sabato 6 giugno 2015

Repubblica 6.6.15
Giovanni Botero il gesuita glocal del Cinquecento
Tornano le “Relazioni Universali” del filosofo. Il mondo raccontato da missionari e ambasciatori
di Adriano Prosperi


«Libro veramente ammirabile si è il mondo» — scrive Giovanni Botero nella dedica dell’edizione 1595 delle Relazioni Universali al cardinal Pietro Aldobrandini: un libro che «si legge continoamente e si studia e non manca mai, a chi v’attende, materia o d’essercitar l’ingegno o di pascer l’affetto. S’allarga a chi pensa di ristringerlo, s’affonda tuttavia più a chi crede d’haverne trovato il centro. Suggerisce finalmente del continuo materia di nuova speculatione e di nuova meraviglia a tutti».
Basterebbe questa meraviglia davanti all’inesauribile ricchezza del mondo per rendere avvertito il lettore di quanto questa vasta opera messa insieme dall’autore con strenuo lavoro di più di un ventennio respiri ancora l’atmosfera di un Rinascimento italiano aperto e creativo davanti al rapido mutare delle conoscenze sul globo. Pochi anni ancora e Galilei proporrà di leggere il messaggio di Dio agli uomini non solo nella Bibbia ma nel gran libro della natura, scontrandosi per questo con la scienza e la teologia dei Gesuiti.
Gesuita, Botero lo era stato nella sua formazione; e una volta uscito dalla Compagnia le rimase intellettualmente fedele. Ma, una volta lasciata l’incombenza del predicare e del comporre testi poetici d’occasione, quella che lo dominò fu una passione per la politica nutrita di storia e di geografia. Dopo aver lasciato con la sua Ragione di Stato un segno durevole sulla cultura e sul linguaggio politico europeo dell’epoca post-machiavelliana si misurò coi molti concorrenti attivi nel campo delle informazioni sulle cose del mondo. E vinse la gara dando alle sue «relazioni» una ampiezza universale e riversandovi una massa enorme di conoscenze raccolte via via, con una curiosità rimasta viva fino quasi agli ultimi giorni e riversata nei continui interventi di aggiunte e correzioni.
Nacque così l’opera che ora, grazie all’editore Nino Aragno e alla curatrice Blythe Alice Viola, leggiamo finalmente in una edizione moderna. Meritavano certamente, queste Relazioni Universali, un posto in una ideale biblioteca di classici italiani; su questo non si può che essere d’accordo con quello che scrive Blythe Alice Viola nel saggio introduttivo. Chi per leggerle doveva andarsele a cercare nelle tante edizioni e ristampe che ebbero all’epoca ne avvertiva da tempo l’esigenza. Era un vuoto così evidente che anche chi scrive queste righe ne aveva immaginato e proposto un’edizione. Operazione non facile, proprio per il suo carattere di work in progress, riletto e arricchito e corretto dall’autore fino al lascito manoscritto di un quinto libro edito solo a fine ‘800 da Pietro Gioda.
Ma perché si giungesse finalmente a mettere mano all’impresa occorreva qualcosa che si è verificato solo in questo avvio di secolo: l’emergere nella coscienza comune e nella riflessione storica della globalizzazione come idea e come rapido e violento processo reale. Bisognava insomma che il problema del racconto del mondo come un tutto prendesse forma di esigenza diffusa e mettesse in crisi le antiche divisioni del lavoro intellettuale.
Fino ad allora la fortuna di Botero — dopo il grandissimo successo di edizioni e traduzioni del ‘600 — aveva viaggiato solo grazie a studiosi e interpreti anche di grande qualità come il geografo Alberto Magnaghi e gli storici Federico Chabod e Luigi Firpo, ma curiosamente tutti di area subalpina, quasi che ci si potesse ricordare di lui solo nei dintorni del piccolo centro della “Provincia granda”, di cui Botero era originario.
Oggi si discute molto di «global history» e di «world history», ma l’unico modello novecentesco, quello di Fernand Braudel, appare sempre più inadeguato: chi l’ha sostituito sulla cattedra del Collège de France, lo storico Sanjay Subramahniam, ha raccontato quanto sia stato sempre difficile fare di un sapere costituzionalmente «egoista» come la storiografia una «xenologia », cioè una scienza degli «altri». Ebbene, Botero ha qualcosa da insegnare al riguardo. Intanto, nonostante la sua affermazione che «l’istoria è madre della saviezza umana», non è un caso che le sue Relazioni non siano e non vogliano essere un’opera di storia ma di informazione sul mondo.
Nella politica degli stati moderni così come nella conquista religiosa o economica l’informazione si era guadagnata un posto fondamentale. Si era sviluppato il genere letterario delle relazioni: ne scrivevano navigatori, ambasciatori, missionari, tutti coloro che si muovevano per affari, politica, religione. Botero fu colui che ebbe la forza e la costanza di fare tesoro di tutte le relazioni a cui ebbe accesso, in modo speciale quelle dei missionari gesuiti dall’America, dalla Cina e dal Giappone. Le unificò con una scrittura che ha la forza e i colori dell’italiano letterario all’apice della sua maturità, le fece sue raccontandole in prima persona e chiedendo di essere creduto come testimone de visu — una finzione non nuova, an- nunciante l’incipiente avvento del giornalismo.
«Io ho girato l’uno e l’altro emisfero», scrisse nella dedica a Carlo Emanuele di Savoia. E in quella al cardinal Borromeo si disse giunto «al fine de’ miei lunghi e faticosi viaggi che, per intendere dello stato della relligione Cristiana per il mondo, io intrapresi questi anni passati». Ma soprattutto organizzò le relazioni con una robusta intelaiatura che teneva insieme, sotto le forme del potere, insediamenti umani e culture, risorse ambientali e meraviglie della natura, con l’aggiunta di episodi storici e vicende e scoperte curiose destinate a tenere desta la curiosità del lettore.
Nel suo racconto tutto è umano: anche se qualche editore del ‘600 arricchì l’opera con immagini di umanità mostruose, giocando sull’attrazione sempre viva del meraviglioso medievale, nel mondo descritto da Botero non ci sono più i mostri pliniani, mentre vi abbondano storie di bestialità, di umanità primitive e degradate. Si fa avanti invece nell’ultima parte dell’opera il meraviglioso devozionale della Controriforma, tutto ricavato dalle storie delle missioni gesuitiche: come il «prodigio orribile» della fanciulla peruviana Caterina che, per aver nascosto al confessore i suoi peccati di sesso, finì all’inferno lasciando a infestare i luoghi il suo fantasma — un demonio- peccato, un demonio-donna. Quanto alla religione, acquisita ormai la straordinaria varietà delle sue forme, essa appare come un fattore essenziale dei livelli di civiltà, graduabili secondo l’impostazione del gesuita José de Acosta non come immutabili dati di natura ma come stadi di un processo evolutivo affidato alla grandezza dello stato e all’accortezza del sovrano. Ed è tipico del forte senso boteriano del nesso tra potere statale e religione il fatto che, più dei successi orientali di Francisco Xavier, quello che gli interessa è l’avanzata dell’impero spagnolo in America: un’avanzata che si porta dietro la conversione di interi popoli e promette così al cristianesimo cattolico di vincere la gara con le altre religioni mondiali — l’Islam in primo luogo, una religione che Botero propose di provocare con la diffusione di satire a stampa del Corano: un’idea ricca di futuro, come sappiamo.
IL LIBRO Giovanni Botero, Le relazioni universali (a cura di Blythe Alice Raviola, Aragno, 2 voll., euro 60)
Corriere 6.6.15
Non solo Auschwitz. La memoria di Pahor per gli altri campi       
di Marisa Fumagalli


«Ci sono Campi quasi dimenticati, sopraffatti dall’Olocausto. Di loro si parla poco, mentre Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, hanno lasciato il segno nella memoria collettiva. Ma io vorrei raccontare degli altri che furono la maggioranza». Queste parole di Boris Pahor si leggevano nel testo dedicato ai giovani, che lo scrittore affidò al «Corriere della Sera» in occasione del suo centesimo compleanno (era 26 agosto 2013).
Erano un suo chiodo fisso quei Campi di «annientamento per lavoro, fame, malattie e impiccagioni», zeppi di oppositori al nazismo di molte nazionalità, dove egli stesso fu rinchiuso provando le sofferenze dell’orrore e rispecchiandosi altresì in quelle dei compagni. Certo, in alcune pubblicazioni l’argomento era stato affrontato (anche in Necropoli , l’opera che gli valse numerosi premi e la candidatura al Nobel) ma l’autore triestino di lingua slovena aveva in mente un lavoro più organico.
Tuttavia, l’idea sarebbe rimasta tale senza lo stimolo di Elisabetta Sgarbi, responsabile editoriale di Bompiani, che da qualche tempo lo segue con attenzione. Ora, il progetto è compiuto. Da pochi giorni è in libreria Triangoli rossi. I Campi di concentramento dimenticati (Bompiani , pagine 240, e 13) di Boris Pahor, con la collaborazione di Tatjana Rojc.
Nella Premessa , la spiegazione del titolo di quello che definisce «un semplice promemoria, un vademecum»: «I Triangoli rossi sono i deportati politici. Il triangolo rosso — avverte Pahor — era segnato sul mio petto sotto il numero che sostituiva il nome. Significava che ero stato catturato perché come soldato non mi ero presentato all’autorità militare nazista, ma avevo scelto di oppormi in nome della libertà». E «noi politici — aggiunge lo scrittore — a differenza di altri deportati che venivano uccisi con il gas appena arrivati col trucco delle finte docce, dopo le docce vere dovevamo andare a lavorare e cominciare subito ad avere fame e ammalarci, per finire poi in posizione orizzontale».
Nella prima parte, lo scrittore narra l’esperienza diretta a Dachau, Sainte-Marie –Aux-Mines, Natzweiler-Struthof, Dora-Mittelbau, Dipendenza Harzungen, Bergen-Belsen. Quindi, scrive degli altri lager nazisti; senza dimenticare, infine, i 10 Campi fascisti. Il libro si chiude con l’elenco delle carceri slovene e italiane da cui si veniva deportati. Le pagine più avvincenti (e crude) sono quelle autobiografiche.
Tra i ricordi più lucidi di Boris Pahor, c’è il periodo da lui trascorso a Dora-Mittelbau in Turingia («107 detenuti di diverse nazioni, radunati nelle gallerie all’interno della collina Kohnstein nella bella vallata dello Harz, cantata da Schiller e Goethe»).
C’è poi la denuncia: «Di Dora si parla poco perché il direttore, ingegnere Wernher von Braun, iscritto al partito nazista dal 1937, sapeva quante vite umane costarono quei missili lanciati sull’Inghilterra. (In quegli antri venivano allestiti gli impianti per le bombe V1 e i razzi V2). E lo sapeva anche chi se lo portò negli Stati Uniti, lo accettò alla Nasa e gli diede il National Medal of Science nel 1975».
Corriere 6.6.15
Guerra di Spagna, tra due fronti
Il cronista Chaves Nogales: chiunque vincerà, ridurrà il mio popolo in schiavitù
di Sergio Romano


Dopo un lungo letargo, brevemente interrotto dalla guerra cubana contro gli Stati Uniti nel 1898, la Spagna domina la vita politica europea degli anni Trenta del Novecento e diventa un’affollata arena dove vanno in scena, come in una gigantesca corrida, tutte le passioni e le ideologie del secolo; socialismo, comunismo, fascismo, anarchismo, tradizionale devozione alla Chiesa cattolica e spietato anticlericalismo. Non è sorprendente che esistano da allora parecchie storie della Guerra civile spagnola, una sterminata memorialistica, testimonianze letterarie (Hemingway, Malraux, Bernanos, Orwell, Koestler), raccolte di corrispondenze pubblicate dalla stampa internazionale e, più recentemente, romanzi dell’ultima generazione di scrittori spagnoli in cui la trama evoca le vicende del Paese fra l’«Alzamiento» dei quattro generali nel luglio 1936 e la caduta di Barcellona nel gennaio 1939.
Pochi conoscevano, tuttavia l’opera di un autore, Manuel Chaves Nogales, che aveva descritto la Guerra civile in nove racconti apparsi in Cile nel 1937 con il titolo A sangre y fuego. Héroes, bestias y mártires de España , tradotti ora in italiano da Elisa Tramontin ( A ferro e fuoco , edizioni laNuovafrontiera, pp. 336, e 16).
Chaves Nogales era nato a Siviglia nel 1898, aveva studiato lettere e filosofia e fatto le prime esperienze giornalistiche nella sua città. Quando giunse a Madrid, nel 1922, non tardò ad affermarsi come uno degli scrittori più promettenti di quegli anni: molti reportage all’estero fra cui un viaggio in aereo nella Russia dei soviet, una visita all’Italia fascista e una a Berlino per una intervista con Joseph Goebbels, ministro della propaganda nazista, che gli parve «ridicolo e impresentabile». Ma scrisse anche racconti, novelle, un romanzo e la biografia di un grande torero del suo tempo ( Juan Belmonte, matador de toros ) che è stata pubblicata in Italia da Neri Pozza nel 2014. Quando scoppiò la Guerra civile era direttore di un giornale repubblicano, «Ahora», e il suo punto di riferimento politico era Manuel Azaña, fondatore del Partito repubblicano, capo del governo in due momenti (tra il 1931 e il 1933, poi per un breve periodo nel 1936), ma anche capo dello Stato dal 1936 al 1939, quando la Spagna era ormai soltanto un campo di battaglia.
Mentre Azaña fuggiva in Francia, Chaves Nogales vi era ormai da due anni. Spiegò la ragioni della partenza nella prefazione alla raccolta dei suoi racconti. Disgustato dal terrore rosso e da quello che gli aerei franchisti seminavano bombardando Madrid assediata, dichiarò di non essere più interessato alle sorti del conflitto: «L’uomo forte, il caudillo, il trionfatore che alla fine poggerà il deretano sul lago di sangue del mio Paese e che con il coltello fra i denti — secondo l’immagine classica — ridurrà in schiavitù gli spagnoli sopravvissuti, può provenire indifferentemente dall’una o dall’altra parte».
I racconti sono il risultato di questa sconsolata constatazione. Lo stile è quello della grande letteratura picaresca, il tono è quello dello scrittore che non cede al vezzo della indignazione e della deplorazione. Vi è il marchese andaluso che va a caccia dei rossi con una nidiata di viziati e crudeli señoritos (come si chiamavano in spagnolo i figli di papà) e con il parroco del castello armato di fucile. Vi sono gli ufficiali franchisti, catturati dalle milizie repubblicane, che rifiutano di aderire alla Repubblica e vengono falciati da una scarica di proiettili contro il muro di un carcere. Vi è un altro parroco che spara ai repubblicani dal campanile della sua chiesa. Vi è il giovane commissario comunista che non alza un dito per evitare che il padre, un ufficiale, finisca di fronte a un plotone di esecuzione. Vi è una «colonna di ferro», composta da disertori che si proclamano anarchici, ma vanno per villaggi ammazzando e rapinando. Vi è un «ometto», il compagno Arnal, che cerca testardamente di salvare quadri e oggetti liturgici dalla furia dei ribelli franchisti in un paese della Mancia, ma muore in uno scontro portando con sé la memoria del luogo in cui era riuscito a nascondere un Greco e altre opere d’arte. Vi è il vecchio caid di una formazione marocchina catturata dai miliziani alle porte di Madrid. Dovrà morire con i suoi uomini e al solo miliziano che aveva cercato di salvargli la vita dice: «Anche un moro ammazzerebbe. Sono cose di guerra e di uomini. Allah è grande».
Vi è la storia di Tiron, il notabile falangista che i repubblicani stanno per fucilare a Valladolid e che può fuggire soltanto grazie alla pietà di una giovane repubblicana. Ma non farà nulla per salvarla quando i franchisti, dopo avere riconquistato la città, la uccideranno con le sue compagne. Vi è Bicornia, un fabbro grosso, forte, padre di una dozzina di figli, assegnato alla guida di un moderno carro armato sovietico, che combatte testardamente con il suo compagno russo sino a quando un bidone di benzina, lanciato da un tetto, trasforma il suo tank in una enorme torcia. Vi è il sindacalista anarchico che odia i comunisti e viceversa. E vi è infine l’autore, spettatore disperato di un dramma in cui tutti sono tragicamente colpevoli.
Chavez Nogales rimase a Parigi fino al 1940. Sapeva di essere nel libro nero dei servizi segreti tedeschi e riuscì a fuggire in Inghilterra dove continuò a scrivere per giornali inglesi e latino-americani. Morì nel 1944 di una peritonite mal curata: una fine non meno assurda di quella toccata in sorte a tanti suoi connazionali.
Repubblica 6.6.15
Perché la società postumana mette a rischio le nostre libertà
Tecnoscienze, ricerca biomedica, lavoro affidato ai soli robot
di Stefano Rodotà


SIAMO già prigionieri di un futuro del quale, come ha scritto l’-Economist, dobbiamo “preoccuparci con saggezza”. Ma essere saggi è difficile quando ci viene promessa l’immortalità o viene minacciata la subordinazione dell’intero genere umano a macchine superintelligenti. Previsioni lontane, a giudizio di molti irrealizzabili, che tuttavia obbligano a contemplare un orizzonte nel quale il postumano, parola che descrive una nuova condizione, trova manifestazioni assai più vicine, che invadono il nostro presente e ci consegnano alle dinamiche della tecnoscienza. Fino a che punto, però, l’affidarsi fiducioso alla tecnoscienza può diventare delega? E la delega può degenerare in deresponsabilizzazione? Proviamo a interrogare i fatti. Dalla Cina arriva la notizia di una fabbrica interamente affidata ai robot, avanguardia di una trasformazione radicale dove la parola “lavoro” rischia di scomparire insieme alla realtà che ha sempre designato.
Ma, nel momento in cui si disegna un mondo in cui il lavoro umano comincia a essere considerato residuale, si avvia un mutamento qualitativo di cui ci si dovrebbe preoccupare fin da ora con saggezza. La riflessione sulla condizione postumana dovrebbe cominciare proprio da qui, dalla situazione materiale delle persone, senza saltare questo passaggio, come talvolta accade nella riflessione dei postumanisti, proiettandosi volontaristicamente in un futuro già pacificato. Non è una via semplice quella di un futuro segnato non da un generico appello alla tecnoscienza, ma più precisamente da un convergere di biologia, elettronica, intelligenza artificiale, robotica, nanotecnologie, neuroscienze, che ha fatto parlare del corpo come di un nuovo oggetto, una “nano-bio-info-neuro machine”. Ma questo allontanarsi dalla dimensione umana non è presentato come una sorta di congedo definitivo, ma piuttosto come “movimento intellettuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana, usando la tecnologia per eliminare l’invecchiamento ed esaltare al massimo le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche”. Postumano è inteso come “meglio dell’umano”, sottolineando come la tecnoscienza consenta di uscire da una condizione segnata da caducità, finitezza, fragilità. Si mette così in evidenza una emancipazione, ma si segnala pure una insoddisfazione per l’umano nel tempo cambiato, che dovrebbe portare alla liberazione dal “pregiudizio” umanistico. L’uomo non più “misura di tutte le cose”, ma posto sullo stesso piano di tutti gli altri esseri viventi, attribuendo rilevanza costitutiva anche al suo rapporto con il mondo degli oggetti.
Ma la prospettiva postumanista incarna due dinamiche in conflitto, tra appropriazione e espropriazione: il diritto incondizionato di appropriarsi e di utilizzare tutte le opportunità offerte dalla tecnoscienza; l’espropriazione da parte del mondo delle macchine, della robotica, dell’intelligenza artificiale. Nasce qui la questione ricordata all’inizio, quasi una sfida definitiva. Non solo l’assunzione di sembianze di macchina da parte dell’umano, con i robot umanoidi. Ma la creazione di sistemi artificiali in grado di imparare, dotati di una forma di intelligenza propria che li metterebbe in grado di sopraffare l’intelligenza umana. E si è detto che la creazione della prima macchina superintelligente sarebbe l’ultima invenzione dell’uomo, a quel punto privato d’ogni libertà, che continuerebbe a popolare il mondo però destituito della sua propria umanità.
Abbandonando queste speculazioni sul futuro, il ritorno alle realtà presente indica una destituzione di umanità già prodotta dal ricorso alle “armi letali autonome”, dove si appanna la responsabilità della decisione, dove il fatto che un drone, impiegato per uccidere un capo terrorista, provochi una strage di civili, viene degradato a “effetto collaterale”. Preoccupandosi con saggezza, si suggerisce almeno una moratoria del ricorso a queste armi. Riflettendo più a fondo, si presenta come ineludibile guida quella riserva di umanità affidata a parole come dignità, eguaglianza, libertà, solidarietà, dalle quali lo stesso pensiero postumanista non riesce a liberarsi.
Repubblica 6.6.15
La bizzarra legge del desiderio indotto
di Guia Soncini


QUINDI era questa, la parità che volevamo: quella di restare in piedi in metropolitana perché cederci il posto sarebbe paternalista, e quella di avere voglia di fare sesso anche quando non ne abbiamo voglia. Pillola azzurra per lui, pillola rosa per lei: differenziazione cromatica didascalica, identico fine. Deve andarti sempre. Pare che fosse una malattia, non averne voglia: la capa di “Even the score”, lobby per la parità tra i generi, ha parlato della pastiglia come di «un nuovo capitolo nella lotta per l’equità nella salute sessuale» (equità, che paroloni: neanche avessero trovato una cura che elimini definitivamente il ciclo mestruale).
In “Questi sono i 40”, film sulla crisi di una generazione costretta a crescere controvoglia, il marito prendeva un Viagra per fare un regalo alla moglie che compiva quarant’anni. Lei si offendeva moltissimo, giacché pretendeva la spontaneità del desiderio, la non simulazione dell’attrazione, e scacciava il poverino e la sua «turboerezione». Il cinema popolare ci metterà un po’ a metabolizzare il nuovo ritrovato della chimica, e poi ci toccherà la scena in cui è lui a offendersi, una volta scoperto che lei ha preso la pillola rosa, ed è solo per quello che sembra desiderarlo. Sarà un nuovo capitolo nell’incubo del desiderio perenne, un capitolo anabolizzato: oltre al fastidio del desiderio indotto, ci toccherà pure quello dell’impermalimento maschile.
La Stampa 6.6.15
«Ma nelle donne la psiche conta più della chimica»
intervista di L. Cas.


«Il viagra femminile? Non è detto che sia sufficiente a risolvere i problemi di desiderio delle donne». Dopo il primo via libera al Flibanserin, Valentina Cosmi, psicologa e sessuologa, tra i fondatori della Società italiana di sessuologia e psicologia, è chiara: i limiti sono legati al modo in cui le donne vivono l’intimità. «Nell’uomo l’eccitazione è dovuta a fattori biologici, ormonali. Nelle donne molto dipende dal contesto: come ci si sente con il proprio corpo, quanto siamo soddisfatte del rapporto col partner, il luogo, il momento».
E su questo una medicina ha poco effetto, è così?
«Sì. L’impressione è che esista una tendenza ad omologare la sessualità femminile a quella maschile, quando in realtà sono molto diverse».
Ci sono situazioni in cui il Flibanserin potrebbe avere benefici?
«Sì. Penso alle donne che hanno vissuto una variabilità ormonale, come le neo mamme o quelle entrate da poco in menopausa. Si tratta di casi in cui il desiderio sessuale può essere diminuito o quasi assente. Ma non devono esserci controindicazioni cliniche».
E gli aspetti negativi?
«Il rischio di diventare dipendenti da un farmaco come il Flibanserin è molto comune. D’altra parte è accaduto anche a molti uomini con il Viagra. La convinzione che non si possa avere un rapporto sessuale senza aver prima preso una medicina si sviluppa molto in frett. Bisogna rendersi conto che la pastiglia è solo uno strumento che ci aiuta ad affrontare con più semplicità una situazione. In questo il sostegno di uno psicologo è molto utile».
La Stampa 6.6.15
Stati Uniti, disco verde al “Viagra femminile”
Primo sì della Fda al flibanserin che cura la mancanza di desiderio
di Paolo Mastrolilli


Il «Viagra per le donne» sta per arrivare in farmacia. Se il parere positivo espresso giovedì dal comitato consultivo della Food and Drug Administration verrà confermato dall’agenzia entro la scadenza del 18 agosto, per la fine dell’estate la «pillola rosa» potrebbe già essere disponibile. Una rivoluzione culturale, oltre che medica, secondo la casa produttrice e la lobby che la sostiene; un rischio inutile, secondo i medici che finora si sono opposti alla sua commercializzazione.
Una pillola rosa
Quella che ormai nel gergo comune viene definita il «Viagra delle donne» è una medicina chiamata «flibanserin», prodotta dalla Sprout Pharmaceuticals. E’ una pillola rosa che si prende prima di andare a letto e agisce su alcune sostanze chimiche del cervello, come la serotonina e la dopamina, aiutando ad aumentare il desiderio sessuale. Così consente di curare una condizione chiamata «hypoactive sexual desire disorder». L’altra faccia della medaglia sono gli effetti collaterali, come l’aumento della pressione, gli svenimenti e la nausea, provati da alcune pazienti che hanno partecipato ai trial. Poi l’elemento che ha fatto discutere, e ha contribuito alle due bocciature precedenti di questa medicina, è la limitatezza della sua efficacia, che aiuta in un numero abbastanza ridotto di casi.
Il trattamento delle disfunzioni sessuali è diventato molto diffuso dopo il lancio del Viagra, che però non cura la mancanza di desiderio, ma problemi fisici legati all’erezione. Studi simili sono stati avviati quindi per affrontare anche i problemi delle donne, ovviamente diversi sul piano medico. La compagnia Boehringer Ingelheim aveva dunque sviluppato la flibanserin, ma dopo la prima bocciatura venuta dalla Fda aveva rinunciato al progetto.
Allora Sprout, fondata da Cindy e Robert Whitehead, aveva comprato i diritti e raccolto 50 milioni di dollari per rilanciare l’iniziativa. Nel 2010 la Fda l’ha bocciata ancora, e a quel punto è cominciata una campagna politica per farle cambiare idea. E’ nata la coalizione «Even the Score», pareggiamo il conto, una specie di lobby guidata da Susan Scanlan, che in sostanza attribuiva lo stop ai pregiudizi sessisti: curare le disfunzioni sessuali maschili va bene, quelle femminili restano tabù.
La campagna lanciata da questo gruppo ha riaperto la discussione, e giovedì 18 membri del comitato consultivo hanno dato parere positivo alla commercializzazione della medicina, contro 6 che si sono opposti. Ora la Fda dovrà analizzare la questione entro il 18 agosto, e se seguirà la strada indicata dal comitato, come fa in genere, la «pillola rosa» arriverà nelle farmacie.
Gli ostacoli che ancora rimangono non dovrebbero più essere di natura culturale, ma scientifica. Alcuni medici, infatti, la considerano solo un «debole afrodisiaco», con troppi effetti collaterali. In base agli studi condotti, circa il 7% delle donne non in menopausa soffre di «hypoactive sexual desire disorder», ossia una mancanza di desiderio non attribuibile a malattie di altro genere. I trial condotti sono stati tre, e le pazienti che dicevano di avere solo due o tre «eventi sessuali soddisfacenti» al mese hanno notato un aumento, ma limitato in media ad un episodio in più. Il loro desiderio rispetto a quelle che hanno usato il placebo è salito, ma solo di 0,3 punti su una scala da 1,2 a 6.
Il dibattito
Secondo alcuni medici, questi vantaggi non sono abbastanza significativi da accettare gli effetti collaterali. Secondo i difensori del progetto e i produttori, invece, rappresentano comunque un passo avanti da compiere. Altri ancora dicono che il problema esiste e va affrontato, ma le donne meritano studi e soluzioni migliori di questa. Di sicuro la mobilitazione per il «Viagra delle donne» ha avuto un importante effetto culturale, ponendo la questione all’attenzione del paese e della comunità scientifica. Anche se flibanserin non fosse la risposta ideale, i progressi compiuti dovrebbero almeno meno aver aperto la porta per ricerche più avanzate nel settore e soluzioni efficaci.
il Sole 6.6.15
A rischio la stabilità politica di Atene
di Vittorio Da Rold


Le ultime mosse del premier greco Alexis Tsipras sono un passo verso il Grexit, l’uscita di Atene dall’euro? Forse, ma sicuramente l’aumento della tensione negoziale sono un passo verso l’instabilità politica del Paese. Dopo cinque anni dall’inizio della crisi, un paese periferico che vale solo il 2% del Pil europeo, è diventato l’epicentro di una crisi finanziaria, poi diventata economica, sociale e infine politica. Oggi ad Atene, dopo l’arrivo dell’ennesima proposta dei creditori che contiene la solita ricetta fallimentare in salsa di austerità degli ultimi cinque anni, con un quarto della popolazione già sotto la soglia di povertà, il rischio non è solo il Grexit, ma la tenuta politica del paese, cerniera delicata con il Medio Oriente. Un paese che nei primi 5 mesi ha visto sestuplicare il numero dei migranti, via mare dalla Turchia alle isole greche. Secondo l’Onu,a tutto maggio sono arrivati in Grecia oltre 42mila migranti, pari a 600 persone al giorno, contro i soli 6.500 dello stesso periodo dell’anno prima e i 43.500 di tutto il 2014. Un impatto terribile per la Grecia di oggi. Se i creditori della troika restassero sulle loro posizioni intransingenti, il destino del governo di Syriza sarebbe segnato con possibili elezioni anticipate in vista. Goldman Sachs lo ha detto apertamente: «La Grecia avrà bisogno di un nuovo mandato politico e di un nuovo Governo, un referendum oppure nuove elezioni». Ma se si dovesse andare al voto cosa sceglierebbero i disillusi elettori greci? Goldman Sachs non lo dice anche se opta per un ritorno a precedenti maggioranze. Invece, molti analisti, temono l’avanzata straripante di Alba dorata, il partito con simpatie fasciste che ha aumentato i consensi con una campagna dai toni anti-immigrazione clandestina e anti-europei. Sarebbe la fine del sogno europeo perché Atene uscirebbe dall’euro e dall’Ue. Sotto il Partenone si decide se vogliamo una moneta unica che si trasformi da irreversibile in un accordo a cambi fissi da cui ciascuno può uscire a suo piacimento oppure un’Europa federale. Per questo Atene è importante, perché dalla soluzione della sua crisi si decide il destino politico europeo.
Il Sole 6.6.15
Atene (-5%) affossa le Borse europee
di Vito Lops


Piazza Affari perde il -2,1% - Balzo del dollaro dopo i dati Usa sul mercato del lavoro
Le Borse europee archiviano l’ultima seduta della settimana sotto stress. È ancora una volta la Grecia a tenere in bilico i listini. Gli investitori non hanno gradito che Atene abbia chiesto (e ottenuto) al Fondo monetario internazionale di accorpare le cinque rate da rimborsare nel mese di giugno in un’unica soluzione a fine mese da 1,6 miliardi, difatto saltando il pagamento della tranche prevista per ieri, e pari a 300 milioni di euro. È la prima volta dopo 35 anni che un Paese non onora nei tempi previsti il pagamento di un debito con l’Fmi. L’ultima volta era capitato allo Zambia.
Questa mossa da un lato offre più respiro per trovare un accordo sulle riforme da adottare tra Atene e i creditori internazionali (l’ex Troika, oggi chiamata in modo più eufemistico il “gruppo di Bruxelles”) ma dall’altro viene vista come un segnale di debolezza sulla liquidità realmente disponibile nelle casse di Atene. Un dubbio che ha trascinato al ribasso il listino greco (-4,98%) condizionando a ruota anche le altre Borse. Piazza Affari, a parte la Grecia, ha terminato gli scambi con la maglia nera. Il Ftse Mib ha ceduto il 2,1% (-2,7% il passivo settimanale), penalizzato anche dal cattivo andamento dei titoli bancari. Tra questi forti vendite per Banca Mps (-3,3% su cui è in corso un aumento di capitale da 3 miliardi) e Banca Carige(-11%, il cui aumento di capitale, da 850 milioni, partirà lunedì). I dettagli resi noti dall’istituto genovese indicano un rafforzamento patrimoniale molto diluito. Pertanto la Consob vede un rischio di «anomalie di prezzo» e per questo «monitorerà» con attenzione «l'andamento sul mercato delle azioni» della banca.
In rosso anche gli altri listini europei: Parigi ha ceduto l’1,33%, Francoforte l’1,26%. Il listino tedesco (che ha ritracciato di 8,5 punti percentuali rispetto ai massimi dell’anno toccati il 10 aprile) non è riuscito a reagire neppure al netto calo dell’euro sul dollaro (che in questa prima parte dell’anno ha dato buona linfa alle azioni esportatrici quotate sulla Borsa tedesca) arrivato puntuale dopo la pubblicazione del market mover di giornata: il dato sul lavoro negli Usa. A maggio l’economia statunitense ha creato 280mila nuovi posti di lavoro nel settore non agricolo, molto più dei 226mila attesi e dei 223mila creati nel mese dei aprile. Il tasso di disoccupazione è però salito dal 5,4% al 5,5%. Il dato ha dato una scossa al dollaro: il cambio euro/dollaro è scivolato da quota 1,125 fino a sotto 1,11, perdendo in pochi minuti più di una “figura” e andando contro le indicazioni dell’Fmi che giovedì ha invitato la Fed a rimandare un rialzo dei tassi. I tassi negli Usa, invece, sono saliti. I titoli a 10 anni si sono portati al 2,37%, sette punti base in più della vigilia. Forte volatilità sul Bund tedesco a 10 anni che in mattinata è tornato in area 0,9% per poi chiudere a 0,85%: lo spread tra Usa e Germania è a quota 152 punti. Lo spread BTp-Bund ha terminato la settimana in tensione, a quota 139, in rialzo di otto punti base. Il rendimento del decennale resta sopra il 2,24% (top da novembre scorso) con i mercati che stanno iniziando a scontare uno scenario di leggera inflazione, accantonando così quello deflazionistico che andava per la maggiore nella prima parte dell’anno.
A questo punto gli occhi sono puntati sulle novità che potrebbero arrivare domenica e lunedì durante il G7 che si riunisce in Germania. Secondo un alto funzionario europeo, però, sul tavolo non ci dovrebbe essere il nodo della crisi greca e del suo piano di riforme. E non è neppure previsto un incontro separato fra gli Stati Uniti e i membri europei del G7 sul tema. La sensazione è che la questione greca terrà banco ancora per parecchi giorni. Secondo l’agenzia di rating Fitch, il rischio che Atene non proceda a rimborsare l’Fmi a fine mese come in programma «non è da sottovalutare». Questo tuttavia non ha implicazioni dirette per il rating sovrano della Grecia che resta “CCC”. «Il rating di Fitch riflette il rischio di default nei confronti del settore privato, più che del pubblico: dunque il ritardo nei rimborsi al Fondo non rappresenta di per sé un default. Tuttavia - prosegue l'agenzia - raggruppare tutte le scadenze in un unico saldo evidenzia la pressione cui devono far fronte le banche elleniche, la cui posizione di liquidità si fa gradualmente sempre più critica».
Il Sole 6.6.15
L’irritazione della Ue, colta di sorpresa
di Beda Romano


BRUXELLES La scelta della Grecia di rinviare a fine mese alcuni rimborsi di prestiti ricevuti dal Fondo monetario internazionale hanno provocato ieri nuove tensioni nelle difficili trattative tra Atene e Bruxelles per garantire al paese mediterraneo ulteriori aiuti economici. L’agenzia americana Fitch Ratings considera la decisione il riflesso di «una estrema pressione» sulla liquidità a disposizione del governo greco. Altri osservatori temono che in realtà la scelta sia stata più politica che finanziaria, più negoziale che economica.
Da giorni ormai circolava voce che Atene avrebbe potuto raggruppare in un solo versamento i rimborsi previsti in giugno, applicando una possibilità già esistente dagli anni 70. In un recente incontro dei ministri delle Finanze del G-7, a Dresda la settimana scorsa, la questione era emersa, e già allora nessuno si era detto felice all’idea di un rinvio dei pagamenti. La decisione del governo Tsipras di spostare a fine giugno il rimborso all’Fmi di 1,6 miliardi di euro ha colto l’establishment comunitario di sorpresa.
Alla domanda se la Commissione europea fosse stata messa a conoscenza della scelta di Atene, ieri il portavoce dell’esecutivo comunitario Margaritis Schinas ha risposto laconico: «Abbiamo preso nota della dichiarazione pubblica di mercoledì notte». Interpellato dalla stampa dopo l’incontro con il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker tre giorni fa, lo stesso premier greco Alexis Tsipras aveva detto, a proposito del primo di quattro rimborsi, di 300 milioni di euro, previsto per ieri: «Non preoccupatevi».
A molti nell’establishment comunitario la decisione di sospendere il rimborso è parsa una scelta politica, il tentativo di fare la voce grossa dopo che i creditori hanno presentato una proposta di accordo dalla quale dipendono nuovi aiuti per 7,2 miliardi di euro e che (per ora) Atene ha respinto. Altri vi hanno visto il desiderio di rassicurare l’ala più estrema di Syriza, il partito di Tsipras, contrario a una intesa con le istituzioni che rappresentano i creditori (Commissione, Fondo e Bce).
Un diplomatico spiegava ieri che giovedì, durante una riunione telefonica dei direttori dei tesori nazionali, il rappresentante greco è stato informato della richiesta del suo governo di rinviare i rimborsi a fine mese da un suo collega di un altro paese: «Egli ha ammesso candidamente di non esserne a conoscenza». In altre circostanze, la vicenda potrebbe aggiungersi ai molti esempi di disorganizzazione greca (o mediterranea). In questo caso, tuttavia, la circostanza assume una importanza particolare.
Fitch Ratings preferisce giustificare la mossa sulla base di motivazioni economiche. Sosteneva ieri in un comunicato che la scelta greca è il riflesso di «una estrema pressione sui livelli di liquidità» del governo Tsipras. «Non può essere esclusa la possibilità che la Grecia non riesca a pagare i suoi debiti con l’Fmi alla fine di giugno». Nei fatti, comunque, la scelta greca sta pesando drammaticamente sulle difficili trattative in corso tra Bruxelles e Atene.
Nelle file dell’establishment comunitario, c’era ieri evidente fastidio per una decisione che getta una pessima immagine sull’Europa a qualche giorno da una riunione del G-7 a livello di capi di stato e di governo. L’ultimo paese a chiedere il rinvio di un rimborso all’Fmi è stato lo Zambia: l’effetto ottico per l’Unione europea non è dei migliori. Mentre i creditori si interrogano in cuor loro sulle conseguenze per i negoziati, ieri in un articolo per Project Syndicate l’economista Joseph Stiglitz notava come l’intera vicenda dimostri il pericoloso «indebolimento della solidarietà europea».
La Stampa 6.6.15
Tsipras all’Ue: non ci faremo umiliare
L’accordo con la Grecia si allontana
Il premier sfida Juncker: “Proposte assurde, ritiratele”. Le Borse affondano
Schulz, presidente dell’Europarlamento, sbotta: mi sono rotto le scatole
di Marco Zatterin


Martin Schulz lo ammette. «Mi sono rotto le scatole». Il presidente dell’Europarlamento ce l’ha con Alexis Tsipras, non senza ragione. Mercoledì, nella cena alla Commissione Ue con Jean-Claude Juncker, il premier greco ha espresso apprezzamento per le concessioni fattegli dai creditori, soprattutto sui ritmi di correzione del deficit. Poi ha cambiato linea, sino a presentarsi ieri pomeriggio in Parlamento ad Atene e definire «assurde» le proposte di Ue, Fmi e Bce. A Bruxelles aveva anche promesso che avrebbe pagato il Fondo. Non lo ha fatto. «E’ un contesto in cui crescono incertezze e tensioni - dicono le fonti Ue -. Con queste premesse, un negoziato serio è inattuabile».
Tsipras non sembra preoccuparsi. Il suo discorso davanti ai deputati dell’assemblea ellenica ha titoli per entrare fra i classici del leader di Syriza. Cinico e pragmatico, ma non conclusivo. Ha contestato le cinque cartelle di proposta di compromesso che Juncker gli ha servito sulla tavola imbandita nella capitale europea, le stesse per le quali si era impegnato a inviare un testo su cui costruire una bozza di conclusioni. Ha chiamato a raccolta i suoi dicendo che la crisi greca impone una «soluzione definitiva», quale potrebbe essere la ristrutturazione del debito. «Un errore tattico - ha commentato un diplomatico europeo -. Perché lì si arriverà se si riesce a partire. Ma chiederla prima, non porta da nessuna parte». Il premier greco ha reiterato le sue «linee rosse», cioè avanzo primario (al netto degli interessi) abbordabile, debito ribilanciato, protezione delle pensioni e tutela dei salari reali. «L’asfissia economica di un paese pone una questione morale - ha affermato - e non ci faremo umiliare». Ancora: «Voglio sperare che la proposta sia ritirata». Applausi dalla maggioranza, gelo nell’opposizione, invitata a bocciare la strategia della Troika, ora “Brussels Group”. L’ex capo del governo, il popolare Samaras, gli ha risposto per le rime: «Hai distrutto il paese e ci hai isolato: smettila di mentire alla gente, interrompi le assunzioni statali, continua le privatizzazioni». Nonostante questo, Tsipras ha assicurato che intende trattare ancora, che «siamo all’ultima fase del negoziato». Per molti questo è il vero senso della sua arringa. La decisione di trasferire i pagamenti al Fmi a fine mese «dimostra che nessuno vuole la rottura», ha precisato: «Nella trattativa ci sono ancora distanze, ma siamo vicini a un accordo». Non si vede come si possa andare avanti, ribattono fonti Ue.
I mercati hanno perso l’ottimismo: la Borsa di Atene ha perso il 5%, Milano è andata giù del 2,1, Londra dello 0,8. E’ l’effetto “rinvio rimborsi Fmi”, certificano gli addetti ai lavori. Anche le tensioni interne all’Ue non aiutano. L’informata e potente Bild ha titolato ieri «Merkel perderà il suo ministro più importante?», sottolineando i timori che la linea più dialogante della cancelliera con Tsipras abbia incrinato i rapporti con falco dell’Economia, Wolfgang Schaeuble. Rapide le smentite, dalla cancelliere e dallo staff del tesoriere federale. I dubbi, però, restano intatti.
Nei quartieri comunitari si spera in un patto complessivo per l’Eurogruppo del 18 giugno, così da sbloccare il piano di salvataggio prorogato sino a fine giugno e 7,2 miliardi che servono ad Atene per pagare i debiti, a partire dall’1,6 miliardi che deve all’Fmi. Diventa di maggiore attualità la domanda «cosa farà Atene da luglio?». Avrà un po’ di soldi in cassa, ma non durerà a lungo. Dunque serve un terzo programma. Il piano dei greci è sempre stato di fondere il presente col futuro. I creditori hanno cercato di evitarlo. Il caso finirà per inquinare il vertice Ue del 25-26 giugno. Che disturbi il G7 di Frau Merkel, intanto, è già assodato.
La Stampa 6.6.15
Ue, rischia di saltare l’accordo sui migranti
Il piano “d’emergenza” doveva essere effettivo a fine mese, ma i Paesi del no frenano aiutati da un cavillo giuridico
di Marco Zatterin


«Un accordo a metà mese è impossibile», dice secca una fonte del Consiglio, il conclave dei governi a dodici stelle.
La condanna che pronuncia è per il piano del 27 maggio con cui la Commissione ha proposto agli stati dell’Ue una redistribuzione obbligatoria, temporanea e d’emergenza, dei migranti che hanno diritto alla protezione internazionale: 40 mila in due anni, 24 mila dall’Italia, 16 mila dalla Grecia. «Siamo d’accordo sulla solidarietà - aggiunge -, però emerge un vizio istituzionale».
C’è che i ventotto leader in aprile hanno parlato di meccanismo volontario e «questo non lo è». Pertanto, spiega il diplomatico, «bisogna tornare dai capi di Stato e di governo» che si vedono il 25-26 giugno. E dunque è difficile ci sia il tempo per avviare la ripartizione dal primo luglio, come invece si era immaginato.
La solidarietà non basta
È minaccia seria. Le fonti della presidenza di turno lettone non confermano, né smentiscono, il che rappresenta una dimostrazione implicita della tesi. La proposta del Team Juncker si è spinta parecchio avanti nel tentativo di stabilire un principio - quello della solidarietà accoppiata alla responsabilità - su cui basare una politica comune dell’Immigrazione che l’Ue non ha mai avuto. Punta a far sì che ognuno faccia la sua parte, nel ricevere, controllare e respingere, anche a costo di obbligare le capitali. Le quali, in buona parte, non sono d’accordo.
I quarantamila da ridistribuire - non clandestini, ma gente che arriva da terre dove non può tornare - dovrebbero essere per lo più siriani ed eritrei. Il meccanismo stabilisce delle «quote» basate su pil, popolazione, occupazione, gli impegni di accoglienza precedenti. In parallelo, la manovra prevede il rafforzamento della missione mediterranea Triton, così da farla somigliare a una Mare Nostrum pagata dall’Ue, nonché un consolidamento dei controlli in entrata, fatti dall’Italia con l’aiuto dei partner. Il calendario prevede che la proposta sia approvata dai ministri degli Interni che si vedono a Lussemburgo il 15-16 giugno, e poi benedetta dal leader dieci giorni più tardi.
Le ragioni dello stop
«Non andrà così», assicura la fonte diplomatica. Un gruppo di ragioni è politico, unisce i Paesi che non vogliono meccanismi obbligatori (come Ungheria, baltici e Slovacchia), quelli che contestano i criteri di ripartizione (Spagna, Lussemburgo e Belgio), quelli titubanti sull’impianto per varie ragioni (Francia).
L’altro è giuridico, riguarda l’orientamento del consiglio: stati come Portogallo, Repubblica ceca, Finlandia sostengono che i leader non hanno detto «solidarietà obbligatoria», quindi il piano della Commissione non va bene. A meno che il vertice Ue stesso non lo approvi.
L’impressione di una fonte Ue è che si slitterà «da luglio a settembre». Un diplomatico di un Paese che sostiene la ripartizione vincolata accusa la presidenza lettone. Ritiene che il modo in cui si è preparato il dossier sta impedendo la soluzione. «Una sola riunione degli ambasciatori non basta», lamenta, lasciando intendere che il destino è segnato. Un cattivo segno? «In fondo - continua il favorevole -, se si afferma un principio di solidarietà preciso, va bene anche in ritardo». A vederla in prospettiva, non è sbagliato. Ma lì per lì molti cittadini penseranno d’essere stati presi in giro.
Repubblica 6.6.15
Se una donna su tre è vittima di violenza
di Chiara Saraceno


OLTRE quattro milioni di donne — l’11,3% del totale — hanno subito violenza fisica e/o sessuale negli ultimi cinque anni. Il 31,5% (quasi una donna su tre) ha subito violenza nel corso della vita. È la stima che emerge dall’ultima indagine sulla violenza contro le donne effettuata dall’Istat. Sono cifre che si aggiungono a quelle sui femminicidi. Mostrano come esercitare violenza sulle donne sia un fenomeno diffuso, di cui i femminicidi sono la punta drammatica dell’iceberg. Oltre un terzo di chi ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita è stata vittima di un fidanzato, marito, compagno, attuale o, soprattutto, passato.
Mettere fine ad un rapporto che non funziona e magari è violento non sempre protegge le donne dalla rabbia di chi non riconosce loro questo diritto, come troppo spesso documenta anche la cronaca nera. Partner ed ex partner sono presenti in maggiore misura nella violenza che non lascia tracce sul corpo, ma incide sulla consapevolezza della propria dignità e valore, minando il senso di sicurezza e mantenendo chi ne è oggetto in uno stato di tensione permanente: la violenza psicologica fatta di insulti, sistematiche squalificazioni, limitazioni dell’autonomia. Gli ex partner costituiscono anche un terzo degli stalker, cioè di chi opera vere e proprie persecuzioni nella vita quotidiana. Non stupisce, allora, che siano le donne separate o divorziate ad essere oggetto più spesso di violenza. Non sembra, invece, ci sia differenza tra autoctone e straniere nella esposizione al rischio di violenza. Ma le straniere subiscono più violenze fisiche e più stupri o tentati stupri, meno molestie sessuali delle italiane.
Dall’indagine emergono alcuni dati a prima vista sorprendenti. Le donne laureate e con posizione professionale elevata sono oggetto di violenza più spesso di quelle meno istruite, in posizione professionale più bassa o non occupate, quasi che le maggiori risorse di affermazione e riconoscimento di sé, più che avere un effetto protettivo, avessero l’effetto di scatenare l’aggressività di chi non ammette l’autonomia femminile.
Ci sono tuttavia importanti segnali positivi, come ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, cui si deve in larga misura che l’Italia sia, con l’Istat, uno dei Paesi che monitora periodicamente questo fenomeno. Rispetto al quinquennio precedente il 2006, quando fu fatta la precedente indagine, negli ultimi anni è diminuita la violenza da parte dei partner e degli ex partner e in generale la percentuale di chi ha subito violenza fisica, sessuale e psicologica, soprattutto tra le più giovani. Sono anche aumentate le denunce e il ricorso ai centri antiviolenza, anche se il fenomeno continua a rimanere largamente sommerso.
La maggiore consapevolezza delle donne circa l’inaccettabilità di rapporti violenti, la maggiore sensibilità al fenomeno nell’opinione pubblica, che ha anche prodotto maggiori competenze e attenzione in chi deve affrontarlo professionalmente e aiutare le vittime — tutto questo concorre sia a ridurre il fenomeno sia a fornire aiuto a chi lo subisce. Vuol dire che ci si è mossi nella direzione giusta. Non si deve tuttavia trascurare il fatto che contestualmente sono aumentate le violenze più gravi, sia fisiche che sessuali, da parte di partner, ex partner ed estranei. Così come sono aumentati gli episodi in cui gli atti di violenza vedono come vittime donne con figli e questi ultimi come testimoni, passando dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014. È come se l’accresciuta consapevolezza individuale e collettiva avesse ridotto il fenomeno nei suoi aspetti meno gravi, frenando i violenti meno incalliti, senza tuttavia scalfire il nocciolo duro. La strada è ancora lunga. Troppe donne continuano ad essere a rischio e troppi minori continuano a sperimentare la violenza contro le donne, contro le loro madri e sorelle, come un fatto tragicamente normale.
Corriere 6.6.15
La Corte europea, un passo verso il fine vita assistito
di Marco Ventura


Vincent Lambert potrà finalmente morire. Hanno accolto con sollievo la sentenza della Corte europea, ieri, coloro che si battono per una morte dignitosa del trentanovenne francese. Anzitutto sua moglie, sei degli otto fratelli e sorelle dell’uomo, l’équipe medica. Vincent è in stato vegetativo permanente dal 2008, quando fu vittima di un incidente di moto. Lo tengono in vita l’idratazione e l’alimentazione artificiali. A più riprese i medici hanno dato il via libera all’interruzione delle cure che porterebbe al decesso. I genitori e una sorella di Vincent hanno lottato perché così non fosse, trovando per due volte un tribunale disposto ad annullare l’arresto del trattamento. Il braccio di ferro è proseguito con infinite consultazioni di scienziati, moralisti, legali. Ha deposto persino Jean Leonetti, padre della legge sul fine vita del 2005. Un anno fa, il Consiglio di Stato francese ha autorizzato lo stop a idratazione e alimentazione e a chi tentava di salvare la vita di Vincent è rimasta solo la Corte di Strasburgo. Ieri è caduta anche questa speranza: per i giudici europei, la fine procurata non viola i diritti dell’uomo. Vincent può morire; oppure, come pensa il fronte contrario, Vincent può essere ucciso.
Cinque giudici su diciassette si sono dissociati dalla decisione, e hanno ricordato amaramente il titolo di «coscienza dell’Europa» che la Corte si autoattribuì nel 2009, a cinquant’anni dalla propria istituzione. Dopo questa sentenza, hanno scritto i cinque, «la Corte europea non ha più il diritto di fregiarsi di quel titolo». La maggioranza, invece, ha premiato la serietà della strada seguita dalle autorità francesi per far fronte al dilemma etico del caso. Non è necessario, ha deciso la Corte, infliggere a Vincent Lambert, «un fine vita indegno e penoso».
La Stampa 6.6.15
Un dilemma che non si può più ignorare
di Vladimiro Zagrebelsky


Una nuova sentenza della Corte europea dei diritti umani giunge ad alimentare di argomenti il dibattito sul fine-vita. L’influenza delle sentenze della Corte europea sulla legislazione di tutti gli Stati europei può far sperare che la sentenza riapra la discussione per affrontare finalmente la questione. L’estrema e sviante semplificazione del tema ha portato spesso a costringere il tema nel dilemma che oppone semplicisticamente la vita all’eutanasia. Ma poiché si muore sempre e si muore in tanti modi diversi, occorrerebbe esser disposti a distinguere. Distinguere per capire.
Il suicidio deciso da chi lo realizza su se stesso suscita certo compassione, ma rientra nell’ambito dell’autonomia della persona. La discussione riguarda l’intervento di terzi nella fase finale di una vita.
Esso merita considerazione diversa a seconda che la persona che muore sia in grado di assumere una decisione e manifestarla oppure non possa o non possa più; a seconda che esprima una volontà attuale oppure l’abbia fatto in passato e non sia in grado di rinnovarla o revocarla; a seconda che non abbia mai comunicato una volontà, o al contrario l’abbia resa palese in modo espresso oppure abbia solo dato segni, da interpretare per ricostruire la sua scelta. L’intervento di terzi poi può essere un aiuto fornito a chi vuol suicidarsi e non è più in grado di farlo autonomamente, oppure può sostituire l’azione della persona ormai impedita; e può consistere in un intervento letale oppure nella cessazione di trattamenti che mantengono artificialmente in vita. È impossibile discutere tutte queste diverse eventualità come se ponessero gli stessi quesiti e ammettessero le stesse risposte.
Al caso di una decisione medica - adottata secondo la legge francese - di fermare l’alimentazione e l’idratazione artificiali di un malato in stato vegetativo fin dal 2008, si riferisce la sentenza di ieri della Corte europea. La persona, prima di subire un grave incidente, aveva chiaramente e ripetutamente espresso la volontà di non essere tenuta artificialmente in vita nel caso si fosse venuta a trovare priva di autonomia. Ma quando quella situazione si è verificata non ha più potuto confermare quella scelta. La Corte europea, cui si era rivolta la madre del malato, ha innanzitutto precisato che la questione sottopostale non riguardava la liceità di un atto di eutanasia, ma specificamente la questione della cessazione di trattamenti di mantenimento in vita mediante idratazione e alimentazione artificiali. Non quindi il divieto di procurare la morte, ma l’ambito e i limiti dell’obbligo positivo dello Stato di agire per proteggerla in ambito medico. In proposito una maggioranza di Stati europei ammettono la possibilità di arrestare il trattamento ormai «irragionevole», ma non c’è un consenso generalizzato. Il margine di apprezzamento nazionale è perciò largo, purché tutte le circostanze siano attentamente accertate e valutate e un efficace ricorso al giudice sia garantito. Sono queste le condizioni che la Corte ha riconosciuto presenti nel caso specifico. Sia la procedura prevista dalla legge, sia la sua applicazione da parte delle strutture sanitarie e del Consiglio di Stato sono state valutate adeguate e meticolose, cosicché la cessazione dei trattamenti non farà venir meno lo Stato francese ai suoi obblighi. In linea generale si deve concludere che, con garanzie simili a quelle della legge francese, gli Stati europei hanno facoltà di prevedere la cessazione del trattamento artificiale.
La condotta del medico può assumere forme diverse e progressive. Alle essenziali cure palliative fino a che siano utili, si può aggiungere la sedazione profonda e continua, che, accompagnata dalla cessazione dell’alimentazione e idratazione artificiale, assicura di non soffrire e di morire quietamente. Senza ammettere un intervento letale attivo (eutanasia), è questa la soluzione francese, per le situazioni in cui manchi, perché non può più esserci, l’espressione attuale della volontà del morente. Il recente codice deontologico dei medici italiani d’altra parte prevede che nel caso di prognosi infausta o di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente il medico deve continuare ad accompagnarlo con cure di sedazione del dolore e di sollievo dalle sofferenze «attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento» che il paziente abbia rilasciato. La valutazione del momento in cui i trattamenti sono divenuti irragionevoli e non più proporzionati, andrebbe inquadrata in una procedura che non lasci solo il medico curante, eviti decisioni individuali, conforti chi deve decidere con il parere di altri. E assegni alle volontà anticipate espresse dalla persona un peso determinante.
Diverso è il caso della persona che manifesti la volontà attuale e non viziata di morire. Occorre chiedersi se sia lecito vietare di dar aiuto a chi lo chiede: chiede di morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio, invece di non avere altra scelta che ricorrere a soluzioni violente e drammatiche.
Una recente importante sentenza della Corte suprema canadese, ha ritenuto incostituzionale il divieto che impedisce al medico di fornire l’aiuto che chiede il malato terminale, soggetto a gravi sofferenze. La Corte ha indicato al legislatore la necessità di stabilire le modalità di accertamento di una tale condizione del malato e ha nettamente distinto l’ipotesi dell’intervento medico dal generale divieto di aiuto al suicidio. Una procedura sicura, infatti, che veda l’intervento di un collegio medico, può escludere che la volontà di morire sia viziata, o impulsiva, o forzata da pressioni e interessi altrui. È questa la sola ragione che permette allo Stato di interferire con la volontà della persona di vivere o morire. E la Corte canadese ha avvertito che la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere a un certo punto l’aiuto del medico, lungi dall’assicurare la continuazione di una vita, può anzi indurre ad anticipare un suicidio chi sappia di essere colpito da malattie degenerative, che lo renderanno incapace di provvedere da solo. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi sia richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma da solo non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni glielo permettessero. E’ di questi giorni la dichiarazione del fisico Hawking, che, parlando per se stesso, ha detto che mantenere in vita qualcun contro il suo volere è l’umiliazione più grande.
In Parlamento sono state presentate diverse proposte di legge. Il tema, nei suoi vari aspetti, è difficile, ma non è atteggiamento responsabile quello di far finta di niente e lasciare irrisolto un problema non eludibile.
La Stampa 6.6.15
“Il Murale di Zerocalcare è troppo comunista”
Il sindaco di Montanaro, nel Torinese, contesta la grande stella disegnata per ricordare un partigiano fucilato dai nazifascisti


Montanaro, Comune al confine fra Canavese e Chivassese, è finito al centro della polemica per la comparsa di un murale di Zerocalcare, noto autore di graphic novel, che il sindaco Giovanni Ponchia - eletto con una lista civica di centrosinistra - ritiene «troppo comunista». Il murale, realizzato per onorare la memoria del giovane partigiano locale Giuseppe Prono morto fucilato, turba il sindaco per la presenza di una stella rossa «troppo grande», dipinta per simboleggiare l’appartenenza di Prono alla Brigata Garibaldi.
Il primo cittadino chiede di rimuovere la stella, che peraltro non figurava nel bozzetto, ideato da Zerocalcare ma realizzato da un collettivo di writers. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, replica chiedendogli di non negare la memoria. «La vicenda - afferma Ferrero - è surreale. Parla come sempre del continuo tentativo revisionista di certa politica: negare la memoria dei partigiani che hanno liberato l’Italia è un oltraggio alla Resistenza e alla Costituzione».
La Stampa 6.6.15
C’è il rischio che la riforma della scuola
si trasformi in un’occasione mancata
risponde Mario Calabresi


Roberto Speranza, ex capogruppo Pd, a margine dei risultati delle Regionali ha dichiarato che «per la scuola abbiamo pagato un caro prezzo elettorale». Il giovane dirigente della minoranza dem ha espresso un giudizio condivisibile quanto sintomatico di una mentalità politicamente trasversale ed intergenerazionale che vuole governare senza scontentare nessuno.
Il problema, in questo caso, non è tanto l’agenda di Renzi ma l’illusione di vincere la battaglia delle riforme senza morti e feriti. L’idea di cambiare un Paese senza urtare nessuno equivale ad ammettere che lo stallo è l’esaltazione scacchistica o che lo 0 a 0 è la perfezione calcistica.
Scuola, lavoro, giustizia, pensioni ed immigrazione rappresentano oggi sfide che impattano sul presente e sul futuro della nostra comunità: al di là delle differenti strategie con cui affrontare queste priorità, è necessario convincersi che qualunque cambiamento venga attuato si riempirà una piazza gonfia di malcontento, specie se mancano le risorse per ubriacare la moglie e mantenere la botte piena.
Speranza è un politico serio e preparato, dimostra passione ed onestà intellettuale, ma sta scivolando senza rendersene conto nel calcolo giornaliero e certosino di ciò che non si deve decidere pur di non perdere voti. È un limite più pericoloso della bulimia di cambiare ad ogni costo asfaltando tutto e tutti, perché promuove un presente di mediocrità lasciando a chi verrà l’onere di progettare un futuro.
P. Chieppa

Penso anch’io che il Pd abbia pagato nelle urne il tentativo di riformare la scuola, ma non credo che questo fosse un esito scontato o obbligato. È chiaro che riformare significa cambiare e, ogni volta che si cambia, si creano scontenti e si fanno crescere opposizione e resistenze. Ma in questo caso la riforma aveva in partenza molti elementi che potevano far immaginare un esito completamente diverso: per la prima volta da anni c’erano investimenti consistenti accompagnati dall’assunzione di 100.000 insegnanti precari.
Una politica attenta e dialogante avrebbe potuto evidenziare con più chiarezza ogni elemento spiegando che le assunzioni potevano avere un senso solo nel quadro di una maggiore flessibilità nella distribuzione degli insegnanti nelle varie scuole.
Invece l’iter della legge è stato mal gestito, prima si era preparato un decreto poi si è passati a un disegno di legge e anche l’iter parlamentare è stato tormentato. Si sono scambiate la necessità di riformare e l’efficienza con una serie di forzature che hanno alienato il favore degli insegnanti.
Ora l’iter parlamentare sembra ancora più complicato e al Senato il governo sarà costretto a maggiori modifiche per venire incontro alla sinistra del Pd, con il rischio che alla fine si assista semplicemente ad una regolarizzazione di precari storici. Se così fosse sarebbe una vera occasione mancata.
La Stampa 6.6.15
Scuola, Renzi rischia il ribaltone
I senatori della minoranza Pd potrebbero votare contro
di Francesca Schianchi


«Questo provvedimento mette in cattedra 100 mila persone: voglio proprio vedere chi si prende la responsabilità di bocciarlo», tenta di esorcizzare la preoccupazione la relatrice Pd in Senato del testo sulla Buona scuola, Francesca Puglisi, mentre scorre l’elenco dei membri della Commissione Istruzione. 14 a 12 per la maggioranza, considerando però nei 14 anche il senatore a vita Rubbia, che nel Pd non danno per scontato («è un indipendente») e tre della minoranza del partito (Tocci, Mineo e Martini). Uno scarto risicato che potrebbe mettere in difficoltà il governo già martedì, quando si comincerà a votare il testo: andrà al voto un ordine del giorno di Tocci e Mineo che dà mandato al relatore per stralciare le assunzioni dei precari dalla riforma, proposta già fatta in passato a Renzi e sempre rispedita al mittente. «Non voglio fare l’incendiario, ma la legge è un disastro. Stralciamo le assunzioni, da fare subito, e prendiamoci il tempo per ridiscutere il resto», predica Mineo. Se al voto suo e di Tocci si unissero quelli dei 12 commissari d’opposizione, il governo finirebbe sotto.
In attesa della Direzione
Ma molto dipende dalle trattative in corso, e dalla Direzione del partito di lunedì. Dal messaggio che vorrà lanciare il segretario-premier Renzi: «Chiederà di farla finita con esponenti del Pd che vanno nei talk show a parlar male del Pd», prevede un renziano ben informato. Che però, allo stesso tempo, esclude toni fiammeggianti: «Con i ballottaggi delle comunali in vista e il Pd sotto attacco per via degli arresti romani, cercherà di mantenere unito il partito». Tenterà, perlomeno, di non perdere la parte più dialogante della minoranza: non a caso le trattative sono aperte sulle modifiche al ddl scuola, il primo scoglio da affrontare. Non è un testo blindato: sui poteri del preside, la relatrice è favorevole a un emendamento che fissa in sei anni al massimo la permanenza di un preside nella stessa scuola, per evitare che si trasformi nel «padrone» dell’istituto. Si discute di rafforzare il sistema di valutazione dei dirigenti scolastici, e anche di come rivedere il meccanismo per attribuire premi ai docenti (tra le ipotesi, quella di rinviare la scelta a un decreto delegato del governo successivo alla legge); è previsto anche di inserire un tetto allo school bonus, che dà credito d’imposta a fronte di finanziamenti alle scuole (anche paritarie). Si sta ragionando anche su come, eventualmente, allargare il bacino delle assunzioni dei precari (dalla minoranza insistono che ci sono soldi per altri 37 mila ingressi): il problema è come individuare, tra i precari di seconda fascia, chi abbia titolo maggiore di altri.
«No patto del Nazareno»
Tentativi di rasserenare il clima in vista di passaggi complicati. «In tutte le Commissioni del Senato la maggioranza è di 1-2 membri», ammette Giorgio Tonini. E proprio lì al Senato si concentrano ora testi rischiosi, dalla Rai alle unioni civili, fino alla riforma costituzionale. Con la minoranza che già avverte: «Bisogna evitare un patto del Nazareno sulla scuola». Cioè, svela un malizioso timore il bersaniano Miguel Gotor, «è solo un’impressione: ma non vorrei che il governo assumesse i precari Tfa, il percorso individuato quando ministro era la Gelmini, e si assicurasse in cambio il voto di Forza Italia al testo senza modifiche». Loro non ci starebbero: «Non vogliamo fare una riforma di destra».
La Stampa 6.6.15
Lo Stato vittima e complice
di Alberto Mingardi


«Mafia Capitale» sta tutta in un’intercettazione di Salvatore Buzzi. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». Metafora leggermente imperfetta: a mangiare, più che la mucca (lo Stato), sono i pastori (la classe politica). Ma ci siamo capiti.
Parlando ai Giovani Industriali, il presidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Cantone ha detto che «la classe imprenditoriale italiana si nasconde dietro la corruzione per creare un sistema anti concorrenziale». Per fortuna la classe imprenditoriale italiana è anche e soprattutto altro: una galassia di aziende (piccole, medie, grandi) che giorno dopo giorno si guadagnano la fiducia dei consumatori. E tuttavia, non c’è dubbio che se a qualcuno viene garantita una rendita di posizione, farà quanto possibile per «mungerla» fino in fondo. La concorrenza è faticosa, dura, perennemente incerta. Dedicarsi alla mucca è tanto più facile.
Torniamo a un’altra intercettazione di Salvatore Buzzi, formidabile teorico del sistema, uscita sui giornali qualche mese fa. «Con gli immigrati si guadagna più che con la droga». Sottinteso: la droga è un mercato concorrenziale. Esistono multinazionali della droga e artigiani dello spaccio. I clienti sono fedeli fino a un certo punto. Prezzi più bassi o prodotti nuovi possono convincerli a cambiare fornitore. Che fatica.
Il «mondo di mezzo» funziona in un’altra maniera, una maniera che conosciamo sin troppo bene. E’ un mondo più semplice. La classe politica ha a disposizione risorse (che ha prelevato dai nostri redditi con le tasse) per svolgere tutta una serie di funzioni. Le può svolgere attraverso organizzazioni sottoposte direttamente al suo controllo: la burocrazia, nelle sue diverse articolazioni. O le può svolgere facendo ricorso ai privati. Questo accade non perché la pubblica amministrazione abbia sperimentato negli ultimi anni una svolta «liberista». Almeno in Italia, lo Stato non ha «esternalizzato» per sudditanza psicologica nei confronti del privato. Semmai è vero il contrario. La classe politica ha stabilito di essere il miglior fornitore possibile di tutta una serie di servizi. Ha dovuto coinvolgere i privati semplicemente per stare al passo delle sue promesse.
Questi privati stabiliscono col pubblico un rapporto perverso. Non vendono «prodotti» che il consumatore può portarsi a casa o lasciare sugli scaffali. La vita o la morte delle loro imprese è appesa alle decisioni discrezionali di pochissime persone, che peraltro spendono denaro non loro. La loro priorità diventa allora convincere quelle persone a spendere a loro vantaggio i quattrini del contribuente.
Di soluzioni semplici non ne esistono. Non è immaginabile che lo Stato faccia, «in house», tutti i servizi che è andato monopolizzando con gli anni. E nemmeno si può pensare che bastino più controlli e più controllori. E’ difficile sostenere che l’Italia sia un Paese in cui mancano le norme per sanzionare certi comportamenti.
Si può cercare, certamente, di automatizzare quanto più possibile i processi. Se un’autorizzazione me la dà un essere umano in carne ed ossa, gli posso allungare una bustarella. I computer pare siano impermeabili a queste lusinghe. Riducendo gli spazi di discrezionalità dei decisori, le regole somigliano di più ai computer: non ammettono eccezioni.
Bisognerebbe soprattutto far dimagrire la mucca: che dia latte solo quando assolutamente necessario. L’accoglienza agli immigrati è probabilmente una funzione pubblica insopprimibile. Si può però provare a ridurre l’intermediazione. Anziché dare i soldi a chi poi da da mangiare agli immigrati, tanto varrebbe darli all’immigrato che poi provveda a nutrirsi come vuole. Piuttosto che affittare le case per i richiedenti asilo, si potrebbe dar loro un voucher per scegliersi il padrone di casa che preferiscono.
Tante altre funzioni pubbliche non è affatto detto debbano essere tali. Il «mondo di mezzo» si è abituato a rifornirsi alla mangiatoia in cinquant’anni di para-Stato. Per fargli passare l’abitudine, bisogna restringere il perimetro pubblico: lo spazio in cui quel «sistema anticoncorrenziale» di cui parla Cantone mette radici, si sviluppa, prospera.
La Stampa 6.6.15
Renzi conferma la linea garantista
Il premier: “Non ci si dimette per un avviso di garanzia”
E il Pd fa quadrato. La pax con la minoranza
di Carlo Bertini


Anche se i suoi descrivono un Matteo Renzi tranquillo e più che altro concentrato sulla missione del G7 di domenica, un clima pesante aleggia su palazzo Chigi, dove la linea malgrado tutto resta quella garantista: nessuna richiesta di dimissioni del sottosegretario indagato. La tegola dell’avviso di garanzia a Giuseppe Castiglione si aggiunge alle preoccupazioni per il danno di immagine che il Pd sta cercando di contenere in tutti i modi, blindando la giunta Marino: ora che le ombre dell’inchiesta mafia-capitale si proiettano pure sul governo al premier toccherà parare i colpi che già piovono dalle opposizioni che chiedono la testa del sottosegretario.
L’impatto oltreconfine
Per non dire dell’impatto che questa inchiesta può avere oltre confine, perché non sfugge a nessuno, spiega uno dei big del Pd, «questa vicenda produce un danno di immagine anche per l’Italia, tocca il punto sensibile della credibilità di un paese che sta chiedendo ai partner di distribuire la spesa per la gestione dei migranti subendo le ruberie di fondi dentro casa propria». Un punto non di poco conto, che forse oggi sfiorerà i pensieri dei ministri tedesco e francese che incontreranno Alfano proprio in un vertice sull’immigrazione. Renzi rinuncia alla partecipazione prevista in serata ad Amici, costretto a destreggiarsi con le varie emergenze: incontra Padoan in vista del consiglio dei ministri di martedì e De Luca su come gestire il dopo elezioni, ma già nel primo pomeriggio fissa la linea sul caso Castiglione, in piena sintonia ovviamente con Alfano. Lo stato maggiore dell’Ncd fa quadrato esprimendo piena fiducia nel sottosegretario e nessuno si stupisce che non giungano echi di guerra dagli alleati, «anche perché in questa fase non vengono certo a fare i giustizialisti con noi...», ragiona un dirigente Ncd.
Dunque per ora niente dimissioni, «anche se c’è da capire come si evolverà il quadro nelle prossime ore», ammette un ministro chiedendo l’anonimato.
La pax con la minoranza
Ma la cosa significativa in questa fase è anche la tregua delle ostilità su questo punto con la minoranza del partito. Che non chiede affatto le dimissioni, tranne la voce isolata di Cuperlo in risposta ad una domanda all’Aria che tira. Dunque la linea di Renzi è la stessa proclamata mesi fa quando si pose la questione di possibili dimissioni di altri sottosegretari, lo stesso Castiglione, già sotto indagine per la struttura di Mineo; e gli altri toccati dalle vicende di fondi regionali, come la Barracciu, o dei rimborsi regionali, De Filippo, Del Basso De Caro e Faraone. Come ebbe già a dire Renzi, «non ci si dimette per un avviso di garanzia, vale la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva».
Ma il caso Castiglione è legato ad un’inchiesta di altra portata, dunque difficile da gestire solo così. Per tutto il giorno gira la voce - poi smentita - di una moral suasion per fargli fare un passo indietro. Lui si dice «sereno» annunciando che «se ci sarà una mia responsabilità, che escludo assolutamente, non dovrà prendere provvedimenti qualcuno, li prenderò io personalmente». Dunque almeno per ora tutto congelato, «per il momento c’è un avviso di garanzia, lui si proclama innocente, vediamo almeno se ci sarà un rinvio a giudizio», dice uno dei vertici del Pd. Pronti a fare quadrato di fronte alle mozioni di Sel e 5Stelle per le dimissioni, che «intanto vanno calendarizzate in aula, poi voteremo contro».
Corriere 6.6.15
Il leader Pd costretto a muoversi tra due fuochi
di Massimo Franco


I prossimi appuntamenti del Pd rischiano di essere sovrastati non dalla vittoria netta, per quanto politicamente controversa, alle regionali del 31 maggio, ma dalle vicende giudiziarie che investono il partito. L’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il premier Matteo Renzi e il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha riportato l’attenzione su una vicenda circoscritta e tuttavia imbarazzante. Si concluderà con la sospensione di De Luca, in quanto condannato, anche se la procedura si svolge a tappe un po’ troppo rallentate, e con una punta di compiacimento di De Luca.
È comunque una sorta di memorandum dei fronti sui quali il capo del governo è costretto a muoversi. Lunedì ci sarà la Direzione del Pd, e un’analisi del voto che si preannuncia puntigliosa e dura con l’opposizione interna; anche se meno, forse, su riforme come quella della scuola e del Senato, sulle quali si potrebbe registrare qualche apertura. Ma i problemi si porranno dopo. Per mercoledì la presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, ha convocato una riunione che potrebbe diventare un atto d’accusa contro il Pd.
La coda velenosa dello scontro sui cosiddetti candidati «impresentabili» ha portato la Bindi ad un passo dalla rottura con palazzo Chigi. E le vicende romane e le querele del presidente della Campania al vertice dell’Antimafia offrono nuovi argomenti. Tra l’altro, il Movimento 5 Stelle cerca di incunearsi nelle divisioni del Pd in nome della questione morale. E può rivelarsi una sponda oggettiva per la Bindi. Renzi rischia di trovarsi così tra due fuochi. Da una parte, un partito riemerso dalle regionali diviso e conflittuale. Dall’altra, situazioni-limite come la Campania e Roma, che espongono il suo governo.
Per il premier non è facile conciliare la tolleranza zero contro la corruzione, incalzato anche dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, e da papa Francesco, con una situazione che lo costringe sulla difensiva. Renzi è consapevole di avere dietro una nomenklatura capitolina in gran parte indifendibile. Sostiene il sindaco Ignazio Marino perché è estraneo al malaffare, eppure potrebbe trattarsi di una posizione temporanea. Idem con De Luca. Renzi si schiera con chi ha strappato la Campania al centrodestra; ma deve affrontare i contraccolpi negativi di questo sostegno nell’opinione pubblica italiana e internazionale.
Sono pasticci dai quali è difficile uscire indenni: soprattutto con opposizioni decise a indirizzare verso il governo la rabbia contro il sistema politico. Lo stesso centrodestra cerca di far dimenticare le responsabilità della sua giunta guidata dell’ex sindaco Gianni Alemanno. La blindatura del primo cittadino di Roma da parte di palazzo Chigi deve fare i conti con gli sviluppi delle indagini. Il commissariamento è una possibilità. Si tratta solo di capire se quando a fine luglio il prefetto avrà gli elementi per decidere, lo scioglimento del Comune apparirà o no il male minore .
Corriere 6.6.15
La trincea del Pd contro lo scioglimento del Campidoglio
Cantone: Comune ostaggio di un sistema corruttivo
Il prefetto: attendo la relazione. Bindi convoca l’Antimafia
di Alessandro Trocino


ROMA «La richiesta di dimissioni di Marino è strampalata». Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd difende il sindaco di Roma, dopo la seconda puntata di «Mafia Capitale», inchiesta che ha travolto una parte della classe politica romana, di destra e di sinistra. Intorno a Marino fanno quadrato i dirigenti nazionali del Pd, pur tra gli imbarazzi e con il timore che la situazione precipiti. E a dar corpo alle preoccupazioni ci sono le parole del presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone: «L’immagine di una amministrazione ostaggio del mondo corruttivo purtroppo non è del tutto sbagliata». Ma anche quelle del prefetto di Roma, Franco Gabrielli, che attende la relazione e dovrà decidere sull’eventuale scioglimento. E che parla di «impatto devastante sulla città»: «Il quadro è desolante, disarmante, impressionante, profondamente lesivo della credibilità delle Istituzioni».
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando definisce l’ultima ondata di arresti «una brutta pagina, una tegola per la politica e le istituzioni». Guerini tiene il punto sul sindaco e difende Matteo Orfini, che qualche mese fa accettò il compito ingrato di commissario romano. Orfini aveva affidato a Fabrizio Barca un lavoro di mappatura dei circoli romani. In una prima relazione, Barca usò parole durissime: «Si vanno delineando i tratti di un partito non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso». Il 19 giugno sarà presentata la relazione finale. Inutile dire che il clima è teso, ma Orfini ha scelto di non tenere sotto traccia la relazione: la presenterà all’apertura della Festa dell’Unità romana, che quest’anno si terrà a Montesacro, per la prima volta in periferia. Orfini si dice tranquillo: «Sotto Alemanno la criminalità ha dilagato, con Marino abbiamo messo un argine. Guardiamo la città a testa alta». Non è d’accordo con lui il commissario pd di Ostia Stefano Esposito: «Mafia Capitale non è assolutamente addebitabile ad Alemanno, è propaganda, lasciamola a Salvini e ai grillini». I quali hanno denunciato Orfini per aver detto che sono «gli idoli di Cosa Nostra». Orfini replica: «Mi hanno detto che sono il palo della mafia, che sono colluso e cretino. Ho rispetto per i magistrati. Ma se vogliono, ne discuteremo in quella sede e i soldi li donerò alle associazioni che lottano contro la criminalità organizzata». Intanto Rosy Bindi, dopo la polemica sugli «impresentabili», ha convocato per mercoledì la commissione Antimafia. All’ordine del giorno, «comunicazioni del presidente».
La Stampa 6.6.15
I consiglieri comunali arrestati sono i campioni delle preferenze
Pd o Fi l’appartenenza non conta: l’elettorato solido invece sì
di Mattia Feltri


Oltre i capi d’accusa, e soprattutto oltre la discussa mafiosità della vicenda, ci sono i numeri. I tre politici del Partito democratico arrestati giovedì mattina sono fra i sei più votati alle elezioni comunali del 2013, quelle che hanno condotto Ignazio Marino in Campidoglio: Mirko Coratti (ex presidente dell’Assemblea capitolina) arrivò secondo con 7 mila e 860 voti, Pierpaolo Pedetti (ex presidente della Commissione politiche abitative) fu quinto con 5 mila e 238 voti, Daniele Ozzimo (ex assessore alla Casa) fu sesto con 5 mila e 174 voti. Nessuno sano di mente sospetta che il sindaco Marino abbia avuto ruoli della formazione del Pd romano, né che conoscesse più che superficialmente i rapporti di forza da cui è dominato, ma è anche vero che tutte quelle preferenze hanno contribuito alla sua elezione, così come le preferenze dei forzisti Giordano Tredicine (7 mila 860) e Luca Gramazio (prima che passasse al consiglio regionale, dov’è entrato con quasi 19 mila crocette sul suo nome) contribuirono all’elezione di Gianni Alemanno. In tempi nei quali si mitizzano le preferenze come strumento di liberazione dell’elettore privato del diritto di scelta, mettere giù due cifre e due considerazioni non fa male. Tredicine è stato il secondo degli eletti nella lista del Pdl, Gramazio jr (è figlio di Domenico, per quattro legislature parlamentare di An dov’era conosciuto col soprannome di er Pinguino) è stato il primo degli eletti nella lista Pdl delle Regionali, e Massimo Caprari, anch’egli arrestato, fu l’unico eletto del Centro democratico, il partito di Bruno Tabacci.
I nomi dunque dicono poco a chi non avesse la costanza di seguire la politica romana, i dati invece dicono qualcosa di interessante e cioè che i coinvolti nell’inchiesta (e gli si augura di uscirne bene, ci mancherebbe) godono di un solido elettorato, anche se non per forza malavitoso. Tredicine è il campione dei caldarrostai e più in generale degli ambulanti che vendono souvenir e grattachecche, ruolo per cui è vittima di scontate ironie (in consiglio comunale gli indirizzano il coro «dacce du’ castagne / Tredicine dacce du’ castagne...»); è l’ultimo erede di una piccola dinastia nostrana fondata dal nonno Donato che arrivò a Roma dall’Abruzzo per vendere caldarroste. Coratti è invece il punto di riferimento dei tabaccai di cui si occupa con incrollabile costanza, della loro sicurezza, dei loro orari, delle loro licenze; non molti ricordano che Coratti, prima di passare alla sinistra via Udeur, era un berlusconiano combattivo e coraggioso, visto che una decina d’anni fa si incatenò al cancello di palazzo Grazioli per chiedere l’allontanamento del coordinatore Antonio Tajani: Silvio Berlusconi, non ancora abituato agli ammutinamenti, lo ricevette e lo rincuorò: «Mirko, il futuro sono i giovani». Insomma, queste sono le biografie, questo soni i destinatari delle preferenze che, come tutti sistemi, sono buone o cattive soltanto in base all’uso che ne si fa.
L’ultima annotazione riguarda la carta di identità dei sei indagati. Coratti ha quarantadue anni, Pedetti idem, Ozzimo ne ha quarantatré, Tredicine trentatré, Luca Gramazio trentaquattro, e il vecchietto del gruppo è Caprari con quarantasei anni. Un piccolo contributo alla riflessione di chi ritiene che il rinnovamento generazionale salverà il mondo.
La Stampa 6.6.15
Mafia Capitale tocca il governo
Indagato a Catania il sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione (Ncd)
Lo accusa Luca Odevaine, lui replica: “La mia autorevolezza morale non è intaccata”
di Francesco Grignetti


L’ultima novità viene dalla Sicilia: la procura di Catania ha indagato il senatore Giuseppe Castiglione, Ncd, sottosegretario all’Agricoltura, già presidente della Provincia e dell’Unione delle province italiane, per illeciti nella gestione del centro profughi di Mineo. È una conseguenza diretta dell’inchiesta Mafia Capitale. A Roma hanno scoperto il ruolo di Luca Odevaine nel pilotare gli appalti per l’assistenza ai profughi. E Odevaine ha portato a Mineo, a Castiglione, e alla procura di Catania.
«La mia trasparenza ed autorevolezza morale non è intaccata», replica il senatore. Che da sei mesi è sulla graticola. Da quando emerse che Odevaine era il tecnico nominato proprio da Castiglione. Ma era ancora nulla rispetto a quanto è venuto fuori ora.
«Praticamente - ricostruisce Odevaine parlando con il suo commercialista di fiducia Stefano Bravo - venne nominato sub-commissario... eh, del commissario Gabrielli, il presidente della Provincia di Catania... che era anche presidente dell’Upi... Giuseppe Castiglione... il quale... quando io ero andato giù... mi è venuto a prendere lui all’aeroporto... mi ha portato a pranzo... arriviamo al tavolo... c’era pure un’altra sedia vuota... dico eh “chi?”... e praticamente arrivai a capì che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara». Risate.
Così va il mondo. Anche con l’assistenza ai profughi disperati che scappano dall’Africa. Odevaine è un «facilitatore». Muove flussi. Mette in contatto persone. Intasca provvigioni. Parlando dei dirigenti della cooperativa ciellina La Cascina, «gliel’ho presentati a Castiglione... e poi è nato questo... peraltro è nato e si è sviluppato poi per altri aspetti... perché loro adesso... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e Liberazione, insieme ad Alfano e adesso loro... Comunione e Liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del Centro Destra... inc... Castiglione».
Intanto nel carcere di Roma sono iniziati i primi interrogatori di garanzia. L’ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, Pd, assistito dagli avvocati Luca Petrucci e Danilo Leva (quest’ultimo è deputato Pd) ha risposto alle domande del gip. «Ha dato il suo contributo», spiega Leva. «Naturalmente conosceva Salvatore Buzzi, aveva dei rapporti con lui. ma solo politici. Quanto al contributo elettorale, di 20mila euro, è regolarmente portato a bilancio e depositato».
L’interrogatorio più lungo è stato per Francesco Ferrara, dirigente della cooperativa La Cascina, durato quasi tre ore. «Lui con la mafia non c’entra nulla», ha detto lasciando Regina Coeli il suo avvocato Massimo Biffa.
Ci sono 21 nuovi indagati anche a Roma. Tra loro, Marco Visconti, ex assessore all’Ambiente nella Giunta Alemanno. Secondo quanto ha raccontato il pentito Franco Panzironi, nel settembre 2012 «l’assessore lo aveva chiamato e in forma riservata gli aveva detto che Buzzi era interessato a contribuire per le campagne elettorali del sindaco Alemanno e di Visconti medesimo con una cifra complessiva di 400 mila euro». A Visconti spettava la metà; i soldi gli sono arrivati in contanti. «Si sentiva attenzionato da organi investigativi per vicende legate alla moglie». Ci sarebbero stati dieci passaggi di denaro, nove prima delle Regionali e una prima delle Comunali.
Il Sole 6.6.15
Il fiume di denaro verso Ostia
di Roberto Galullo


Un fiume di denaro verso Ostia ha arricchito politica e mafie. Questa è la convinzione dei pm di Roma con il secondo atto di Mafia Capitale.
E questa è anche la preoccupazione del Comune che il 29 aprile ha nominato l’ex pm Alfonso Sabella commissario del litorale laziale.
I soldi erano principalmente quelli destinati alle gare pubbliche, a partire dalla manutenzione del verde pubblico e della pulizia nelle spiagge (nell’ordinanza si legge di un bando per 1,2 milioni), intercettati dalla rete di cooperative riconducibili agli indagati Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Nel corso della perquisizione effettuata nei confronti di un altro indagato il 2 dicembre 2014 è stata individuata la “gara di Ostia” relativa all’alberatura nei “Lavori a somma urgenza per indagini sulla stabilità delle alberature stradali e conseguenti interventi di potatura. Via di Castel Fusano – via del Mare (tratto Ostia Lido) - Cineland”.
Nell’ordinanza firmata il 29 maggio dal Gip Flavia Costantini si legge di un accordo per convogliare fondi regionali assegnati al Comune verso il X Municipio «presidiato da amministratori compiacenti con Buzzi, perché da lui remunerati» e perché proprio lì, secondo l’accusa, Buzzi «era sicuro di potersi appropriare di tali risorse con l’aiuto del presidente da lui corrotto».
Per far capire quanto Ostia sia diventata un crocevia di traffici politico/criminali, i pm della procura capitolina si soffermano sulle difficoltà incontrate sul litorale dall’organizzazione riferibile a Buzzi e al presunto boss Carminati. L’operazione per piegare la discrezionalità degli amministratori si scontrava, infatti, con gli appetiti economici di altri rappresentanti del consiglio comunale che rivendicavano un potere d’interdizione sull’assegnazione dei lavori, il cui mancato esercizio andava remunerato, cosa, secondo Buzzi, avvenuta.
Il primo, secondo la ricostruzione, a cadere nella catena corruttiva è Andrea Tassone che, dimettendosi dalla carica di presidente del X Municipio il 18 marzo, quando l’onda lunga del primo atto dell’indagine “Mondo di mezzo” stava già travolgendo Ostia, dirà «non ci dimettiamo per lotte intestine o perché abbiamo ricevuto avvisi di garanzia o altro, ma io azzero oggi la mia esperienza amministrativa e rimetto il mio mandato per lanciare un appello al sindaco Ignazio Marino, quello di avere la consapevolezza che Ostia non è come tutti gli altri Municipi». Per la procura, Tassone ricorreva «ad un faccendiere che agiva e operava in nome e per suo conto».
Anche nel secondo atto delle indagini su Mafia Capitale, Carminati entra a pieno titolo nelle vicende del litorale. Una mano alla Procura per ricostruire il profilo del “cecato” e il suo «legame con il clan Fasciani di Ostia» la dà il collaboratore di giustizia Roberto Grilli nell’interrogatorio del 17 dicembre 2014.
Grilli ha riferito ai pm di essere rimasto «un attimino sconcertato» dal fatto che sin dal 2008 Massimo Carminati, con il quale «al tempo» non aveva rapporti diretti, si mostrasse al corrente («ah, so che hai incontrato un nostro comune amico, quello che sta al mare») di un tentativo fatto da Carmine Fasciani di coinvolgere lo skipper in un'importazione di stupefacente dalla Spagna (e del rifiuto che quest’ultimo aveva opposto).
L’interpretazione data all’episodio da Grilli («come se Fasciani si fosse rivolto ad altri, cioè avesse fatto sapere a Carminati la sua non contentezza») gli rinsaldava la convinzione dei legami che Carminati vantava nell’ambiente criminale e gli instillava il dubbio di poter essere identificato come «uomo a disposizione» del gruppo da questi rappresentato, privandolo così della sua autonomia («il fatto che alle mie spalle quello (Fasciani. ndr) avverte Carminati…è come se io fossi in dovere di dovere qualcosa a qualcuno che sinceramente non dovevo dà niente a nessuno») e magari rischiare di essere oggetto di interferenze da parte di quel gruppo nell’organizzazione del trasporto di stupefacente.
Grilli – arrestato ad Alghero il 26 settembre 2011 – nell’interrogatorio ha fornito alla Procura ulteriori elementi sul coinvolgimento di Carminati, come intermediario, nell’organizzazione, nell’estate del 2011, dell’importazione di 503 chilogrammi di cocaina dal Sudamerica con l'imbarcazione Kololo II.
La capacità di interlocuzione di Carminati con la criminalità organizzata insediata a Ostia ha trovato nelle parole di Salvatore Buzzi una conferma. Il 6 ottobre 2014, a partire dalle 18.14, gli investigatori captano un dialogo presso la Coop 29 giugno, nel corso del quale Buzzi – nel riepilogare le gare che si erano aggiudicati – parla della possibilità di prendere in concessione uno stabilimento di Ostia ed evidenzia la necessità di parlare con Carminati allo scopo di evitare problemi con la criminalità locale: «Ne devo parlare con Massimo per stà assicurato contro la malavita».
Repubblica 6.6.15
Soldi, coca e affari la guerra tra bande per spartirsi il mare di Roma
Ostia come laboratorio politico-criminale: Carminati che si allea con il clan Fasciani e alcuni consiglieri comunali capitolini che reclamano ciò che gli spetta
Ed entrano in conflitto con i piani di Buzzi. Dagli appalti fino agli interessi più sporchi
di Attilio Bolzoni


TUTTI vogliono prendersi Ostia.
Con le buone o con le cattive, con la pistola in mano o con rapine mascherate da buon governo. E tutti sono lì, in agguato, per diventare i padroni del mare di Roma. C’è ressa fra il lungomuro e la pineta di Castelporziano. Nelle carte di Mafia Capitale tanti sono i nomi e tanti sono anche gli omissis che annunciano una bufera in quella città nella città che è a trenta chilometri dal Campidoglio.
«Gramazio c’hà fatto avere un sacco di soldi su Ostia e al Municipio de Ostia stanno a preparà gli atti per darli tutti a noi», si rallegra Salvatore Buzzi appena viene a conoscenza che dalla Regione sta arrivando un milione di euro che finirà nelle casse del parlamentino di Andrea Tassone, il mini sindaco che Buzzi considera praticamente di sua proprietà. Pupi e pupari nel teatro delle marionette di Roma mafiosa.
Ma la dependance di Ostia è terra complicata. Con trafficanti di droga che fanno commercio, con Massimo Carminati che stringe alleanza — una delle scoperte più interessanti dell’indagine — con i Fasciani, con l’invadenza molto sospetta di alcuni consiglieri comunali che reclamano ciò che spetta loro di diritto capitolino. Ostia non è solo sacco edilizio e stabilimenti balneari fuorilegva ge, non è solo alberelli da potare per dare qualche mancia ai mendicanti delle circoscrizioni, Ostia si presenta negli atti giudiziari come un laboratorio criminale alle porte di Roma.
Cominciamo dalla politica famelica. Chi comanda lì? Salvatore Buzzi immagina di essere il solo attore protagonista ma racconta al compare Carlo Guarany, il suo vice della 29 giugno: «D’Ausilio me ferma in consiglio comunale e me dice: “Aah, io so che tu stai con Coratti.. le cose.. però ce sono pure io.. le vediamo insieme”... ». Gli risponde Guarany chiarendogli la situazione: «Perché a Ostia c’è la moglie (Emanuela Droghei, assessore alle Politiche Sociali nella minigiunta prima del commissariamento e dell’arrivo di Alfonso Sabella, ndr) de D’Ausilio». Replica Buzzi: «Questo verde deve ritornà tutto a noi, mi devi preparà una scheda di tutti i dossier che c’abbiamo aperti con il Campidoglio, cioè mettendoce campo nomadi…mettendoce sia il quinto che il decimo dipartimento e ci mettiamo anche il Comune de Ostia…poi annamo da D’Ausilio e vedemo quale è il problema.. se il problema è questo». Cosa voleva D’Ausilio da Buzzi? Scrivono i magistrati: «Buzzi riferiva ai propri collaboratori che Francesco D’Ausilio gli aveva sottolineato... che qualsiasi questione relati- all’area di Ostia non poteva prescindere dal suo consenso». Il piano di Buzzi stava urtando contro chi accampava un dominio territoriale su Ostia. Annotano ancora i magistrati: «E si scontrava, a detta di Buzzi, con gli appetiti economici di rappresentanti del consiglio comunale (D’Ausilio) che rivendicavano un potere di interdizione sull’assegnazione dei lavori».
Dagli atti giudiziari affiorano storie che dal lungomuro si intrecciano con la politica romana ridotta a mercato, compare un Carminati intermediario di un carico di 503 chili di coca proveniente dal Sudamerica, si manifestano personaggi apparentemente — al momento — ai margini della grande inchiesta che però sono citati ripetutamente. Uno di questi è proprio il consigliere comunale Francesco D’Ausilio, quello che nell’ottobre del 2014 ha presentato le sue dimissioni da capogruppo del Pd in Campidoglio dopo che qualche mese prima aveva commissionato un sondaggio assai molesto contro il sindaco Ignazio Marino. E se D’Ausilio non risulta indagato (lo è però l’ex segretario Calogero Nucera, «il suo alter ego», precisano gli investigatori), il suo nome riempie molte pagine dell’ordinanza di custodia cautelare di Mafia Capitale. Su mandato del solito Buzzi lo cercavano per avere «consenso in sede di consiglio comunale e di giunta» contro il sindaco per non rimuovere un funzionario (insieme all’ex presidente del consiglio Mirko Coratti e all’ex assessore alla Casa Daniele Ozzimo, tutti e due arrestati) e anche per sensibilizzarlo sulla questione del riconoscimento dei debiti fuori bilancio tanto cara a Buzzi. Ma è su Ostia — dove mai un consigliere del X Municipio ha presenziato una sola volta al processo dei Fasciani, il Comune di Roma era parte civile — che si concentrano molte attenzioni di D’Ausilio provocando l’ira di Buzzi. Un giorno sbotta al telefono con Paolo Salvi, il braccio destro di Tassone: «Martedì devo incontrare Figurelli (il segretario di Coratti, ndr) e Coratti che m’hanno convocato per questa storia di Lucera che mi ha rotto il cazzo. Perché D’Ausilio si è messo in testa che è lui che deve decidere sulle cooperative: chi vince e chi perde».
Questo c’è scritto nelle carte. Il consigliere D’Ausilio saprà certamente fornire una versione diversa, da quella di Buzzi e degli stessi magistrati inquirenti, sul ruolo che gli attribuiscono in Campidoglio. Per quanto riguarda Ostia, registriamo nel web la sua ultima denuncia il 25 maggio scorso. Contro il portale istituzionale www.turismoroma.it: «Ho notato che in tema di telline si è colpevolmente dimenticato di citare Ostia, per quanto quelle di Fiumicino e addirittura di Anzio, siano indubbiamente degne di nota, credo che il litorale laziale non possa prescindere dall’esperienza ostiense e dai suoi itinerari culinari. Ho già scritto all’assessore Marinelli per segnalare questa svista, è giusto che il portale del turismo di Roma Capitale renda onore al merito». Onore al merito.
Dalla politica del X Municipio sino agli affari più «sporchi» di Ostia. C’è un testimone che spiega come Carmine Fasciani gli aveva proposto di trasportare stupefacenti dalla Spagna, si chiama Roberto Grilli e fa lo skipper. Lui rifiutò ma Massimo Carminati gli disse: «So che hai incontrato un nostro comune amico, quello che sta al mare». Era proprio Carmine Fasciani. Lo skipper non sapeva dei business fra Carminati e Fasciani, come non ne avevano prova certa neanche i carabinieri. Poi Grilli svela di una traversata atlantica sull’imbarcazione Kololo II, nell’autunno 2014. Nelle stive del bastimento c’era più di mezza tonnellata di coca, intermediario Carminati. Un’altra scoperta. Nelle conversazioni intercettate er cecato diceva a tutti: «Quella storia della droga... eh.. bisogna essere onesti, la storia della droga è della stampa.. ma chi c’ha avuto mai a che fare.. lo sanno bene che la droga c’ha sempre fatto schifo.. io la droga non l’ho mai venduta».