sabato 25 aprile 2015

Corriere 25.4.15
L’universo che Hubble ci ha fatto scoprire
Il telescopio spaziale compie 25 anni. Ha svelato pianeti e galassie, nel 2018 si spegnerà
Dal 24 aprile 1990 il telescopio spaziale ci mostra l’universo
Lascerà il posto al James Webb che entrerà in servizio nel 2018
di Tullio Avoledo


L’Hubble Space Telescope, che ieri ha festeggiato il suo 25° compleanno, ha continuato il lavoro del grande astronomo e astrofisico statunitense Edwin Powell Hubble (1889-1953), portando lo sguardo dell’umanità sempre più lontano nell’universo. Le immagini dello spazio riprese da Hubble accompagnano da 25 anni le nostre vite, mostrandoci un universo meraviglioso, fonte di costanti sorprese.
A parte forse i piccioni, nessuno può contestare il fatto che il telescopio spaziale Hubble sia il miglior monumento possibile alla memoria del grande astronomo e astrofisico statunitense da cui prende il nome, Edwin Powell Hubble (1889-1953). A 25 anni, Hubble fu il primo a individuare una galassia all’esterno della nostra. A lui si deve, con la formulazione di quella che poi divenne nota come Legge di Hubble, l’origine del concetto di universo in espansione, che portò altri astronomi a elaborare la teoria del Big Bang.
L’Hubble Space Telescope, che ieri ha festeggiato il suo 25° compleanno, ha continuato il lavoro del grande astronomo, portando lo sguardo dell’umanità sempre più lontano nell’universo. Frutto di una joint venture Nasa/Esa, è stato messo in orbita intorno alla Terra dallo space shuttle Discovery il 24 aprile 1990, e rappresentava il meglio della tecnologia di un’epoca in cui il cellulare più leggero, il Motorola 9800x, pesava più di un chilo e aveva un’autonomia di conversazione di mezz’ora, il sistema operativo Windows 3.0 introduceva per la prima volta l’interfaccia grafica nei Pc e il modello di punta della Fiat era la versione 1600 catalizzata della Tempra.
Concepito nel 1940, progettato e costruito tra il 1970 e il 1980, il telescopio Hubble, grosso come un autobus, orbita a un’altezza di 560 km e compie un’orbita intorno alla Terra ogni 92 minuti. La risoluzione delle sue ottiche è di 0,1 secondi d’arco: è come se riuscisse a vedere una moneta da dieci centesimi a 40 km di distanza.
E dire che l’esordio del costoso telescopio (2 miliardi di dollari del 1990) non faceva presagire nulla di buono. Le prime immagini trasmesse a terra, distorte e fuori fuoco a causa di quella che tecnicamente si definisce un’aberrazione sferica, gettarono nello sconforto gli astronomi e i tecnici. Una commissione appositamente istituita stabilì, alla fine dei suoi lavori, che l’origine del problema era un errore nel montaggio di una lente, fuori posizione di 1,3 millimetri. A causa di quell’errore, Hubble avrebbe potuto compiere solo una minima parte dei compiti che gli erano affidati. In particolare non sarebbe mai riuscito a fotografare oggetti deboli o che richiedevano un alto contrasto. I comici televisivi americani trovarono spunto per molte battute, anche feroci, sul telescopio. Ma alla fine Hubble si prese la sua rivincita. Con diverse missioni di servizio, la Nasa riuscì non solo a rimediare ai problemi, ma anche a migliorare le prestazioni del telescopio, aggiornandolo costantemente con le tecnologie più evolute. In pratica, sul delicato strumento è stata fatta una regolare manutenzione, «tagliandandolo» con ben quattro missioni dello Shuttle, che di volta in volta hanno sostituito strumenti di osservazione, pannelli solari e unità di alimentazione, e persino il vecchio registratore a nastro con uno a stato solido. Hubble, anziché invecchiare, è oggi molto più potente di quanto lo fosse nel 1990, quando per lui era stata prevista una vita di 15 anni.
Le immagini dello spazio riprese da Hubble accompagnano da 25 anni le nostre vite, mostrandoci un universo meraviglioso, fonte di costanti sorprese. Grandi artisti, poeti e musicisti si sono ispirati a quelle foto che mostrano un universo di seducente splendore, pulsante di colori e di forme bizzarre come il carnevale di Rio. Hubble è riuscito a misurare la composizione delle atmosfere dei pianeti extrasolari scoperti nel 1995, e nel 2010 ha fotografato la galassia più lontana da noi, distante più di 13 miliardi di anni luce. Le sue lenti ci hanno permesso di vedere l’universo com’era 480 milioni di anni dopo il Big Bang: vicinissimo, su scala cosmica.
Hubble continuerà a lavorare e a regalarci meravigliose scoperte anche dopo l’entrata in servizio del suo successore, il James Webb Space Telescope, prevista nel 2018. Per un po’ lo affiancherà nel lavoro, come si fa con un apprendista. Il giorno in cui Hubble andrà fuori servizio, uscirò di casa, alzerò lo sguardo al cielo e reciterò per lui, ma anche per tutti noi, queste parole scritte da Bulgakov nel 1924, nel romanzo La guardia bianca : «Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?».
Repubblica 25.4.15
L’anima della Resistenza
Ci fu l’intelligenza di un rapporto nuovo tra il cittadino e lo Stato
Ci fu un fattore di saldatura che superò ogni altro valore: il recupero della unità nazionale
di Andrea Manzella


IL 26 ottobre 1945 erano passati appena cinque mesi dal 25 aprile. Ferruccio Parri, il presidente del Consiglio dell’Italia liberata — e anche il capo partigiano che aveva portato a Roma il “vento del Nord” — parlava alla Consulta, la prima provvisoria assemblea di uno Stato rinascente. E, ad un certo punto, avvenne il putiferio. Fu quando Parri disse: «La democrazia è praticamente agli inizi: io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo». È subito dopo che nei resoconti si legge: “interruzioni, rumori, grida di viva Vittorio Veneto!”. Non c’è nulla di meglio di questa scena “parlamentare” che fissi, come in un flash, i due aspetti della Resistenza. Che fu, allo stesso tempo, rottura e ricongiungimento rispetto alla vicenda nazionale e alla sua storia costituzionale.
Fu rottura di quel che il fascismo aveva introdotto come disciplinamento autoritario di massa. La milizia nel “partito unico”. La soppressione del parlamento “politico”. Lo spegnimento della cittadinanza nelle sue libertà e nel suo nucleo fondamentale del diritto di voto. Ma fu anche rottura di quanto chiuso, incompiuto, escludente aveva il regime pre-fascista nell’organizzazione istituzionale ed elettorale dello Stato. Di quello Stato, appunto, che aveva avuto “bisogno” della strage della Grande Guerra per cementare, con un’avventura di sangue, l’unione nazionale che non era riuscito a conseguire con la normale gestione giuridica ed economica del Paese. E che con le origini antiparlamentari di quella guerra e con gli esiti “mutilanti” di Vittorio Veneto avrebbe dato una assurda “legittimazione di fatto” alla torsione sovversiva.
La Resistenza fu anche, però, ricongiungimento storico. Lo fu rispetto alle libertà conquistate nel Risorgimento. Ma non solo per quelle contenute nello Statuto del 1848 ed avvalorate dai governi liberali che lo seguirono. Lo fu anche, e soprattutto rispetto alle idee di democrazia e di partecipazione popolare, proprie della parte minoritaria ed “eretica” del Risorgimento.
Sono questi due aspetti — rottura e ricongiungimento, ribellione e ritorno alle radici — che fanno l’anima peculiare della Resistenza italiana. Quell’anima che così spesso emerge nelle ultime lettere — semplici o colte — dei “suoi” condannati a morte. Al di là degli addii alla vita, ritorna fermissima la sicurezza che la cospirazione e la lotta avrebbero avuto — di per sé — un effetto duraturo di rinascita per l’Italia. Tanto che non è sbagliato pensare che, in fondo, lo stesso “miracolo italiano” della ricostruzione materiale cominciò proprio da questa consapevolezza: che un avvenire fosse possibile solo in quanto una Resistenza ci fosse stata, sia pure di uno solo.
In questo preciso significato l’anima della Resistenza ebbe valore “costituente”. Non ci furono allora particolari elaborazioni giuridicocostituzionali. Ma ci fu nettissima, al di là delle differenze ideologiche (che già seguivano le diverse visioni del mondo) l’intelligenza di un rapporto nuovo tra il cittadino e lo Stato, tra le libertà “di carta” e le libertà concrete.
Ci fu, soprattutto, un fattore intensissimo di saldatura che sembrò superare ogni altro valore: il recupero dell’unità nazionale. L’Italia divisa in due non fu solo una insopportabile constatazione territoriale, fu anche una lacerazione psicologica e morale che segnò lo spirito della Resistenza come impegno di recupero di un bene perduto. La cui salvaguardia fu sempre presente anche quando lo spirito “costituente” si fece istituzione, nell’Assemblea Costituente, e divenne “libro” nella Costituzione del 1948.
È in queste realtà concrete che si materializza il principio di non contraddizione tra due formule note e che sembrano, a prima vista distanti. La Resistenza come “secondo Risorgimento”. La Costituzione come “nata dalla Resistenza”.
È giusto, tanti decenni dopo quel 25 aprile, interrogarsi su quello che ci fu poi. Ci sono, fra le tante, due vicende che più di tutte pesano, nel bene e nel male. E sembrano cominciare proprio in quel giorno del breve governo Parri. Innanzitutto, le interruzioni dell’aula segnavano la distanza tra concezione “liberale” e concezione ”sociale” della democrazia dei diritti. Presagio della accidentata e non conclusa storia che doveva trovare però nella Corte costituzionale il semaforo di garanzia (alterno, come tutti i semafori) per una rotta che ha seguito comunque l’impulso delle origini.
Ma poi quei ”rumori” segnalavano anche la prima crisi dei partiti: che si ponevano allora come “cartello” istituzionale nel Comitato di Liberazione Nazionale. L’Assemblea Costituente doveva raccogliere il senso di quella critica in due direzioni costituzionali. Garantendo la centralità dell’istituzione parlamento; chiedendo la democratizzazione dei partiti. La prima direzione fu seguita fino in fondo, la seconda non fu neppure iniziata. È così accaduto che lo svuotamento di senso democratico dei partiti, corpi intermedi tra cittadini e parlamento, abbia determinato la crisi profonda della democrazia rappresentativa. Un circolo vizioso sempre più aggravato. Perché gli interventi ortopedici non sono stati mirati sulla vita interna dei partiti e sulle sue garanzie. Ma rivolti alle istituzioni parlamentari, con amputazione di rappresentanza e inaridimento del diritto di voto del cittadino. Non era questo il percorso ”costituente” della Resistenza. Eppure ritrovarne il filo è ancora possibile in una storia nazionale che non può ripetere l’errore di «non volere più saperne della politica». Le estreme parole che Sergio Mattarella ricordava ieri su questo giornale.
Repubblica 25.4.15
 Le lezioni americane di Gaetano Salvemini
Pubblicate le lettere del grande intellettuale antifascista in esilio La lotta contro Mussolini, l’avversione per comunisti e socialisti
di Massimo L. Salvadori


NEL 1925 Gaetano Salvemini espatriò dall’Italia, dove sarebbe tornato solo nel 1949. Dopo aver fatto la spola tra Londra, Parigi e gli Stati Uniti, approdò in questi ultimi nel 1934. Quando lasciò l’Italia, era da tempo emerso quale uno dei maggiori intellettuali italiani: non solo grande storico, anche personalità politica di primo piano. Mentre Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe erano diventati apologeti del regime fascista, Benedetto Croce veniva lasciato sostanzialmente tranquillo e Luigi Einaudi continuava a fare il professore, Salvemini, privato della cittadinanza italiana, colpito dalla confisca dei propri beni, votatosi alla lotta senza quartiere contro la dittatura, nel suo esilio divenne il Mazzini del XX secolo.
Con una coraggiosa iniziativa, l’editore Donzelli ha pubblicato le sue Lettere americane 1927-1-949 ( a cura di Renato Camurri e con una presentazione di Paolo Marzotto). Camurri inquadra bene il contesto in cui Salvemini visse e operò in quegli anni, che furono per lui felici allorché poté trovare all’università di Harvard una cattedra e una splendida biblioteca che gli consentì di stendere le opere sul fascismo diventate classici della storiografia.
Salvemini era un infaticabile scrittore di lettere, dirette a una quantità di personaggi, tra i quali mi limito a menzionare Giorgio La Piana, Enzo Tagliacozzo, Max Ascoli, Lionello Venturi, Alberto Tarchiani, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Sforza, Leo Valiani, Niccolò Tucci. Tre gli aspetti dominanti: la calda ma anche severa umanità della persona, l’infaticabile azione per promuovere la lotta contro il fascismo, l’incessante vis polemica diretta contro le forze interne e internazionali complici del regime e, caduto questo, contro i comunisti, i clerico-moderati e le destre monarchiche e neofasciste. Si preoccupava di procurare aiuti materiali agli antifascisti esuli. Valga ricordare il caso di Emilio Lussu, che stimava enormemente anche come scrittore. Lo addolorò molto e criticò senza mezzi termini la svolta in senso socialista non esente da filo-comunismo di “Giustizia e Libertà”.
Nelle faccende italiane, era desolato dalla presa che il fascismo aveva sugli italo-americani caduti nella trappola che Mussolini avesse riportato l’Italia all’onore del mondo; dopo il luglio 1943, diresse i suoi strali verso il re-Badoglio- Croce-Sforza-Togliatti e compagnia che, manovrati soprattutto da Churchill e da Stalin, preparavano per il nostro paese un dopoguerra che smentiva le sue speranze.
In molti casi mostrò di avere la vista acuta, come quando negli anni ’30 ammonì coloro che si illudevano che il regime fosse prossimo a cadere da un momento all’altro; come quando comprese fin dal 1937 che Franco avrebbe vinto in Spagna; come quando dopo il 1945 previde che in Italia la vittoria politica sarebbe andata non ai socialcomunisti ma ai democristiani (soluzione da lui, laico inveterato, auspicata obtorto collo ). In altri casi, prese abbagli clamorosi: valga per tutti ciò che scrisse a La Piana il 7 gennaio 1932: «Anche se Hitler va al potere in Germania, che cosa vuoi che faccia, se non far baccano?».
IL LIBRO Gaetano Salvemini, Lettere americane. 1927-1949 (Donzelli, pagg. LIII-592, euro 35)
Repubblica 25.4.15
La guerra dei santi quando la politica si fa con le reliquie
Ecco perché dall’antichità a oggi la tradizione dei resti di martiri e profeti e la corsa ai “feticci divini” legittima imperi e governi
di Silvia Ronchey


NELLA notte tra il 21 e il 22 febbraio scorso un blitz segreto dell’esercito turco in territorio siriano, a trenta chilometri dalla frontiera, nell’exclave di poche centinaia di metri quadrati presidiata in pieno deserto dalla bandiera rossa col crescente e da un pugno di berretti purpurei dei corpi d’élite, ha prelevato da una moderna turbe ottomana le presunte spoglie di un venerabile quanto leggendario personaggio vissuto otto secoli fa: Suleyman Shah, progenitore del mitico Osman Gazi, il fondatore dell’impero ottomano. L’operazione, denunciata come atto di aggressione da Damasco, ha lasciato un morto sul campo e per il resto terra bruciata ed è stata letta con attenzione dagli osservatori, che ne hanno rilevato e dettagliato le implicazioni politiche, psicologiche, strategiche sullo scacchiere attuale, dominato dall’avanzata del califfato in Siria.
In realtà, per leggere la meticolosa sortita dell’esercito turco sull’Eufrate, a sudovest dell’antica Edessa, occorreva guardare all’ancestrale tradizione della politica delle reliquie. Della particolare forma di legittimazione della memoria ancorata a una sacralità della materia, cui sempre le reliquie alludono, che siano di santi o di eroi, parlano ora due libri molto diversi per metodo, uno di antropologia, l’altro di storia del cristianesimo: Materia sacra di Ugo Fabietti (Cortina, pagg. 306, euro 25) e Il prepuzio di Cristo di Tonino Ceravolo (Rubbettino, pagg. 177, euro 14).
In greco le reliquie si dicono leipsana, “resti”: spoglie, quindi, ma anche, alla lettera, «avanzi di un pasto o di un banchetto», o anche ruderi, rovine, vestigia marmoree come di antiche città. Materia inorganica, minerale, calcificata, all’inizio le reliquie più universalmente venerate nelle religioni sono pietre, in cui il sacro ha lasciato un’impronta, come il calco di un fossile su una roccia. Così il Maqam Ibrahim, la pietra con la miracolosa orma di Abramo racchiusa in un tabernacolo alla Mecca accanto alla Ka’ba, o quella prodotta dal viaggio celeste di Maometto nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, il Qubbat al-Sakhra, protetta da un reliquiario, o le altre pietre simili conservate nel mondo ottomano e indiano, da Istanbul a Delhi all’Uttar Pradesh. Nel culto cristiano sono le reliquie dette ex rupe presepii, dalla grotta della Natività, o le pietre del sepolcro, o per esempio la lastra “grande come un lavatoio” dove Abramo servì il pasto ai tre angeli che andavano a distruggere Sodoma e Gomorra, o il marmo del pozzo di Samaria dove Cristo disse alla samaritana alcune delle più belle parole del Vangelo di Giovanni, o il granito della colonna della Flagellazione, oggi a Roma, osservata da Bertrandon de la Broquière e dagli altri pellegrini nei loro tour delle città-reliquiario del mondo cristiano, Gerusalemme e Costantinopoli.
Come le reliquie eroiche custodite nei templi e nei santuari dell’antichità pagana, che già conosceva i primi fenomeni di inventiones e traslazioni di reliquie per motivi politici, anche i “ruderi” di una materia investita in un abissale momento dal carisma, segnata dall’impronta del sacro, sono più spesso, nel cristianesimo, intere anatomie, mummie o scheletri di corpi santi; oppure loro parti, organi, visceri: residuo delle pratiche rituali di smembramento della religione egizia, che in età tolemaica inaugurò l’uso del pellegrinaggio nelle città che conservavano interrate le diverse membra di Osiride. O anche residui minimi, stille di umori corporei, lembi di pelle, schegge di ossa, grumi di sangue, denti, unghie, peli, ciocche di capelli: dal dente di latte, reliquia la cui venerazione accomuna Cristo in Francia e Buddha in Sri Lanka, alla più celebre, discussa e significativa delle reli- quie falliche, di cui tratta specificamente il libro di Ceravolo: il prepuzio di Cristo. Irriso, dissacrato, fustigato dall’ira di Calvino e dall’ironia degli illuministi, venerato come “vera carne” della circoncisione di Gesù, suo residuo corporeo non assunto, prova “materiale” della sua incarnazione, “frammento rosseggiante” della sua umanità, ma anche campione genetico della divinità, la sua venerazione accorciava le distanze tra cristianesimo e paganesimo ancestrale. Prima di approdare a Calcata nel Cinquecento, trafugato nel sacco di Roma, e sparire di nuovo, veniva custodito nel Sancta Sanctorum del Laterano insieme ad altre “ineffabili reliquie” e una volta l’anno unto e portato in processione dal pontefice e dall’intero collegio cardinalizio: una cerimonia che richiamava le fallofòrie greche e romane, descritte da Plutarco. Ma nel culto della reliquia dell’organo riproduttivo di Cristo l’antico simbolo di fertilità cambiava segno, puntava dritto all’escatologia cristiana, alludeva alla grande e inaudita promessa di questa religione: la resurrezione finale dei corpi. Materia sacra, appunto, come spiega Fabietti, che classifica le valenze e le modalità dell’infusione di potere sacrale alla materia in una rapsodica storia comparata delle religioni che investe con serafica “erranza etnografica” i feticci africani e le culle-cattedrali dei béguinages fiamminghi, i misteri grecoromani e i culti precoloniali andini, la taumaturgia cristiana e il vodu, il calvinismo e l’islam.
A decretare la santità della reliquia può bastare la contiguità col testimone umano, e allora sono brandelli di vesti, lenzuoli, bende. Le fasce di Cristo, la sua «tunica inconsutile, che in antico probabilmente era stata violetta, ma che col tempo si era ingrigita». Il mandylion, con impresso il volto di Cristo, la sindone, con il suo corpo. La pletora degli strumenti della Passione: la lancia che trapassò il costato, la spugna, il legno della Croce, moltiplicato nella geostoria occidentale in un’esplosione di schegge, tanto che Erasmo ironizzò che con tutto quel legno si sarebbe potuta costruire una nave; la corona di spine, a sua volta soggetta a una vertiginosa diaspora che immetterà una pioggia di Sante Spine nell’orbita del potere del re di Francia, dopo che la reliquia, con la conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, passò dalla Theotokos del Faro alla Sainte Chapelle; i sacri chiodi portati da Elena a Costantino, leggenda di fondazione dell’impero cristiano, di cui uno contemplabile a Roma nella Wunderkammer di Santa Croce in Gerusalemme. Nell’islam sufico e nelle sue dottrine più esoteriche, che parlano di “luce muhammadica”, la natura interiore di Maometto è identica alla luce divina e il suo corpo ha quindi uno statuto speciale. Nelle reliquie corporee del Profeta i sufi esaltano insieme l’umanità e il luogo della teofania divina. Di qui la venerazione dei capelli e dei peli della barba di Maometto, meta di pellegrinaggio a Shrinagar nel Kashmir. E poi del suo sangue, della sua saliva, degli oggetti che entravano in contatto col suo corpo durante le abluzioni, capi di vestiario, sandali. Sono reliquie da contatto, feticci, dove la nozione di “sostituto” intuita da Freud sottolinea l’aspetto libidico di questi oggetti di venerazione non solo nelle religioni primitive ma anche in quelle storiche, fino alla reliquie laiche prodotte dalle moderne ideologie politiche, dai residui corporei di Garibaldi alla salma imbalsamata di Lenin.
In oriente come in occidente, la storia stratificata delle reliquie, scrive Ceravolo, traccia l’atteggiamento dell’uomo verso il corpo, il sacro, il potere e la morte. Si potrebbe scrivere: verso il corpo e cioè verso la morte; verso il sacro e cioè verso il potere. Le reliquie, i “formicai di ossa” irrisi da Calvino, erano capitale simbolico, marchio di identità non solo confessionale, ammesso che la religione sia mai oggetto e non pretesto di identità. Venivano scambiate fra gli stati per sancire patti strategici o economici. In caso di guerra erano il trofeo più ambito. La difesa di una reliquia poteva conferire legittimità a un impero. Attorno a una reliquia si poteva fondare l’egemonia di una città, come nel caso delle ossa dei Magi conservate al centro della cattedrale di Colonia. Per qualunque soggetto, singolo o comunità, una reliquia era affermazione di esistenza e garanzia di sopravvivenza alla morte, individuale o collettiva. Anche nell’islam, come nel paganesimo o nel buddhismo, le reliquie si usavano nella fondazione di edifici sacri e pubblici, si trasmettevano nelle generazioni, si diffondevano con l’avanzata storica e geografica di quella civiltà, si moltiplicavano, rivestivano una funzione civilizzatrice di legittimazione del potere temporale.
I resti del leggendario antenato di Osman traslati dall’esercito turco nel febbraio scorso simboleggiavano contemporaneamente l’identità etnica ottomana; la tradizione imperiale dei sultani, detentori del titolo califfale fino al 1924; la passata giurisdizione turca sulla Siria; il nazionalismo kemalista, che indusse Ataturk a rivendicarla e ottenerla dalla Francia nel trattato di Ankara del 1921, per mantenerla anche dopo l’indipendenza della Siria nel ‘46. Se quella fatta oggi coi tank blindati e le unità speciali come nel medioevo a fil di spada è la tipica traslazione di una reliquia, il suo significato ci fa leggere, sotto l’attualità, il reticolo sotterraneo di simboli e cicatrici che segnano la storia delle convivenze o collisioni o progressive ibridazioni tra popoli: in una parola, il passato.
Il Sole 25.4.15
L’ambasciatore. Nuova energia a un’amicizia millenaria
Cina e Italia insieme per un futuro comune
di Li Ruiyu
Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia


«La Via della Seta», per i popoli cinese e italiano, non è espressione sconosciuta. Già più di 2mila anni fa, questo lungo corridoio commerciale collegava due nazioni così distanti, promuovendo fortemente gli scambi culturali e mettendo in contatto grandi civiltà.
Oggi lo spirito di “cooperazione pacifica, apertura e tolleranza, apprendimento reciproco e mutuo vantaggio” è alla base della nuova Via della Seta, sempre più energica e vitale. Il Presidente cinese Xi Jinping ha proposto di costruire “la Cintura economica della Via della Seta” e “la Via della Seta marittima del 21° secolo” (“one Belt one Road” in inglese, ndr) “per portare avanti l’eredità spirituale dell’antica Via della Seta”. E dunque di estrema importanza sono le infrastrutture; la cooperazione economica è punto di partenza imprescindibile nonché forza motrice; gli scambi culturali e umani sono un supporto importante. Attraverso il rafforzamento degli scambi reciproci, del commercio e degli investimenti; l’approfondimento della cooperazione con i Paesi attraversati dalla Nuova via della Seta, la Cina si impegna a creare un “sistema di profitto comune” e, insieme, a sviluppare un sistema che abbia un “futuro comune”: prospero e vantaggioso per tutti.
Con gli sforzi congiunti di tutti, l’iniziativa “una striscia e una via” si sta traducendo in azioni concrete. Non è passato molto tempo da quando la Cina ha reso pubbliche le sue intenzioni di voler dar vita al progetto. A tale scopo, il contributo iniziale dell’Asian Infrastructure Investment Bank è stato sostanziale, oltre a quello dei 57 Paesi fondatori (Italia compresa). La Cina ha già attivato il Fondo della Via della Seta con una dote di 40 miliardi di dollari. Alcune iniziative relative alle infrastrutture, agli investimenti commerciali, alla cultura e alla sanità, stanno procedendo.
Sono convinto che nel prossimo futuro potremo già raccoglierne i primi frutti. L’Italia è importante partner strategico della Cina nella Ue. Negli ultimi anni la cooperazione tra Italia e Cina si è sviluppata rapidamente. Lo scorso anno i due premier si sono scambiati le visite di Stato, il volume del commercio bilaterale è aumentato del 10%, l’Italia è diventata uno dei principali Paesi di destinazione degli investimenti in Europa da parte cinese. Il capitale cinese, il mercato e il made in Italy, la stretta cooperazione nel campo del design; tutto ciò si è concretizzato operazioni come quella di Shandong Heavy Industry Group e Ferretti, Shanghai Electric e Ansaldo e, infine, ChemChina e Pirelli.
La Nuova via della Seta è un’occasione importante tanto per l’Italia quanto per la Cina. L’Italia in passato era la destinazione finale della Via della Seta e, oggi, è un punto di giunzione tra la quella terrestre e quella marittima. I nostri Paesi devono saper cogliere questa opportunità, promuovendo pienamente una cooperazione di eccellenza in campi come high-end manufacturing, risparmio energetico, fashion design, modernizzazione agricola, e continuando a migliorare e promuovere un modello di cooperazione reciprocamente vantaggiosa sulla base del principio: “design italo-cinese, produzione congiunta e vendite globali”; contribuendo al miglioramento della ristrutturazione economica della Cina e alla ripresa economica dell’Italia. Confido che la strategia di Pechino saprà dare nuova energia e vitalità allìamicizia plurimillenaria di Cina e Italia.
Il Sole 25.4.15
Tutte le strade portano a Pechino
La nuova Via della Seta è destinata a snodarsi per mare e per terra
di Rita Fatiguso


Tutte le strade portano a Roma. A guardare la mappa all’ingresso della mostra del Museo Nazionale dedicata alla Via della Seta il motto degli antichi romani è intramontabile: aperta a novembre, durante l’Apec, dal presidente Xi Jinping in persona, la rassegna ricostruisce civiltà e percorsi dell’antica via che dalla Cina all’Asia centrale, attraverso l’Asia minore, risaliva su per la Grecia, tagliava i Balcani approdando a Venezia e poi, inevitabilmente, a Roma.
Dove arriva, invece, la Nuova Via della Seta del jiebanren, l’erede designato, ora chairman Xi Jinping, che da due anni governa la Cina all’interno con pugno di ferro mentre in politica estera continua, instancabile, a tessere legami tra il suo Paese e il resto del mondo?
Le cartine geografiche fioccano e nessuna sembra essere quella ufficiale, Roma appare e scompare, per esempio, i contorni dell’Europa variano sensibilmente, tuttavia la Via della Seta di Xi è destinata a snodarsi per mare e per terra secondo un disegno ormai chiaro: la Cina vuol abbracciare il mondo da una prospettiva asiatica e sarebbe questa l’ispirazione di fondo della Nuova Via della Seta e dell’iniziativa marittima del 21esimo secolo, la strategia a tenaglia nota come “one belt one road”. Come dire 62 miliardi di dollari messi in palio per strade, autostrade, ferrovie, porti e altre infrastrutture all’estero e per creare domanda per le esportazioni industriali cinesi. Con tanto di Silk Fund (investimenti in equity) da 40 miliardi, la nuova Banca delle infrastrutture Aiib da 50 miliardi alla quale hanno aderito 57 Paesi, per non parlare della Banca dei Brics e del Caf, il fondo di investimento per la cooperazione Cina-Asean nato appena cinque anni fa. Una potenza di fuoco economica, una sfilza di strumenti a disposizione dell’azione di Pechino per creare, in buona sostanza, un’alternativa alla politica dettata dagli Usa. In Asia e non solo.
Ma quali sono i reali confini a Ovest della Nuova Via della Seta? «L’espressione Nuova Via della Seta l’ha inventata un tedesco - dice presentando il piano di azione Ou Xiaoli, direttore generale del dipartimento delle Regioni dell'Ovest della National and Reform Commssion (Ndrc), ma il presidente ci pensava già da tempo. I confini? Dipenderanno dagli Stati, saranno i singoli Paesi a decidere come e quando inserirsi nella strategia più generale».
Una prima tappa della Nuova via si è appena delineata in questi giorni con la visita a Islamabad di Xi Jinping, la capitale in festa e le gigantografie del presidente cinese definito amico del Pakistan. La Cina ha appena aperto una linea di credito da 43 miliardi di dollari per infrastrutture legando a sé uno Stato cruciale nella geopolitica di Pechino e nei rapporti tra Oriente e Occidente. Ovvio: la nascita di un superpotere economico si associa inevitabilmente a una crescita dello status geopolitico, e l’aumento dell’influenza geopolitica cinese spingerà il resto del mondo a nuovi equilibri.
Ma la Via della Seta ha un forte contenuto economico e se tocca ai Paesi decidere come approfittare di questa nuova strategia cinese, allora bisogna evidenziare lo snodo ferroviario di Chongqing verso Duisburg in Germania, nel cuore dell’Europa che potrebbe continuare a Sud verso Roma, un ottimo capolinea, come ai tempi dei romani, raggiungibile attraverso trasporti su gomma. L’Italia, che ha appena aderito come socio fondatore all’Aiib, ha tutto l’interesse a partecipare a una lunga serie di opera infrastrutturali che si prospettano e ha bisogno, a sua volta, di infrastrutture. Per non parlare dei porti, il potenziale marittimo italiano è ancora lontano dall’essere pienamente sfruttato, a differenza della Grecia che, invece, è pronta ad approfittare della Via della Seta Marittima.
«C’è anche una via finanziaria che potrebbe essere interessante - dice Mattia Marino che per Ambrosetti ha curato un forum pubblico e una tavola rotonda a porte chiuse a Qianhai vicino a Shenzhen, snodo cruciale della Via Marittima – bisogna considerare lo sviluppo finanziario dell’Europa, e la ristrutturazione finanziaria che è in atto in Asia. Shenzhen è vicina a Hong Kong e Hong Kong è connessa a Shanghai, si apre un canale che non è solo fatto di merci, ma di expertise e di competenze anche nella finanza».
Quest’anno gli investimenti cinesi all’estero dovrebbero superare quelli realizzati da aziende straniere in Cina, che pure nel 2014 è risultata la prima meta al mondo per gli investimenti. «Ebbene, le performance complessive delle aziende cinesi operanti all’estero sono ancora molto scarse – continua Mattia Marino - e le istituzioni finanziarie hanno bisogno di imparare a investire nelle persone e, soprattutto, nel futuro delle persone. Se non si affrontano questi problemi si rischia da parte dell’Europa di perdere l’aggancio allo sviluppo delle imprese di successo cinesi come Alibaba e JD.com: la Cina ha un grande mercato online con una popolazione Internet di 600 milioni. Non si può restarne fuori». E aggiunge: «L’Europa nel complesso rappresenta il 7% della popolazione mondiale, ma produce più del 23% del Pil e tocca circa il 50% della spesa sociale. La zona euro sta affrontando dinamiche molto complesse con un alto debito legato alla bassa crescita, l’Europa torna a crescere ma molto lentamente rispetto al Nord America: quale migliore occasione di programmi come quello lanciato in grande stile dalla Cina che offre positivi potenziali opportunità per l’Europa che ha bisogno, invece, di aumentare la competitività attraverso un processo di ristrutturazione fondamentale e di partnership con l’Asia?».
Ma la lettura dei fatti non è mai univoca. Tocca a Tom Miller di GavekalDragonomics, società di consulenza che ha appena illustrato il caso Silk Road in un incontro-seminario nell’ambasciata Britannica: «Sono scettico, la Cina non ha un grande interesse per l’Europa, in questo momento, quindi la Nuova Via della Seta difficilmente tornerà a essere quella che era nell’antichità. L’interesse dei cinesi al momento più forte è quello di influire dal punto di vista geopolitico nell’area asiatica consolidando le posizioni e dal punto di vista economico esportando prodotti di aziende in overcapacity. Le cui quotazioni non a caso si sono impennate man mano che il disegno prendeva corpo. Se e come Pechino riuscirà a governare questi processi in loco non è possibile saperlo. La crisi del porto di Colombo, in SriLanka e altri vari focolai di tensione dimostrano che la Cina ha ancora molta strada davanti a sè prima di potersi realmente definire una potenza geopolitica dotata di un’influenza reale. L’Europa, anche per questo, non è immediatamente nel mirino della Cina, la Cina guarda all’Eurasia”.
Il Sole 25.4.15
Pechino ricerca 100 «most wanted»
La stretta cinese sui reati finanziari


Hanno intascato tangenti, riciclato denaro, dirottato fondi, emesso fatture false.
Sono i 100 “most wanted”, la lista dei ricercati in Cina per reati economici e finanziari appena diffusa dalla Commissione centrale per le ispezioni disciplinari. Sono tutti fuggiti all’estero, ben 66 negli Stati Uniti, gli altri in Asia e Africa.
E devono sperare in cuor loro di non essere arrestati, perché da quando il presidente Xi Jinping è salito al potere ha cominciato a fare sul serio nella lotta alla corruzione - una piaga dilagante che frena lo sviluppo cinese - e non sono rari i casi di condanne capitali.
Se Xi e la nuova classe dirigente di Pechino hanno finora deluso sul fronte dei diritti, lasciando inalterato il rigido quadro di limitazioni delle libertà, bisogna riconoscergli gli sforzi compiuti sul fronte economico.
Graduale apertura del mercato e del sistema finanziario e lotta alla corruzione sono passi avanti importanti. In attesa delle riforme politiche.
La Stampa 25.4.15
Pechino vieta gli spogliarelli alle cerimonie funebri


Pechino Il ministero della cultura della Cina ha annunciato di aver vietato le esibizioni di spogliarelliste ai funerali che vengono utilizzate nelle zone rurali per attirare un maggior numero di persone alla cerimonia. Secondo l’agenzia Nuova Cina l’uso di queste professioniste per ravvivare le cerimonie funebri è molto diffuso nelle province del Jiangsu, nel sud e dell’ Hebei, nel nord del Paese. Nel suo comunicato il ministero definisce quest’ usanza «incivile». In Cina gli spogliarelli sono vietati dalla legge e vengono praticati clandestinamente in alcuni locali di infima categoria. In alcune zone della Cina, l’assunzione di «prefiche», noto come «kusangren» sono comuni, ma le loro prestazioni, che possono includere dei balli, negli ultimi tempi hanno virato verso l’erotico. Se «colte in flagranza» le ballerine vengono tenute in «detenzione amministrativa».
Repubblica 25.4.15
Il contagio di Tsipras
di Federico Fubini


PIÙ volte in questi mesi Pier Carlo Padoan ha cercato di far capire al suo collega Yanis Varoufakis che l’Eurogruppo non è una sala da convegno o un palco da comizio.
È UNO spazio di poche ore durante il quale i 19 ministri finanziari dell’euro, tutti e sempre sotto stress, devono trovare dei compromessi per poi metterli nero su bianco e applicarli una volta tornati a casa.
Con la Grecia di Varoufakis e Alexis Tsipras, per quasi tre mesi e 22 diversi “vertici”, questo non è stato possibile. Potrebbe diventarlo nelle prossime settimane, ma un fallimento che si ripete uguale a se stesso per così tante volte pone almeno due interrogativi di fondo. Il primo riguarda le cause profonde dell’incapacità dei greci di negoziare in questa fase come fa chiunque altro in Europa; ma la seconda questione chiama in causa quello che ieri a Riga il ministro delle Finanze sloveno, Dusan Mramor, ha definito il «piano B» da costruire se davvero si arrivasse al punto di rottura. I due aspetti sono legati, perché l’idea di liberarsi del problema greco semplicemente lasciando che il Paese esca dalla moneta unica rischia di rivelarsi solo l’ennesima illusione europea.
Varoufakis ormai avrà partecipato a quasi una decina di incontri dell’Eurogruppo, ma lo ha sempre fatto come fossero eventi legati al suo blog. A Bruxelles o a Riga ha dato l’impressione di non essere lì per trattare, ma per spiegare agli altri i massimi sistemi. Figlio di un ex combattente comunista della guerra civile poi divenuto grande industriale, economista esperto in giochi d’azzardo, Varoufakis si difende dalle critiche: «Oso parlare di economia nelle riunioni dei ministri dell’economia e questo a qualcuno risulta intollerabile».
La sua è una versione di comodo che elude la realtà, perché nei momenti decisivi Varoufakis è come paralizzato. Non può prendere impegni, e un corto circuito del genere segnala un problema più profondo della sua semplice originalità di carattere: il governo di Atene sta inviando all’Eurogruppo, la sede istituzionale da cui dipende il futuro della Grecia, una persona senza mandato a trattare. Tsipras non ha costruito una struttura in grado di lavorare con il resto d’Europa, e la sua omissione non può essere solo frutto di ottusità: il premier aveva sperato di poter semplicemente forzare la mano agli altri leader brandendo come una cintura esplosiva la prospettiva del default e della secessione dall’euro. Il vertice di ieri dice che non ha funzionato. Era una strategia ad alto rischio dall’inizio, ma era la sola che Tsipras ha pensato di poter seguire sapendo che la sua maggioranza andrebbe in pezzi se le si chiedesse di accettare un compromesso con Bruxelles. Scriveva qualche giorno fa il quotidiano di Atene Kathimerini: «È evidente che un numero notevole di ministri, parlamentari e uomini di partito fanno tutto ciò che è in loro potere per sabotare qualunque svolta verso il realismo e per far deragliare il Paese dal cammino europeo. Nessuno è in grado di controllare gli elementi estremisti della coalizione».
Tsipras senz’altro non lo è. Gli estremisti nel gruppo parlamentare di Syriza, il cartello della sinistra radicale al governo, sono circa il 20% ma sono al 40% nel comitato centrale del partito; l’alleato di estrema destra Anel è poi, se possibile, anche più antieuropeo. È dunque facile prevedere che la Grecia vada verso un complesso passaggio politico nei prossimi mesi e che i cittadini saranno probabilmente chiamati alle urne in ogni caso. Se Tsipras decidesse all’ultimo di formare un accordo con l’area euro per evitare il collasso del Paese, dovrebbe sottoporlo a un referendum o a nuove elezioni per ottenere un nuovo mandato e tacitare così i fanatici della sua stessa maggioranza. Se invece il premier proseguisse sulla strada attuale, il suo potere è comunque minacciato: mancano ormai poche settimane al giorno in cui sarà costretto a imporre vincoli soffocanti al ritiro di contante dalle banche e all’espatrio dei risparmi, o al momento in cui dovrà pagare pensioni e stipendi con cambiali di dubbio valore. La società greca sprofonderebbe nel caos, scenderebbe in piazza e nuove elezioni sarebbero la risposta più ovvia.
È tragico dirlo, ma quest’ultimo scenario oggi è la speranza di molti negoziatori europei: una crisi sociale e politica che cambi il governo ad Atene. I protagonisti del resto dell’area euro farebbero piuttosto meglio a curarsi di ciò su cui hanno responsabilità diretta: se stessi in questa crisi. Il contagio di una caotica, sporca, protratta deriva della Grecia fuori dall’euro può forse essere contenuto nel breve periodo se la Banca centrale europea — come sembra — intensificasse i suoi interventi nei mercati. Ma alla lunga la ferita resterebbe aperta e l’Italia sarebbe fra i Paesi più esposti alle sue radiazioni. Per questo il tempo stringe e serve un disegno concreto che rafforzi le istituzioni dell’area euro per renderle credibili nel lungo periodo: nella Commissione la chiamano già una «mini-unione di bilancio». La Germania sarebbe disposta ad accettarla, se Francia e Italia accettano vincoli più stringenti da parte dell’area euro sulle loro scelte di politica economica. È una prova di maturità per l’Europa. Comunque vada, tra un po’ non sarà più possibile dare alla Grecia sempre la colpa di tutto.
Repubblica 25.4.15
“Grexit gravissimo per l’Italia tassi in rialzo e addio tesoretti”
di Eugenio Occorsio


ROMA . «Non è detto che non si riesca a trovare un accordo in extremis. Ma la situazione peggiora di giorno in giorno, e il nervosismo prende il sopravvento come dimostra la levata di scudi contro Varoufakis. Le probabilità di fallimento della Grecia sono 30 su 100». Lucrezia Reichlin, docente alla London Business School, vede con preoccupazione l’evolversi della situazione. «Il default non significa automaticamente l’uscita dall’euro, ma certo ne rappresenta il probabile antefatto. Le conseguenze politiche sarebbero gravissime in tutta Europa».
A partire dai Paesi più deboli come l’Italia?
«Certo. Anche se non si avrebbero conseguenze dirette sul sistema bancario italiano né tedesco né francese perché gli affari con la Grecia sono ridotti al minimo, il rialzo dei tassi sui fronti più vulnerabili sarebbe inevitabile. Basta pochissimo perché l’Italia bruci qualsiasi tesoretto che sia riuscita ad accantonare».
In caso di Grexit le protezioni della Bce funzioneranno?
«Sicuramente. A differenza del 2012 ci sono il fondo salvastati, l’unione bancaria, le Outright monetary transaction varate da Draghi mai attuate ma che ora scatterebbero subito. Ma il danno all’immagine dell’Europa sarebbe politico e minerebbe la stabilità dell’Unione nel lungo periodo. Non è pensabile un’Europa senza la Grecia».
Di chi sarebbe la responsabilità del default greco?
«Di tutti. I programmi disegnati per la Grecia non sono partiti dall’evidenza che Atene era di fatto insolvente. In tale condizione la ricetta dell’austerità non funziona. È stata un fallimento e ha avuto enormi costi per i cittadini greci. Atene deve intraprendere un cammino di profonde riforme che le permettano di incassare le tasse e rendere efficiente l’amministrazione. Per farlo ci vuole un consenso politico e la minaccia dei creditori combinata all’austerità può diventare controproducente».
In questi giorni si rispolverano i precedenti di rotture di aree economiche: accadde perfino negli Stati Uniti negli anni ‘30 per diverse municipalità, in Canada per le tensioni con il Quebec, stava per succedere col referendum scozzese...
«Non a caso quando sembrava che gli scozzesi avrebbero deciso per la separazione, Londra mandò a dire che avrebbe rifiutato qualsiasi currency union per non finire come l’euro. Negli altri casi la rottura fu risolta perché c’era ben altra coesione politica rispetto all’Europa».
Cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi giorni?
«Il problema di liquidità di Atene è risolto con la legge speciale che impone alle municipalità di versare un acconto alla Banca di Grecia per 2 miliardi. La scadenza di maggio potrà essere onorata: ma entro giugno, prima che scattino le rate con la Bce, si deve assolutamente trovare l’accordo ».
In generale, al di là della Grecia, la Germania sta riconsiderando le politiche di austerità?
«In un contesto globale in cui la domanda cinese rallenta e gli americani aumentano il risparmio, la Germania ha il problema di piazzare il suo surplus commerciale: le serve un mercato europeo in cui la domanda ricominci a tirare».
Corriere 25.4.15
I creditori di Atene infuriati con Syriza «Di sinistra? Frena il Pil, aiuta i ricchi»
L’accusa: ha esteso a seimila oligarchi la dilazione su 60 miliardi di arretrati dovuti al Fisco
di Danilo Taino


BERLINO Da tre mesi al potere in Grecia, il governo di Syriza è considerato dai suoi creditori tutto meno che di sinistra. Per ora – dicono – ha favorito i ricchi e i soliti oligarchi che tirano le leve del comando ad Atene da decenni e decenni.
Delle non molte leggi approvate finora dall’esecutivo guidato da Alexis Tsipras, che si definisce di sinistra radicale, una delle più importanti, ma poco propagandata, è l’ampiamento anche ai seimila ricchi che prima ne erano esclusi della possibilità di dilazionare in 80-100 rate di quello che devono al Fisco. La legge che lo permette era stata varata dal governo precedente ma la troika dei creditori - Ue, Banca centrale europea (Bce), Fondo monetario internazionale (Fmi) - aveva ottenuto che i seimila con più di quattro milioni di arretrati fossero esclusi dal beneficio. Syriza ha esteso anche a loro la possibilità: questo gruppo di ricchi deve al Fisco circa 60 miliardi. «Invece di mandare gli ispettori a visitarli e invece di rendere visibile la situazione, il governo ha introdotto uno schema automatico e oscuro», dice un funzionario Ue coinvolto nelle trattative.
Il Corriere ha parlato con una serie di rappresentanti dei creditori della Grecia - che non desiderano essere citati - e ne ha tratto un quadro preoccupante che spiega la sfiducia che si è creata nei confronti della possibilità di trattare seriamente con Atene .
La leader dell’Fmi, Christine Lagarde, più di un anno fa aveva presentato una lista di grandi evasori fiscali ellenici. Il vecchio governo non aveva fatto nulla. Quello nuovo di sinistra ne ha arrestato uno, un imprenditore, la settimana scorsa, poi rilasciato. «Bene - dice un funzionario -. Ma è solo simbolico: costoro dovrebbero avere tutti i controllori in casa. È che non c’è applicazione delle leggi. Di base, c’è un gruppo di oligarchi che ancora oggi influenza pesantemente la politica. È frustrante vedere che un governo di outsider non ha minimamente intaccato il loro potere». I creditori erano riusciti a creare la figura di un coordinatore indipendente per la lotta alla corruzione. Syriza lo ha eliminato e ha portato la responsabilità in sede di governo. «Se volevi dare un segno che esiste la legge – spiega un rappresentante dei creditori – avresti chiesto ai greci che vivono all’estero, in posizioni importanti e non coinvolti con il sottobosco greco, di tornare a lavorare in un consiglio contro la corruzione e il potere degli oligarchi. Niente, succede anzi il contrario: i poteri nascosti hanno radici profondissime nel Paese». Su una legge in campo immobiliare del nuovo governo che a parole favorisce i poveri, la Bce ha scritto un parere nel quale sostiene che va a favore dei ricchi, in quanto crea rischi al sistema bancario, il quale darà meno credito a chi compra casa e a tassi più alti.
I creditori europei ritengono che la situazione che si è creata ad Atene stia azzerando la ripresa che nel 2014 era iniziata. «All’inizio dell’autunno scorso - dice uno di loro - la Grecia era avviata a una crescita del 2,9% nel 2015. E la disoccupazione era in calo. Ora, la debolezza dell’economia è evidente: recessione o meno – vedremo – di certo Syriza non solo non ha colto l’opportunità di essere il governo del rilancio, ha anche creato una situazione in cui non investe più nessuno. E pensare che l’anno scorso la Grecia aveva raccolto sui mercati, dove era tornata una certa fiducia, quattro miliardi per lo Stato e otto per le banche: da investitori privati. Che ora sono scappati» .
In Grecia, gli inviati dei creditori sono rimasti scioccati dalla differenza abissale di approccio ai problemi con, ad esempio, l’Irlanda, un altro Paese finito in grandi difficoltà e che aveva firmato un programma di riforme in cambio di aiuti. «Quando abbiamo fatto un accordo con Dublino nel 2010 - dice un funzionario che era sia in Irlanda che in Grecia - il governo l’ha subito fatto suo, l’ha portato avanti. E ha funzionato. Ad Atene, noi abbiamo avuto lo stesso approccio ma i governi - anche quelli precedenti all’attuale - non lo hanno mai considerato loro. Il testo delle leggi non era mai quello concordato, i tempi di presentazione al Parlamento nemmeno, le circolari per attuarlo erano il contrario di quello che avrebbero dovuto essere, e la loro applicazione non c’era. Su ogni cosa dovevamo intervenire: e da qui è nata la favola che la troika interferiva. Non è così».
Passi indietro - dicono i creditori - si stanno facendo sulla riforma del mercato del lavoro, dove Syriza vuole tornare al passato sulla contrattazione collettiva e riportare a livelli tra i più alti in Europa il salario minimo; nell’Amministrazione pubblica; nel sistema giudiziario; nelle privatizzazioni che potrebbero tagliare le unghie ai potentati monopolistici. Praticamente ovunque. La Grecia di Syriza - di sinistra? - arretra. Pericolosamente.
Corriere 25.4.15
Farmaci, acquisti, ricoveri e ricette
Nella sanità tagli per 2,6 miliardi
di Margherita De Bac


Due miliardi e 600 milioni per il 2015. I tagli alla sanità prendono forma
Farmaci, dispositivi medici, beni e servizi, visite specialistiche ed esami ambulatoriali inappropriati al centro della stretta

Fitch conferma il rating all’Italia: «Più stabilità, avanti con le riforme. Crescita debole»
ROMA Prendono forma i tagli alla sanità, due miliardi e 600 milioni per il 2015 se si include la riduzione del fondo per l’edilizia sanitaria già concordato a febbraio. L’intesa tra Stato e Regioni potrebbe arrivare il 29 aprile. La discussione era prevista l’altro ieri, ma l’appuntamento è slittato, segno che il braccio di ferro continua.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti preferisce parlare di «razionalizzazione. Se si è in grado di spendere meno risorse per dare più servizi è un vantaggio per i cittadini». Facile a dirsi. La percezione da parte di chi la sanità la vive tutti i giorni, quindi malati, medici, infermieri, è tutt’altro che efficienza e crescita. I comparti interessati dalla stretta non sono nuovi alle manovre. Farmaceutica, dispositivi medici (ampia categoria di prodotti che vanno dalla siringa alle apparecchiature), acquisto di beni e servizi, prescrizioni di visite specialistiche ed esami ambulatoriali inappropriati, cioè non giustificati dalla reale necessità del paziente.
Medicine, il risparmio stimato è di 235 milioni. Deriva dalla revisione del prontuario da parte dell’agenzia nazionale Aifa anticipata al 30 giugno. In realtà è difficile che in così poco tempo i tecnici riescano a compiere un vero e proprio giro di boa. Verrà rivisto l’elenco dei prezzi di riferimento che indicano il prezzo massimo di rimborso per i farmaci «terapeuticamente assimilabili». Più responsabilità per le aziende produttrici, chiamate a intervenire in caso di superamento dei tetti di spesa: 310 milioni in meno. Attenzione al fondo per i farmaci innovativi, istituito dalla legge di Stabilità per rimborsare le nuove cure contro l’epatite C. La spesa in più incide sul tetto territoriale.
Rientrata la «patrimoniale» sui medici che prescrivono esami sproporzionati. Non pagheranno personalmente. Ne risponderanno i direttori generali delle Asl alla verifica di fine nomina. E ancora, taglio alle convenzioni con le cliniche private al di sotto dei 40 posti letto a meno che non si tratti di centri specialistici, ad esempio solo oftalmologia, odontoiatria, ortopedia. Tra i punti, la «riduzione progressiva delle centrali del 118», conseguenza della riorganizzazione della rete ospedaliera. Alcune Regioni hanno cominciato a unificarle. In Toscana le centrali sono scese da 12 a 6, in Emilia Romagna da 12 a 3, Lombardia da 9 a 4 e Piemonte da 8 a 4.
Un incoraggiamento è arrivato ieri sera da Fitch che ha confermato il rating all’Italia sulle considerazioni di una maggiore stabilità anche se, ha rilevato l’agenzia americana, le riforme vanno completate e la crescita è ancora fragile.
La Stampa 25.4.15
E il Viminale è sicuro che gli sbarchi aumenteranno
di Guido Ruotolo


E adesso che succederà? Tutto dipenderà dal bel tempo, dai gommoni o dai pescherecci salpati dalle coste libiche. Bastano poche centinaia di arrivi in più e il prefetto Mario Morcone, capo Dipartimento dell’immigrazione del Viminale, sarà costretto a firmare una nuova circolare chiedendo alle regioni, agli enti locali, di prendersi in carico altri seimila immigrati.
Il giorno dopo le decisioni dei premier dell’Unione europea, è come se la bottiglia fosse mezza vuota più che mezza piena. Molto deludente l’Europa solidale, che a proposito delle quote di immigrati che dovrebbe prendersi in carico, lascia la decisione «su base volontaria e non imperativa».
Insomma, l’Italia dovrà continuare a garantire l’accoglienza dei profughi. Oggi tra adulti e minori, il nostro Paese ne assiste già 81.000.
Al Dipartimento della Polizia di frontiera si fanno i conti per capire come si tradurrà concretamente la decisione di triplicare Triton, l’operazione di polizia di frontiera a 30 miglia da Lampedusa.
Nove milioni di euro a disposizione al mese per fare che? La proposta che verrà suggerita a Frontex nel prossimo meeting di Varsavia sarà quella di rafforzare il dispositivo navale con mezzi veloci in grado di intervenire per affondare i gommoni o i barconi, una volta effettuato il trasbordo degli immigrati.
Soprattutto quando a prestare soccorsi sono i mercantili commerciali privati, ci sarà bisogno di assetti navali delle Capitanerie, della Finanza, di Frontex in grado di non lasciare alla deriva questi natanti ma di affondarli.
Nei fatti, Triton rafforzata, per come ne hanno discusso i capi di governo, diventerà un ibrido: un po’ Triton appunto, un po’ Mare Nostrum che farà anche ricerca e salvataggi oltre che vigilanza delle frontiere. Paradossalmente, i nostri esperti temono che nell’impeto di solidarietà europea, una flotta di mezzi Triton schierati per recuperare profughi si trasformi in un «formidabile fattore di attrazione», innescando di nuovo un meccanismo di partenze su mezzi precari in grado di galleggiare per pochi metri (tanto poi ci sono le navi europee che trasbordano i passeggeri).
Soprattutto l’Europa che parla tedesco ha voluto prevedere team tecnici comuni per le foto segnalazioni degli immigrati, non fidandosi degli italiani. In realtà vi sono immigrati, di etnie e nazionalità diverse che si rifiutano di essere fotosegnalati. È legittimo l’uso della forza. Ai funzionari della Scientifica coinvolgono nella decisione l’autorità giudiziaria che, spesso, nega l’uso della forza.
La Stampa 25.4.15
Immigrati, perché il piano dell’Europa non funziona
Il salvataggio all’europea bloccherà i migranti in Italia
Le navi Ue ci aiuterannonelle procedure di identificazione degli stranieri
Chi arriva, però, dovrà restare dove è sbarcato: ovvero nei nostri confini
di Marco Zatterin


Tempo qualche settimana, e nel Canale di Sicilia ci saranno trenta e passa navi europee con la bandiera di Triton pronte - nel caso più che probabile di necessità - a intervenire per ripescare le vittime delle carrette messe in mare dai trafficanti di disperati. La missione coordinata da Frontex, l’agenzia Ue per la vigilanza sulle frontiere comuni, avrà un budget mensile di 9 milioni, proprio come la «Mare Nostrum» italiana che ha sostituito da novembre. E’ sensazione comune che, col vertice di giovedì, l’Unione abbia attrezzato una sua versione di «Mare Nostrum», informale per aggirare i veti e le lungaggini, così da ridurre il prezzo da pagare in vite umane. Il risultato è che il numero di migranti che arriveranno nei nostri porti è destinato a crescere. E che, a quel punto, scoppierà il bubbone vero: perché l’Europa non ha deciso come comportarsi con coloro che riesce a strappare alla morte.
Cosa deve fare Triton?
Non il «search and rescue», ola ricerca e il salvataggio, non direttamente. Deve vegliare sulla sicurezza della frontiera dell’Unione, col vincolo di non allontanarsi oltre le 30 miglia dalla terra ferma (il mandato di “Mare Nostrum” finiva a 50). Ma la soglia può essere superata per rispondere ad un «sos», cosa che accade regolarmente. La legge del mare che obbliga a intervenire in caso di naufragio è più forte. È così che, in cinque mesi, Triton ha salvato più di 30 mila persone.
Chi accoglie i migranti?
Comanda il Regolamento di Dublino: lo stato competente all’esame della domanda d’asilo è quello in cui richiedente mette piede per la prima volta. Triton si basa poi sul concetto di «stato ospite», che offre «il più vicino porto sicuro». I disperati del Mediterraneo finiscono pertanto da noi: 171 sui 270 mila entrati in Europa nel 2014 sono passati di qui. La «Mare Nostrum» Ue sarà coerente. «Dublino è finito», ha ammesso una fonte Ue.
Cosa succede nei porti?
Una volta sbarcati, i migranti sono indirizzati nei centri d’accoglienza, dove si procede all’identificazione attraverso la fotosegnalazione e le impronte (in teoria entro 72 ore, ma è un tempo spesso troppo stretto). Il riconoscimento è un lavoro difficile, al termine del quale i richiedenti asilo vengono confinati nell’attesa che l’iter si concluda. E’ in questa fase che una parte di loro prende il volo. Almeno la metà, grazie anche alle gang criminali che li attendono per continuare il viaggio. La Germania accusa Italia e Grecia di non controllarli per liberarsi degli ospiti indesiderati.
Per questo Berlino chiede quote obbligatorie?
I tedeschi sono stati sinora generosi nell’offrire ospitalità. Nel 2014 le richieste di asilo sono state 202 mila, il 32% di quelle arrivate in Europa. La Svezia è a 81 mila, l’Itala a 64 mila, la Francia a 62 mila. I tedeschi accusano Atene di barare, bocciandone oltre il 90%. I tecnici di Angela Merkel spingono per quote calcolate in funzione della ricchezza dei paesi (pil) e della popolazione.
Cosa succede adesso?
Il leader europei hanno incaricato la Commissione Ue di predisporre opzioni per assicurare la ricollocazione (“riallocation”, meccanismo da definire) dei migranti una volta giunti da noi, capitolo che riguarda chi arriva senza diritti. In un secondo momento ci si occuperà del reinsediamento (“resettlement”), ovvero di chi ha diritto di asilo ma non si trova in Europa. Nella bozza del vertice di giovedì c’era la proposta di creare un progetto pilota per reinsediare su base volontaria di almeno 5000 siriani. Il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, voleva togliere il concetto di volontarietà. Non l’ha spuntata.
Chi frena sull’accoglienza?
Molte capitali non vogliono vincoli. «Il senso del vertice è che tutti aprono alla possibilità di un ruolo nella distribuzione dei migranti», assicurano al consiglio. Però «ci saranno tensioni e non sono ottimista sul fatto che si arrivi al ricevimento obbligatorio». A giugno i leader rifaranno il punto sui progressi. Allora i Ventotto potrebbero scoprire che salvare i disperati in alto mare, alla fine, è il capitolo più digeribile dell’intero volume che si trovano scrivere.
La Stampa 25.4.15
L’unica via per fermare gli scafisti
di Federico Varese


La riunione straordinaria dei leader europei dedicata alla tragedia dei migranti morti nel mediterraneo non ha svegliato l’Unione Europea dal suo torpore. Si deve dare atto a Renzi di aver posto con forza il problema dell’immigrazione clandestina, ma gli altri Paesi, Regno Unito in testa, non sono disposti a prendersi responsabilità concrete, mentre nessuno si rende conto che gli scafisti sono solo un anello di una catena ben più complessa.
Il Primo Ministro inglese è uscito dalla riunione di Bruxelles promettendo di affiancare alla flotta italiana l’ammiraglia HMS Bulwark. Si è però subito affrettato a dichiarare che i migranti salvati dalle unità inglesi non avranno diritto di chiedere asilo al Regno Unito. Questa posizione contraddice le convenzioni europee, le quali permettono di chiedere asilo una volta saliti a bordo. L’egoismo britannico, in gran parte responsabile della fine della missione umanitaria Mare Nostrum, è sconcertante.
Quali sono le soluzioni di lungo periodo? Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha confermato il piano della Unione Europea di «catturare e distruggere» le imbarcazioni usate dai trafficanti. Stupisce che tale ipotesi venga presa seriamente in considerazione. Distruggere le navi equivale a confiscare in massa i computer nella capitale romena degli hacker, oppure le automobili usate negli Anni Venti negli Stati Uniti. Come è possibile sapere come verrà utilizzata un’auto, un computer oppure un’imbarcazione? Gli osservatori presenti nel porto libico di Zuwara, da dove partono ogni giorno chiatte in direzione dell’Italia, raccontano che non esistono attracchi separati per gli scafisti. La stessa imbarcazione usata per pescare oggi trasporta centinaia di persone domani. Solo quando essa è in mare possiamo essere certi che viene usata per fini criminali. Ma a quel punto è troppo tardi. La proposta europea avrà l’effetto di mettere in ginocchio l’economia costiera, spingendo i pescatori locali nelle braccia del crimine organizzato.
Le voci più sensate - come quella di Romano Prodi su La Stampa - hanno sottolineato che una soluzione di lungo periodo va trovata sulla terraferma. Eppure molti osservatori non distinguono due tipi di attori in questo business disgustoso: gli scafisti che forniscono il «servizio», e coloro che permettono a questi individui di utilizzare indisturbati le coste. Tale distinzione è evidente nel caso della Somalia. In quel Paese i pirati vengono protetti dai clan locali e dal gruppo terroristico Al Shabaab, come dimostrato dall’economista Anja Shortland e da me in diversi saggi sul tema. Lo stesso avviene in Libia: gli scafisti pagano il «pizzo» al protettore che controlla la costa, oppure alla guardia costiera corrotta che finge di non vedere. Ad esempio, il porto di Zuwara è controllato dal gruppo etnico berbero degli Amazigh. Come i clan somali, anche gli Amazigh vivono di traffici e di commercio. Essi hanno la governance del territorio e possono far cessare da un giorno all’altro le partenze. È cruciale intrattenere rapporti diretti con i leader di questi gruppi e offrire loro incentivi per smettere di proteggere il traffico di esseri umani.
Il business degli scafisti viene descritto dai giornali come un «sistema criminale perfetto» e gli investigatori sono alla disperata ricerca di un Boss dei Boss da arrestare. L’ultima illusione europea consiste nell’ingigantire il ruolo dei trafficanti, come Hajj, un laureato in legge di etnia Amazigh che organizza le partenze dal porto di Zuwara, intervistato ieri dal Guardian. Hajj e altri come lui sono dei criminali e degli opportunisti che non potrebbero esistere senza la protezione armata di chi non è direttamente coinvolto nel business. Nel caso della Somalia, diversi clan hanno smesso di proteggere i pirati quando le opportunità di guadagno nei mercati legali erano maggiori del pizzo offerto dai pirati. Nulla vieta di tentare la stessa strategia anche in Libia, un primo passo verso la stabilizzazione del Paese. Le vittime della storia ottengono, per qualche giorno, la simpatia del mondo civile, ma si meritano ben altro.
Il Sole 25.4.15
Gli scenari. Timori trasversali sia per il via libera alla legge che per l’eventuale bocciatura
Quella «doppia paura» del ritorno alle urne
di Barbara Fiammeri


A vincere sarà la paura. La paura che se l’Italicum diventerà legge Renzi accorcerà i tempi della legislatura. La paura che , al contrario, se Renzi non otterrà il via libera alla riforma elettorale si tornerà rapidamente al voto, sia pure con il Consultellum. Due paure che, pur fondandosi su scenari antitetici, hanno in comune lo stesso obiettivo: mantenere il più a lungo possibile il proprio seggio parlamentare. È un’esigenza trasversale che accomuna maggioranza e opposizione.
Un sondaggio indicativo ci sarà a breve, martedì, quando in aula si voteranno a scrutinio segreto le pregiudiziali di costituzionalità sull’Italicum. Sarà una prima conta. Ma il clou arriverà la settimana successiva, quando si voterà sul testo finale dell’Italicum. Se Fi manterrà la decisione di chiedere il voto segreto per quest’ultima prova di forza, lì si misurerà quale dei due fronti della paura ha prevalso.
È una mossa ad alto tasso di rischio quella del partito di Silvio Berlusconi, ormai dilaniato da lotte intestine. Denis Verdini è a un passo dall’uscita e con lui altri parlamentari che possono diventare più o meno numerosi; Raffaele Fitto ormai controlla circa un terzo dei gruppi di Camera e Senato ed è pronto a citare in giudizio i vertici del partito in Puglia per abuso del simbolo. Ad aumentare un clima tutt’altro che positivo, c’è poi la certezza dell’operazione restyling. Berlusconi la ufficializzerà subito dopo le regionali. Alcuni segnali sono già evidenti. Non passa giorno che la nuova pasionaria azzurra Silvia Sardone non vada in tv per rottamare tutta la vecchia guardia (ieri ha salvato solo Brunetta, Gelmini e Santanché). Anche l’innesto di Andrea Ruggieri (nipote di Bruno Vespa) che avrà il compito di decidere quali forzisti vanno in tv, non sembra aver riscosso entusiasmi. Così come anche la voce insistente e non smentita della promozione di Antonio Tajani a coordinatore nazionale del partito.
È questo il contesto che accompagnerà il voto sull’Italicum. E se alla fine Renzi dovesse avere la meglio, ottenendo il via libera il voto segreto potrebbe rivelarsi un boomerang per Forza Italia. «Immediatamente partirebbe l’attacco al presunto soccorso azzurro...», confermava ieri un’influente deputata forzista. Ecco perché più di qualcuno in Transatlantico tifa per un nuovo Aventino, per l’abbandono dell’aula che consentirebbe di mantenere l’unità del gruppo e metterebbe in difficoltà il Pd, o meglio, la minoranza del Pd che si dovrebbe assumere la responsabilità di garantire o meno il numero legale e quindi la sopravvivenza del governo. Uno scenario che spaventa e mantiene al lavoro i pontieri (in primis i centristi di Area popolare), i quali, anche in queste ore, cercano di scongiurare le rese dei conti interne insistendo con la proposta «né fiducia né voto segreto». Prospettiva che al momento non ha però fatto breccia.
La Stampa 25.4.15
Davide Zoggia
«Riaprire il dialogo. Se no si rischiano incidenti nel Pd»
di Francesco Maesano


Renzi emana l’ultimatum sulla legge elettorale e Davide Zoggia non la prende bene. «Non capisco la necessità di creare un clima di terrore così esasperato».
Terrore delle urne?
«Fare le elezioni o meno lo decide il capo dello Stato, verificando se ci sono maggioranze diverse in Parlamento».
Già la testa alla crisi di governo?
«L’impegno di tutti è quello di cambiare la legge elettorale. Sarebbe un fallimento anche per Renzi quello di votare col proporzionale. Fossi in lui lavorerei nel Pd per cercare intese. Mi pare che ci siano spazi per creare il dialogo, per non creare incidenti».
Ci saranno incidenti?
«Possono capitare. Starà a Renzi lavorare per trovare i consensi necessari. Se fossi un timoniere e avessi nella mia barca il popolo italiano farei di tutto per non far affondare la barca».
L’Italicum fa affondare la barca?
«È una legge con luci e ombre. Abbiamo chiesto che perlomeno ci sia un bilanciamento sulle riforme costituzionali».
Volete più tempo per trattare?
«Non è questione di tempo, non c’è una parte che vuole velocizzare e una che vuole rallentare. C’è un solo Pd e dentro c’è una parte che vuole migliorare le cose. L’esasperazione dei toni è fuori luogo. Non ho trovato simpatico il fatto di sostituire dieci membri della commissione d’imperio. Non si può trattare Bersani come un sovversivo. È stata una mossa senza stile. Chi dovrebbe trovare le intese pensa a fare a sportellate».
Teme altre sportellate?
«Forse martedì mettono la fiducia sulla pregiudiziale di costituzionalità. Vuol dire che Renzi non si fida di una parte importante del Pd».
L’Italicum è incostituzionale?
«Lo dirà il presidente della Repubblica».
La Stampa 25.4.15
La strategia del premier tentato dalle tre fiducie
Porrà la questione su tutti gli articoli della legge elettorale E lascia trapelare il fastidio per le frasi di Prodi e Letta
di Fabio Martini


Il suo «Vietnam» si avvicina e Matteo Renzi ha già deciso come combattere la madre di tutte le battaglie. In pubblico dice che deciderà il da farsi nei prossimi giorni; dice che se cade l’Italicum, cade anche il governo, in questo modo terrorizzando i tanti parlamentari che temono lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma in cuor suo ha già preso la decisione più difficile. Salvo sorprese dell’ultima ora, il governo porrà la questione di fiducia per tre volte: un voto per ogni articolo della legge elettorale. E d’altra parte il premier è costretto a rompere gli indugi, perché a partire da martedì 28 aprile iniziano le votazioni decisive sulla legge alla quale il premier tiene di più: quella riforma elettorale che, una volta approvata, potrebbe favorire la sua vittoria alle prossime elezioni politiche.
Certo, l’uomo ha già dimostrato di sapere cambiare all’ultimo istante mosse già programmate, spiazzando i suoi avversari. E anche stavolta Renzi, soppesando le forze in campo, potrebbe disporre il contrordine. Ma se i «fondamentali» non dovessero cambiare, lo staff di Renzi ha deciso che ai due probabili voti segreti (pregiudiziale di costituzionalità e voto finale sull’Italicum) «imposti» dal regolamento, il governo opporrà tre voti di fiducia.
Una battaglia parlamentare che Renzi, da quel che trapela, è convinto di vincere ma che non sottovaluta. Anche perché nei passaggi decisivi il presidente del Consiglio è pronto calare una carta hard, l’arma costituzionalmente legittima ma politicamente più controversa: il voto di fiducia. E di farlo a ripetizione. Come fece un padre della patria come Alcide De Gasperi nel 1953 per la cosiddetta legge truffa, peraltro una riforma decisamente più soft di quella attualmente in discussione, visto che garantiva un premio alla coalizione che avesse superato il 50 più uno dei voti.
Già da tempo Renzi ha preparato con ogni cura la battaglia (per lui) decisiva. Anzitutto ha già dispiegato un vasto «porta a porta» con tutti i deputati incerti, un lavoro svolto da Maria Elena Boschi, da Luca Lotti e in alcuni casi da lui stesso. Ma l’argomento più convincente è quello della minaccia delle elezioni anticipate. Un argomento destinato a far breccia nella «palude» dei tanti deputati centristi disseminati in diversi gruppi parlamentari? «Sì - dice Pino Pisicchio, presidente del gruppo misto e anche uno dei parlamentari più esperti e dal fiuto più sensibile - il sentimento prevalente è il timore che, saltando la riforma elettorale, salta la legislatura. E non viceversa. Ecco perché il governo passerà senza problemi anche nelle votazioni segrete».
Dopo essere passato all’esame delle Commissioni, lunedì 27 il testo della riforma elettorale arriva nell’aula di Montecitorio per la lettura che (nel giro di una decina di giorni) potrebbe risultare decisiva: lo sarà se non ci saranno modifiche anche minime (che riporterebbero il testo al Senato), per non parlare ovviamente di una bocciatura nel voto finale, che cancellerebbe il provvedimento sul quale Renzi punta di più.
Lunedì l’aula sarà chiamata ad esprimersi sulle richieste di sospensiva delle opposizioni, si voterà a scrutinio palese e su questo passaggio il governo non dovrebbe rischiare. Il primo test probante si giocherà l’indomani: il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta ha già annunciato che sulla pregiudiziale di costituzionalità, Forza Italia chiederà il voto segreto. Il governo ha deciso (per ora) di non porre la fiducia su questa pregiudiziale, che «implicitamente è un voto di fiducia al governo», sostiene il costituzionalista Stefano Ceccanti.
Se la legge passerà indenne, dopo la discussione generale che occuperà tutta la settimana, a partire dal 5 maggio si entrerà nel vivo con le votazioni sui singoli articoli. Renzi è sincero quando dice di essere fiducioso sulla tenuta parlamentare. Mentre sembra più agitato per una nuova «nebulosa» che si muove fuori dal Palazzo. Le battute sprezzanti («sono in uscita i loro libri») con le quali ha liquidato le critiche di Romano Prodi ed Enrico Letta lasciano trapelare tutto il fastidio per le opinioni dissonanti proposte da due personalità senza «truppe» e senza correnti, due senza-partito che nell’ottica di palazzo Chigi possono diventare più pericolosi degli ultimi rappresentanti della «ditta».
Corriere 25.4.15
l segretario prepara la sfida per chiudere i conti con tutti
La partita con la sinistra e Berlusconi. Ma il vero timore è la crisi libica
di Francesco Verderami


Più della legge elettorale lo preoccupano gli sbarchi, più dell’opposizione parlamentare teme l’opposizione dei partner internazionali sulla crisi libica.
Governare logora, secondo Renzi, ma non a Roma. Infatti è di ritorno da Bruxelles che ha confessato di essere a corto di energie, siccome «il vertice è stato assai stressante». In Italia non gli accade, perché dispone di un vantaggio che nessun suo predecessore ha mai avuto: ha ereditato un sistema debolissimo che dopo un anno era già figlio di un’altra epoca politica, e ora può usare la sua forza con tutta la spregiudicatezza di cui è capace, dato che in fondo è — per tutti i parlamentari — l’assicurazione sulla loro vita, l’unico che può garantire l’arrivo alla terra promessa, cioè alla fine naturale della legislatura.
Perciò li lusinga e al contempo li minaccia. L’ha fatto anche ieri avvertendo che se cadesse l’Italicum cadrebbe anche il governo, evocando — ma senza dirlo per rispetto a Mattarella — le elezioni anticipate. Ma è un non problema, piuttosto è un esercizio di retorica, un modo per enfatizzare la questione prima di risolverla con una girandola di voti di fiducia. Il resto è tattica parlamentare: Renzi deve solo decidere se dar seguito al timing predisposto alla Camera — dov’è previsto già per la prossima settimana il primo voto a scrutinio segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità della legge — oppure far concentrare tutto l’esame del provvedimento nei primi giorni di maggio, così da evitare che il soufflè delle polemiche monti eccessivamente.
Rischi che la legge elettorale venga affondata non ce ne sono, non a caso il premier è pronto alla scommessa, che si trasforma in sfida verso gli avversari nel Partito democratico. Il modo in cui ieri ha risposto a Letta e soprattutto a Prodi — rivelando che è stato l’Onu a non volere il Professore come mediatore in Libia «per via dei trascorsi legami con Gheddafi» — fa capire che Renzi non intende farsi chiudere nell’accerchiamento dei «rottamati», gli stessi che un tempo non smettevano di litigare e che ora — a suo parere — hanno preso a sentirsi per far contro di lui fronte comune.
Li sfiderà in Aula, dove forse sul voto a scrutinio segreto per le pregiudiziali di costituzionalità si affiderà a una prova muscolare: niente fiducia in quel caso, perché Renzi deve dare almeno una dimostrazione di forza. Poi chiuderà i conti anche con Berlusconi, a cui deve andar bene il «colpo di Stato» che il capo del Pd sta per attuare. Lo ha capito il capogruppo di Ncd, Lupi, quando al collega forzista Brunetta ha consigliato di non chiedere voti segreti sul’Italicum: «Meglio il voto palese, Renato, dammi retta. Così Renzi non potrà mettere la fiducia, che fa gioco a lui e alla minoranza del Pd divisa». Niente da fare, segno che anche Forza Italia non vuole mostrare le proprie crepe.
Insomma non è per quanto accade a Roma che al premier sono venuti «i capelli bianchi». È nel Mediterraneo che la sua leadership rischia di imbarcare acqua. C’è un motivo se per un anno si è tenuto distante dal dossier che ora è costretto a gestire. Lo spiegò ad Alfano, mesi fa, durante un vertice ristretto di governo, quando il titolare del Viminale — lasciato ad occuparsi della faccenda — chiedeva al premier un intervento: «Angelino, sull’immigrazione devi capire che in qualunque modo se ne parli, si beve», cioè si va in difficoltà, perché «non saremo mai talmente spietati da far concorrenza a Salvini nè mai talmente accondiscendenti da far concorrenza alla Boldrini».
Aveva ragione, se non fosse che l’emergenza lo ha spinto in mare aperto. Il vertice a Bruxelles sarà pur stato «positivo», ma il potenziamento della missione Triton nel Mediterraneo non risolve, anzi rischia di far aumentare il fenomeno migratorio, il cui peso — senza la solidarietà europea — ricadrebbe (quasi) per intero sulle spalle dell’Italia. Ecco lo «stress» di cui Renzi si lamenta: non sarà facile infatti ottenere un ombrello diplomatico per affondare quei barconi, con Putin che si mette di traverso all’Onu, il Vaticano che anzitempo condanna l’operazione, i rischi che comporterebbe un «fai da te» sulle coste libiche della Marina italiana. Giocare all’uno contro tutti a Roma è facile per Renzi. Altra cosa è farlo fuori dai confini nazionali.
Francesco Verderami
Repubblica 25.4.15
I democratici tentano l’ultima mediazione
Orfini: “No alla fiducia”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA «Io lavorerò fino alla fine perché non si arrivi al voto di fiducia. Se il Partito democratico si riunisce, sono certo che a prevalere — da parte di tutti — sarà il senso di responsabilità ». Il presidente del Pd Matteo Orfini non crede alla politica come una continua prova di forza. E lo sta dimostrando in queste ore di telefonate e contatti con la minoranza del partito. È tra i tessitori, insieme a Lorenzo Guerini, a Graziano Delrio. Tra coloro che stanno cercando tutte le strade per arrivare a una sintesi con le minoranze del partito, in modo da evitare lo strappo della questione di fiducia sulla legge elettorale. Con tutto quel che comporterebbe dopo: il rischio di una scissione, o di una frattura talmente profonda da rendere difficile il normale proseguimento della legislatura.
In realtà, il voto di fiducia potrebbe arrivare già martedì sulle pregiudiziali di costituzionalità. Una circostanza quasi inedita: gli uffici della Camera sono stati messi al lavoro per cercare i precendenti. Ce ne sono solo due, risalgono agli anni ottanta, e mai su una legge così importante. Ma nel governo e nel Pd c’è chi pensa che ormai sia tardi per qualsiasi mediazione: il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il vicecapogruppo alla Camera Ettore Rosato (che in questi giorni sta sostituendo il dimissionario Roberto Speranza e che è in pole per prenderne il posto), sono tra coloro che pensano che non si possano correre rischi. Soprattutto perché, su articoli come quello che prevede il premio alla lista, con la parte del Pd più recalcitrante si potrebbero saldare i piccoli partiti, Sel, la Lega, quel che resta di Scelta Civica e parte di Forza Italia.
«Quello sull’ Italicum è già — oggettivamente — un voto di fiducia», spiega Matteo Orfini. «È chiaro che Renzi ha legato il passaggio della legge elettorale alla legislatura ed è per questo che credo debba prevalere la responsabilità di tutti. Chi non è d’accordo su alcuni passaggi di questa legge, anch’io non lo sono, ha fatto una battaglia grazie alla quale si è arrivati a un compromesso. Ora si accetti di rispettare l’esito della discussione». Nonostante tutto, il presidente dei democratici è fiducioso: «Per me la fiducia non va posta, men che meno sulle pregiudiziali di martedì. Vedo nel gruppo segnali positivi, aspettiamo di capire che succede. «.
I segnali sono quelli di un tentativo di dialogo a partire da ciò che il premier ha detto nel colloquio con Repubblica alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti: la possibilità di intervenire sul modello del Senato. «Va esplorata fino in fondo questa volontà — dice il bersaniano Davide Zoggia — va enunciata nei luoghi dovuti, in modo da verificare subito se ci siano le condizioni per arrivare in aula più tranquilli». Quello che chiedono, i bersaniani, è che si rinunci al «giochetto delle fiducie»: «Renzi si fidi di noi, non facciamo scherzetti, tanto meno sulle pregiudiziali di costituzionalità». E ricorda: «Abbiamo già votato l’Italicum 1.0, che era molto peggio di questo, a marzo 2014, nonostante non ci piacesse per niente. Abbiamo consentito il passaggio delle riforme costituzionali in un’aula semideserta per via dell’Aventino delle opposizioni. Non ci facciano caricature, non siamo quelli che vogliono sabotare le riforme». E però, «Roberto Speranza con le sue dimissioni da capogruppo ha fatto un gesto politico molto forte. A quel gesto, fatto nel nome della necessità di un bilanciamento dei poteri, il premier e segretario del Pd deve dare una risposta. Invece vedo che c’è chi va avanti come se niente fosse accaduto, parlando già di fare l’assemblea, di eleggere un nuovo capogruppo... ». Quindi si tratta, o si cerca di trattare, ma a una parte della minoranza l’ipotesi di un voto di fiducia già martedì ha fatto venire dei dubbi sulla reale volontà di sanare le ferite: «Se si fa uno sfregio così grande al Parlamento — ragionano tanto in Areadem che tra i cuperliani — l’unica cosa che resta da fare il giorno dopo è sciogliere le Camere e andare a votare. Forse Renzi vuole proprio questo, l’esatto contrario di quello che dice».
Corriere 25.4.15
Orfini: «Matteo non sta bluffando Senza riforme addio legislatura
Nel Pd sento toni da opposizione»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «È un traguardo atteso da anni, non possiamo sbagliare».
È l’ultimo appello al Pd, presidente Matteo Orfini?
«Abbiamo il dovere di portare a casa la legge elettorale e io lavoro perché sia possibile farlo senza fiducia. Ma questo dipende da tutti noi».
Renzi ha legato le sorti del governo all’approvazione dell’Italicum... È un bluff o vuole votare col Consultellum?
«È un passaggio politico decisivo. Il Pd e la maggioranza, fiducia o non fiducia, si giocano molto. Questa legislatura è nata con la promessa a Napolitano di portare a casa le riforme, non riuscirci farebbe venire meno la premessa su cui è nata la legislatura e quindi la interromperebbe. La fiducia non sarà necessaria se il Pd dimostrerà di essere un partito che discute e poi rispetta le decisioni assunte al suo interno».
Non teme le conseguenze di una spaccatura in Aula?
«Invito tutti ad abbassare i toni che sconcertano la nostra gente e a rispettare la decisione del gruppo parlamentare. Ho letto dichiarazioni di esponenti del mio partito che usano toni che nemmeno i leader delle opposizioni sono soliti usare».
Ce l’ha con Bersani?
«Non credo si possa dire che la democrazia è a rischio perché i capilista sono 100 invece che 80. Ho apprezzato il tentativo di molti, tra cui Cuperlo, di usare posizioni molto più concilianti e ragionevoli».
Per D’Attorre la fiducia è un ricatto aberrante.
«Non si può nello stesso tempo rivendicare il diritto all’anarchia e considerare aberrante l’utilizzo di strumenti parlamentari come la fiducia».
Se Fassina, D’Attorre o Civati si smarcano sono fuori?
«Non abbiamo regole da questo punto di vista. Per il futuro dovremo darcele, ma le discuteremo insieme nel percorso di riforma dello statuto».
Rosato prenderà il posto di Speranza?
«Il primo a chiedere che Speranza rimanesse capogruppo è stato Rosato, quindi spero che Roberto ci ripensi e gli chiedo di farlo».
Se trovate un’intesa le dimissioni possono rientrare?
«Speranza ha diretto con grande equilibrio il gruppo e può continuare a farlo, mi auguro cambi idea. Non penso che vada enfatizzato questo momento di dissenso, come non si deve sbagliare il giudizio sulla sostituzione dei componenti della commissione».
Rosy Bindi ha parlato di sostituzione di massa...
«La Bindi mi ha chiamato in causa, ma forse abbiamo un’idea differente di cosa debba fare il presidente del Pd. Io credo che debba far rispettare lo statuto e fare in modo che le decisioni vengano assunte democraticamente negli organismi dirigenti e non nei caminetti di corrente, che lei convocava nel suo ufficio alla Camera con Letta, D’Alema, Bersani, Franceschini».
Speranza o Letta alla guida della minoranza?
«Letta, D’Alema e Bersani mi hanno insegnato che quando un congresso finisce si lavora per unire il partito, non per unire la minoranza attorno a questa o quella leadership».
Lei crede al ritorno del ticket Letta-Prodi?
«Chi ha a cuore l’Ulivo sa che l’Ulivo esisteva perché nascesse il Pd e ora non può essere usato per dividerlo».
Renzi è metadone?
«Novantamila posti di lavoro in più mi sembrano una cosa ben diversa dal metadone».
Con l’Italicum in tasca, Renzi porterà il Paese al voto?
«Le elezioni sono nel 2018».
La Stampa 25.4.15
Renzi: se la Camera boccia l’Italicum il governo va a casa
Non è solo una sfida alla minoranza Pd
di Federico Geremicca


Il dado è tratto, e nel modo più brusco possibile. E le voci di mediazioni, trattative e ipotetiche aperture, sepolte con poche e irreversibili parole. Dunque, l’Italicum e il futuro della legislatura (o almeno di questo governo) simul stabunt simul cadent: cioè, vivono assieme o muoiono assieme. Parola di Renzi, e ora ognuno si regoli come crede...
Arrivato al passaggio più stretto e delicato della sua avventura da capo del governo - intendiamo il varo della riforma della legge elettorale - il premier ha deciso di giocare la sua partita al solito modo: tirando dritto, rilanciando e mettendo critici e avversari di fronte a un bivio che più chiaro non si può: «Possono mandarmi a casa, ma non possono fermarmi».
Martedì il governo deciderà se porre la fiducia sull’Italicum, ma anche questa scelta - estrema e drammatizzata - appare ormai quasi un dettaglio: nel senso che l’ipotesi di una bocciatura della riforma non è più (se mai lo è stata) una possibilità contemplata, se non come anticamera di una crisi di governo e - con ogni probabilità - di elezioni anticipate.
Il ragionamento svolto dal premier (ospite ieri di Lilli Gruber) può apparire senz’altro duro da digerire ma bisogna ammettere che, dal suo personale punto di vista, non fa una grinza. La riforma della legge elettorale - ha spiegato - è uno dei punti programmaticamente più importanti per il governo, e se la Camera la bocciasse sarebbe come dire «andatevene a casa».
Quel che Renzi non dice in esplicito - ma chi deve intendere ha certamente inteso - è che a casa non andrebbe solo l’esecutivo ma l’intero Parlamento, visto che il premier (segretario del partito di maggioranza relativa...) molto difficilmente - e usiamo un eufemismo - darebbe il via libera alla nascita di un governo diverso. La posta in palio, dunque, s’è alzata: come del resto era facilmente prevedibile.
Annusata l’aria che tira nel Pd, scettico circa la possibilità di un «soccorso berlusconiano» nel voto e preda della sensazione di cominciare a esser stretto in una sorta di paralizzante ragnatela, Renzi decide dunque di giocare il tutto per tutto pur di incassare il risultato. Non è una novità, a dire il vero, perché non c’è partita di quest’ultimo anno - per quanto delicata - che lo abbia visto cambiare schema di gioco, rallentare, fermarsi o fare addirittura marcia indietro.
Il tirar dritto, in politica, non è sempre e necessariamente una qualità: ma se si è capito qualcosa del consenso che continua ad accompagnarlo, ecco, questa caratteristica, questo stile, sembrano essere uno dei suoi maggiori punti di forza. Del resto, ha vinto e perso primarie, incassato risultati impensabili (dal Jobs act alla riforma del Senato) e conquistato un partito che gli era in maggioranza ostile restando fedele a questo modo di interpretare l’azione politica. Le somme si tireranno alla fine, anche se già il test elettorale del 31 maggio dirà molto sullo stato di salute del segretario-presidente e del suo Pd.
A sorprendere un po’ nell’uscita televisiva di ieri, piuttosto, è stato il tono liquidatorio utilizzato per archiviare le critiche - nemmeno così aspre - rivoltegli da Romano Prodi ed Enrico Letta: «Hanno due libri in uscita...». Una battuta così sprezzante da lasciar intuire che i rapporti con i due ex premier siano assai meno distaccati di quanto si è tentato di far credere fino ad ora. E non è arduo prevedere che, anche su questo fronte, se ne vedranno delle belle...
Repubblica 25.4.15
“Caos graduatorie e bluff del posto fisso” esplode la rabbia contro la “Buona Scuola”
di Corrado Zunino


ROMA La scuola, e i suoi docenti precari eternamente insoddisfatti, oggi sono il fronte più avanzato della contestazione al Governo Renzi. Quelli che avversano il disegno di legge “La Buona Scuola” — un’agguerrita e organizzata minoranza — hanno una capacità di persuasione sui pari grado e di pressione sull’esecutivo superiore ad altri gruppi antirenziani: i metalmeccanici di Landini, il mondo antagonista. Il premier lo sa e ha deciso di saltare i contestatori sindacalizzati parlando direttamente agli insegnanti, con una lettera che sta partendo in queste ore e che vuole spiegare a un milione di dipendenti pubblici malpagati di che cosa è fatta la riforma. Di 101mila assunzioni (potrebbero salire di seimila unità), concorsi regolari ogni due anni, 500 euro ai docenti da spendere in cultura, dodici materie nuove o rinforzate.
Fuori il clima è surriscaldato. Il governo si è complicato la vita cambiando più volte l’istituto di legge che avrebbe dovuto trasformare la scuola — delega, poi decreto, poi disegno più delega — e più volte anche il merito delle questioni. Via tutti gli scatti d’anzianità, si diceva. Poi di nuovo scatti fissi con riduzione dei premiali. Prima 148mila assunti, poi ridotti di un terzo. Tutto questo intervenendo sul problema dei problemi della scuola italiana: l’affastellamento ventennale di graduatorie di insegnanti che hanno dato fino a ieri la speranza di un posto fisso a un esercito fuori controllo e tutt’altro che necessario: 600mila precari. La partita scuola è stata centrale fin dall’insediamento del governo, quattordici mesi fa. E il governo ha scelto di portarla avanti senza parlare con il sindacato, che si è ribellato aprendo — ieri, con i mille dell’universo Cobas in piazza — la stagione dei boicottaggi e delle manifestazioni. Si approderà allo scioperone del 5 maggio, che i Cobas vorrebbero trasformare in una grande marcia per Roma mentre i confederali temono l’abbraccio da sinistra. Quindi il boikot test Invalsi (5 e 6 maggio) e forse una manifestazione a chiusura il 12.
Ieri alla Festa dell’Unità di Bologna, a consumare il cacerolazo contro il ministro Stefania Giannini, c’erano i precari di seconda fascia, in gran parte esclusi dalle assunzioni del prossimo primo settembre. Al loro fianco gli studenti dei collettivi. «Squadristi, violenti, antidemocratici», li definisce il ministro Stefania Giannini. Ma la tensione nel corso di maggio sembra destinata a salire. Non è un caso che gli scolastici del governo — il sottosegretario Davide Faraone e la capoclasse Pd Francesca Puglisi — sul disegno di legge stanno cercando accordi con le opposizioni in commissione Cultura per venire incontro ai precari prima illusi e poi delusi. Gli uffici parlamentari stanno contando gli emendamenti — anche qui sono stati chiusi, riaperti e richiusi i termini di consegna — e oggi si saprà quanti sono sopravvissuti (oltre duemila i presentati). Ma sono già chiare le possibili novità, che soddisfano la Cgil, non i Cobas. Il Pd voterà per far rientrare tra gli assunti subito i seimila “secondi” del concorso 2012, gli idonei. E poi, per rispettare la sentenza della Corte di giustizia europea senza tagliare le gambe ai supplenti di lungo corso, approverà un articolo ponte per consentire a chi ha almeno 36 mesi di supplenze di insegnare fino al 2016, quando potrà accedere con punteggi speciali al concorsone. È di queste ore l’emendamento Malpezzi-Ghizzoni che reintroduce una vecchia idea del Pd: il “prof apprendista”. Dice che per diventare docenti ci si dovrà affidare a una laurea magistrale che permetterà di partecipare a concorsi annuali e quindi all’apprendistato triennale, pagato. La VII commissione dovrebbe infine decidere che al concorso 2016 parteciperanno solo abilitati. E qui si accontentano coloro che oggi hanno pagato e passato i tirocini di Taf, Pas, Scienze della formazione primaria. Lunedì si inizia a votare.
Repubblica 25.4.15
Giannini contestata, flash mob in tutta Italia
I docenti la cacciano dalla Festa dell’Unità Renzi: “Chi educa non zittisce”
di Salvo Intravaia


IL MONDO della scuola dichiara guerra alla riforma Renzi-Giannini. A inaugurare la stagione delle proteste di piazza contro la “Buona scuola” proposta dal governo lo scorso mese di settembre, sono stati ieri mattina, Anief, Usb e Unicobas con un corteo mattutino lungo le strade della Capitale e un sit-in di protesta pomeridiano a piazza del Parlamento. Ma la tensione è alta ovunque. A Bologna, il previsto intervento del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, alla Festa dell’Unità non si è potuto svolgere per le forti contestazioni di alcuni insegnanti. E il 5 maggio si replica, con i sindacati confederali della scuola — Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, Snals, Gilda e Cobas — che dopo quasi sette anni di manifestazioni a spizzichi e bocconi si ricompattano per dire no al preside-sceriffo e al licenziamento di migliaia di precari che hanno lavorato per anni come supplenti di “seconda fascia”. Che il clima sia incandescente si è capito ieri a Bologna, quando un gruppo di docenti dei Cobas attrezzati di pentole, padelle e posate, ha creato un frastuono tale da impedire al ministro di terminare il suo intervento. Neppure la senatrice del Pd, Francesca Puglisi, è riuscita a sedare gli animi per consentire all’inquilina di viale Trastevere di parlare. «Impedire di parlare non è democrazia», ha detto la Giannini bollando la contestazione come «aggressione violenta di una cinquantina di persone che noi sappiamo non rappresentare la scuola italiana». E il premier Renzi l’ha difesa in un tweet: «Un insegnante ascolta e rispetta le idee di tutti. Impedire di parlare è l’opposto di ciò che deve fare un educatore». Ma ormai la protesta di insegnanti e studenti sembra inarrestabile. Per gli organizzatori, al corteo di ieri nella capitale hanno partecipato oltre 10mila persone, ma secondo alcuni osservatori erano parecchi di meno gli insegnanti e il personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario) che hanno preso parte alla manifestazione: non più di un migliaio. E anche nel corso della mattinata non sono mancate le scintille. L’appuntamento è stato preceduto da una serie di manifestazioni che si sono tenute la sera prima in diverse piazze italiane, con docenti vestiti di nero e lumini accesi in mano. Il tutto a celebrare con un flashmob il “funerale della scuola” che si appresta a passare per l’ennesima riforma. Per Stefano D’Errico, segretario nazionale Unicobas, «bisogna stracciare e buttare nel cestino il disegno di legge Buona Scuola». «La protesta odierna — ha spiegato Marcello Pacifico, presidente Anief — manda un messaggio chiarissimo: occorre tornare ad investire nel settore, assegnando all’istruzione pubblica risorse adeguate. Perché senza congrui finanziamenti è impossibile realizzare riforme. Allo stesso modo, occorre recuperare i 200mila posti in organico tagliati negli ultimi anni, di cui 50mila appartenenti al personale Ata, che potrebbero farci tornare a realizzare quel tempo scuola settimanale cancellato a seguito della riforma Gelmini e a ripristinare le quasi 4 mila scuole autonome soppresse o fuse in modo incostituzionale».
Corriere 25.4.15
Giannini contestata, lascia la Festa dell’Unità
A Bologna protesta di studenti e precari contro la riforma della scuola, il ministro costretto al silenzio
Flash mob in tutta Italia e un corteo a Roma. Renzi su Twitter: impedire di parlare è l’opposto di educare
di Francesco Alberti


BOLOGNA La «buona scuola» per ora è soprattutto bollente. Fucina di proposte (dal governo) e di proteste (da sindacati e piazze). Con uno sciopero all’orizzonte (il 5 maggio). Se n’è avuta conferma ieri a Bologna, alla Festa dell’Unità alla Montagnola dedicata al 70° della Resistenza. A farne le spese il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che, invitata a un dibattito assieme alla responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, non è riuscita praticamente ad aprire bocca, subissata dalle grida e dagli slogan, con tanto di sottofondo di pentole e posate, di una cinquantina di persone tra studenti, personale della scuola e precari dei Cobas.
Una contestazione («State smantellando la scuola pubblica, vergogna…») durata una ventina di minuti e a nulla sono valsi gli appelli alla moderazione degli organizzatori, compreso l’invito ai protestatari di salire sul palco. Nemmeno l’intervento delle forze dell’ordine, che hanno allontanato alcuni dei più esagitati, ha rasserenato la situazione, spingendo alla fine l’esponente di governo, visibilmente indispettito, ad abbandonare il tendone e ad annullare anche un altro dibattito a Casalecchio. «È un falso storico — ha commentato la Giannini, tra l’altro all’esordio a una Festa dell’Unità come iscritta al Pd — dire che non ci siamo confrontati con il mondo della scuola: io ho una cultura del rispetto, questa non è la scuola che conosco». E il sottosegretario Davide Faraone: «Quelli non erano insegnanti…». Un sospetto avallato anche da Puglisi: «Non penso fossero educatori, forse centri sociali. È stato un agguato in piena regola». E il segretario bolognese del Pd, Francesco Critelli, parla di «attacco antidemocratico». Brutto precedente per una Festa dell’Unità, da sempre luogo di confronto. Su chi fossero in realtà i contestatari, le opinioni divergono. Che vi fosse tensione è confermato dalla presenza nel pomeriggio in piazza XX Settembre di una cinquantina tra docenti e personale dei Cobas, intenzionati con pentole e fischietti «a far sentire la voce della scuola contro la riforma Renzi». Una contestazione che avrebbe però dovut o mantenersi a distanza dalla Giannini. Certo non gira bene per la Festa della Montagnola, new entry nel calendario delle iniziative dem: dopo le polemiche per il mancato invito della minoranza pd, ora il caso Giannini. Sul quale il premier ha dato vita, sui social, ad un duello a colpi di tweet con i suoi critici. «Impedire ad altri di parlare è l’opposto di educare» ha affermato, rispondendo poi così ad un’altra osservazione: «Se vuole entrare nel merito, l’ascoltiamo volentieri, se no buona contestazione».