s’invertissero le tendenze generali si sbagliava - obietta Gianfranco Simoncini, assessore alle Attività Produttive della Toscana e coordinatore del Lavoro per la Conferenza delle Regioni - i posti di lavoro si creano solo con le politiche per lo sviluppo. Detto questo, io non condivido questa visione negativa: è un’opportunità concreta per aprire un canale tra i giovani e i datori di lavoro, e ha permesso per la prima volta a migliaia di persone di entrare in contratto con i centri per l’impiego. Forse ci si è caricati di aspettative eccessive. Quanto alle critiche della Corte sulle risorse, faccio presente che stiamo anticipando i primi fondi, finora dalla Ue non è arrivato un euro».