sabato 5 settembre 2015

Il Sole 5.9.15
L’inerzia dell’Europa forse sta finendo
di Adriana Cerretelli


Il flusso dei profughi continua, cresce come una marea incontenibile moltiplicando impotenza, caos e irrimediabili tragedie umane. Il giorno dopo la grande commozione, quel faccino nella sabbia di Aylan Kurdi, il bambino annegato e trascinato dal mare sulla spiaggia di Bodrum, ieri in Europa è stato il giorno delle esternazioni , della frenesia dell'azione dopo i mesi, gli anni dell'inerzia quasi completa.
Quasi tutti hanno detto la loro, annunciato iniziative, proposto ricette per governare la peggior emergenza umanitaria che abbia colpito il continente dalla seconda guerra mondiale. Angela Merkel e François Hollande hanno scritto una lettera congiunta alle istituzioni comunitarie, la Commissione Juncker ha fatto trapelare nuove indiscrezioni sul piano che presenterà a Strasburgo mercoledì prossimo. Il fronte dei maggiori Paesi dell’Est, riluttante alla solidarietà per quote obbligatorie di ripartizione dei disperati, ha ribadito il rifiuto pur con qualche apertura. Persino David Cameron è sceso dal suo distratto empireo per dirsi disponibile ad accogliere 5mila siriani, naturalmente alle sue condizioni. Si parla ma forse ci si prepara anche ad agire davvero. Perché questa volta l’Europa non si gioca solo la faccia, ma i suoi sacri valori, i principi fondanti, in breve la sua identità. Melassa sentimentale e concitazione emotiva c’entrano sempre per non concludere mai niente. Ma questa volta è diverso, o così pare: la politica europea dell’indifferenza e del cinismo a ranghi sciolti è arrivata al capolinea perché non più sostenibile. Insistere vorrebbe dire puro autolesionismo: farsi del male prima e perfino più di quello che si fa agli altri. Anche ammesso che ormai quasi tutti i 28 Paesi dell’Unione ne siano finalmente consapevoli, innestare la retromarcia facendo autocritica per costruire una nuova politica comune con il cemento del senso di responsabilità, di solidarietà e di rispetto reciproco - in formato intra-europeo ed extra-europeo - resta quasi una missione impossibile nella Babele delle lingue e degli interessi nazionali contrapposti. Sconfitta in luglio sulla ripartizione per quote obbligatorie di 40mila rifugiati siriani ed eritrei in due anni, la Commissione Juncker sta ricalibrando il tiro delle ambizioni all’emergenza ogni giorno più esplosiva. Per alleggerire il peso su Italia, Grecia e Ungheria, proporrà a Strasburgo un nuovo piano per redistribuire altri 120mila profughi sempre in modo automatico in base alla popolazione dei 25 Paesi membri interessati (Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca hanno clausole di auto-esclusione) e all’impatto economico sui medesimi. Proporrà, sembra, anche la creazione di un Fondo per stabilizzare i Paesi del Nordafrica da cui partono i flussi. Se si pensa che i primi 40mila, dopo i negoziati tra i governi, meno di due mesi fa sono scesi a poco più di 32mila e distribuiti per scelta rigorosamente volontaria, i dubbi che ora si faccia sul serio restano legittimi. Di diverso questa volta c’è che Angela Merkel ha deciso di porsi come indiscusso capofila e animatore della svolta e che François Hollande, allora contrario alle quote obbligatorie, ora ci ha ripensato affermandolo pubblicamente. L’Italia condivide. La sponsorizzazione dei tre maggiori Paesi dell’Unione è di sicuro fondamentale. Ma solo in parte risolutiva. Da superare c’è il fossato Est-Ovest, ricchi e poveri dell’Unione. C’è lo spartiacque etnico-religioso. E quello delle regole Ue da rispettare dentro e fuori dalle frontiere ma ormai preda della confusione generale, tra muri che salgono, disordini continui e repressione di polizia, controlli ai confini intra-europei che vanno e vengono mentre l’ordine di Schengen vacilla. Il cancelliere tedesco minaccia di rimettere in discussione l’Europa senza frontiere per i cittadini Ue se i Paesi dell’Est non cambieranno musica. Ma Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, il gruppo di Visegrad, restano convinti che la prevenzione dei flussi serva molto più delle politiche accomodanti, che le quote non risolvano il problema ma lo peggiorino incoraggiando la massa di disperati in fuga da guerre e persecuzioni a rischiare per un approdo in Europa. Argomento debole: se comunque la vita è appesa a un esile filo, meglio giocarsela nel viaggio della speranza piuttosto che lasciarla marcire nel buco nero di una disperazione certa. I Quattro di Visegrad ieri hanno chiesto sia la creazione urgente di “hotspot”, per la registrazione e il rimpatrio dei non aventi diritti all’asilo, dentro e fuori dall’Unione, nei paesi di transito come i Balcani, sia il coinvolgimento di Stati Uniti e Russia. Forse, e nonostante tutte le divergenze da appianare, questa volta si arriverà a qualche accordo di compromesso solidale intra-europeo per alleggerire la pressione sui paesi più esposti, tra i quali c’è anche la Germania. Il rischio è che ci si fermi a una semplice soluzione-tampone . Rimandando a un incerto domani la creazione di una vera e credibile politica comune per l’immigrazione. Perché imporrebbe a tutti di affrontare due sfide strutturali ben maggiori. La prima è quella della pacifica governabilità, quindi della stabilità di società europee oggi per lo più omogenee ma sempre più destinate a convivere con modelli multi-etnici e multiculturali che già creano tensioni e destabilizzazioni prima sociali e poi, inevitabilmente, politiche. La seconda è quella della normalizzazione di paesi e regioni devastate e destrutturate da guerre e povertà, per i quali l’Europa resterà sempre un sogno da conquistare fino a che non potranno in patria resuscitare i loro, brutalmente infranti. Se, sotto il pungolo dell’urgenza, comincerà almeno a risolvere la crisi dei profughi in modo ordinato e organico, l’Unione farà un concreto passo avanti. Per vincere invece le altre due sfide ci vogliono vista lunga, volontà di integrazione e coesione, senso di identità che per ora mancano all’appello.

Il Sole 5.9.15
«I diritti umani non sono più il cemento dell’Europa»
Colloquio con Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte di Strasburgo
di Donatella Stasio


La foto del piccolo Aylan, cadavere sulla spiaggia di Bodrum, ha risvegliato sentimenti di commozione e di umana pietà e al tempo stesso ha imposto di guardare alle guerre degli Stati intorno al Mediterraneo, che di quel mare hanno fatto un cimitero, nonché alle pesanti responsabilità occidentali. Tuttavia, quello scatto evoca anche un sano senso di colpa, di vergogna, per l’incapacità dell’Europa di garantire accoglienza e, soprattutto, rispetto della dignità umana. Come si concilia, infatti, l’Europa dei fili spinati, che alza muri e marchia in modo indelebile uomini, donne, bambini, con l’Europa dei diritti umani? Com’è possibile che le Corti europee stiano a guardare impotenti ciò che accade in Ungheria? E che gli Stati siano sordi al richiamo di quelle Corti al rispetto dei diritti fondamentali? Dove sono finiti - se ci sono mai stati - gli anticorpi contro il razzismo, in un’Europa che aveva scelto il motto: «uniti nella diversità»? «C’è un progressivo disfacimento dell’idea dei diritti umani come cemento dell’Europa, perciò comprendo lo smarrimento», dice Vladimiro Zagrebelsky, per anni giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo. «La mia principale preoccupazione - aggiunge - è soprattutto il riemergere di nazionalismi, di una contrapposizione tra “noi” e “gli altri” sempre più crescente e pericolosa tra gli Stati». Se ne è avuta una rappresentazione plastica a Ventimiglia, con le polizie italiana e francese schierate contro nel far passare la frontiera ai migranti o nel bloccarli. E così anche a Calais.
Zagrebelsky premette che quando si parla di migranti bisogna distinguere la dimensione sociale, politica e umanitaria da quella individuale. Quanto alla prima, «manca un comune sentire tra gli Stati», ciascuno dei quali pensa a se stesso, cavalcando umori e sentimenti dell’oponione pubblica, da cui dipende la sopravvivenza dei governi. La dimensione individuale, invece, è quella che investe le Corti. Le quali, però, non nascono «per tutelare la violazione dei diritti», come si sarebbe portati a credere, ma «per risolvere specifiche controversie». Ciò spiega perché non è dalla contabilità delle condanne che si può misurare il tasso di aderenza degli Stati ai principi che essi stessi hanno sottoscritto, poiché le sentenze dipendono dai ricorsi che vengono presentati.
Detto questo, si ha la sensazione che Strasburgo abbia via via ceduto alla pressione dei governi, consentendo la deroga di alcuni divieti (lasciata, ad esempio, all’«apprezzamento nazionale»). «Il che - osserva Zagrebelsky - significa ammettere un’Europa che sui diritti è un po’ a macchia di leopardo, laddove l’obiettivo iniziale era invece l’armonizzazione dei diritti. Obiettivo al quale si è, di fatto, rinunciato».
«Ormai è in corso il disfacimento dell’idea dei diritti umani come cemento dell’Europa» prosegue Zagrebelsky. I governi “remano contro”, spinti come sono da un’opinione pubblica che non si è nutrita dei valori sanciti nei patti sottoscritti dagli stessi governi. I quali, peraltro, poi si mostrano insofferenti a quei principi e alle sentenze della Corte. Ad aprire il varco è stato il Regno Unito, protagonista di uno scontro violentissimo con la Corte europea sulle espulsioni (negate) nei confronti di terroristi originari di Paesi in cui non vi è tutela dei diritti umani. Sulla stessa scia si sono poi mossi altri governi, che non volevano andare in rotta di collisione con l’opinione pubblica impaurita, e perciò critica verso quelle decisioni. La Corte europea dei diritti umani ha mantenuto ferma la sua giurisprudenza che non ammette che persone (qualunque sia la loro condizione) siano esposte al rischio di tortura e trattamenti inumani o degradanti.
Certo è che, a fronte dei principi giustamente ribaditi nelle sentenze della Corte (comprese le due recenti condanne dell’Italia proprio in tema di migranti), si resta basiti per la disinvoltura con cui in Europa si alzano muri, si imprimono marchi sulla pelle, si impedisce di partire a chi ha documenti e biglietti, si nega accoglienza ai rifugiati politici. «Purtroppo, pur con tutte le critiche che merita l’Europa, sull’immigrazione c’è almeno una forte dialettica che invece non c’è in altre parti del mondo. Basti pensare a cosa avviene in Australia o tra Messico e Usa», dice Zagrebelsky. Che però teme i «crescenti nazionalismi»: Italia, Germania, Finlandia, Ungheria... ciascuno ha una propria posizione e fa da sé. E se si pensa che i terreni su cui nascono le guerre sono l’economia e la paura, «gli ingredienti di una guerra ci sono tutti. L’Unione europea, nata per impedirla per sempre, dovrebbe rassicurarci». «Per fortuna - conclude - fra i giudici della Corte la cultura dei diritti ignora le frontiere. E questo, almeno, dovrebbe essere confortante».

Il Sole 5.9.15
Lars Feld, Consiglio tedesco degli esperti economici
«Il rallentamento della Cina non è un fenomeno transitorio»
intervista di Isabella Bufacchi


Il rallentamento della crescita in Cina non è un fenomeno transitorio perché con tutta probabilità il modello economico cinese cambierà strutturalmente. Non sappiamo come e fino a che punto i cambiamenti in atto incideranno sullo sviluppo economico della Cina ma una cosa invece è certa: la Germania sarà colpita duramente dal deterioramento del Pil cinese, non tanto per il calo delle esportazioni quanto per l’impatto negativo che questo avrà sulla “catena di valore” ormai molto integrata tra aziende esportatrici tedesche e aziende cinesi. A pronosticare il rischio di un periodo cupo in arrivo per la Germania, l’Europa e quindi anche per l’Italia, con assoluta franchezza è Lars Feld, direttore del Walter Eucken Institute di Friburgo, professore di economia e membro dal 2011 del Consiglio degli Esperti Economici tedesco, il think tank che al picco della crisi dell’euro propose la creazione di un Fondo europeo di redenzione per la risoluzione del problema del debito pubblico in eccesso al 60% del debito/Pil.
Feld, intervistato ai margini dell’European House Ambrosetti a Cernobbio, non ne vuole sentire parlare però di debito pubblico. È fermamente contrario a un aumento degli interventi a carico dei conti pubblici, vede male gli stimoli fiscali per rilanciare la crescita attraverso un aumento degli investimenti pubblici. «Lo Stato deve uscire dall’economia, non certo rientrarci - stigmatizza con piglio -. E per ridurre il ruolo della mano pubblica nell’economia vanno aumentate le privatizzazioni. L’Italia e la Grecia devono privatizzare, non tanto per incassare fondi per tagliare il debito pubblico, non è quello il punto, ma piuttosto devono farlo per incentivare le imprese privatizzate a investire di più, con capitali privati».
L’Italia, sottolinea Feld, ha un serio problema perché non riesce a rinvigorire la crescita. «Da quanto è entrata nell’euro, in media l’Italia ha registrato una crescita negativa della produttività e il contributo del progresso tecnologico sulla crescita è calato invece di salire». È severo, Feld, con l’Italia che «deve tagliare le tasse sul lavoro e sulle imprese riducendo la spesa pubblica e persino il numero dei dipendenti pubblici, e deve al tempo stesso velocizzare il cammino delle riforme strutturali, soprattutto quella del mercato del lavoro che tra le tante cose ha frenato la crescita dimensionale delle PMI». Secondo Feld, il miglior modo per stimolare la crescita è attraverso il miglioramento del clima di fiducia e delle condizioni per investire: l’obiettivo primario deve essere quello di favorire gli investimenti dei privati. «Se il capitale privato è messo nella condizione di guadagnare, di fare profitti, sicuramente sarà più disposto ad aumentare i suoi investimenti: solo così l’economia può crescere sul lungo termine».
Il suo giudizio sulla Germania è però meno severo: «Il nostro Consiglio degli esperti prevede per la Germania una crescita dell’1,8% nel 2015, in base all’andamento dei primi due trimestri dell’anno siamo ancora in linea con le nostre previsioni. Ma la Germania non potrà mai crescere come gli Stati Uniti per colpa del nostro trend demografico, che avrà un peso tremendo sulla crescita». Il Consiglio prevede per la Germania una crescita media dell’1,5% nel prossimo ventennio, non certo il 3-4 per cento. Secondo Feld, neppure l’immigrazione potrà correggere in maniera sostanziale la demografia del Paese, perché «servirebbe un aumento dell’immigrazione netta troppo elevato», corrispondente a oltre 1,4 milioni di flusso migratorio fuori e dentro la Germania su base annuale. E poi la Cina. Feld e il Consiglio degli esperti si sono meravigliati negli ultimi due anni sulla capacità della Cina di centrare puntualmente i suoi obiettivi di crescita. «Eravamo giunti alla conclusione che la Cina riusciva a centrare più facilmente i suoi target solo perché aveva un’economia controllata». Per questo stesso motivo, secondo Feld i cambiamenti in atto non devono essere sottovalutati, perché difficilmente saranno transitori. La Cina ha deciso di cambiare il suo modello, passando da un’economia basata sugli investimenti a un’economia basata sui consumi. E ha deciso di liberalizzare. «La liberalizzazione ridurrà il controllo sull’economia – puntualizza Feld – e non possiamo prevedere che impatto avrà tutto questo sulla crescita». Ma se e quando l’economia cinese rallenterà, l’effetto sulla Germania sarà forte e sarà negativo. «Noi esportiamo molto in Cina ma il punto è un altro: tra le nostre aziende e quelle cinesi si è creato un sistema integrato di produzione, una catena di valore che non potrà non ripercuotersi sulla crescita in Germania». Ma al suggerimento di usare il surplus di bilancio per aumentare gli investimenti, Feld non ci sta: «Al picco della crisi del debito sovrano, il debito/Pil tedesco è salito all’82% e adesso siano a quota 72% non solo perché abbiamo raggiunto il pareggio di bilancio ma perché cresciamo. Questa è la strada: uscire dal debito crescendo».
Il Qe tra l’altro secondo Feld ha abbassato troppo i tassi in Germania, che sono divenuti un’anomalia. «Un po’ di spread tra l’Italia e la Germania dovrà sempre esserci perché l’Italia deve sentire lo stimolo di doversi migliorare», mette in chiaro. Bene invece i progressi sul fronte dell’unione bancaria e il mercato dei capitali unico, due tappe necessarie per portare avanti il progetto di Unione europea. «Servirebbe l’armonizzazione dei regimi fiscali – aggiunge – ma questo forse è chiedere troppo adesso».
il manifesto 5.9.15
Il diritto allo studio è finito: escluso il 25% degli studenti
Università. L'allarme della Rete della conoscenza e dell'Unione degli universitari: l nuovo Isee costringe i borsisti a non presentare domanda
Per una riforma fiscale malriuscita migliaia di studenti rinunciano a un diritto minimo, ormai tagliato e al lumicino
Roberto Ciccarelli

Il 25 per cento degli studenti universitari italiani saranno esclusi dalle borse di studio a causa della riforma del nuovo Isee, il nuovo indicatore della situazione economico-patrimoniale adottato lo scorso gennaio. Per gli studenti della Rete della conoscenza la situazione è drammatica: il conteggio dei redditi esenti ai fini Irpef e la rivalutazione del patrimonio immobiliare per il calcolo dell’Imu costringeranno migliaia di borsisti in graduatoria a non ripresentare la domanda, certi di essere esclusi dal beneficio di un diritto fondamentale. In questo modo non risultano nemmeno come «non idonei» e dunque spariscono dai radar che registrano gli studenti che hanno bisogno della borsa. La situazione è frastagliata, visto che ogni regione segue la propria normativa e lavora su un calendario diverso.
Il sindacato studentesco ha interpellato le singole aziende per il diritto allo studio, ottenendo una fotografia della situazione particolarmente precisa. Il picco negativo delle rinunce lo ha registrato la Puglia con il 30%, segue la Toscana con il 25% e l’Emilia con il 18%. «Perché nessuno ha previsto un impatto così devastante sulla platea degli idonei di borsa, nemmeno il ministero del lavoro che ancora a marzo parlava di un aumento medio dell’Isee di circa il 10%? — domanda Alberto Campailla, portavoce del coordinamento universitario Link – A tutti era sfuggito che il vero problema non sarebbe stato l’Isee, bensì l’Ispe». L’indicatore di situazione patrimoniale equivalente (Ispe) è calcolato dividendo l’importo dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale (Isp) del nucleo familiare dello studente per il coefficiente della scala di equivalenza corrispondente ai componenti del nucleo familiare. Da uno studio dell’Istituto regionale toscano di programmazione economica (Irpet) risulta che il parametro che ha alterato gravemente il sistema delle borse di studio è proprio l’Ispe. La riforma lo ha raddoppiato e su questo dato pesa la rivalutazione della prima casa.
Il dato dimostra che i più colpiti non sono studenti provenienti da famiglie agiate. La Rete della conoscenza chiede l’abolizione dell’Ispe come criterio distinto dall’Isee, anche perché non rientra tra i criteri di selezione degli idonei), una sanatoria per chi è stato escluso quest’anno e l’innalzamento a 23 mila euro della soglia Isee. Per l’Unione degli universitari (Udu) saranno migliaia gli «esodati» dal diritto allo studio. Per questo hanno predisposto uno sportello online (www​.sosi​see​.it) dove si possono compilare questionari e avere informazioni per capire la propria situazione. «L’incremento medio nel passaggio dalla vecchia alla nuova Isee è del 10% e può raggiungere picchi fino al 20% – sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu – Questi studenti risultano più ricchi pur non avendo avuto variazioni di reddito e pagheranno addirittura tasse universitarie più salate. È fondamentale che gli studenti si facciano sentire per difendere il loro diritto allo studio»

il manifesto 5.9.15
Gaza: ospedali al collasso, mancano i farmaci
Senza il 32% dei medicinali di prima assistenza
Le cause: embargo, crisi economica e mancata collaborazione tra Hamas e Ramallah
di Federica Iezzi
Cardiochirurgo pediatra e giornalista freelance

Ogni struttura sanitaria rimasta in piedi nella Striscia di Gaza dopo Margine Protettivo, sta sopravvivendo ad una grave carenza di farmaci e forniture mediche. Risultato degli otto anni di embargo imposto da Israele e Egitto, di un lungo anno di crisi finanziaria all’interno dell’Anp e di una marcata mancanza di cooperazione tra il governo di Ramallah e Hamas a Gaza. Attualmente manca il 32% dei farmaci di assistenza primaria, il 54% dei farmaci immunologici e il 30% dei farmaci oncologici. Sono disponibili solo 260 dei 900 materiali sanitari di consumo essenziali. Secondo il Ministero della Sanità palestinese nella Striscia sono assenti 118 tipi di farmaci (25%) e 334 presidi sanitari (37%).
Alcuni anestetici mancano del tutto. Solo 33 dei 46 farmaci psichiatrici essenziali sono disponibili.
La condizione dei malati di cancro a Gaza è segnata dalla carenza di farmaci antitumorali dovuta al blocco implacabile di Israele del territorio costiero palestinese, e dall’impossibilità di raggiungere ospedali fuori dalla Striscia. Ogni mese solo il 10%, dei 1500 gazawi che chiedono il permesso di ingresso in Cisgiordania, Israele e Egitto per cure mediche, riceve un appropriato trattamento anti-tumorale. Negli ultimi dieci anni il numero dei pazienti con cancro nella Striscia di Gaza è lievitato. Carcinoma tiroideo, leucemia e mieloma multiplo sono i tumori con più alta frequenza. Sotto accusa: l’uso di armi da guerra da parte di Israele in zone altamente popolate, l’uso indiscriminato di fosforo bianco già dall’offensiva militare israeliana del 2008, i consumi di acqua inquinata, l’uso di terreni inquinati per la coltivazione.
Nel dipartimento di oncologia dell’al-Shifa hospital, a Gaza City, vengono trattati 150 pazienti oncologici al giorno, con tre medici, cinque infermieri e solo 15 posti letto. Ogni mese 70–100 nuovi casi. Si lavora con poco meno del 40% dei farmaci antitumorali necessari. Proibita la radioterapia e la terapia molecolare, perché dal valico commerciale di Kerem Abu Salem, al confine con Israele, non entrano né i macchinari per la radioterapia esterna né i nuovi farmaci oncologici. Diagnosi sempre meno accurate per la mancanza dei reagenti di laboratorio e dei macchinari per esami strumentali. I voluti e perpetrati ritardi da parte delle autorità israeliane nel rilascio del nulla osta di sicurezza per l’importazione dei farmaci mettono a repentaglio ogni giorno la vita dei pazienti affetti da cancro.
Il programma di trapianti del rene, unico iniziato a Gaza nel 2013, è praticamente fermo perché Israele proibisce l’ingresso degli immunosoppressori, categoria di farmaci utilizzata per evitare il rigetto dell’organo. Le restrizioni sui valichi di frontiera hanno esacerbato le condizioni di salute degli abitanti di Gaza che convivono con malattie croniche. I farmaci provenienti da Israele sono molto più costosi di quelli che arrivano dall’Egitto. Difficili da procurarsi perfino antipertensivi e antidiabetici. E una volta ottenuti i costi sono spropositati e le consegne lente. In più l’insulina per i diabetici richiede refrigerazione costante, per poter conservare la sua efficacia, che diventa illusoria in un posto in cui manca l’elettricità per 18 ore al giorno. Bloccate anche le donazioni da organizzazioni arabe e internazionali attraverso il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, aperto soltanto per 15 giorni quest’anno.
I materiali sottoposti a specifici permessi da parte del Ministero della Difesa israeliano spesso sono semplici pezzi di ricambio per apparecchiature danneggiate da anni di degrado. I cosiddetti materiali nella lista israeliana «dual-use», quelli che secondo Tel Aviv possono avere un duplice utilizzo, militare e non, spesso sono reagenti o prodotti chimici che entrano nel processo di preparazione di medicinali nelle industrie farmaceutiche, che prima soddisfavano il 15% del fabbisogno locale. In entrambi i casi vengono fermati a Kerem Abu Salem. Inoltre i servizi sanitari a Gaza sono tenuti a pagare per il deposito in Israele delle attrezzature mediche acquistate, durante gli interminabili controlli di sicurezza israeliani.

il manifesto 5.9.15
La sconfitta di Varoufakis
di Sarantis Thanopulos

Durante la sua breve guida del ministero greco dell’Economia, Yannis Varoufakis ha subordinato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva.
L’idea buona era che la vita austera, sobria e dignitosa, nulla ha a che fare con le politiche di austerità. L’idea cattiva (che ha avuto fautori illustri a partire da Platone) era che la ragione politica coincide con il ragionare correttamente («orthos logos»). Il pensiero che valuta e calcola tutto in modo rigorosamente logico, dà risultati eccellenti nel campo delle scienze naturali, ma nel campo del governo della Polis, delle faccende umane che ne sono la materia viva, deve fare i conti con la psicologia.
I fattori psicologici politicamente più influenti sono le passioni e la paura. Le passioni sono le forze che trasformano la vita in profondità, la spinta propulsiva di ogni cambiamento reale. La paura è il sentimento dominante, quando le difficoltà che incontra un cambiamento necessario, sfociano in una situazione di instabilità duratura, o troppo repentina, rendendo il futuro imprevedibile.
La sinistra ha promosso trasformazioni sociali profonde (nel solco dell’evento rivoluzionario o di un grande progetto di riforma) solo quando ha saputo farsi interprete di una grande passione, di un movimento di emancipazione delle masse prodotto dal desiderio, dall’apertura senza riserve e esitazioni all’inconsueto. Tuttavia, le passioni sono difficili da gestire: detestano il calcolo e sono moderate solo dal senso di responsabilità, dall’intima necessità di proteggere le cose desiderate. Slegate dalla responsabilità, si riducono a forze puramente destabilizzanti, favorendo la reazione delle forze conservative. La destra ha sempre tenuto conto della paura, incentivandola. Ciò le assegna un indubbio vantaggio tattico: la paura (specie se mescolata con la rabbia e l’odio) si può manipolare facilmente. Convogliata in vie di scarica superficiali, crea inerzia psichica che produce un senso di stabilità rassicurante.
Varoufakis non è riuscito a mantenere lo scontro con Shauble su un piano autenticamente politico, di confronto tra passione responsabile e paura. Il suo attaccamento all’astrazione logica l’ha messo in una posizione simmetrica a quella dei suoi avversari. La debolezza della politica nei confronti dei circuiti finanziari, sta favorendo un potere «iperpolitico», potere puro, al di là di ogni dialettica tra padrone e servo, fondato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Questo potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione generalizzata del principio: «Testa vinco io, croce perdi tu». Orientato a produrre profitti, tanto insensati tanto esponenziali, non è capace, per costituzione, di risolvere nessuno dei problemi umani.
Si può subire la prepotenza del più forte senza essere per sempre sconfitti. La sconfitta di Varoufakis è nell’aver fondato un progetto politico sul primato improprio della logica sulle passioni, le incertezze e le paure che attraversano l’Europa. La sua critica a Tsipras deriva dalla fede a una logica stringente, vissuta come verità, che è figlia di orgoglio intellettuale. Dimentica che in politica una teoria, anche la più intelligente, è vera se produce una trasformazione reale.
Tsipras è restato nel campo politico, difendendo la passione europea del suo popolo (l’amore per la pace e la democrazia) e rispettando le sue angosce. Può perdersi in una serie di compromessi interminabile, ma non ha altra strada per resistere all’eccesso di arbitrio che avanza nel nostro mondo. Questo arbitrio, che riduce la vita in quantità manipolabili, nel confronto puramente logico non teme rivali.

il manifesto 5.9.15
Un Pollock schivo
«Charles Pollock. Una retrospettiva», a cura di Philip Rylands al Guggenheim in Laguna
E' il terzo appuntamento di un più ampio omaggio dedicato ai due creativi fratelli, con il restauro di «Alchemy» (1947) e la ricollocazione a parte, nella casa-museo di Ca’ Venier dei Leoni, del «Murale» risalente al 1943
di
Fabio Francione

VENEZIA Apparentemente non ci sono screziature nelle biografie della famiglia Pollock, né tra i genitori né tra i cinque figli, tra cui vanno contati due artisti: Charles, misconosciuto e appartato fino alla conquista di una fama critica postuma, e Jackson, celeberrimo in vita e in morte; quest’ultima violenta come s’addiceva ai maudit americani degli anni ’50 del Novecento; inventore di uno stile rivoluzionario, corteggiato da miliardarie e galleristi. Tra i due intercorrevano dieci anni di differenza. Charles, nato nel giorno di Natale del 1902, era il primo di tutti i fratelli Pollock; Jackson, essendo nato nel 1912, il 28 di gennaio, il più giovane. Se di questi si conosce in modo ampio ed esaustivo sia la biografia sia la cronologia delle opere; di Charles si conosce poco o nulla tranne la permanenza in Europa, a Parigi, nella parte estrema della sua esistenza, andando a morire nella capitale francese l’8 maggio del 1988. Ciò raccontano i saggi biografici contenuti nel catalogo della prima mostra in Italia, visitabile alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia (fino al 14 settembre prossimo), Charles Pollock. Una retrospettiva, a cura di Philip Rylands e terzo appuntamento di un più ampio omaggio dedicato ai fratelli Pollock, con il restauro di Alchemy (1947) e la ricollocazione a parte, nella casa-museo di Ca’ Venier dei Leoni, del Murale risalente al 1943, opere chiavi di Jackson e dell’arte del XX secolo.
Dunque la rapida scorsa alle date evidenziano per Charles, a differenza di Jackson, un’esistenza lunghissima che gli ha consentito di non «congelare» la sua pittura ad un solo periodo. Anzi, attraversando, per certi versi e non solo nell’arte, svolte epocali, è andato malgré soi a sbattere contro rivoluzioni artistiche che poco o nulla avevano a che fare con il suo essere. Più meditativo e riflessivo di Jackson, Charles, ammiratissimo peraltro dal fratello, smontò e rimontò «la scatola» pittorica di Thomas Hart Benton,  maestro di entrambi che, insieme a Hopper e pochi altri, fu uno degli alfieri della pittura realista americana degli anni trenta. Un realismo molto differente dalle tradizioni del Vecchio Continente, il più delle volte antimodernista e, allo stesso tempo, anticipatore di tendenze che saranno preda più della fotografia, del cinema e del video che dell’arte.
Ma, fu l’ascesa di Jackson all’olimpo dei grandi del ‘900 a dirottare la pittura di Charles dal figurativo – tra l’altro sobillato da Benton fu affascinato dagli orditi parietali dei murales messicani (doveva, secondo il suo maestro, guardare al Messico come luogo di avanguardia artistica e a Siqueiros; un tardo omaggio al paese centroamericano è dato da un collage dada fuori tempo massimo e non ancora Nouveau réalisme del ’55) – a un’astrazione, di forte impatto espressionistico, quasi brutale e sconfitta nei soggetti, che però «solidarizza» con quella del fratello. In una decina di anni, insomma, i rapporti si sono ribaltati: due tele in mostra risalenti ad anni eroici come i cinquanta, Don Chisciotte e Dark Script, esemplificano alquanto il periodo. Non che non ci fossero influenze reciproche negli anni quaranta; lì però a giocare d’anticipo erano le sublimi intersezioni tra il Picasso postcubista, arrivato negli States grazie alla «navicella» surrealista scampata al nazifascismo e, ancora una volta, le suggestioni bentoniane, addirittura, di un ventennio prima. Questo sguardo rivolto al maestro d’un tempo, quando Benton morì nel 1975 aveva 86 anni, è una costante da non negare sia per Jackson sia, soprattutto, per Charles.
Ma, è l’accidentale dipartita di Jackson che scatena nuovamente in Charles, fermatosi per qualche anno al solo insegnamento, il demone del dipingere e lo farà con impegno e passione tanto che la sua pittura si emancipa e comincia a dialogare, da posizioni laterali con la nuova astrazione europea, mentre l’osservazione ammirata di Barnett Newman e di Mark Rothko non frena le remore che aveva verso la pittura americana: il più delle volte trascinata in posizioni antitetiche alle sue. Infatti, al contrario della maggior parte dei pittori americani, che aspiravano (o era il mercato a farlo per loro), a un gigantismo produttivo e creativo, Charles Pollock restò fedele al suo lavoro solitario che con l’andar del tempo costruiva impalcature intellettuali rarefatte come il magnifico #95 del ’67, che sembra congelare le teorie colorate kandiskjane in un mondo postumo e senza più riserve morali.
Repubblica 5.9.15
L’ulivo per Atena la vite per Dioniso la palma per Apollo
Dalla pittura su ceramica agli affreschi i reperti del passato raccontano le relazioni tra la realtà e i simboli
di Giuseppe M. Della Fina


Quale era il rapporto con la natura nel mondo classico? Come veniva raffigurata? A domande simili offre alcune risposte intriganti la mostra Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei allestita, a Milano, all’interno di Palazzo Reale (sino al 10 gennaio 2016) a cura di Gemma Sena Chiesa e Angela Pontrandolfo.
Lungo il percorso espositivo, più di duecento opere tentano di parlare dell’aspirazione a una simbiosi talvolta riuscita (come nella lastra dipinta della tomba del Tuffatore da Paestum, uno dei capolavori esposti), altre volte mancata, o, talora, negata.
La base documentaria a disposizione è rappresentata soprattutto dalla pittura su ceramica e da quella parietale relativa sia ad abitazioni che a spazi funerari pur non mancando altre testimonianze artistiche: è il caso del celebre Vaso Blu con Eroti vendemmianti, rinvenuto a Pompei e lavorato nel preziosissimo vetro-cammeo secondo una tecnica ideata in epoca ellenistica e destinata a un successo notevole in età imperiale romana.
Emerge sin dai reperti più antichi il rapporto con il mare: «luogo dei traffici, dei passaggi, delle avventure e delle scoperte, delle partenze e dei ritorni», come ha osservato Gemma Sena Chiesa in uno dei saggi del bel catalogo edito da Electa. Un mare solcato da imbarcazioni e quindi ritenuto idoneo a creare contatti, incontri, occasioni; eppure altro rispetto alla terra, potenzialmente minaccioso, difficile da dominare. Come appare sul vaso più antico proposto in mostra: un cratere da Pitecusa (Ischia), risalente alla fine dell’VIII secolo a.C., con la rappresentazione di un naufragio.
Una distesa marina simboleggiata spesso dai pesci che la popolano, resi di frequente in maniera iperrealistica come nel caso, ad esempio, di alcuni piatti realizzati da artigiani apuli nel IV secolo a.C. e destinati ad essere utilizzati sia per la mensa quotidiana che per il banchetto funerario.
La rappresentazione del paesaggio terrestre è affidata, inizialmente, soprattutto agli alberi che fungono da quinte per le scene mitologiche, o di altro genere che si volevano ambientare all’aperto. La singola pianta diviene spesso allusione a una divinità: l’ulivo per Atena, la vite per Dioniso, la palma e l’alloro per Apollo e Artemide, il mirto per Afrodite e le ninfe e si potrebbe continuare a lungo. Sui vasi attici – ben documentati lungo il percorso espositivo – tali divinità sono raffigurate con frequenza; ritorna spesso anche Demetra, la dea del grano e dell’alternarsi delle stagioni.
Le piante, talvolta, sembrano interagire coi singoli eventi a cui fanno da sfondo: nel caso di una nota idria della collezione Vivenzio, la palma cresciuta presso il santuario di Artemide appare ripiegata e affranta per la tragedia che ha colpito la città di Troia.
Nel passaggio tra l’età classica e l’ellenismo, lo sguardo sembra ampliarsi e l’insieme inizia a comporre un paesaggio che non riproduce una realtà specifica (come avverrà solo più tardi), ma un luogo ideale destinato a divenire, nelle mani di maestranze meno sensibili, una scena di maniera destinata a una fortuna notevole sia nel nuovo centro del potere – Roma – che nel suo vasto impero.
L’attenzione per il mondo vegetale e animale si coglie anche in nature morte dove l’attenzione si sposta su singoli frutti, fiori, animali resi con una vivezza straordinaria.
Infine va segnalato che l’allestimento – curato da Francesco Venezia – ha previsto, in un’area all’aperto di Palazzo Reale, la riproposizione di un viridarium, vale a dire di un giardino intimo e raffinato, realizzato dall’associazione Orticola di Lombardia ispirandosi ad un affresco della Casa del Bracciale d’Oro di Pompei.
Repubblica 5.9.15
Quell’attrazione fatale all’origine dell’arte
Al Palazzo Reale di Milano un percorso di opere indaga la relazione tra leggenda e paesaggio dalla Grecia a Pompei
Mito e natura
di Marino Niola


Senza la natura il mito non esisterebbe. Come dimostra ora l’importante mostra al Palazzo Reale di Milano. Ma senza il mito non ci sarebbe la natura. L’uno vive in funzione dell’altra, legati da un’attrazione fatale, da un magnetismo dell’immaginario che è all’origine dell’arte e, in generale, del pensiero umano. Che comincia a riflettere sull’universo in forma mitologica quando i primi uomini, che non conoscono le cause dei fenomeni naturali, li personificano negli dèi. Così Giove folgorante diventa la spiegazione dei fulmini, la casta diva Artemide l’incarnazione dei boschi inviolati e degli animali selvaggi, Apollo il luminoso driver del carro solare, Demetra la padrona delle messi e della natura coltivata. E Gaia, o Gea che dir si voglia, genitrice del cielo, dei monti e delle acque, è la dea eponima della terra madre. E del resto la stessa filosofia che, almeno in apparenza, è l’opposto del mito nasce da una sorta di riflessione poetica sulla natura che è parente
strettissima della mitologia. Quando i primi pensatori greci, Talete, Anassimandro e Anassimene cercano la sorgente primigenia della realtà, chi nell’aria, chi nell’acqua, chi nel fuoco, di fatto inaugurano la poetica della natura, una gaia scienza ammantata di favola.
Ma la physis, il nome che i greci danno alla natura, da cui il nostro fisica, non è solo l’insieme dei regni terrestri, acquatici e celesti, la bella d’erbe famiglia e d’animali di foscoliana memoria. Non è solo ciò che circonda gli umani. Ma è parte di loro. Perché i mortali obbediscono agli imperiosi e misteriosi comandi di Madrenatura, di cui sono i figli più consapevoli. Le sue propaggini estreme. Quelle pensanti, che proprio per questo sono le creature più felici, ma anche quelle più infelici.
In fondo la tragedia e la poesia, che poggiano saldamente sul mito come un palazzo sulle fondamenta, parlano sempre dell’eterna battaglia tra volontà e natura che si svolge in ogni cuore umano. Edipo, Clitennestra, Agamennone, Antigone, Cassandra, Ulisse, sono portati dalla loro natura che li trascina con la forza irresistibile di una corrente verso la loro destinazione fatale. O vero il loro destino che è la stessa cosa. Cioè un luogo stabilito. Lo dimostra il fatidico incontro tra Ulisse e le Sirene, che nell’esposizione milanese è rappresentato nel bellissimo aryballos di Boston, un vaso globulare che è un piccolo compendio di mitologia illustrata. Dove le diverse facce della natura si rivelano nell’atteggiamento doppio dell’eroe che vuole e non vuole cedere all’incantesimo del canto. E nella doppiezza delle incantatrici, metà donne e metà uccello, che simboleggiano i due emisferi dell’essere.
Queste figure alimentano da sempre l’immaginario occidentale. Che spesso dà anche alle astrazioni la forma concreta di siti naturali. Di metafore spaziali. È il caso di Thanatos, la morte. Localizzata a volte in un’isola lontana. Altre volte in un aldilà esotico, come i celebri Campi Elisi. Che sono un giardino eternamente fiorito, una specie di Eden riservato ai beati, con clima ideale, né caldo né freddo. E accarezzato da brezze profumate. Insomma un agriturismo bio per spiriti eletti.
Ma altri, come Omero e Virgilio, collocano la più crudele del- le divinità in un sotterraneo tenebroso, dove regna Ade, il dio vestito di notte. Un abisso così profondo, dice Esiodo nella Teogonia, che un’incudine lanciata nel vuoto sarebbe precipitata per nove giorni e nove notti prima di toccare il fondo. Proprio di questa immagine è figlio l’inferno di Dante, un interminabile imbuto che discende fino al centro della terra.
Ma l’ultimo viaggio può risolversi anche in un tuffo. Come quello raffigurato nella meravigliosa Tomba del Tuffatore di Paestum, uno dei pezzi più belli della mostra. Un aldilà liquido di cui Angela Pontrandolfo, nel bellissimo testo che apre il catalogo, svela i misteriosi significati. Che mettono insieme mitologia e geografia, cosmologia e filosofia, letteratura e architettura.
La possente struttura a blocchi di tufo presente sia nel vaso delle sirene che nell’affresco di Paestum è, infatti, una rappresentazione convenzionale delle porte dell’Ade. Che alcuni collocavano a Gibilterra, vicino alle colonne d’Ercole, ultimo confine del mondo abitato, altri in Asia. Negli scavi di Hierapolis, l’attuale città di Pamukkale, in Turchia, è stato individuato il Ploutonion, l’antico ingresso dell’oltretomba. Una grotta sulfurea accanto a un tempietto di Ade sul bordo di una piscina. In ogni caso una morte per acqua, per dirla con Eliot.
Ma la natura, oltre che energia vivente, forza trasformatrice, potenza maestosa, e spaventosa, è anche risorsa addomesticabile. Sia pur con l’aiuto degli dèi dell’Olimpo che insegnano agli uomini le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento. È Dioniso, dio del vino, a portare da una sponda all’altra del Mediterraneo il succo della vite, con l’aiuto dei satiri e degli amorini. Il cosiddetto vaso blu del Museo Archeologico di Napoli, un prezioso capolavoro in vetro- cammeo, raffigura proprio degli amorini che vendemmiano in uno stato di estasi vegetale, di comunione panica con il vivente. Una comunione di cui il mito non si lascia strappare le chiavi.
E certe volte le nasconde, come una cifra nel tappeto, nei luoghi più quotidiani. Si racconta che Gerone, signore di Siracusa, possedesse un meraviglioso giardino dove si rifugiava a conversare all’ombra squisita dell’albero dell’incenso, tra il mormorio delle acque e gli aromi confusi dell’innocenza e della depravazione. Il giardino aveva un nome eloquente. Si chiamava mito. Come dire che la natura ama nascondersi. Mentre il mito le serve da complice.
Repubblica 5.9.15
Duemila anni per vivere con saggezza
Umberto Eco racconta la sua “Storia della filosofia” curata con Riccardo Fedriga in uscita con “Repubblica”
intervista di Raffaella De Santis


Le domande dalle quali si origina il pensiero filosofico sono semplici e riguardano tutti. «Chiunque di noi si pone nel corso della sua vita domande filosofiche: chi sono? C’è una vita dopo la morte?», spiega Umberto Eco. Ora Eco e Riccardo Fedriga curano una “Storia della filosofia” raccontata con un linguaggio chiaro e appassionato, adatta sia agli studenti che ai curiosi di ogni età. Si parte lunedì con il volume “Dai Presocratici ad Aristotele” (in edicola con “Repubblica” a 9,90 euro più il costo del giornale) e di secolo in secolo si va avanti fino ai giorni nostri. Per realizzare questo progetto sono stati
coinvolti cento studiosi, i migliori nel loro campo (tra cui Mario Vegetti, Enrico Berti, Walter Covili, Maria Michela Sassi e tanti altri).
Che cosa l’ha spinta a concepire un’opera che va dagli albori del pensiero occidentale ad oggi?
«In realtà avevo sempre sognato di scrivere una storia della filosofia. Ma sapevo che avrebbe dovuto essere più ampia, riguardare anche il contesto storico, l’ambiente politico, sociale e culturale. Non ci siamo fermati al pensiero filosofico, ma abbiamo tentato di indagare la società nel suo insieme. Come si può capire il pensiero greco se non si comprende il discorso di Pericle agli ateniesi o che tipo di musica ascoltavano? » Qual è l’importanza della divulgazione?
«Non credo che trattandosi di otto volumi si possa parlare di un’opera divulgativa. La divulgazione era il Bignami, usato dalla mia generazione, che di Hegel ci permetteva di ricordare almeno “tutto ciò che è reale è razionale”. Qui invece si fa il contrario, si allarga il discorso. Jacques Le Goff scrive la Civiltà dell’Occidente medievale parlando di architettura, pastorizia, università, famiglia. È chiaro che, parlando di mille anni di pensiero ed eventi, realizza un’opera di sintesi. Ecco, questa è un’opera di sintesi».
Non tutti i manuali però sono uguali. Per molti anni intere generazioni hanno studiato filosofia sull’Abbagnano e sul Lamanna. Come erano?
«L’Abbagnano era ottimo, il Lamanna illeggibile. Ricordo che al liceo non lo leggevamo. Per studiare prendevamo bene gli appunti quando il professore spiegava e ci basavamo su quelli. Il Lamanna ha rovinato generazioni».
Da cosa nasce il pensiero filosofico?
«I primi filosofi sono i bambini, con i loro continui perché. In età classica Aristotele chiamava questo tipo di domande “atti di meraviglia”. La filosofia, a differenza della scienza, ci propone le domande a cui non c’è risposta, o non c’è ancora, o ce ne sono molte…».
Può fare degli esempi?
«Si prenda questa domanda: “È vero che la neve è fatta di cristalli che presentano una grande simmetria?”. La scienza risponde che è vero. Ma se poi la scienza si chiede cosa vuole dire essere vero, allora anche la scienza affronta un problema filosofico. La domanda filosofica per eccellenza resta però: “Perché c’è dell’essere piuttosto che niente?”. A questa interrogazione nessun testo scientifico può rispondere».
La filosofia si interroga e la scienza risponde: è questa la differenza?
«No, anche la scienza s’interroga. Salvo che anche molte domande degli scienziati sono filosofiche. Quando Einstein ha detto “Dio non gioca a dadi” si è posto un problema filosofico. Ecco perché nella nostra storia ci sono molti capitoli che potrebbero appartenere anche a una storia della scienza».
Oggi però cerchiamo soprattutto risposte univoche, possibilmente veloci. La filosofia può ancora esserci utile?
«L’esercizio della filosofia insegna il senso critico. Non ci fa rispondere a tutte le domande ma ci aiuta a capire perché certe risposte sono sbagliate. Si pensi ai sillogismi aristotelici. Prenda questo esempio: “Alcuni immigrati sono di colore, qualche turco è immigrato, pertanto qualche turco è di colore”. Abbiamo intuitivamente l’impressione che qualcosa in questo ragionamento non funzioni, ma si tratta di spiegare in modo quasi matematico perché».
Perché ogni storia della filosofia inizia dai Greci? Non possiamo concepire un pensiero diverso o antecedente a quello occidentale?
«In Cina c’erano buone tradizioni filosofiche, ma il pensiero nella forma che noi pratichiamo ancora nasce in Grecia. Esistono forme di ragionamento anche nelle comunità primitive, ma per capire chi siamo noi dobbiamo partire dalla Grecia».
Ormai ha preso piede la filosofia terapeutica. Ma la filosofia può essere consolatoria?
«Una celebre opera di Boezio s’intitolava De consolatione philosophiae . Ma uno dei miei maestri, Giovanni Cairola, ha scritto un saggio intitolato La filosofia non consola .
Certo che, leggendo Pascal, posso capire un mio problema personale ma la filosofia, più che consolare, ci aiuta a capire, talora a capire che non c’è consolazione possibile… ».
Il pensare è ciò che ci distingue dagli animali?
«Purtroppo su questo gli animali non hanno ancora dato una risposta soddisfacente. O non l’abbiamo capita».
Repubblica 5.9.15
Dal Sudamerica agli Stati Uniti dalla Francia all’Italia il libro-reportage di Jorge Carrión nei luoghi in cui non si è perso il senso della lettura
Il mio viaggio nelle librerie dove il mondo si rappresenta
di Jorge Carriòn


Ogni libreria riassume in sé il mondo intero. Non è una rotta ma un corridoio aereo che, snodandosi tra ripiani e scaffali, collega il luogo in cui viviamo e le sue lingue con regioni sconfinate dove si parlano altri idiomi. Non è una dogana internazionale ma un valico — un semplice valico di frontiera — che dobbiamo attraversare per cambiare topografia e di conseguenza anche toponomastica ed epoca. Per accedere all’ordine cartografico di qualsiasi libreria, a questa rappresentazione del mondo — di tutti i diversi mondi che chiamiamo mondo — così simile a una carta geografica, a questo territorio libero in cui il tempo rallenta e il turismo diventa
un’altra forma di lettura, non serve passaporto. Eppure, visitando la Green Apple Books di San Francisco, la Ballena Blanca di Mérida in Venezuela, la Robinson Crusoe di Istanbul, la Lupa di Montevideo, L’Écume des Pages di Parigi, la Book Lounge di Città del Capo, l’Eterna Cadencia di Buenos Aires, la Rafael Alberti di Madrid, la Casa Tomada di Bogotá, la Metales Pesados di Santiago del Cile, la Dante & Descartes di Napoli o la Literanta di Palma di Maiorca, ogni volta ho avuto come l’impressione che mi venisse apposto una specie di timbro su un documento, di accumulare visti che certificavano le mie tappe lungo la rotta internazionale delle librerie più importanti o significative, di quelle migliori, più antiche, interessanti o semplicemente più accessibili.
Il mio primo timbro è stato quello della Librería del Pensativo di Città del Guatemala. Ero arrivato verso la fine del mese di luglio del 1998 e il paese era ancora sconvolto dalla morte del vescovo Gerardi. Era stato brutalmente assassinato due giorni dopo aver presentato, in qualità di rappresentante dell’Ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado, i quattro volumi del rapporto Guatemala: nunca más, in cui erano documentate circa 54.000 violazioni di diritti fondamentali avvenute nel corso dei trentasei anni della dittatura militare. In quei mesi dominati dall’incertezza, durante i quali cambiai quattro o cinque volte domicilio, il centro culturale La Cúpula — che comprendeva il caffè/ galleria Los Girasoles, la libreria e altri negozi — fu per me quanto di più simile ci fosse a una casa.
Il giorno in cui finalmente mi sono deciso a disporre sulla scrivania tutti questi timbri, quello che ho visto non era tanto un passaporto quanto un mappamondo. Tuttavia, essa rappresentava il possibile status quaestionis di una realtà al tramonto, in trasformazione. Giacché in ogni parte del mondo librerie come il Pensativo o non esistono più o stanno scomparendo oppure sono diventate un’attrazione turistica e hanno aperto un proprio sito Internet o sono state assorbite da una catena le cui succursali portano tutte il medesimo nome. Spesso non compaiono nemmeno nelle guide turistiche né divengono oggetto di tesi di dottorato finché il tempo non ha la meglio su di loro, trasformandole in miti. Miti come quello di rue de l’Odéon a Parigi, alimentato dalla Shakespeare and Company di Sylvia Beach, e di Charing Cross Road, la strada intergalattica, via bibliofila di Londra per eccellenza, immortalata nel titolo del miglior romanzo che io abbia letto sulle librerie: 84, Charing Cross Road di Helene Hanff; o come la libreria già dei Marini, in seguito Casella, fondata a Napoli nel 1825 da Gennaro Casella e passata in eredità a suo figlio Francesco, nel cui locale tra Ottocento e Novecento s’incontravano personalità come Filippo T. Marinetti, Eduardo De Filippo, Paul Valéry, Luigi Einaudi, G. Bernard Shaw e Anatole France (che, pur alloggiando all’Hôtel Hassler al Chiatamone, la usava come fosse il salotto di casa sua); o, ancora, come la Libreria degli scrittori di Mosca che, tra la fine degli anni Dieci e gli inizi degli anni Venti del Novecento, approfittò della breve parentesi di libertà rivoluzionaria per offrire ai lettori un centro culturale animato da intellettuali.
Catalogando tutti quei biglietti da visita, foglietti volanti, dépliant, cartoline, cataloghi, istantanee, appunti e fotocopie, mi sono imbattuto in numerose librerie che si sottraevano a qualsiasi raggruppamento cronologico o geografico. Erano quelle specializzate in narrativa e libri di viaggio, in sé stesse un paradosso, poiché tutte le librerie sono un invito al viaggio e, anzi, sono dei viaggi in sé. Seguendo l’itinerario proposto dalla Altaïr (a Barcellona, ndr), superata la vetrina ci si imbatte in primo luogo in una bacheca dove sono affissi annunci di viaggiatori, oltre la quale sono esposti gli ultimi numeri della rivista omonima. La Ulyssus, a Girona, ha per sottotitolo «Libreria di viaggi» e, proprio come Albert Padrol e Josep Bernadas, i fondatori della Altaïr, anche il suo proprietario Josep Maria Iglésias si considera un viaggiatore prima ancora che libra- io o editore. Non è un caso che al timone della parigina Ulysses vi sia Catherine Domain, esploratrice e scrittrice, che ogni estate costringe la propria attività a trasferirsi con lei al casinò di Hendaye. Per estensione simbolica, librerie di questo tipo traboccano in genere di carte geografiche e mappamondi: nella Pied à Terre di Amsterdam, per esempio, i globi terracquei che osservano di sottecchi il visitatore intento alla ricerca di guide e altre letture si contano a decine. La madrilena Deviaje dà invece maggior risalto alla propria natura di agenzia: «Viaggi su misura, libreria, complementi di viaggio».
Corriere 5.9.15
La Costituzione secondo Vittorio Alfieri
di Sebastiano Grasso


C’è qualcosa di nuovo oggi nell’Alfieri, anzi d’antico: d’intorno è nata una nuova interpretazione, si potrebbe dire parafrasando il Pascoli de L’aquilone . Possibile, dopo tutto quello ch’è stato scritto sul conte piemontese (1749-1803)? A quanto pare, sì. Infatti è appena uscito un libro di Giuseppe Rando, il cui titolo, Alfieri costituzionalista (Equilibri, pp. 158, € 16) suscita la curiosità di quanti — soprattutto nei licei e nelle Facoltà umanitarie — si sono confrontati con lo scrittore di Asti, portandosi dietro la sua immagine di anarchico, ribelle, reazionario, sempre a caccia delle mogli altrui — la baronessa Imhof, la viscontessa Ligonier, la marchesa di Priero, la contessa d’Albany — per le quali un paio di volte era anche stato sfidato a duello dai rispettivi mariti.
Ed ecco, d’un tratto, emergere anche un aspetto che certo prende un po’ le distanze dall’Alfieri di studiosi come Umberto Calosso o Natalino Sapegno. Documenti alla mano, s’impone il «post illuminista progressivo», critico del dispotismo caro agli illuministi, nonché primo assertore del costituzionalismo in Italia e, contestualmente, padre geniale della tragedia moderna.
Perché parlare di un Alfieri costituzionalista? Nei Trattati , nelle tragedie politiche (a partire da Timoleone ), nel Parigi sbastigliato , nell’ America libera , nelle Satire , nelle Commedie , il conte di Cortemilia mostra di condividere la tesi dei costituzionalisti francesi della seconda metà del Settecento (soprattutto di Bonnot de Mably, del quale mutuava persino termini, giudizi e interi periodi): il dispotismo illuminato è una «tirannide mistificata», giacché il principe illuminato resta al di sopra delle leggi; non è tirannico uno Stato in cui sovrane siano le «sacrosante leggi» scritte (la Costituzione, appunto) e in cui ci sia la netta separazione dei poteri (teorizzata dai francesi che si ponevano «a sinistra di Montesquieu»).
Che cosa fa Rando? Sposta sul piano filologico il dibattito sull’ideologia politica dell’Alfieri, scandagliando soprattutto il trattato Della tirannide , scritto a Siena nel 1777 — anno in cui il giovane Vittorio incontra la donna che gli sarà accanto per tutta la vita: Luisa di Stolberg-Gedern, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, durante uno dei suoi celebri «viaggi letterari» — e riscritto a Parigi un paio d’anni dopo.
Docente universitario di letteratura italiana, Giuseppe Rando, 69 anni, non è nuovo a operazioni del genere. Anche se circoscritta, la sua prima indagine risale al 1982, con i Tre saggi alfieriani , ben accolti da Raffaele Spongano, Giuseppe Petronio e Arnaldo Di Benedetto. Segue, nel 2007, l’ Alfieri europeo : le «sacrosante leggi» . Rileggendo i testi, il rapporto fra letteratura e ideologia politica diventava più stretto.
Ed ecco Alfieri costituzionalista : terzo atto di una vicenda durata oltre un trentennio. Convincente il finale. Nelle due grandi stagioni teatrali dell’Alfieri, Filippo e Saul diventano i vertici espressivi. Al tempo stesso, lo studioso riesamina i lavori nati a ridosso della Rivoluzione francese per la quale, nel 1789, l’Alfieri si era tanto entusiasmato e che, tre anni dopo, una volta degenerata, aveva rinnegato.
Da qui, una sorta di diorama. Su un ipotetico proscenio si avvicendano Parigi sbastigliato , le Satire , il Misogallo e le Commedie . Che diventano una «risposta laica, positiva, costituzionalistica» dell’Alfieri al Terrore (L’antidoto), alla decadenza dei costumi napoleonici (Il divorzio) e alla cultura cinica, materialistica e relativistica dei presunti rivoluzionari giacobini (La finestrina).
Corriere 5.9.15
L’antica Atene non è un emporio
Imitare oggi il sorteggio per le cariche pubbliche?
Nella polis i veri leader erano eletti
di Luciano Canfora


Da vid van Reybrouck, classe 1971 — noto per una significativa monografia sui crimini del Belgio in Congo —, scolaro di storia antica a Lovanio nel 1989, ha scritto un libro, Contro le elezioni (Feltrinelli), che propone, come già fece Ségolène Royal quando perse le presidenziali francesi, di adottare, come rimedio alla degenerazione dei nostri sistemi politici, la pratica del sorteggio per il conferimento delle cariche politiche sul modello dell’Atene del V secolo a.C.
Questo libro — sostiene l’autore — è nato da tre «incidenti»: 1) il corso di storia greca del professor Herman Verdin; 2) una passeggiata sui Pirenei che portò l’autore a scoprire, nella bibliotechina di un albergo, il Contratto sociale di Rousseau; 3) uno scambio di email con un certo Terrill Bouricius, teorico appassionato del modello ateniese.
Sarebbe facile osservare che, del sistema ateniese, l’autore, Bouricius, e forse anche Ségolène, hanno un’idea a dir poco fanciullesca. Non solo perché ignorano l’ampia letteratura ateniese coeva — da Platone a Tucidide, a Isocrate, a Demostene — che in modo martellante descrive i difetti (la corruzione e l’incompetenza in primis ) di quel sistema, ma anche perché lascia in ombra un fatto capitale: che cioè le cariche decisive della città — i dieci strateghi, gli ipparchi e gli amministratori delle finanze — erano elettive , e inoltre, nella prassi, riservate a cittadini appartenenti alle classi più ricche. Pericle, Cleone, Nicia, Alcibiade detengono il potere effettivo perché lo conquistano con campagne elettorali. Non è comunque trascurabile ricordare che un male endemico del sistema ateniese fu l’assenteismo e che quel sistema finì ingloriosamente, tra colpi di Stato e restringimenti del diritto di cittadinanza.
La perdita di una formazione storicistica induce alla pratica di «pescare» random nel negozio dei sistemi politici.
Questo libro è però anche un sintomo a suo modo brillante. Mette insieme, nei primi due capitoli, i dati di fatto che dimostrano in modo inoppugnabile che il ciclo storico del sistema parlamentare-elettivo (in modo confusionario definito da molti «democrazia») è giunto da tempo al capolinea. Il suo declino si è prodotto al venir meno dell’antagonista storico che lo ha fronteggiato per gran parte del Novecento, il cosiddetto «socialismo reale». Van Reybrouck mette in fila molte delle tare che hanno portato alla eutanasia del sistema parlamentare-elettivo: apatia, assenteismo, frustrazione, sfiducia nei governanti, morte dei partiti politici, potere decrescente dei parlamenti (lui dice «impotenza di fronte alla Ue»), delegittimazione crescente degli eletti, immobilismo della macchina legislativa, macchinosità delle procedure nel cambio di governo, asservimento dei media al potere, personale politico urlante e incompetente. E si potrebbe proseguire. Stupisce che l’autore non indichi, tra le cause di assenteismo nelle elezioni politiche, la adozione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. I quali, calpestando il principio un uomo/un voto e costringendo le forze politiche a rassomigliarsi sempre più, spingono masse crescenti al non voto. Con felice battuta van Reybrouck scrive che — per segnalare l’esistenza di tale partito «invisibile» — bisognerebbe lasciare vuoto, in Parlamento, un quarto almeno dei seggi.
Una migliore informazione storica avrebbe aiutato l’autore a scoprire che la critica nei confronti del sistema parlamentare elettorale non è una scoperta recente, ma ha accompagnato tale sistema sin dal suo nascere e per tutta la sua esistenza. Né solo nelle forme letterarie brillanti di Swift in Inghilterra o di Balzac in Francia, ma, alla fine del XIX secolo, col sorgere della critica «elitistica» (Gaetano Mosca) e, tra le due guerre mondiali, con gli scritti di Otto Bauer sulla Crisi della democrazia . D’altra parte non esiste, in assoluto, «la miglior forma di governo». (Perciò non convince la frasetta attribuita a Churchill e ripetuta spesso come una litania: la «democrazia» è pessima, ma migliore di tutti gli altri sistemi). Che non esista «il sistema migliore» è dimostrato, tra l’altro, dal ciclico riproporsi ora dell’uno ora dell’altro. Lo aveva intuito il pensiero politico classico.
Ma oggi c’è una novità. Mentre nel resto del pianeta il sistema parlamentare-elettivo è sottoposto agli andirivieni ciclici, nel «centro» (Ue, Usa) si è venuta affermando, e consolidando, dopo l’ultima convulsione otto-novecentesca (liberalismo, fascismo, democrazie postbelliche) la soluzione «elastica». I poteri effettivamente decisivi non sono più elettivi, né esposti all’arbitrio delle fluttuazioni elettorali, sono — bene al riparo (e con l’approvazione abdicante dei poteri eletti!) — organismi burocratico-finanziari. Le elezioni sopravvivono, ma sono la periodica festosa, accanita, ginnastica per le «masse» (quelle ancora disposte a crederci). Caricatura grottesca delle grandi battaglie elettorali della risorta democrazia del dopoguerra. Con questa soluzione — che è anche l’effetto del subentrare, al comando, dell’inquinatissimo capitale finanziario in luogo del capitale «produttivo» — sembra essersi posto un «Alt» al riproporsi del «ciclo». Quanto a lungo possa reggere questa geniale escogitazione non è dato prevedere. Forse però il meccanismo già mostra crepe: guerre costruite ed esportate, nuove schiavitù, crisi economica endemica, conseguenti migrazioni di popoli fanno pensare che il «ciclo» può rimettersi in moto, ed in forme terrificanti. «Quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede» (Machiavelli).
Corriere 5.9.15
Il caso La (quasi) first lady depressa e la cura con l’elettroshock
La campagna di Kitty Dukakis: «Quelle scariche mi hanno salvato»
di Maria Laura Rodotà


Quando la si vedeva nel 1988, alla convention di Atlanta, durante la campagna elettorale di suo marito Michael, cominciata bene e finita malissimo, i meno sensibili, cioè quasi tutti, pensavano non avesse giustamente voglia di diventare first lady. Negli incontri pubblici parlava a fatica, era sempre cupa, pareva arrabbiata. I meno sensibili avevano ragione. Kitty Dukakis non reggeva la pressione della campagna elettorale e andava a vodka. Lo staff del candidato democratico gliene lasciava una bottiglia in ogni stanza d’albergo. Ma non si rendevano conto, lo si cominciò a capire mesi dopo la sconfitta del governatore del Massachusetts e la vittoria di George Bush padre, quando lei si ricoverò per smettere di bere, che Kitty Dukakis era un altro genere di Prima dama, comunque rappresentativa. Di tutte le donne e gli uomini occidentali finiti nella trappola delle dipendenze multiple. Dei circoli viziosi depressione-psicofarmaci-alcol-disintossicazione-ricaduta (nel caso di Kitty D., circoli di seconda generazione, aveva cominciato rubando le pillole della mamma). E, a sorpresa per chi l’aveva conosciuta quando era una moglie zombie, assertiva dopo decenni di battaglie, efficacissima nel suo attivismo in favore dell’unico trattamento che, racconta, le abbia fatto bene.
Lei lo descrive e lo promuove, alcuni sono perplessi. Kitty Dukakis è oggi la più famosa testimonial americana dell’elettroshock. Lo ha provato per la prima volta nel 2001, sotto anestesia, dopo anni di malessere che resisteva ai «rehab», ai farmaci, alle psicoterapie. Dukakis ora dice «mi sono svegliata pensando a Qualcuno volò sul nido del cuculo , ma stavo benissimo».
«Mentre la riportavo a casa si ricordò che era il nostro anniversario e decise di andare a cena fuori. La sera prima era un caso disperato», ha raccontato suo marito a Politico . Che ha pubblicato un lungo articolo sul caso Dukakis e sul ritorno dell’elettroshock, stavolta su pazienti sedati. I medici che lo praticano dicono che l’80 per cento dei pazienti dopo una serie di 612 trattamenti vanno in remissione. E sarebbe «la più alta percentuale di remissioni di tutti i trattamenti per la depressione», ha detto a Politico Sarah Lisanby, direttore del dipartimento di psichiatria della Duke University.
Non si guarisce, però, non del tutto. Dopo qualche tempo, molti pazienti sono di nuovo depressi, riprendono con gli psicofarmaci o tornano a fare l’elettroshock. I medici che lo suggeriscono, a volte, raccomandano la lettura di Shock: The Healing Power of Electroconvulsive Therapy , uno dei due libri che ha scritto sul tema Kitty Dukakis. Che ne parla a incontri e convegni, che cura un sito, ecttreatment.org , che coordina un gruppo di supporto per pazienti e famiglie che si incontra a casa sua, fuori Boston.
Che, a vedere le foto dei gala di raccolta fondi pro elettroshock, sembra molto più contenta di quando faceva la moglie di governatore e l’aspirante ma neanche tanto first lady. Il marito dice «Kitty è molto più applaudita e popolare di me». Kitty fa un elettroshock ogni sei settimane, da anni. A dirlo così spaventa, i Dukakis lavorano perché venga usato di più e perché chi ha disturbi mentali venga accettato. E ripetono che grazie all’elettroshock ora vivono bene (lei ha 79 anni, lui 82).
La Stampa 5.9.15
La sfida di Kim: meglio in cella che sposare due omosessuali
La funzionaria del Kentucky non vuole registrare le nozze di una coppia gay
Il giudice: firmi la licenza e sarà libera. I conservatori: è la nostra eroina
di Francesco Semprini


«Attenti, mia moglie è pronta a rimanere dietro le sbarre a lungo». Con queste parole Joe Davis ha messo in guardia le autorità federali per dissuaderle dalla convinzione che la cella possa convincere Kim Davis a ritornare sui suoi passi. La donna, ufficiale di stato civile della contea di Rowan, nel Kentucky, si era rifiutata di emettere la licenza per il matrimonio di una coppia omosessuale, rifiutando quanto previsto da una sentenza della Corte suprema del 26 giugno, che ha stabilito il diritto per le coppie gay di convolare a nozze in tutti gli Stati Uniti.
Le ragioni del giudice
La legge aveva causato una levata di scudi, specie da parte degli ambienti della destra conservatrice e degli attivisti religiosi, che avevano minacciato «l’ostruzionismo nei municipi». Kim, cristiana apostolica, ha deciso di dar seguito alle minacce con i fatti: «Non provo rancore nei confronti di nessuno, per me è una questione di fede, è la parola di Dio». Spiegazione non certo sufficiente a giustificare il rifiuto, secondo il giudice federale David Bunning. «La corte - si legge nelle motivazioni - non può condonare la disobbedienza ostinata ad un ordine emanato dalla legge. Se si dà alle persone l’opportunità di scegliere quali ordini eseguire, si creano seri problemi». Il giudice ha anche aggiunto che la Davis rimarrà in prigione finché non si adeguerà agli obblighi imposti dalla propria posizione. Di qui la replica del marito, il quale ha definito lo stesso giudice un personaggio dai «comportamenti bulleschi». Il punto è che la 49 enne funzionaria della contea, con il diniego pagato a spese della sua stessa libertà, da «clerk» come tanti nel Paese (ufficiali di stato civile), è diventata una eroina per milioni di americani che si oppongono ai matrimoni gay e per i rappresentanti di una certa destra repubblicana. Tra questi l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee e il senatore del Texas, Ted Cruz, candidati alla nomination repubblicana. «Oggi, per la prima volta in assoluto, il governo degli Stati Uniti ha arrestato una donna cristiana perché vuole vivere secondo la sua fede - ha tuonato Cruz -. Questo è sbagliato. Questa non è America, per questo io sto con Kim Davis, inequivocabilmente». Intanto l’altra America, quella a favore dei matrimoni gay, prosegue il suo cammino anche nella Contea di Rowan, con la prima cerimonia per una coppia omosessuale.
Via libera ai matrimoni
I primi ad ottenere ieri mattina un certificato di matrimonio sono stati William Smith jr e James Yates, insieme da circa dieci anni: la licenza di matrimonio gli era stata negata per ben cinque volte. Il via libera è arrivato dai vice di Kim Davis. Cinque su sei hanno dato il loro ok. L’unico ad opporsi è stato il figlio di Kim, colei che per una certa parte del Paese è considerata la «Rosa Parks anti-gay», in riferimento alla paladina dei diritti civili degli afro-americani. Ieri a pronunciare il sì è stata anche una delle coppie che ha fatto causa alla Davis, Karen Roberts e April Miller, mentre a scendere in campo è ora il Liberty Counsel, potente studio legale di ispirazione cristiana, che promette di proseguire nelle aule di tribunale la battaglia iniziata nei municipi da Kim Davis.
Repubblica 5.9.15
Il nostro grido di dolore che il mondo non vuol sentire
di Enaiatollah Akbari

Enaiatollah Akbari è un ragazzo afgano arrivato in Italia come profugo La sua storia è stata raccontata da Fabio Geda in Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini e Castoldi)

CHISSÀ che cosa sarebbe diventato, il piccolo Alan. Magari un bravo avvocato, o un grande chirurgo. Invece il destino l’ha fatto morire troppo presto, sulle coste della Turchia, dopo esser fuggito assieme ai genitori dal suo Paese e aver abbandonato il suo nido, distrutto dalle bombe. In questi mesi, purtroppo, la sfortuna si accanisce su tanti altri bimbi, che magari non riescono neanche ad avvicinarsi all’Europa, perché falciati prima dalla fame o dalla sete. Altri piccoli, e sono molti di più di quanto non si creda, muoiono al settimo o all’ottavo mese nella pancia di una madre così stremata da non riuscire a portare a termine la gravidanza.
Noi rifugiati siamo gente molto fragile. E tra gli umani apparteniamo alla categoria più debole. Già nel nostro Paese d’origine non abbiamo diritti, e subiamo le peggiori ingiustizie. Imploriamo aiuto al resto del mondo, ma non c’è quasi mai nessuno che ascolti il nostro dolore, nessuno che senta il nostro grido. Lo stesso accade quando siamo all’estero. Che esistono i diritti dell’infanzia e i diritti dell’uomo l’ho scoperto dopo essere approdato in Italia, quando ho cominciato a leggere e studiare. Prima, non me n’ero accorto che c’erano delle leggi internazionali sancite al solo scopo di proteggere l’essere umano, come non se ne accorgono i migranti in viaggio da Siria, Afghanistan o Nigeria. I diritti dell’uomo vengono forse rispettati al di qua del muro europeo, sicuramente non al di fuori. Perciò, per la maggior parte dei profughi sono un concetto molto astratto, di cui non vedono mai l’applicazione e nei quali hanno difficoltà a credere. Ora, senza l’applicazione di questi diritti, che ne è dei principi fondamentali degli Stati che li hanno firmati?
La mia esperienza di guerra, vissuta quando vivevo in Afghanistan, mi ha insegnato che i bambini sono sempre i primi a morire. Ciò accade perché quando si trovano davanti a un campo minato, anche se i genitori li hanno messi in guardia e anche se ci sono dei cartelli che ne indicano il perimetro, loro non sono in grado di valutarne la pericolosità. Ci vanno ugualmente e saltano per aria. Oppure, quando una casa viene bombardata, sono loro i primi a morire, perché i più lenti.
Io ce l’ho fatta, perché sono stato più fortunato di altri, e non più forte di loro. Per riuscire ho attraversato due guerre: quella nel mio Paese, dal quale era difficilissimo e pericolosissimo uscire; e quella per arrivare in Europa, dopo un viaggio interminabile, con pochissimo cibo e pochissima acqua. Lo stesso succede in questi giorni ai profughi che arrivano in Ungheria. Hanno attraversato mari, deserti e montagne, e quando arrivano lì, la prima cosa che trovano è il filo spinato che gli blocca la cammino.
Vorrei solo che i popoli d’Europa capissero perché tanta gente s’ammassa alle sue porte. La maggior parte di chi fugge lo fa perché in patria è perseguitato. Che significa essere perseguitato? Significa che se ti trovano a casa tua, siano essi poliziotti, nemici o islamisti, ti ammazzano. Ho come l’impressione che questo concetto di persecuzione non sia chiaro a tanti. I siriani, per esempio, sono perseguitati dalle falangi dello Stato islamico, che torturano, chiudono le persone nella gabbie e gli danno fuoco, decapitano. Ora, le vittime di queste barbarie sono persone come noi, ma che hanno solo avuto la sfortuna di nascere in un Paese in guerra. Sono esseri umani come noi. Sono nostri fratelli, ai quali nessuno dovrebbe sbattere la porta in faccia.
Mi fanno ridere coloro che temono l’arrivo di terroristi, travestiti da profughi. Infatti, tra i migranti siriani non ci sono uomini dello Stato islamico, né tra quelli afgani dei Taliban o tra i nigeriani dei guerriglieri di Boko Haram.
Oggi ho 27 anni, e studio Scienze politiche e cooperazione all’Università di Torino. Sono pronto a qualsiasi lavoro mi verrà offerto, ma il mio sogno è di lavorare per le Nazioni Unite. Per poter al più presto aiutare le persone che stanno vivendo adesso l’odissea che fu la mia.
La Stampa 5.9.15
La Ue fermi la guerra a Damasco
di Stefano Stefanini


Le strazianti immagini della spiaggia di Bodrum hanno dato la sveglia all’Europa. Finalmente l’Unione Europea penserà seriamente a come gestire rifugiati in fuga e richieste d’asilo. Sbaglierebbe però a trascurarne la causa. Che ha un nome ben preciso: Siria. O la si affronta alla radice o continueremo a subirne le conseguenze, noi europei in prima linea.

Non è troppo presto: il disastro umanitario dilaga da mesi, dalle coste di Lampedusa alla stazione di Budapest, dai reticolati di Calais agli sbarramenti macedoni. Aylan Shenu senza vita, depositato dalla risacca nelle braccia di un poliziotto turco, scuote gli europei dal torpore e, forse, dagli egoismi nazionali. L’Ue – Angela Merkel in testa – dà finalmente segno di riconoscere che la crisi è europea. Malgrado le resistenze di chi crede in un’Unione di onori senza oneri, Bruxelles va verso una condivisione di responsabilità e di quote di asili.
I rifugiati da ridistribuire salirebbero a 160 mila rispetto ai 40 mila dell’originaria proposta Juncker (respinta in giugno). Sempre una goccia d’acqua rispetto alle 800 mila richieste d’asilo attese in Germania e, soprattutto, ai 4 milioni di rifugiati sparsi fra Libano, Giordania e Turchia. Finché la guerra in Siria continua, la pressione delle fughe verso l’Europa non farà che crescere.
Per la criminalità organizzata è diventata un redditizio commercio.
Non tutti i migranti sono rifugiati con fondati motivi di asilo politico. Gestione europea degli arrivi, selezione e interventi contro i trafficanti sono misure indispensabili nel breve termine. Ma un fiume in piena non si sbarra alla foce. Continuerà a debordare a meno di non intervenire a monte: sulla Siria. Di lì viene la massa critica dei rifugiati. Quanto alla Libia, pure importante, specie per l’Italia, è terra di transito e non di provenienza.
La guerra civile in Siria imperversa da oltre quattro anni. La primavera araba di Damasco divenne rapidamente inverno di scontro fra regime alawita (sciita) al potere e maggioranza sunnita della popolazione, con la parte curda che colse l’occasione per cercare di rendersi autonoma. Gli appoggi esterni, del Golfo e dell’Arabia Saudita ai ribelli, dall’Iran e dagli hezbollah libanesi al regime, ne fecero rapidamente una guerra per procura. Dopo la caduta di Saddam Hussein ad opera americana, i paesi arabi sentivano la lunga ombra dell’Iran estendersi sul Golfo. Otto anni dopo la Siria offriva l’occasione per pareggiare i conti con Teheran. Stati Uniti ed europei volevano l’uscita di scena di Assad, responsabile di pesanti repressioni contro i civili, nonché dell’uso di armi chimiche nell’agosto del 2013. Mosca invece lo appoggiava, con ingenti aiuti militari. Paralisi militare e diplomatica.
Entrato in scena nel 2014, l’Isis combatte contro Assad ma è oggetto di bombardamenti da parte di una coalizione americana, occidentale e araba (l’Italia ne fa parte pur non partecipando ad azioni militari). Tutti contro tutti, ma soprattutto un tragico equilibrio di forze e di aiuti esterni che ha incancrenito la guerra, protratto la tragedia umanitaria e costretto milioni di civili alla fuga. La famiglia Shenu veniva da Kobane, la città ai confini della Turchia, per mesi teatro di feroci scontri fra Isis e forze curde.
Difficile se non impossibile rimettere la Siria insieme. Tuttavia quando c’è una forte pressione internazionale per la pace, le soluzioni d’ingegneria diplomatica s’inventano – e s’impongono. Basti pensare alla Bosnia. Reduci e incoraggiati dal successo iraniano, il Segretario di Stato americano, John Kerry e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, tengono già le tenui fila di un dialogo. L’inviato speciale dell’Onu per la Siria è Staffan de Mistura, ex viceministro degli Esteri italiano nel governo Monti. Tre veterani professionisti in campo.
L’Ue non può rimanere assente. L’Europa ha un interesse diretto a che si ponga termine alla sanguinosa ed efferata guerra in Siria. Senza pace a Damasco, i rifugiati siriani, in numero sempre maggiore, continueranno a tentare la sorte verso i lidi italiani e greci, attraverso le montagne e pianure dei Balcani.
Corriere 5.9.15
La grande spaccatura
Da una parte i «duri» britannici e le «fortezze» dell’Est dall’altra Italia e Germania e i «moderati» scandinavi
La mappa della nuova frattura
di Luigi Offeddu


Il popolo europeo più ospitale verso gli immigrati non vive nell’Unione Europea: in Islanda, 120mila abitanti, Paese cui Bruxelles domanda di accettare 50 richiedenti asilo, già 12mila persone hanno chiesto al governo di poter ospitare personalmente i profughi siriani, offrendo le loro case.
Di queste contraddizioni è fatto il dramma di 28 governi che si sono autobattezzati Unione, ma che ora sono chiamati a dimostrare di esserlo davvero: si potrebbe compilare un elenco lungo come il Regolamento di Dublino, il terzo, rimodellato appena qualche settimana fa e già pronto al suo funerale guidato dai Paesi più importanti. Quest’ultima è già una bella contraddizione. Ma poi c’è il resto: tutti chiedono oggi con urgenza un sacrosanto diritto d’asilo europeo, ma è dal 1999 che il Ceas («Sistema di asilo comune europeo») sta sulle scrivanie dei leader Ue, in attesa di diventare un fatto compiuto. Sedici anni: nel frattempo, 18 Paesi sono stati messi sotto inchiesta dalla Commissione Europea con l’accusa di aver violato, appunto, le regole del diritto d’asilo. E si è festeggiato — il 14 giugno 2015 — il trentesimo compleanno di Schengen, che la stessa Angela Merkel vede in pericolo di morte.
Dal 2014 al 2015, i migranti ai confini dell’Ue si sono triplicati. E mai il caleidoscopio delle regole è stato così frammentato. A cominciare dalle quote obbligatorie di migranti, che la Commissione Europea sta per riproporre su scala molto più vasta di prima. Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia, le accettano e le propongono per primi. Altri, come i 4 del «gruppo di Visegrad» — Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria — le hanno appena dichiarate «inaccettabili».
Praga, Bratislava e Budapest, la capitale che ha eretto un muro con la Serbia, sono le fortezze anti migranti della Ue. Anche Sofia, cioé la Bulgaria, che ha foderato di fili spinati il suo confine con la Turchia. Così i Paesi baltici: la Lettonia offre permessi di residenza di 5 anni ma a chi investe almeno 150mila euro in una società e ne paga 25 mila per un visto. Quanto ai profughi dai Paesi in guerra, ha promesso di accoglierne 250 nei prossimi 2 anni, e vi sono state subito proteste di piazza. Ma anche fra le «fortezze», non passa giorno senza uno scarto: poche ore fa, Bratislava e Praga — che aveva numerato 2000 profughi con sgorbi di pennarello — hanno annunciato l’apertura di un «corridoio ferroviario di solidarietà» verso la Germania per i profughi siriani.
Poi ci sono i «duri» come la Polonia, l’Austria, il Regno Unito. Nel 2014 la Polonia ha ricevuto 2.318 richieste d’asilo, per il 34% da profughi ucraini, e ne ha accolto solo 6, più 11 «permessi limitati»: gli altri richiedenti sono in attesa. L’Austria ha dimostrato al Brennero, con i controlli sui treni poi interrotti, come interpreta Schengen. Il Regno Unito, fuori da Schengen, ha annunciato ieri sera che accoglierà «migliaia di profughi siriani». Ma prima di allora, ha minacciato di respingere anche i cittadini Ue senza contratto di lavoro.
A metà strada, in una specie di limbo, stanno Grecia e Spagna. Paesi di prima linea, hanno accolto centinaia di migliaia di migranti, e in via di principio non considerano le norme Ue una carta da parati: ma anche Atene ha eretto il suo muro con la Turchia, e anche a Madrid lo ha fatto nelle sue enclave africane di Ceuta e Melilla. Poi c’è la Francia: ora schierata con Berlino nell’apertura ai profughi, ma prima guardiana dei disperati arroccati sulle scogliere di Ventimiglia, e di quelli di Calais. Ha la porta socchiusa: ma fino al marzo 2014 non accoglieva i profughi ucraini perché classificava la loro terra come «Paese sicuro». Al Nord, i «moderati» scandinavi: come la Svezia, che ha in proporzione più richieste d’asilo della Germania: 8 ogni mille abitanti.
O l’Olanda, già apertissima, che però adesso fornirà tetto e cibo ai profughi in attesa di permesso solo in 5 città. Le vere «porte aperte», nei fatti, restano quelle di Germania e Italia. Anche se Berlino, nelle ore scorse, ha chiesto più controlli sui migranti «economici» di Albania o Macedonia, i nuovi candidati orientali alla Ue. Non trova mai pace, il caleidoscopio sotto assedio delle regole europee.
Corriere 5.9.15
L’amara sorpresa dell’est
di Gian Antonio Stella


Sotto le macerie del muro di Berlino, un quarto di secolo fa, non restarono sepolti solo il comunismo, i suoi errori, i suoi crimini. Il crollo si tirò dietro, purtroppo, molto di più. L’idea stessa, in larghe sacche dell’Europa orientale, della solidarietà. Quella che va oltre l’egoismo di bottega, di contrada, di paesotto.
Ieri, mentre si allungava la marcia dei profughi verso Vienna, la Repubblica ceca e la Slovacchia hanno respinto come inaccettabili le «quote» da ripartire fra tutti i Paesi Ue, fornendo l’ennesima conferma: i Paesi post-comunisti, recuperati dalla polvere i vecchi miti e riti nazionalisti con l’aggiunta di derive xenofobe, non hanno intenzione di farsi carico del loro pezzo di un problema epocale che va oltre eventuali responsabilità, pavidità e inettitudini e di questo o quel governo. Stiamo vivendo una tragedia continentale e planetaria? Ci pensino gli altri.
Unica risposta, spesso, quella del manganello imparata sotto i vecchi regimi. La barriera di filo spinato di 160 chilometri, in parte già costruita, decisa dalla Bulgaria lungo il confine turco. Il progetto d’un muro di quattro metri lungo 175 chilometri sulla frontiera dell’Ungheria con la Serbia. La marchiatura col pennarello (così simile alle procedure nei lager di Himmler) di ogni immigrato finito sotto mano ai poliziotti cechi.
Dice l’Alto Commissariato per i rifugiati che le persone costrette a fuggire dalle loro case, nel mondo, è salito nel 2014 a 59,5 milioni: ventidue milioni in più rispetto a dieci anni fa. Quasi 14 milioni a causa di guerre e persecuzioni.
Il premier ungherese Viktor Orbán, tra gli applausi dei nostalgici delle Croci Frecciate filonaziste, invita i profughi: «Restate in Turchia!». Eppure sa che la Turchia ospita già oggi due milioni di rifugiati. Nella stragrande maggioranza in fuga dai tagliagole dell’Isis.
Son quattro milioni i siriani costretti a cercare scampo nei Paesi vicini. Quelli che premono verso l’Europa, puntando su Germania e Svezia, 300 mila. Più o meno quanti gli ungheresi che scapparono in Europa dopo la repressione del 1956. Un sesto dei polacchi che nel ventennio a cavallo della caduta del muro (ricordate le polemiche francesi sull’«idraulico polacco»?) si sparpagliarono per il continente contando sulla solidarietà europea.
Eppure, è un dolore dirlo, pare che un po’ tutti quei Paesi che hanno contato sulla simpatia, l’amicizia, l’appoggio della «nostra» Europa, siano percorsi da tempo da rigurgiti xenofobi più gravi che altrove. Che poi pesano maledettamente sulle scelte dei governi, anche quando non sono di estrema destra come a Budapest. È come se, spazzata via la parola d’ordine del «siamo tutti uguali», tradotta burocraticamente in un delirio oppressivo, fosse passata l’idea che non solo non siamo uguali, ma c’è chi è superiore e chi inferiore.
Vale per la Russia che, ha scritto tempo fa il Sunday Times , «è diventata un luogo mortalmente pericoloso per gli immigrati dalla pelle scura». Decine e decine di omicidi, almeno 140 gruppi xenofobi censiti, esecuzioni di avvocati e giudici, campagne terrificanti di odio online verso i «ciorni» (i «neri» uzbeki, tagiki, kirghisi) calate solo di recente perché l’odio si è rovesciato soprattutto verso gli ucraini. Vale per la Polonia, indicata da chi monitora il razzismo come «il maggior produttore europeo di oggetti storici e imitazioni del periodo nazista» anche se «la maggior parte dei clienti arriva dalla Germania dell’Est», quella per decenni sotto il tallone della Stasi.
E vale ancora per la Bulgaria, dove qualche anno fa il leader del partito Ataka! , Volen Siderov, uno che ha scritto un libro contro gli ebrei rei di una «cospirazione contro i bulgari ortodossi», è riuscito addirittura ad arrivare al ballottaggio delle Presidenziali. O per la Boemia, dove i razzisti del Děelnická strana (Ds, partito operaio), sciolti dalla Corte Suprema, hanno semplicemente cambiato nome: Dsss, con l’aggiunta beffarda di quelle due «ss» che richiamano le Schutzstaffel naziste. Ed ecco nazionalisti contrapposti che in nome della Grande Romania, la Grande Ungheria, la Grande Bulgaria odiano le rispettive minoranze di confine ma tutti insieme odiano quelli che vengono da «fuori».
« Dimmi bel giovane / onesto e biondo / dimmi la patria / tua qual è? / Adoro il popolo / la mia patria è mondo / il pensier libero / è la mia fé », diceva una canzone del pisano Francesco Bertelli del 1871. E non erano solo i socialisti e gli internazionalisti a pensarlo. I confini, per milioni di emigranti italiani, tedeschi, slavi, ungheresi, sono stati considerati a lungo semplici e odiosi ostacoli burocratici che era legittimo superare. Anche a dispetto (e lasciamo stare le aggressioni coloniali in casa altrui...) dei Paesi d’accoglienza. Tutto cambiato. Tutto rimosso.
Sia chiaro: l’Europa non può farsi carico di tutti. E non può andare avanti tamponando le emergenze giorno dopo giorno. La morte di Aylan, il bimbo annegato con la mamma e il fratellino ci ricorda che se noi avessimo sul serio «aiutato a casa loro» i siriani, come Estonia, Lituania e Lettonia han ripetuto due mesi fa rifiutando di accogliere 700 profughi («Possiamo accettarne fra 50 e 150»), la famigliola di Abdullah Kurdi non sarebbe venuta via da Kobane per andare incontro alla strage. Vogliamo entrare in guerra in Siria, in Iraq, in Libia? La sola ipotesi ferma il fiato. Ma sarebbe, almeno, una scelta spaventosamente seria. Buttarla in cagnara per motivi di bottega elettorale, da noi e altrove, non lo è.
La Stampa 5.9.15
Il veto dei Paesi dell’Est: “Quote Ue inaccettabili”
Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria dicono no a un meccanismo di redistribuzione obbligatoria dei rifugiati
di Marco Zatterin


Siamo al «muro contro non-muro», questa volta. I Paesi del gruppo di Visegrad - Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria - respingono senza mezzi termini l’idea lanciata da Germania e Francia di elaborare un meccanismo permanente di redistribuzione obbligatoria dei rifugiati in caso di emergenza. «Inaccettabile», attaccano i Quattro che, così facendo, ampliano la frattura fra Ovest e Est nell’Europa che vorrebbe parlare con una voce sola di fronte alla marea dei milioni che fuggono dal disastro.
Finalizzare quote accettabili e la riforma dell’Asilo sarà dura. Forse non basterà un compromesso all’europea. Occorrerà uno strappo, necessario per difendere il valore della solidarietà su cui è fondata l’Unione. E non solo quello.
Il pacchetto operativo
Mercoledì la Commissione diffonderà il suo pacchetto operativo, che dovrà essere esaminato dal Consiglio straordinario dei ministri degli Interni del 14 settembre. L’aria si è fatta così tesa che più fonti lasciavano intendere l’ineluttabilità di un vertice europeo dei leader a stretto giro. Le misure in arrivo - la distribuzione temporanea di altri 120 mila rifugiati, la riforma del regolamento di Dublino, le chiavi per un asilo che sia uguale in tutti gli Stati e la stretta sui rimpatri di chi non ha diritto di restare - possono andare avanti anche senza i Quattro, però si vuole cercare di mantenere la pattuglia unita.
Oggi faranno una verifica politica i ministri degli Esteri, riuniti a Lussemburgo. «L’Europa ha bisogno di una politica comune sui rifugiati», ha detto il tedesco Frank-Walter Steinmeier. «Occorre un diritto di asilo comune - ha affermato l’italiano Paolo Gentiloni -: se non lo facciamo e lasciamo a ciascun Paese la gestione dei problemi, rischiamo molto su Schengen». Il primo vice presidente della Commissione, Frans Timmermans, ammette che «la situazione è peggiorata» e conferma «una proposta potenziata per la ricollocazione, in particolare per i tre Paesi più colpiti». La prima versione, approvata con gran fatica in luglio, ha evidenziato le differenze nell’Ue riuscendo a ridistribuire solo 32 mila rifugiati su 40 mila.
I Quattro dell’Est frenano ancora sulle quote, soprattutto su quelle obbligatorie e permanenti, anche se bisognerebbe ricorrere a loro solo in caso estremo. Diverso potrebbe essere il discorso sui 120 mila temporanei, perché Bruxelles suggerisce il sistema del «buy out» che consente di partecipare finanziariamente allo sforzo degli altri senza ospitare alcun immigrato. I Visegrad chiedono di applicare le regole di Dublino alla lettera: chi arriva deve restare dove sbarca. Ma il grosso dell’Europa vuole andare avanti. Misura gli schieramenti e conta i voti.
Il team di comando
Le «quote» sono state sin dall’inizio un’idea tedesca. A Berlino erano considerate la via semplice per costringere tutti a partecipare a un gioco in cui la Germania era suo malgrado protagonista. Dividendo la torta, il Paese avrebbe potuto ridurre l’impegno, cosa che il gonfiarsi della marea non ha reso possibile (prenderà 800 mila siriani). Visto che la formula volontaria ha fallito, ora si vogliono quote vincolanti. Lo chiede anche la Francia che in origine storceva il naso, il presidente Hollande temeva il contraccolpo populista. Ora Parigi è in linea. L’Italia è ovviamente al vento, pur se deve accelerare con gli hot spot e i controlli per dimostrarsi responsabile oltre che solidale. Gli svedesi sono il simbolo trascurato, i primi che con forza hanno detto che serviva tutta la forza dell’Unione.
Gli inseguitori
Olandesi, austriaci, lussemburghesi sono pronti a unirsi al gruppo di testa. Le posizioni della Spagna sono in evoluzione verso il positivo e così i portoghesi. L’Estonia è il solo baltico che ha mostrato evidente simpatia per l’operazione riforma asilo e quote. Intermedia la Polonia, che è disposta a dare una mano, però non vuole alcun vincolo o imposizione. Più decisi i croati che temono un nuovo muro al confine magiaro.
Visti da fuori
Danimarca, Regno Unito e Irlanda hanno titolo per non partecipare alla ripartizione. Eppure non si esclude che lo facciano una volta trovata la formula giuridica giusta.
I No-Migrants
Le quote sono «irresponsabili», ha ribadito il premier ungherese Orban, il principe dei Muri. Lo slovacco Robert Fico è «semplicemente contrario» all’idea. Entrambi prevedono che, con la ripartizione obbligatoria, finiremo per essere «sommersi da migliaia di arabi». Il bulgaro Borissov è su una posizione appena più morbida. Secco il «no» di Praga. Giurano che non molleranno. Con l’aria di chi dice davvero quello che pensa.
Repubblica 5.9.15
Dagli stadi ai treni la rivincita a sorpresa della solidarietà
Striscioni, offerte di ospitalità a casa, soccorso in mare: ecco perché l’emergenza migranti sta risvegliando il senso di umanità che l’Europa sembrava avere smarrito
di Gabriele Romagnoli


LA fotografia che colpisce di più è quella della curva di uno stadio tedesco che espone lo striscione: «Benvenuti profughi ». Abituati come siamo a leggere su quello sfondo nefandezze verso chiunque (neri, orientati a sud, variamente diversi) non può
che stupirci la catena che ha portato a quell’immagine: qualcuno ha l’idea, un gruppo gliela approva a maggioranza, la si mette in pratica e dall’altra curva non volano sfottò, stracci, proiettili. Che poi la principale squadra della Bundesliga (il Bayern di Monaco di Alaba, austriaco di padre nigeriano e Boateng, tedesco di padre ghanese) dia ai rifugiati un milione e un campo per allenarsi è un gesto conseguente, al punto da rendere pleonastica la foto che seguirà da qui a poche ore: i calciatori che entrano in campo tenendo per mano un bambino indigeno e uno immigrato.
Ben altra squadra è quella composta da una selezione dei 54 profughi ospitati in una palestra di Portogruaro intorno ai quali si è creata una rete di solidarietà. C’è uno scatto in cui li si vede, scampati a Boko Haram, all’Isis o semplicemente alla fame: sollevano la coppa vinta in un magro torneo ( due partecipanti) e sembrano molto moderatamente felici. I più entusiasti sono i tre rappresentanti della cooperativa che li assiste, soprattutto l’infermiera che regge il pallone, una rumena, capelli rossi, occhi verdi, in Italia dal 2007: un calcio allo stereotipo dell’inevitabile guerra tra poveri. Lo sconfiggono anche i pescatori tunisini che hanno chiesto ai “medici senza frontiere” di prepararli al soccorso dei rifugiati ripescati in mare: concentrati, come se li attendesse la battuta più importante della loro vita. Mentre domenica, forse, il web sarà invaso dalle immagini degli uomini di buona volontà austriaci che sfideranno la legge del loro Paese e di quello ungherese per caricare su auto private e pullman aziendali i disperati bloccati a Budapest e portarli oltre il confine. Avranno espressioni più risolute dei passeggeri, perché più consapevoli del destino a cui vanno incontro.
Questo mosaico ci racconta una cosa soltanto: l’uomo non è buono per natura, ma ogni tanto ci prova. Non tutti lo sono e nessuno lo è sempre. Ci sono momenti, necessità che determinano azioni isolate. A volte, questo è il bello, in piena contraddizione con le opinioni. Esistono alberi piantati in nome di antisemiti nel giardino dei giusti a Gerusalemme. Non siamo demoni affiorati né angeli caduti, dentro di noi abbiamo spazio per istinto di sopravvivenza e pulsione al sacrificio. Per gli ottimisti valga la storia di Tristan da Cunha, micro isola sperduta nell’oceano tra Brasile e Sudafrica, abitata da discendenti di naufraghi, pirati, soldati. Poche centinaia di persone e mai una violenza. Nel 1961, minacciati da un’eruzione vulcanica, furono evacuati in Inghilterra e inorridirono per la brutalità della vita quotidiana. In Sudafrica ebbero la stessa reazione davanti all’apartheid e vollero tornare alla loro terra. C’è un’isola simile dentro di noi. Qualcuno cerca di raggiungerla, qualcun altro di invaderla, ma senza quell’isola ci sarebbe soltanto acqua.
Repubblica 5.9.15
Il corpo degli altri
di Ezio Mauro


COME in guerra, contano solo i corpi. I corpi, l’acqua che li porta e la terra: come se fosse da difendere o da riconquistare, adesso che i corpi la attraversano. Naturalmente ci sono i numeri, che danno la dimensione del fenomeno che chiamiamo migrazione, e le sue proiezioni politiche. Ma parlano il linguaggio della razionalità, dunque contano poco, di fronte alla forza simbolica dei corpi e alle paure che suscitano. I corpi degli altri, naturalmente. Noi siamo un insieme, una collettività, una società, una serie di appartenenze e di identità di gruppo che consentono di agire attraverso i nostri rappresentanti, senza spingere i corpi in prima linea. Loro — gli altri — non sono nulla di tutto questo. Non persona, non individuo, non cittadino, senza qualcuno che li rappresenti e spieghi i loro diritti o anche soltanto le loro ragioni: né un partito, né uno Stato, né un sistema d’informazione. Così per forza i corpi agiscono e insieme spiegano se stessi.
CORPI disarmati, nudi, senza nient’altro che una pretesa ostinata e incontenibile di sopravvivere, aprendosi uno spazio nella porzione di terra che consideriamo nostra, dopo essere scampati al mare.
Mentre guardiamo quei corpi azzerando per loro ogni valenza umanitaria, giuridica, civile, cioè eliminando l’universalità dei diritti dell’uomo e la soggettività del cittadino, noi azzeriamo senza accorgercene la politica, la mettiamo fuorigioco. Se non ha a che fare con persone, individui, cittadini ma con cose — strumenti scomodi d’ingombro — la politica infatti è impotente, anzi inutile. Così i corpi possono mostrarsi in tutta la loro evidenza: neri, diversi, straccioni, disperati, affamati, disposti a tutto. Senza la mediazione della politica agiscono in proprio come messaggio d’allarme per la popolazione indigena che siamo noi. Soprattutto la parte più fragile, sola e indifesa, anziani che vivono nei piccoli centri e magari non sono mai usciti dal Paese, e oggi trovano gli “altri” sulle panchine delle aiuole sotto casa. Una fascia di cittadini che si sente minacciata dalla contiguità della diversità, teme confusamente per la sicurezza, per le infiltrazioni jihadiste, per il lavoro, in realtà per la perdita di uniformità, nella paura che venga meno la coesione di esperienze condivise, di fili biografici intrecciati in una unità di luogo, di storia, di esperienza e di tradizione. Come perdere la memoria, e con la memoria il futuro.
Senza la politica in gioco, una sua sottospecie domina intanto il campo. Sono i piazzisti della paura, che non vogliono rispondere a queste inquietudini diffuse ma coltivarle, per trarne un grasso quanto ignobile reddito elettorale. Dunque non propongono soluzioni, ma immagini fantasmatiche, come le ruspe, slogan che non reggerebbero ad una prova di governo ma sono perfetti per raggiungere la solitudine delle paure domestiche dallo schermo tivù. Sono commercianti di corpi, ne hanno bisogno per trasformarli in ideologia nel senso più classico: l’impostura di un blocco sociale che costruisce il dominio attraverso un sistema di credenze erronee e di pregiudizi. Ma la debolezza culturale della sinistra, che non ha saputo elaborare un pensiero autonomo sulle migrazioni, sugli ultimi, capace di rassicurare la parte più debole ed esposta dei cittadini — i penultimi — e di ricordare nello stesso tempo i doveri di una democrazia occidentale, fa sì che quell’ideologia sia diventata dominante, e costituisca il substrato di ogni ragionamento politico corrente, senza più distinzioni. Ciò significa che la posta in gioco delle future elezioni — tutte, dalle comunali alle politiche — è già fin d’ora fissata sulla paura e sulla sicurezza, dunque sull’uso di quei corpi più che sul destino di quelle persone, che sembra non interessare a nessuno. È un problema politico, ma può diventare un problema della democrazia, chiamata a dare una doppia risposta, con una contraddizione evidente: deve rispondere al sentimento diffuso d’insicurezza dei suoi cittadini, e non può non rispondere alla domanda di disperazione e di libertà che viene dai migranti. Può la democrazia restare insensibile ad uno di questi suoi doveri contrapposti e rimanere intatta, o almeno innocente, dunque credibile?
Quando tutto ritorna agli elementi primordiali — il mare, la terra, i corpi, l’acqua, i muri, il commercio di uomini, il filo spinato — la democrazia entra in difficoltà, come se fosse soltanto un’infrastruttura della modernità, incapace di governare questa regressione a condizioni estreme non previste dal sistema politico, istituzionale, culturale che ci siamo faticosamente costruiti nel dopoguerra per garantire noi e gli altri, e per proteggerci nel nostro tentativo di vivere insieme. Valori che abbiamo sempre professato come universali alla prima grandiosa prova dei fatti — un’emergenza demografica, politica, umanitaria — ripiegano su se stessi e rattrappiscono, perché sembrano riservati solo a noi. Le garanzie per i garantiti: che non le vogliono spartire, hanno paura di condividerle, e ne svalutano il valore globale nell’uso privato e parziale.
Quei corpi segnalano infatti prima di tutto la differenza e la difficoltà (che ne deriva) di condividere il concetto di libertà, la sua traduzione pratica. Camminando in Occidente, se fossero accolti, i corpi riscoprirebbero di avere dei diritti, di poter diventare cittadini attraverso il rispetto delle costituzioni e delle leggi, di poter crescere nell’autonomia attraverso il lavoro: di ritornare uomini. Ma quando arrivano in Europa cercano molto meno, pretendono soltanto libertà, una sponda sicura dove appoggiare il futuro dei loro figli. Anzi, quando sbarcano sul nostro suolo inseguono qualcosa di ancora più primitivo e disperato, la sopravvivenza. Perché spogliati della cittadinanza, della soggettività dei diritti, di ogni condizione giuridica se non quella di clandestino, come spiega Giorgio Agamben sono «nuda vita di fronte al potere sovrano». Vita che vuole vivere, nient’altro. C’è qualcosa di evidentemente sacro in questa interpellanza che ci giunge da una condizione così radicale ed estrema. E c’è dunque qualcosa di sacrilego nel considerare ciò che è una riduzione violentemente elementare dell’individuo-cittadino alla nuda vita, soltanto come un corpo. Corpi che possono essere marchiati fisicamente, numerati e catalogati nella loro estraneità da bandire, perché portatori della forma nuovissima e definitivamente incancellabile del peccato originale: il peccato d’origine.
Nel momento in cui accettiamo di fissare fisicamente questa differenza come discrimine nell’utilizzo della libertà, reso parziale, e dei diritti, non più universali, noi non ci accorgiamo che simmetricamente questa operazione sta agendo anche su di noi. E sta agendo con modalità diverse ma sulla stessa scala primordiale che applichiamo agli altri, dunque interviene anche per noi sulla fisicità, addirittura sul nostro corpo, se solo sapessimo vederlo. Tutte le nostre reazioni e le nostre separazioni dal fenomeno migranti, l’affermazione della nostra diversità fissa silenziosamente anche noi in un’identità bio-politica come quella che attribuiamo agli altri, soltanto rovesciata: risveglia infatti il fantasma dell’uomo bianco, qualcosa che l’Italia non aveva ancora vissuto nelle sue mille convulsioni e anche nelle sue tentazioni xenofobe. Non ci chiediamo infatti mai che cosa significano quei muri (di filo spinato o d’indifferenza) per chi giunge fin qui dalla disperazione e ci guarda da fuori, respinto. Testimoniano paura, privilegio, egoismo, parzialità nell’esercizio dei diritti. Quel muro tiene fuori i corpi altrui. Ma nello stesso tempo recinta i nostri, li perimetra e li rinchiude, riducendo la nostra identità a quella fisica del bianco indigeno, ciò che certamente noi siamo — la maggioranza di noi — ma che non ci accontentiamo di essere, perché abbiamo rivestito quel carattere originario di sovrastrutture culturali, storiche, politiche che hanno dato forma ad una figura articolata e in movimento, aperta, autonoma e complessa.
L’uomo bianco, nella regressione identitaria delle paure, viene dopo l’uomo occidentale ed europeo, è una sua riduzione unidimensionale, dunque una sconfitta. Rinasce come figura biopolitica quando neghiamo i valori dell’Occidente, i doveri dell’Europa: garantire sicurezza, ordine e governo a chi lo chiede (soprattutto se è un cittadino disorientato e spaventato), ricostruire la proporzione dei fenomeni tra le cause e l’effetto, rispondere a quella domanda biblica ma anche politica di libertà e di umanità che arriva dalle migliaia di vite nude ammassate sui barconi, in fila davanti a un recinto, accampati in una stazione in attesa di un treno europeo. In nome di una fiducia ostinata, contro la storia contemporanea, nell’universalità della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni. Una democrazia che, mentre tiene fuori i dannati credendo di difendere se stessa, rischia di perdere l’anima occidentale dell’Europa, riducendosi a un corpo di leggi inutili e di principi ipocriti: anch’essa un corpo vuoto.