sabato 10 ottobre 2015

il manifesto  10.10.15
L’inevitabile e violento declino della civiltà del capitale
«Exit» del filosofo tedesco Tomasz Konicz per Stampa Alternativa
Cancellato il lavoro come fonte della ricchezza, la produzione di merci è costellata di soluzioni alle sue crisi che rinviano solo la sua fine
di Riccardo Frola

Appena richiuso Exit di Tomasz Konicz (Stampa alternativa, pp. 158, euro 14) , il lettore ha la sensazione perturbante di essersi risvegliato in un mondo estraneo e ostile. Il crollo della società del lavoro, gli obitori di El Salvador e Guatemala, «in cui si ammucchiano a dozzine» i cadaveri dei ragazzini uccisi dalle maras, il «Leviatano ritornato allo stato selvaggio» descritti da Konicz, rendono di colpo esplicito ciò che nella quotidianità occidentale sembrava ancora nascosto fra le righe.
Tomasz Konicz è un pubblicista di lingua tedesca, e uno dei pochi autori rimasti, dopo la morte di Robert Kurz, in grado di fondere risultati teorici raggiunti dalla «critica del valore» (una corrente nata alla fine degli anni Ottanta sulla rivista Krisis), con un’analisi originale dell’attuale dissesto finanziario e politico.
Dopo l’esplosione della bolla immobiliare del 2008, infatti, le diagnosi economiche sono cambiate solo in apparenza. Se è vero che l’idea di una «crisi strutturale» del capitalismo non è più rimossa dal dibattito; se è vero che persino l’ex segretario del Tesoro statunitense Larry Summers e il Nobel Paul Krugman sono arrivati a descrivere la nostra come una società dipendente dal debito e incapace di sostenersi da sola; è altrettanto vero che le cause della crisi continuano ad essere del tutto ignorate.
Ma «Ciò in cui si sono imbattuti i due corifei della scienza economica», con le loro recenti «scoperte», scrive Konicz, è quel «limite interno» della società del lavoro che era, per i lettori di Krisis, un’ovvietà da trent’anni.
Nel capitalismo, «il lavoro salariato costituisce la sostanza del capitale». Ma la concorrenza fra capitalisti costringe «nello stesso tempo ad eliminare il lavoro dal processo produttivo attraverso misure di razionalizzazione» ed automazione. Questa dialettica contraddittoria è esplosa definitivamente con la rivoluzione microelettronica degli anni Setanta, che ha reso il capitalismo «troppo produttivo per sopravvivere».
Ecco perché – spiega Konicz -, dagli anni Ottanta i mercati finanziari sono diventati il «settore di punta». Tramite il meccanismo del credito si anticipa un valore futuro che si scommette, con grande rischio, verrà prima o poi generato nella produzione reale, pena il crollo. Ma il congegno si è rotto da tempo. I capitali ottenuti a credito non vengono più investiti per l’ampliamento e la modernizzazione del sistema produttivo, ma dissipati nel settore immobiliare o nel consumo. Non appena una bolla scoppia, il tracollo che si profila «è scongiurato soltanto dal formarsi di una nuova bolla», in un domino i cui costi si moltiplicano fino ad un redde rationem che già si intravede nei paesi emergenti.
E la politica? «Può sforzarsi, attraverso programmi congiunturali di prolungare il processo di indebitamento, o scegliere la strategia suicida»: austerità, shock deflazionistico e crollo economico. Il capitalismo delle bolle ha però anche una terza via meno ufficiale: scaricare le conseguenze della crisi altrove, esportare, insieme alle eccedenze, l’indebitamento e la disoccupazione «massimizzando gli attivi delle partite correnti e della bilancia commerciale». In altre parole, «lasciare andare a fondo i paesi della periferia». Anche le misure di difesa commerciale come il Ttip, che hanno lo scopo di «riaffermare il ruolo guida del vecchio occidente», soprattutto nei confronti della Cina, e «la marcata spinta a Oriente dell’UE» portata avanti con l’obiettivo di trasformare la «Russia in una periferia dell’Europa», vanno in questa direzione. Gli Stati più deboli «hanno già perso la loro base finanziaria sotto forma di gettito fiscale» e si dissolvono nella barbarie. Gigantesche sacche di «umanità superflua», generate dall’espulsione di lavoro vivo, ingrossano le fila delle bande armate del fondamentalismo e della criminalità dall’Ucraina all’America centrale.
Eppure non stiamo assistendo — è la tesi del libro — ad una lotta fra sistemi contrapposti: Occidente contro Eurasia anticapitalista. Russia e Cina sono parte integrante del capitalismo, pur essendone la «semiperiferia» statale, corrotta e oligarchica. Ciò che secondo Konicz preannunciano i conflitti intestini e la massa senza precedenti di profughi, Dall’Africa al Medio Oriente, è piuttosto quella «guerra civile globale» teorizzata da Robert Kurz: un conflitto generalizzato che, al contrario della vecchia guerra imperialista, avrà come esito «la distruzione del sistema capitalistico mondiale» e la ricaduta nella barbarie.
Tra le pagine del libro tuttavia, oltre a qualche eccessiva semplificazione (come la tendenza ad identificare l’Isis con una «macchina da soldi» jihadista), ogni tanto occhieggia anche la possibilità che, in questa bellum omnium contra omnes, «la disgregazione delle strutture sociali apra margini per un superamento consapevole ed emancipatore del regime capitalistico al collasso».
il manifesto  10.10.15
La libertà radicale al setaccio di Giulio Giorello
«La libertà» del filosofo Giulio Giorello per Bollati Boringhieri
di Andrea Comincini


«L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Il pensiero è di Spinoza, ma riflette lo spirito con cui Giulio Giorello, nel suo recente saggio La libertà (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 11), affronta una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano, annunciata dal titolo. Senza libertà, ovvero privi delle tre forme principali in cui si può analizzare (Freedom, Liberty e Enfranchisement: libertà, indipendenza, emancipazione), non solo il singolo, ma è l’intera società a soffrire. Davanti agli attacchi degli «entusiasti di Dio», dei fanatici taglia gole e di chiunque voglia imporre il proprio credo agli altri, la lotta per l’emancipazione sembra essere una improrogabile necessità per garantire un futuro all’umanità, o per realizzarla. Questa la battaglia dell’irlandese Bobby Sands, per esempio, che si lasciò morire in carcere per rivendicare i propri diritti politici, o del sindacalista J. Connolly, pensatore e leader di un paese, l’Irlanda, dove fu fucilato seduto su una sedia, perché non riusciva più a stare in piedi. «Coloro a cui sta a cuore la libertà più che la vita… mai, mai, mai vorranno cedere il cielo stellato scandagliato dal cannocchiale di Galileo per quel “miraggio nella nebbia” che è la promessa di una salvezza offerta da una qualsiasi sottomissione».
Sotto quel medesimo cielo Giorello racconta di pirati e schiavi, filosofi e scienziati e di come ognuno di loro abbia sempre gridato le parole: «mai, mai, mai». Un infinito eros per la vita fonda la coscienza del ribelle, il quale ha la responsabilità di lottare anche per chi si offre volontariamente schiavo, avendo smarrito il desiderio. (Tale concezione si fonda sull’abbandono della teoria agostiniana del male, per accogliere invece l’idea spinoziana secondo cui il male è perversione di conatus, di auoconservazione.)
Di nuovo Spinoza: la cultura della vita contro l’ideologia della morte; non è un caso che il nemico inneggi alla fine – si pensi al «viva la muerte!» di Franco; chi odia la libertà non comprende il desiderio, e non sa cogliere il canto dei grandi pirati: «Non abbasseremo mai la nostra bandiera nera, e se ci negano i mari, solcheremo l’aria». La libertà infatti – e Giorello lo sottolinea virtualmente in ogni pagina – non è un concetto, ma un orizzonte di vita. Viene prima della verità, e addirittura della democrazia. Sia l’una che l’altra non sono paragonabili a un porto sicuro, bensì al viaggio tra flutti e tempeste, come quello che accompagnò Ulisse, in un mare dove il timoniere dovrà ogni volta cercare la rotta migliore fra le avversità.
Tra le pagine più appassionate di questo lavoro emerge la volontà e l’auspicio di diffondere nelle istituzioni e nei cittadini lo spirito critico della mentalità scientifica, poiché «la scienza che reclama per sé libertà insegna col proprio esempio a lottare per la libertà».
L’obiettivo è raggiungibile anche con lo strumento dell’ironia. Il riso, rivelando il vuoto dell’imperium, è sovversivo. È inviso alle istituzioni – si pensi al vecchio Jorge de Il nome della rosa – perché dissacra, ovvero confessa una libertà che il singolo, per il fanatico, non dovrebbe prendersi né desiderare.
I libertari sono come i Greci ricordati da Eschilo nei Persiani: «Hanno fama di non essere schiavi a nessuno, di non obbedire a nessuno». Attingendo da Nietzsche, Giorello sottolinea che solo chi è capace di ribellarsi all’oppressione è persona veramente responsabile. E la responsabilità è innanzitutto una questione della mente: «La mente è la cosa più importante Se non riescono a distruggere il tuo desiderio di libertà, non possono stroncarti» (Bobby Sands).
Il libro di Giorello è un vero manifesto libertario pensato per accompagnare chi non vuole arrendersi alla tirannia dell’ignoranza bigotta. Lo sapeva bene Malcolm X: «nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela».
il manifesto  10.10.15
L’eresia di Corbyn, repubblicano e anti nuke
Gran Bretagna. Il neo leader Labour conferma l’opposizione all’atomica. E l’8 ottobre scorso ha deciso di «bucare» la cerimonia del Privy Council, o Consiglio della corona
di Leonardo Clausi


LONDRA Mai come nel caso del neoeletto leader del Labour Party, Jeremy Corbyn, si era invertita la piramide gerarchica all’interno di un partito di opposizione, con la base che ha spettacolarmente scippato il timone alla dirigenza. E le conseguenze sono dirompenti, sia per le ripercussioni negli equilibri interni al partito e nella propaganda dei conservatori – il cui congresso, tenutosi a Manchester, si è appena concluso — che per via dell’ormai ben nota eresia corbyniana su due cardini dello status quo politico-istituzionale del paese: gli armamenti nucleari e la monarchia.
Un’eresia, quella del segretario, perfettamente familiare e condivisa dalle frange militanti e socialiste che ne hanno resa possibile la mirabolante vittoria e proprio per questo altrettanto invisa e impresentabile per la maggioranza dei deputati centristi, terrorizzati da un futuro di pluridecennale marginalità per il partito.
Il rinnovo del sistema missilistico Trident – megaprogramma bellico-nucleare di durata pluriennale che andrà presto votato in parlamento e il cui costo basterebbe a risolvere n emergenze umanitarie, è stato il primo test. Già durante il recente congresso di Brighton, tra il pacifista Corbyn, da sempre attivo sul fronte del disarmo unilaterale, e i moderati del suo governo-ombra sono emerse evidenti frizioni.
Con i volti corrucciati in una gravitas di circostanza, una sequela di analisti politici televisivi è sfilata davanti al neosegretario chiedendogli «Lei dunque non premerebbe il bottone (dell’attacco nucleare) per difendere la Gran Bretagna?» Corbyn ha ribadito la sua contrarietà all’arsenale nucleare, un’opposizione, va forse ricordato, in totale discontinuità con tutti i suoi predecessori dal secondo dopoguerra a oggi e si è detto ancora una volta pronto a intavolare una discussione aperta con i dissenzienti, ma è chiaro che ad attendere l’unità del partito di cui si è fatto infaticabile promotore è un futuro difficile.
C’è poi la madre di tutte le anglo-eresie, e cioè il repubblicanesimo di Corbyn. Il suo ruolo di leader del partito d’opposizione implica la partecipazione a una sequela di antichissime liturgie, prostrazioni, professioni di fedeltà alla sovrana e liriche intonazioni d’inni nazionali. All’oltraggio recentemente arrecato dal suo silenzio durante l’inno nella messa di suffragio per la battaglia d’Inghilterra ha fatto seguito il non presentarsi, lo scorso 8 ottobre, alla cerimonia del Privy Council, o Consiglio della corona, anch’esso antichissimo organismo composto dalla crema della crema — 500 optimates fra laici e chierici — che ha lo scopo di consigliare la monarca nel logorante esercizio della sua monarchia e che comporta l’accesso a riservate informazioni circa la sicurezza nazionale.
La questione è del tutto formale: l’ammissione al consiglio può anche avvenire senza genuflessioni e baciamano a Elizabeth Windsor, e lo stesso Cameron ha mancato tre volte l’evento dopo la sua elezione a leader del partito. Ma è chiaro quanto, in un paese ancora confidentemente monarchico, l’equilibrismo di Corbyn si faccia delicato. Durante la campagna elettorale aveva detto che rimpiazzare la monarchia non era prioritario e un portavoce del partito ha confermato che diventerà presto membro del consiglio. Ma questa coerente professione di repubblicanesimo è corroborante per i suoi sostenitori quanto lo è per i Tories e i loro spin doctors.
I quali nel frattempo, un po’ come gli sceneggiatori dell’indimenticata serie televisiva «Boris», hanno subito cominciato a infarcire i discorsi di Cameron, Osborne e di Boris Johnson di soundbit come «terreno comune» (common ground), termine che indica in buona sostanza il centro, per poi superarsi quando, in occasione del suo atteso discorso di chiusura del congresso di Manchester, Cameron, come già Osborne prima di lui, si è spinto fino a definire il suo il «partito dei lavoratori», alludendo forse agli startupper di Shoreditch finanziati dalla City.
Discorso in conflitto con quello paraxenofobico del ministro dell’interno Theresa May, che nella corsa alla leadership — Cameron ha annunciato che lascerà prima delle prossime elezioni nel 2020 — ha deciso di rivolgersi alla destra del partito lanciandosi in un attacco anti-immigrati che ha inorridito quegli imprenditori i cui business fioriscono grazie a contratti a zero ore e a trattamenti salariali che solo i migranti economici accettano per disperazione.
Ma se in questo congresso Cameron ha gustato il sapore dell’insperata e risicata maggioranza parlamentare, la settimana del premier non è stata proprio tutta rosa e fiori. Chiedendogli conto della «squallida» alleanza con gli autocratici Sauditi, prossimi a decapitare un dissidente diciassettenne, in un’intervista su Channel Four, il veterano Jon Snow lo ha costretto a una giustificazione stentata e penosa.
il manifesto  10.10.15
Haaretz: preoccupano i riflessi sull’economia israeliana
di Michele Giorgio


L’economia israeliana può reggere l’urto di una nuova Intifada? Gli esperti cominciano a porsi questo interrogativo di fronte alla possibilità, sempre più concreta, di una nuova sollevazione popolare palestinese contro l’occupazione militare israeliana. I palestinesi, notava l’altro giorno David Rosenberg sul quotidiano Haaretz, hanno già dimostrato di poter sopportare anni di chiusure di intere città, di restrizioni ai movimenti di persone e merci e tante altre difficoltà imposte dal regime di occupazione militare. Israele, al contrario, farà i conti con pesanti conseguenze, in ragione proprio dell’evoluzione avuta dalla sua economia in questi ultimi 10–15 anni.
La «Start-up Nation» è sempre più inserita nell’economia globale e dipendente in modo crescente dal commercio e dagli investimenti. Quando nel 1987 scoppiò la prima Intifada, Israele registrava investimenti diretti dall’estero per alcune centinaia di milioni di dollari. Nel 2000, con l’inizio della seconda Intifada, questo tipo di investimenti ammontavano a 8 miliardi di dollari. Ora 8 miliardi di investimenti dall’estero si registrano già nel primo semestre del 2015. Il commercio estero vale due terzi del prodotto interno lordo israeliano e il turismo, in costante crescita, è uno dei principali datori di lavoro. Una terza Intifada e una lunga instabilità, avvertono Rosenberg e altri esperti, potrebbero causare un crollo massiccio del turismo, anche per diversi anni. Il settore tecnologico è più impermeabile agli sconvolgimenti politici ma non potrà rimanere immune per mesi, forse anni, di fronte a immagini di scontri e violenze e a violazioni israeliane dei diritti umani documentate e discusse all’estero. L’economia israeliana perciò rischia di pagare il costo più alto di un mancato accordo tra i suoi governi e i palestinesi sotto occupazione.
il manifesto  10.10.15
Manifestazioni e attacchi: il bilancio è da Intifada
Israele/Cisgiordania. Oltre 270 feriti in un giorno, un palestinese ucciso vicino Hebron. Manifestazioni ovunque, l'esercito apre il fuoco. In territorio israeliano marce anti-palestinesi
di Chiara Cruciati


BETLEMME Ramallah, Hebron, Betlemme, Nablus, Tulkarem, Salfit, Jenin, Qalqiliya: tutta la Cisgiordania è in fiamme. Al di là del muro attacchi a Gerusalemme, Dimona, Afula e manifestazioni a Haifa e Taibeh. La situazione tra Israele e Territori Occupati è esplosiva: le immagini che ieri riempivano le tv palestinesi mostravano proteste in decine di città in Cisgiordania e raccontavano delle violenze in Israele e a Gerusalemme. Nei social network si susseguivano immagini di morti e feriti, una sollevazione che dalle strade finisce in rete.
Il bilancio è da Intifada: in una settimana 14 morti palestinesi in una settimana, 4 israeliani. Quasi mille i feriti tra i palestinesi, negli scontri con le forze militari israeliane; una decina quelli israeliani colpiti da coltelli o da lancio di pietre. Uno stillicidio ricominciato ieri mattina con l’accoltellamento di 4 lavoratori palestinesi nella città meridionale israeliana di Dimona. L’israeliano responsabile, 24 anni, è stato arrestato dalla polizia. Che non ha aperto il fuoco contro l’aggressore, come successo poche ore dopo a nord, ad Afula: una palestinese di Nazareth, Esraa ‘Abed, 30 anni, è stata centrata da sei colpi di pistola nella stazione degli autobus. Brandiva un coltello – dice la polizia – e voleva colpire una guardia privata. I video girati da testimoni la mostrano immobile, con un oggetto in mano e le braccia alzate, circondata da poliziotti. Poco dopo, gli spari. È ora ricoverata in ospedale.
Due pesi e due misure. Lo stesso si è verificato nei Territori Occupati: Muhammad Fares Abdullah al-Jaabari, 19 anni, è stato ucciso nella colonia di Kiryat Arba vicino Hebron dopo aver accoltellato un poliziotto di frontiera, ricoverato per ferite lievi.
Simile la situazione a Gerusalemme, nei giorni scorsi ed ancora ieri mattina: un palestinese ha accoltellato un adolescente israeliano di 14 anni, mentre la polizia riceveva l’ordine di blindare la città e dispiegava agenti nei quartieri di Ras al-Amud e Wadi al-Joz. La Spianata delle Moschee è stata chiusa ai fedeli musulmani sotto i 45 anni e in moltissimi si sono ritrovati alla porta di Damasco per pregare in strada. Nella notte erano migliaia i palestinesi scesi in strada a Shuafat, Gerusalemme Est, per i funerali di Wissam Faraj, ucciso il giorno prima mentre difendeva la casa di Subhi Abu Khalifa (responsabile di un accoltellamento in Città Vecchia) dalla demolizione. In serata, secondo i residenti, le autorità israeliane hanno cercato di compiere un raid nella tenda posta fuori dalla casa di Faraj. Scontri sono esplosi in molti dei quartieri di Gerusalemme Est.
Manifestazioni partecipate in Cisgiordania, a cui l’esercito israeliano ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri: 272 i feriti totali, di cui 24 da pallottole, secondo la Mezza Luna Rossa. Ad Hebron un paramedico ha perso un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre aiutava alcuni manifestanti. A Tulkarem è stata la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese a fermare la protesta diretta alla fabbrica chimica israeliana Kashouri, costruita su terre palestinesi: Ramallah lo ha detto chiaramente, non permetterà una sollevazione e non metterà in pericolo il coordinamento alla sicurezza con Israele, prodotto degli Accordi di Oslo da sempre avversato dal popolo palestinese.
La notte precedente all’atteso venerdì di violenze, le strade delle principali città israeliane erano state teatro di marce anti-palestinesi: gruppi estremisti ebraici, molti legati a squadre di calcio, a partire dal Beitar, camminavano per Gerusalemme, Netanya e Afula cantando cori anti-arabi e aggredendo i pochi palestinesi presenti. La polizia israeliana è intervenuta per sedarli, stringendo le manette ai polsi di sei leader degli ultrà israeliani del gruppo Lehava.
Ieri gruppi di coloni hanno compiuto raid nei quartieri di al-Ras e al-Jaabari a Hebron e nella vicina città di Yatta, con lancio di pietre contro le case. Una violenza individuale che preoccupa le stesse autorità israeliane incapaci di gestire sia gli attacchi dei giovani palestinesi, non membri di organizzazioni politiche o armate, né tanto meno quelli degli estremisti ebraici. Una galassia di gruppi ingestibili, lasciati crescere e maturare da un governo ora incapace di tenerli a bada. Tanto da far dire al ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, che Israele «non tollererà che nessuno prenda la legge nelle proprie mani, anche i terroristi ebraici stanno compiendo attacchi».
il manifesto  10.10.15
Israele/Territori occupati
L'Intifada di Gerusalemme raggiunge la Striscia
Una manifestazione cominciata dopo le preghiere del venerdì finisce sotto il fuoco dei militari israeliani sul confine
E' stato un massacro
Intanto Hamas scende in campo e lancia appelli alla sollevazione contro Israele
di Michele Giorgio


GERUSALEMME ll’estate 2014, figlie dei bombardamenti aerei e dei tiri di artiglieria, si è ripresentato ieri con tutto il suo orrore quando, al termine delle preghiere islamiche, centinaia di giovani di Gaza si sono lanciati verso vari punti delle recinzioni che dividono la Striscia da Israele. Urlavano slogan a difesa della Moschea di al Aqsa di Gerusalemme. Non avevano armi per minacciare da vicino i soldati israeliani protetti nelle alte torri di cemento armato che presidiano diversi punti del “confine”. Hanno avuto la “colpa” di entrare nella “no-go zone” imposta da Israele all’interno del territorio di Gaza. La conoscono bene i contadini che da anni rischiano la vita per andare nei loro campi racchiusi in quella fascia di territorio palestinese interdetta. I comandi israeliani hanno riferito di aver ordinato di sparare contro gli «istigatori delle manifestazioni violente» che lanciavano sassi e davano fuoco a copertoni. I soldati hanno eseguito l’ordine ricevuto con particolare zelo. Sette palestinesi sono stati uccisi e altri 60 feriti sulle recinzioni a est di Gaza City, più o meno all’altezza del centro abitato israeliano di Nahal Oz dall’altra parte del confine, e a est Khan Younis.
Come un anno fa decine di ambulanze a sirene spiegate hanno fatto la spola verso gli ospedali, tra scene di disperazione e dolore di ragazzi che trascinavano via altri ragazzi morenti, insaguinati, forse compagni di scuola, amici o parenti, sotto il fuoco dei soldati impegnati a prendere di mira gli «istigatori delle manifestazioni violente». Per sei giovani è stata inutile la corsa a tutta velocità dei mezzi di soccorso verso la speranza di salvezza. Shadi Dawla, 20 anni, Ahmad Herbawi, 20, e Abed Wahidi, 20, sono stati uccisi nella zona più orientale del quartiere di Shajayea, che resta un cumulo di macerie dopo i bombardamenti israeliani dello scorso anno. Muhammad Raqeb, 15 anni, e Ziad Sharaf, 20, sono stati uccisi a est di Khan Younis. In quella stessa zona poco dopo è stato colpito alla testa e ucciso Adnan Elayyan, 22 anni. «Abbiamo anche 60 feriti, 10 dei quali in gravi condizioni. I medici stanno facendo di tutto per salvarli», ha riferito il portavoce del ministero della salute Ashraf al-Qidra.
In un solo colpo Gaza si è ritrovata nel pieno della “Intifada di Gerusalemme”, così come i palestinesi chiamano la loro rivolta in riferimento alla difesa della Spianata delle Moschee, e che ora dopo ora si allarga a macchia d’olio nei Territori occupati. Per gli israeliani invece è «l’Intifada dei coltelli» per gli accoltellamenti che nell’ultima settimana hanno ucciso due ebrei nella città vecchia di Gerusalemme e ferito diversi altri (alcuni in modo grave). Il nome di ciò che accade in questi giorni non ha molta importanza. Forse non è nemmeno una Intifada o almeno non lo è nei modi in cui lo sono state le rivolte contro l’occupazione del 1987–93 e del 2000–5. L’unica cosa certa è che mette fine a anni ugualmente drammatici, di sangue, di diritti negati, di abusi, di violazioni, di cui quasi nessuno lontano da questa terra è sembrato accorgersi. E senza dubbio avrà riflessi politici di grande rilievo anche in casa palestinese.
«Hamas ieri è sceso ufficialmente in campo», ci spiega Saud Abu Ramadan, uno dei giornalisti di Gaza più esperti, «Oggi (ieri) è stato stato il numero 2 dell’ufficio politico (ed ex premier) Ismail Haniyeh ad assicurare che i palestinesi di Gaza non faranno mancare il loro appoggio ai fratelli della Cisgiordania. Il movimento islamico vuole partecipare con un ruolo da protagonista, sapendo di godere di sostegni popolari anche in Cisgiordania». E’ una sfida all’autorità del presidente dell’Anp Abu Mazen? «Senza alcun dubbio» prosegue Abu Ramadan «Hamas sente che la posizione di Abu Mazen è delicata e intende incalzarlo. Può conquistare nuovi consensi proprio sulla debolezza del presidente dell’Anp che non rinuncia alla cooperazione di sicurezza con Israele, uno dei capitoli più contestati (dai palestinesi) degli accordi di Oslo (del 1993)». Allo stesso tempo, aggiunge da parte sua Aziz Kahlout, analista di Gaza, «Hamas non intende andare allo scontro aperto con Israele che finirebbe per innescare un nuovo conflitto che Gaza non può permettersi visto che lotta ancora per emergere dalle macerie della guerra di un anno fa».
Abu Mazen passa ore ed ore nel suo ufficio a Ramallah. Non sa quale strada prendere. Israele, come Usa ed Europa, gli chiedono di agire, anche con le sue forze di sicurezza, per impedire che la tensione sfoci nella nuova Intifada. Fuori da quella stanza c’è la popolazione palestinese che reclama fermezza nei confronti delle politiche di Israele. L’immobilismo complica anche la posizione del suo movimento, Fatah. Il presidente dell’Anp sembra tenere a freno, per il momento, gli uomini della sicurezza fatti schierare a distanza dalle zone di scontro tra dimostranti e soldati israeliani. E rilascia dichiarazioni di condanna delle politiche di Israele sulla Spianata delle Moschee. Allo stesso tempo non ha il coraggio o la forza di staccare la spina alla cooperazione di sicurezza con Israele e di lasciare campo libero all’Intifada che, ne è certo, lo indebolirà e favorirà i piani di Hamas. Insiste perciò nel chiedere ai palestinesi proteste senza alcun tipo di violenza ma non tiene conto dell’impatto che la repressione messa in atto da Israele e stragi come quella di ieri a Gaza, alimentano la rabbia della sua gente. Per placare la nuova Intifada spera anche nella dipendenza dall’Anp di oltre 120mila palestinesi impiegati nei ministeri e nelle varie agenzie di sicurezza.
Tuttavia, scriveva un paio di giorni fa sul giornale al Ayyam di Ramallah il noto opinionista Hani al Masri, «il confronto (con Israele) non è la nostra scelta ma ci è imposto… In realtà, il confronto è necessario, se i palestinesi cercano la liberazione, il diritto al ritorno, l’indipendenza, la sconfitta e lo smantellamento del progetto coloniale israeliano». Un punto di vista largamente condiviso tra i palestinesi e nella stessa base di Fatah.
il manifesto  10.10.15
Sui 200 mila docenti precari esclusi da Renzi la Consulta decide il 17 maggio 2016


Cinquantacinquemila diplomati magistrali, 20 mila abilitati con Tfa e 60 mila Pas, migliaia di abilitati con i corsi di Scienze della formazione primaria dopo il 2011, 70mila docenti precari rimasti nelle Graduatorie in esaurimento (Gae) dovranno attendere il prossimo 17 maggio per sapere se hanno diritto all’assunzione definitiva nella scuola italiana. La Corte Costituzionale ha fissato questa data, dopo il rinvio dell’udienza dello scorso giugno. Un parere favorevole alla storica sentenza della Corte di giustizia europea avrebbe distrutto i criteri stabiliti dal governo Renzi per l’assunzione degli oltre 100 mila precari nella «Buona scuola». Gli aventi diritto che lavorano per il più grande sfruttatore al mondo di precari — lo Stato italiano — sono probabilmente il triplo. Una sentenza di questo tipo, emessa nel corso dell’infuocato iter parlamentare della legge 107 sarebbe stato uno choc per l’allora incerto e traballante esecutivo. Il rinvio, di quasi un anno, allontana i problemi per Renzi che ha annunciato di volere bandire un concorso «per 90 mila» docenti (quindi non più 60 mila). Non basteranno e continueranno le vertenze. Se lo Stato perderà, dovrà pagare a ciascun precario una media di 25 mila euro di risarcimento.
il manifesto  10.10.15
Sessantamila studenti contro lo storytelling di Renzi
Movimenti. Nell’autunno grigio italiano l'agenda dei diritti: reddito, No sblocca Italia e diritto allo studio
di Roberto Ciccarelli


Occupazioni, flash-mob al Miur, al ministero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumogeni in filiali bancarie e agenzie di lavoro interinali come Manpower a Napoli, presidi e incontri al ministero dell’Istruzione. E poi 90 cortei con 5 mila studenti a Roma, duemila a Bari, mille a Milano e altrettanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola governata dagli algoritmi che decidono le sorti di un docente mentre le prove Invalsi perfezionano la valutazione della vita produttiva degli studenti si è acceso all’improvviso. Sessantamila studenti hanno manifestato contro la riforma della scuola, il Jobs Act, le politiche migratorie della «Fortezza Europa» e il diritto allo studio azzoppato (ancora) dalla riforma dell’Isee.
Non è mancato il riferimento ai precari della scuola esclusi dalle assunzioni di Renzi, pur avendo maturato il diritto. Una mobilitazione «sociale» che ha cercato un’interlocuzione con i movimenti esistenti: il «No Ombrina» contro le trivellazioni dello «Sblocca Italia», il 14 ottobre a Roma, ricordano i collettivi autonomi napoletani «Kaos». Gli studenti non vogliono sentirsi soli e sono alla ricerca di connessioni. Ieri hanno schierato numeri imponenti, e non scontati, dopo giorni di silenzio dei maggiori sindacati della scuola impegnati a discutere se, come o quando fare uno sciopero generale (Unicobas lo farà il 23 ottobre, i Cobas il 13 novembre, mentre sono previste mobilitazioni il 24 ottobre). Tutto procede in sordina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 settembre scorso. Al clima non ha giovato il fallimento della raccolta firme sul referendum contro il «preside manager» promosso da «Possibile» di Civati che ha segnato una spaccatura con il movimento della scuola che all’assemblea di Bologna del 5 settembre scorso ha deciso di studiare la possibilità di farne un altro nel 2017, con raccolta firme nel 2016. Nel frattempo continuano le procedure delle assunzioni dei 55 mila docenti previsti in «fascia C» affidati a un algoritmo che costringe gli interessati a un’attesa solitaria e preoccupata.
Ancor prima che contro la propaganda del governo, le reti studentesche nazionali dei medi e degli universitari (Rete della Conoscenza, Uds, coordinamento Link, Udu, StudAut), senza contare i collettivi cittadini o metropolitani da Sud a Nord, si sono attivate contro la spaventosa normalità di un paese ingrigito e sofferente. Gli studenti, ciascuno per la propria parte, hanno elaborato una loro agenda e cercano di scuotere le foglie sull’albero. Link e Udu portano avanti la battaglia sul diritto allo studio. La riforma dei parametri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malandato diritto allo studio italiano: per responsabilità di un nuovo indicatore decine di migliaia di studenti sono stati esclusi dalle borse di studio, come se fossero diventati più ricchi. Ieri sono stati ricevuti al ministero dell’Istruzione. L’incontro non ha soddisfatto Link («manca ancora una proposta concreta» sostiene il coordinatore Alberto Campailla); «Vogliamo interventi legislativi e fondi supplementari» ha detto Jacopo Dionisio (Udu).
Una trentina di universitari di «Studenti Indipendenti» e «Alterpolis» ieri a Torino hanno occupato alle 7,30 del mattino il gasometro dell’Istalgas in corso Regina Margherita a Torino. In questo edificio dovrebbero essere costruite residenze universitarie gestite da privati. Per gli studenti è un’«operazione propagandistica che spaccia una speculazione edilizia per un’attività a beneficio degli studenti». Molti dei quali, oggi, non potrebbero nemmeno vivere nella «casa dello studente» privatizzata, dato che il governo ha cambiato all’improvviso le regole per beneficiare delle borse di studio. Alle undici i ragazzi sono stati sgomberati malamente dalla celere. Nell’intervento è rimasta contusa Ilaria Manti, ex presidente del Senato degli Studenti dell’Università di Torino, e ha prodotto la protesta della Fiom e degli studenti contro «l’uso spropositato della forza da parte della polizia».
Un’altra questione è «l’alternanza scuola-lavoro» prevista dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e approvata dalla conferenza Stato-Regioni. Per gli studenti il potenziamento dell’apprendistato sperimentale «è uno sfruttamento». «Prospettiva inaccettabile per gli studenti in stage — afferma Danilo Lampis (Uds) — L’apprendistato è un contratto di lavoro, qui si equiparano ore di lavoro sottopagato con quelle di formazione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fracassi (Cgil) — non c’è modo per individuare imprese con un’adeguata capacità formativa». Francesca Puglisi, responsabile Pd scuola rispolvera le argomentazioni classiche sui «choosy» che non vogliono lavorare: «È un po’ da snob pensare che la cultura del lavoro non debba “contaminare” la scuola — sostiene — Le esperienze possono essere fatte anche nelle istituzioni culturali». In realtà gli studenti criticano il «modello tedesco», la professionalizzazione senza diritti e lo snaturamento dell’obbligo scolastico, oltre al precariato e al lavoro gratis mascherato da formazione. Argomenti troppo complessi per rientrare nel format paternalistico renziano, ma spunti per un modello alternativo di istruzione pubblica.
il manifesto  10.10.15
Una disfatta lunga trent’anni
Palazzo Madama, sede del senato
di Alberto Burgio


Ci siamo finalmente. Martedì il Senato in grande spolvero voterà senza colpo ferire la propria trasformazione in una nuova Camera delle Corporazioni. Napolitano, Verdini e Barani, padri costituenti, raccoglieranno meritati onori. La legislatura vivrà una giornata palpitante. Ma se ci si potrà commuovere, dirsi sorpresi invece no, non sarebbe sensato. Che si sarebbe arrivati a questo punto si era capito già l’anno scorso, quando il ddl Boschi cominciò la navigazione tra i due rami del parlamento meno legittimo della storia repubblicana.
A rigore il governo avrebbe dovuto vedersela con l’agguerrita opposizione berlusconiana, quindi subire le condizioni poste dalle minoranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli ostacoli si rivelarono ben presto inconsistenti. Ancor prima di conquistare palazzo Chigi Renzi si era accordato con Berlusconi sulle «riforme» da varare insieme. Verdini aveva convinto il cavaliere che quel giovane democristiano era un conto in banca, la pensava allo stesso modo sulla Rinascita democratica del paese, quindi perché non sostenerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vecchia guardia rossa del Pd?
Quanto a quest’ultima, i solenni proclami della prima ora si svilirono ben presto in manovre tattiche e in mercanteggiamenti e mai nulla di serio accadde, nemmeno dopo che il patto del Nazareno era entrato in sofferenza. Non solo fiorì imponente la pratica del trasformismo interno, non soltanto il presunto carisma del nocchiero attrasse proseliti anche oltreconfine. Gli stessi generali della sedicente sinistra democratica corsero spontaneamente a Canossa nel nome della ditta o della responsabilità, del realismo o di non importa cosa.
Risultato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arrogante e strafottente. Ha irriso e lusingato, minacciato e blandito. E mentre Verdini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavorava per restituirgli il sostegno della destra, ha definitivamente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata triturare senza nemmeno accennare a una resistenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza storia, avendo tutto perduto, anche l’onore.
A qualcuno forse sarà dispiaciuto, per estetica o per umana pietas, il crudo maramaldeggiare dei colonnelli renziani all’indirizzo del vecchio segretario. Ma in politica non c’è spazio per la sensibilità e gli affetti e su Bersani, simbolo di questa Caporetto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in questione, ma la Costituzione della Repubblica, costata lacrime e sangue e migliaia di morti nella guerra contro il nazifascismo. Non è la ditta, è il paese, consegnato a un regime personale (ne sa qualcosa, buon ultimo, il sindaco della capitale, centrifugato nella macchina del fango): a un regime autoritario (dove il presidente del Consiglio sarà effettivamente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero parlamento): a un regime organico di classe, paradiso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).
Tant’è. Oggi perlomeno, a bocce ferme, il quadro è limpido ed è possibile un primo consuntivo. Ognuno trarrà le proprie conclusioni e non dubitiamo che i più, nel circo della politica politicante, ragioneranno in base al proprio tornaconto. Così i furieri dei piccoli partiti, minacciati dalla tagliola della nuova legge elettorale. Così, nei partiti maggiori, soprattutto gli eretici, i critici, i periclitanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — statisti di lungo corso, intellettuali, opinionisti illustri — che rifletteranno piuttosto, come si dice, «politicamente». Sui nuovi rapporti di forza, sugli scenari, sulle prospettive. Che strologheranno soprattutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) implicazioni del patto d’acciaio tra Renzi e Verdini, sulla sua ragion d’essere, sulle conseguenze, i costi e i benefici. Scoprendo adesso, a babbo morto, che in questo patto pulsa da sempre il cuore nero del governo e fingendo forse di allarmarsene, o invece compiacendosene per la sua laica, spregiudicata, post-ideologica configurazione. Noi invece battiamo e suggeriamo un’altra strada, solo in apparenza impolitica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tuttavia più feconda e interessante e istruttiva. Nonché la più autenticamente politica.
Se è vero, come è vero, che il disastro della cosiddetta sinistra interna del Pd — la mancata resistenza allo sfondamento renziano e al progetto padronale che lo sottende — ha prodotto conseguenze enormi ed è in larga misura la chiave per comprendere quanto sta accadendo in queste ore. Se è vero, com’è vero, che i rapporti di forza nel Pd non erano all’inizio della storia nemmeno lontanamente quelli attuali e che, in linea di principio, sarebbe stato agevole per le minoranze unite contrapporsi e imporre al presidente del Consiglio più miti consigli e una ben diversa composizione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di interrogarsi senza reticenza sulle scelte compiute in questi due anni dagli esponenti della sinistra democratica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gregario: sulle motivazioni che li hanno ispirati, di ordine culturale, psicologico, morale.
Quando la geografia politica di un paese si trasforma per effetto di un profondo sommovimento culturale come quello verificatosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le responsabilità soggettive assumono un peso preponderante. E grava più che mai l’inconsistenza culturale e morale: la subalternità ideologica e la disponibilità a porsi sul mercato. Non ci si inalberi: non serve a niente né scandalizzarsi né invocare tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stravince e domani non vorrà più nemmeno prigionieri. Si accetti dunque finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare.
il manifesto  10.10.15
Mars attacks: una lista civica per far perdere il Pd renziano
Il chirurgo prepara la sua controffensiva per le prossime elezioni
di Andrea Colombo


Se qualcuno si aspettava un segnale di pace rivolto da Renzi a Marino dopo la cacciata in malo modo del giorno prima, è segno che non conosce il premier. L’uomo è fatto così: quando adotta una strategia ci vogliono le bombe per fargli cambiare idea. In questo caso, poi, è più che mai convinto di aver fatto la sola cosa possibile: apparire come l’uomo che ha liberato Roma dal sindaco inetto, e così facendo svincolare quanto più possibile l’immagine del Pd da quella dell’ex sindaco. In realtà la vera scelta fatta da Renzi nel giorno più lungo del Campidoglio, giovedì scorso, è stata questa. Difendere un primo cittadino già traballante, dopo la mazzata finale degli scontrini indebiti, era fuori discussione. Il segretario e premier avrebbe però potuto mettere le cose in modo da evitare una rottura definitiva con il defenestrando, oppure esaltare al massimo quella rottura. Ha scelto la seconda via.  E’ una scelta non priva di rischi. Il messaggio che Marino ha affidato a Fb giovedì sera non è una lettera d’addio ma una dichiarazione di guerra. Anzi peggio: il manifesto di una campagna elettorale. Che Marino stia pensando a una lista civica da mettere in campo a Roma, con se stesso come candidato, è certo. Il messaggio sarebbe chiaro, e i destinatari dello stesso anche di più. Di fronte a tutto l’elettorato di sinistra antirenziano, scontento dell’indirizzo impresso dal rampante al partito di cui sta rimodellando l’immagine a propria somiglianza, Marino si presenterebbe come il campione di una sinistra che non vuole diventare destra per raccattare i voti in uscita dal berlusconismo in disfacimento, e soprattutto come un politico scomodo per i poteri collusi con il malaffare, e solo per questo fatto fuori da quei medesimi poteri. Quasi certamente non gli basterebbe per vincere le elezioni, ma sarebbe sufficiente per decretare la sconfitta del candidato di Renzi, e quindi di Renzi stesso.  Marino il kamikaze potrebbe andare anche oltre. Da mesi nei palazzi circola una voce secondo cui avrebbe conservato documenti tali da provare un interessamento del premier a favore di Mirko Coratti, che a differenza di Marino stesso nella melma di Mafia Capitale è invischiato fino al collo. Forse è solo una leggenda di palazzo, ma forse no. E i beninformati aggiungono che, dopo la defenestrazione, ieri, Marino avrebbe portato quei documenti al sicuro, addirittura in un’ambasciata straniera protetta dalla extraterritorialità. Fondate o meno che siano le voci in questione, per la verità torrentizie, resta certo che per il Pd Marino è una mina vagante. «Se non gli troviamo un posto, può darci parecchio fastidio», ammetteva ieri a denti stretti un alto ufficiale renziano. Probabilmente però «un posto» non basterebbe: troppo profonde la rabbia e il rancore dell’ex sindaco, e troppo alta l’opinione che ha di se stesso, per accontentarsi. Marino non correrà contro il suo stesso partito solo se la tempesta giudiziaria che si addensa su di lui lo renderà impossibile. Potrebbe essere indagato con accuse pesanti: peculato e falso ideologico. Certo, al momento delle elezioni l’eventuale processo sarebbe lontano, ma in Italia, spesso, la sola iscrizione nel libro nero basta ad azzoppare qualsiasi cavallo. Spesso, non sempre, come il caso De Luca dimostra, e cosa determini le reazioni opposte nell’elettorato è a tutt’oggi inspiegato.  In parte la decisione di Marino potrebbe essere influenzata anche da quella di Beppe Grillo. A Roma, oggi, l’M5S è il grande favorito, ma non è detto che il comico miri davvero alla vittoria. Certo, conquistare Roma sarebbe un viatico perfetto per reclamare la guida del Paese nelle elezioni del 2018. In mezzo però ci sarebbero due anni di prova durissima per l’eventuale sindaco pentastellato. Un fallimento sarebbe esiziale non solo nella Capitale ma nell’intero Paese. Se Grillo combatterà per vincere o solo per piazzarsi alla grande lo si capirà dalla scelta del candidato: se punterà su una delle star del suo movimento, come Di Maio o Di Battista, vorrà dire che vuole davvero il Campidoglio, se si affiderà alle primarie della rete, il segnale sarà opposto. In quel caso l’attrazione esercitata da Marino sul popolo anti renziano lieviterebbe.
Il Sole 10.10.15
Marino rinvia a lunedì le dimissioni
Renzi: non c’erano alternativa. Dal governo altri 30 milioni al Giubileo
Il Vaticano: a due mesi dall’Anno santo solo macerie
di Ivan Cimmarusti e Andrea Marini


Il giorno dopo le dimissioni (per ora solo annunciate) del sindaco di Roma Ignazio Marino è stato carico di tensioni. Prima, il vicesindaco (uscente) Marco Causi ha annunciato la formalizzazione delle dimissioni del sindaco. Poi è arrivata la smentita di Valeria Baglio, presidente dell’Assemblea capitolina, nelle cui mani devono essere «protocollate» le dimissioni per far partire i 20 giorni che la legge dà al primo cittadino per poter eventualmente ritirare la sua decisione. In serata, infine è arrivata la nota ufficiale del Campidoglio: «Il sindaco formalizzerà le sue dimissioni lunedì 12 ottobre».
Uno slittamento di 3 giorni, con «difetto di comunicazioni», che ha inquietato il Pd, alla luce del videomessaggio di giovedì in cui il sindaco ventilava la possibilità di un suo ripensamento. Anche perché nel frattempo Sel ha fatto una sorta di apertura all’ex chirurgo, dopo le pesanti critiche dei giorni scorsi. Il segretario romano Paolo Cento e il capogruppo in Campidoglio, Gianluca Peciola, hanno detto: «Ora Marino venga in Campidoglio a spiegare le sue ragioni e le sue eventuali proposte. Sel ascolterà con rigore e attenzione». In realtà il Pd dà pochi margini a questa mossa del sindaco (catalogata come guerra di nervi): difficile arrivare a una «ricomposizione», ha detto ieri Causi. Anche perché i numeri in Assemblea per una maggioranza alternativa non ci sono. E il Pd ha sempre la possibilità di far cadere il sindaco con le dimissioni in blocco dei suoi consiglieri (a cui si aggiungerebbero le dimissioni di quelli di opposizione). Sel poi ha escluso «novità» nella sua posizione: il richiamo a Marino è una accusa contro la natura «extraconsiliare» della crisi provocata dal Pd.
Intanto la priorità del sindaco resta il Giubileo: lunedì o martedì ci sarà una giunta per discutere altri interventi. Mentre ieri il sottosegretario Claudio De Vincenti ha annunciato lo sblocco di altri 30 milioni per Roma. Ma ieri dall’Osservatore Romano (quotidiano della Santa Sede) sono arrivate dure critiche: «Ora la capitale, a meno di due mesi dall’inizio del Giubileo, ha la certezza solo delle proprie macerie». A parte «i gesti inopportuni e la superficialità» dell’ex primo cittadino, il giornale ha fatto notare le tante negative «certezze» della città, dalle infiltrazioni mafiose al «velo oscuro» sulla raccolta dei rifiuti, dall’inefficienza dei trasporti alla manutenzione delle strade.
Intanto una nuova accusa cade su Marino, dopo le contestate spese con soldi del Comune capitolino per cene private: il viaggio tra New York e Philadelphia, dal 23 al 29 settembre, potrebbe non avere piena natura istituzionale. L’ipotesi è del gruppo consiliare M5S, che ha inviato all’attenzione del procuratore aggiunto Francesco Caporale un esposto di sette pagine, che ora sarà valutato. A Philadelphia, Marino era stato invitato dalla Temple University per tenere un convegno sembra dietro retribuzione, anche se il compenso non sarebbe stato accettato dall’ex primo cittadino. Secondo i 5stelle «appare evidente che l’offerta di un compenso professionale esclude che il Marino abbia partecipato a detta conferenza in veste istituzionale e che pertanto il viaggio a Philadelphia potrebbe aver avuto natura mista privata-istituzionale».
In questo scenario anche il centrodestra prova a trovare un candidato unitario. Ma se il leader della Lega Matteo Salvini non fa mistero di apprezzare Giorgia Meloni (leader di Fdi), Silvio Berlusconi, leader di Fi, punta più su un candidato della società civile: «Auspico che tutti i partiti della nostra coalizione si ritrovino al più presto per valutare, senza preconcetti, le migliori candidature», ha sottolineato.
Corriere 10.10.15
Ciclo di Re Artù, il prequel è a rischio
Il manoscritto sta per essere venduto
di Paolo Di Stefano


Il manoscritto più prezioso che tramanda le avventure di Meliadus, il padre di Tristano — l’eroe medievale di uno dei drammi d’amore (e delle imprese di cavalleria) più noti della letteratura — è in pericolo: rischia cioè di essere sottratto agli studiosi. Queste avventure, narrate in francese medievale, rappresentano, per così dire, una sorta di «prequel» delle storie di re Artù e della sua corte, cui attinsero i poemi cavallereschi italiani, dal Boiardo ad Ariosto. Così le definisce il filologo romanzo Lino Leonardi, direttore della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, nel lanciare un appello allo scopo di salvare quel codice: si tratta del testimone più antico di un romanzo molto diffuso, a partire dalla prima metà del Duecento, non solo nelle corti settentrionali d’Italia ma anche al Sud, se è vero che una copia si trovava nel 1240 nella biblioteca di Federico II. Rustichello da Pisa, lo stesso compilatore del Milione di Marco Polo, ne fece una rielaborazione sempre in francese antico(pubblicata l’anno scorso dalle Edizioni del Galluzzo).
Il codice pergamenaceo che contiene il Roman de Meliadus ha un’origine non precisamente identificata, ma la scrittura (gotica italiana) e le eleganti decorazioni dei capilettera certificano che fu realizzato nell’Italia del Nord attorno al 1320. Negli ultimi due secoli, il manoscritto ha vissuto diversi passaggi di mano. Dopo aver fatto parte della prestigiosa collezione del bibliofilo britannico sir Thomas Phillips (1888-1941), fu acquistato dall’industriale tedesco Peter Ludwig, poi dal Getty Museum di Malibu, che nel 1997 decise di metterlo in vendita per finanziare l’acquisto del celebre Missale di Stammhein . Fu allora che venne acquistato dagli attuali proprietari, i coniugi statunitensi James ed Elizabeth Ferrell, che nel 2005 lo hanno reso disponibile agli studiosi presso la Parker Library del Corpus Christi College di Cambridge.
Ora, l’intenzione della famiglia Ferrell di cedere la propria collezione rende incerto il destino del manoscritto del Meliadus , stimato attorno ai 250 mila euro, che rischia di prendere strade molto lontane dai luoghi di ricerca e di studio che se ne interessano (si parla di offerte di provenienza araba). Il guaio è che, data la sua mole, il codice non è ancora stato studiato nella sua interezza e complessità né pubblicato in edizione moderna: dunque, qualora venisse sottratto alle sedi del patrimonio culturale europeo, non sarebbe più in alcun modo consultabile, il che priverebbe la storia del ciclo arturiano di un tassello fondamentale. Perché questa perdita non si realizzi, Leonardi ha segnalato il pericolo al ministero dei Beni culturali, ma non essendo il cosiddetto codice Ferrell notificabile come appartenente al patrimonio culturale italiano e considerando l’attuale congiuntura economica pubblica, si renderebbe necessario l’intervento dei privati. Da qui l’insolito appello per una sorta di «crowdfunding», cioè di un microfinanziamento che coinvolga la comunità degli studiosi. La Fondazione Franceschini, che è un istituto di ricerca non-profit specializzato in studi sui testi del Medioevo europeo, promuove da anni la ricerca sul Roman de Meliadus nelle Università di Siena e di Zurigo, coinvolgendo gruppi di giovani studiosi guidati dallo stesso Leonardi e dal filologo svizzero Richard Trachsel.
La tradizione francese del cosiddetto Tristan en prose , che racconta la tragica vicenda di amore (con Isotta) e di morte del giovane principe cresciuto alla corte di suo zio Marco re di Cornovaglia, venne accolta ben presto in Italia, penetrando nelle corti del Nord, in quelle meridionali e nei municipi toscani, da cui cominciarono a diffondersi copie in lingua d’oïl insieme ai primi tentativi di traduzione o meglio di rielaborazione in volgare. Il Roman de Meliadus appartiene più precisamente al cosiddetto ciclo di Guiron, ed è dedicato alle avventure della maturità del padre di Tristano, re Meliadus di Leonois, «in una specie di doppio confronto, sul piano del potere regale con Artù e su quello della virtù cavalleresca con il Bon Chevalier sans Peur», come osserva Nicola Morato in uno studio sull’argomento. Il protagonista è tipo dal carattere aggressivo e prevaricatore, che, colto in flagrante adulterio con la regina di Scozia, arriva a minacciare il re e poi a rapire l’amante, aprendo sfide e battaglie internazionali per far valere le sue ragioni di cuore e di spada. Che sono i due motivi prevalenti di tutti i romanzi cavallereschi.
Corriere 10.10.15
Tutti gli anniversari della Germania
La guerra, il muro, la riunificazione, i migranti: la Fiera di Francoforte affronta passato e presente del Paese
di Ranieri Polese

«Questi venticinque anni dalla Riunificazione? Per me sono stati anni felici, i migliori della Germania. Nella mia vita ho conosciuto tre Berlino (e tre Germanie), Berlino Ovest, Berlino Est e ora la Berlino capitale della Germania riunificata. Questa terza Berlino è la migliore in senso assoluto. E penso che questo sia il momento migliore per Berlino e per la Germania tutta». Parla Peter Schneider, già intellettuale di punta della contestazione del ’68, critico da sinistra delle due Germanie, quella occidentale troppo accondiscendente con gli ex-nazisti, quella orientale soffocata da un regime poliziesco. Da poco il suo Gli amori di mia madre è stato tradotto in Italia (L’Orma editore), è la storia della sua famiglia durante e subito dopo la guerra riletta attraverso le lettere della madre. Ora guarda agli sviluppi recenti con interesse: «Spero che lo scandalo Volkswagen possa innescare una crisi di coscienza in Germania; e per quel che riguarda i profughi siriani, ho ammirato la cancelliera Merkel che ha deciso di accoglierli anche contro altri Paesi dell’Ue».
Alla festa dei tanti anniversari tedeschi — 25 anni dalla Riunificazione, 70 anni dalla fine della guerra, 10 anni di governi Merkel — si sono presentati due scomodi non-invitati: la massiccia migrazione di profughi siriani (ma Angela Merkel ha detto «Wir schaffen das», ce la facciamo, e ne ha accolti varie centinaia di migliaia) e lo scandalo Volkswagen (per i Paesi ostili all’egemonia di Berlino dovrebbe segnare la fine di un’Europa germanizzata, ma la Merkel ha detto che sulla fiducia dei tedeschi questo scandalo ha inciso molto poco). Ma, soprattutto per la questione dei migranti, l’indice di popolarità di Merkel è sensibilmente calato. È comunque in gioco il giudizio dei tedeschi sulla loro storia recente e passata, su come valutano i venticinque anni della Riunificazione, a che punto è la rielaborazione dei ricordi della guerra e dei suoi orrori, e finalmente cosa pensano dei dieci anni di cancellierato di Angela Merkel. A Francoforte ci saranno molti libri su questi temi. Dal romanzo di Jenny Erpenbeck, Gehen, ging, gegangen (edito da Knaus, in Italia l’ha acquistato Sellerio) che affronta il tema dei migranti e dei volontari che si occupano di loro, ai molti libri di storia che rievocano fatti dell’ultima guerra. Come Der totale Rausch – Lo sballo totale (l’ha appena comprato Rizzoli) sull’uso di anfetamine e altre droghe durante il III Reich e tra i soldati al fronte. C’è anche l’agghiacciante ricerca di Florian Huber (pubblicata da Berlin Verlag è già venduta in Spagna Olanda Norvegia) sugli ultimi mesi di guerra quando inviati del partito cercavano di convincere, spesso con successo, i giovanissimi a uccidersi pur di non cadere in mano al nemico. Il titolo, tradotto, suona così: Ragazzo, promettimi che ti sparerai . KiWi ha uno dei libri caldi della Fiera (uscirà nella primavera 2016): ricostruisce un episodio avvenuto il 24 marzo del 1945, cinque giorni prima dell’arrivo dell’Armata rossa in Austria, quando, durante un party nel castello di Margit Thyssen al confine con l’Ungheria, gli invitati per divertirsi uccisero a fucilate degli ebrei usati come lavoratori-schiavi. Margit, che aveva sposato il conte ungherese Batthiany, fuggì portando con sé in Svizzera due nazisti suoi amanti; per tutti fu sempre la «Contessa assassina». Ora, il nipote Sasha Batthyany ritorna sui luoghi per riaprire l’indagine e scoprire cosa veramente accadde, e — come dice il titolo del libro — Cosa c’entro io con tutto questo?
Monumenti & memorie
Molti anche i titoli sul dopo 1990. Il più divertente è un finto reportage, Oro nero a Warnemünde , pubblicato da Aufbau: l’unificazione, scrivono i due autori, non ci fu perché nel 1989 sul Mar Baltico, davanti a Rostock, fu scoperto il più grande giacimento di petrolio al mondo, regalando una incredibile ricchezza alla Germania Est. Venticinque anni dopo, due reporter vanno a visitare il paradiso della Ddr.
Ma il libro più atteso — l’autore ha già in programma sei incontri alla Fiera — è Germany. Memories of a Nation (H.C.Beck). L’ha scritto l’inglese Neil MacGregor ed è appena uscita la traduzione da H. C. Beck: è un imponente saggio illustrato — proprio come La storia del mondo in 100 oggetti scritto da MacGregor quando era ancora direttore del British Museum — che vuole aiutare a capire la Germania ripercorrendo monumenti, immagini, memorie da Gutenberg a oggi. Monumento-simbolo delle trasformazioni del Paese è l’edificio dei Bundestag a Berlino. Completato nel 1894 sotto il Kaiser Guglielmo II (allora si chiamava Reichstag), ha visto proclamare la Repubblica nel novembre 1918 ma il suo incendio nel febbraio 1933 dette il via alla dittatura di Hitler. Danneggiato dalla guerra, conquistato dall’Armata rossa il 30 aprile 1945 (celebre la foto della bandiera issata dal soldato sovietico), restaurato dopo la Riunificazione dall’inglese Norman Foster, ospita ora il Parlamento della nuova Germania. La cupola in vetro di Foster che permette di vedere le sedute dell’assemblea è il segno, per MacGregor, di un Paese che non vuole più nascondere nulla, e che senza dimenticare il passato — i graffiti dei soldati sovietici sono stati conservati — guarda al futuro.
Cara Germania ti scrivo
È uscito in questi giorni dall’editore Nicolai di Berlino 100 Briefe an Deutschland – Cento lettere alla Germania , quasi un giudizio corale su questi venticinque anni. A scriverle sono tedeschi come Gregor Gysi, l’ex capogruppo della Linke, e l’ex ambasciatore Tomas Matussek; ci sono stranieri che hanno vissuto in Germania, come lo scrittore colombiano Hector Abad; ci sono figli e nipoti di immigrati che ormai sono cittadini tedeschi.
Uno di questi, il greco Stamos Papas, laurea in sociologia ad Amburgo, amministratore delegato della Società delle terme Roentgen, scrive: «Cara Germania, hai un cancelliere donna, un ministro delle finanze disabile, un ex ministro degli Esteri omosessuale, un capogruppo parlamentare con radici turche. Sono tutti segni dell’evidente progresso che hai fatto. Ma oggi? I segnali inquietanti si moltiplicano. La tua potenza economica viene impiegata per spingere un piccolo Paese (il mio paese di origine, la Grecia) nella catastrofe economica e umanitaria. Ancora più inquietante è l’affacciarsi di nuovo del sentimento nazionalista e il pericolo reale di far saltare in aria il progetto di pace sul quale si fonda l’Ue. Nella questione greca e in quella dei profughi si affaccia sempre più spesso una faccia orrenda. Per questo, cara Germania, devi stare in guardia, dobbiamo tutti stare in guardia».
Una famiglia tedesca
Da poco tradotto in Italia (Sellerio), I Benjamin. Storia di una famiglia tedesca ripercorre le vicende dei fratelli Walter, Dora e Georg Benjamin e della moglie di Georg, Hilde. Dalla Repubblica di Weimar alla guerra (Walter muore suicida mentre cerca di rifugiarsi in Spagna; Dora morirà in Svizzera; Georg, infine, troverà la morte nel campo di Mauthausen) al dopoguerra, quando Hilde con il figlio vivono nella Ddr. Giudice e poi ministro della Giustizia, Hilde dedicherà la sua vita alla caccia agli ex-nazisti. Sulla stampa della Germania Ovest, dove invece i nazisti avevano subito trovato posti di prestigio, fu chiamata «la jena rossa». Attraverso le vite dei Benjamin, l’autore, il giornalista Uwe-Karsten Heye, racconta la storia tedesca, da Weimar agli orrori del regime hitleriano, dalle due Germanie divise fino ai giorni nostri.
«La notte del 9 novembre 1989 mi trovavo sulla Bornholmer Brücke. La notte in cui è stato aperto il Muro è stata una notte meravigliosa» ci dice Heye. «Anche se nei fatti è stata una sorta di Anschluss della Ddr alla Repubblica Federale, io continuo a essere molto contento della Riunificazione. Certo, all’inizio non si riconobbe quello che tante persone dell’Est avevano fatto, o sperato. Ora, comunque, si comincia a guardare con occhio più lucido e giusto alla Ddr e questo rende lentamente possibile “che cresca insieme ciò che insieme deve stare” come diceva Willy Brandt».
Come giudica la decisione di Angela Merkel di accogliere i migranti siriani? «Con l’arrivo in massa dei profughi è la prima volta che Merkel mostra un suo profilo politico. Riguardo al dibattito se la nave è piena o piuttosto mezza vuota lei ha risposto con la frase “Ce la possiamo fare”, una frase che non ha trovato solo consensi, ma che anzi le ha fatto perdere il primo posto tra i politici più popolari. C’è solo da sperare che la cancelliera non retroceda dalla sua posizione. Per molti osservatori è stato un fatto eccezionale: è la prima volta in cui la Merkel ha preso una decisione senza aspettare i sondaggi, senza cioè sapere prima in che direzione va la maggioranza».
Corriere 10.10.15
Gray, l’architetta che sfidò Le Corbusier
Scontrosa e indipendente. Il film che racconta la sua vita apre il Milano Design Film Festival
di Roberta Scorranese


Nel 1901, a Praga, Franz Kafka comincia a studiare chimica; a Stoccarda, Robert Musil si annoia a morte nell’insegnare ingegneria meccanica e, febbrile, lavora al Törless ; nei vicoli di Parigi invece una ragazza irlandese, sottile e bruna, scortica i legni con l’acido, mescola arsenico e bile di maiale, sbadiglia davanti ai corteggiatori e guarda le belle donne, soprattutto le ballerine flessuose che si riversano nella capitale francese nella frenesia di fine secolo.
Lei si chiama Eileen Gray, ha ventitré anni e non sa ancora bene che cosa diventare, ma studia sodo e vuole imparare a fare le lacche che ha visto nella bottega del giapponese Seizo Sugawara. Non solo nere, però: le vuole rosa, verdi, blu. Mescola di tutto: aceto di riso e solfato di ferro. Prepara anche delle sedie in legno, linee dritte.
Lavora senza fretta: fa cose per il giro di amici che l’hanno accolta (la scultrice Kathleen Bruce, Gertrude Stein), non va alle cene, non sgomita come facevano Picasso e gli altri. Il design, all’epoca, era una faccenda (accademica) per maschi, al massimo potevi fare la decoratrice. Ma Gray fa spallucce: vestita di sete sgargianti suda al tavolo di lavoro. Cesella avori e amori.
Questa «vita dedicata al progetto» apre il Milano Design Film Festival, raccontata nel film (15-16 ottobre all’Anteo) The price of desire di Mary McGuckian. Orla Brady veste i panni di Eileen, Alanis Morissette quelli di Damia, la bellissima danzatrice che Gray amò per anni. Perché questa è una storia di progetti e disamori, dismemorie e costruzioni. Eileen pian piano diventa famosa: da James Joyce al ricco conte de Noailles, tutti vogliono un suo pezzo in casa. Fa sedie, lacche, tavolini, disegna tappeti astratti. Diventa sempre più scontrosa, lenta. Poi realizza un appartamento completo. Pareti laccate, essenzialità ricercata nei colori chiarissimi.
È felice? Forse. Di certo, è amata dalle sue donne e dai suoi (rari) uomini. Tra questi, un rumeno ramingo e senza un quattrino, l’architetto Jean Badovici. Lui la presenta a Fernand Léger e, soprattutto, a Le Corbusier. Nel film il ruolo del maestro svizzero è affidato al volto mobile e sornione di Vincent Perez; nella realtà, Le Corbu la ammira molto. Gli piace quella inattualità che rende belle pure le donne poco belle. Era così fuori moda, Gray. Anche se il tempo ha voluto restituirci il suo ricordo in un ritratto ai limiti del buon gusto, il viso avvolto da piume di pavone. I suoi letti fatti di lacca e pelliccia, le sue lampade-scultura conservano una miracolosa eleganza.
Badovici la incoraggia. Lei ha 48 anni. Tira un lungo sospiro e comincia a progettare una casa. Una casa vera, tutta sua. Immaginate: Europa, 1926, una donna che fa i sopralluoghi (sceglie un posto assurdo, la scogliera di Roquebrune-Cap-Martin, in Costa Azzurra), che armeggia con i progetti, che calcola pendenze e dislivelli. Ci lavora con ogni muscolo. Si trasferisce nelle vicinanze. Nuota e disegna, visita e corregge. Dà un nome alla villa, E.1027. «E» sta per Eileen, 10 per la«J» di Jean (nell’alfabeto), 2 è la «B» di Badovici, 7 la «G» di Gray. Toponomastica complicata, ma ne scaturisce un lavoro prodigioso: un cubo candido che sorveglia il mare trasparente, un po’ nave un po’ frutto spontaneo del terreno. Lei disegna ogni cosa all’interno. Tutto è bianco, sobrio, angoloso. Qui riporta le sue radici irlandesi, finalmente lontane dal clangore parigino. Quella casa è lei, è Gray. Poi, nel 1938, il dramma.
Jean invita Le Corbusier quando Eileen non c’è. Il maestro non resiste e dipinge otto murales senza dirle nulla. Mette la sua ingombrante firma su quel bianco manifesto. Si fa fotografare mentre deturpa i muri, è completamente nudo. Eileen, dopo quei murali, non tornerà più alla villa. Che andrà in rovina, tra speculazioni e proprietari viziosi. Oggi la Francia l’ha ristrutturata. Ma il ricordo di Gray è perduto in un altrove.
Repubblica 10.10.15
Quel premio alla medicina cinese
di Giuseppe Novelli


CARO direttore, dopo aver letto l’articolo intitolato “Il rimedio cinese” a firma di Giampaolo Visetti, vorrei condividere con lei ed i suoi lettori alcune riflessioni sul significato del premio Nobel assegnato a Youyou Tu e sui rapporti tra medicina tradizionale cinese e medicina occidentale. Visetti definisce più volte la scopritrice dell’artemisina “maga”, ma si tratta di una ricercatrice con competenze chimiche, che ha usato un metodo sperimentale per identificare il principio attivo della pianta e, senza i laboratori delle multinazionali occidentali del farmaco, non sarebbe mai arrivato ai malati salvando milioni di vite. Si dice che mentre il Nobel premierebbe la medicina tradizionale, i cinesi fuggano da questa medicina: certo che l’abbandonano, dato che i farmaci occidentali sono più efficaci e rapidi dei trattamenti ispirati da credenze metafisiche più che da prove scientifiche. Infine egli scrive che “la maga delle erbe che per decenni ha battuto i villaggi rurali, trascrivendo a mano le ricette della medicina cinese tramandate oralmente dagli anziani, è così ascesa all’istante ad anti-simbolo globale di una scienza umana consegnata alla speculazione finanziaria, alla corruzione politica e al dominio delle analisi hi-tech”. È una lettura francamente poco condivisibile: non dovremmo dimenticare che l’aspettativa di vita oltre gli ottanta anni, i bambini che non muoiono più di malattie infettive, e non più malati e malnutriti, etc. sono conquiste della medicina occidentale.
La medicina moderna è oggi assai lontana da ciò che gli anziani cinesi tramandavano oralmente. Risponde esclusivamente al rigore scientifico della sperimentazione. I farmaci rappresentano prodotti industriali che devono soddisfare i requisiti posti dalla società per garantirne la salute. Per questa ragione devono essere efficaci su ogni persona e, soprattutto, non devono provocare eventi ostili o esporre a rischi diversi da quelli della patologia in atto. La disponibilità oggi delle conoscenze in grado di riconoscere le caratteristiche genomiche di ciascun paziente rende più efficace il processo di scoperta di nuovi farmaci, di personalizzare la terapia di base e di offrire opzioni terapeutiche prima impensabili. Questo è l’orizzonte della medicina di precisione.
L’artemisina ha dato speranze e salvato dalla malaria milioni di persone, ma il suo potere curativo rischia di dimostrarsi inefficace nella continua lotta per la sopravvivenza tra l’ospite (l’uomo) e il parassita. I parassiti inventano continuamente nuove “armi” per attaccare i propri ospiti che potranno proteggersi soltanto con nuove “strategie difensive” prodotte ad arte dalla medicina di precisione. I parassiti costruiranno sempre nuove “chiavi” e gli ospiti dovranno continuamente cambiare la “serratura”. Già da oggi la scienza si sta impegnando per realizzare l’unica serratura inviolabile: quella del vaccino contro la malaria ottenuto attraverso le tecniche dell’ingegneria genetica.
Rettore Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Riferito a Youyou Tu, l’aggettivo “maga” è chiaramente elogiativo: sottolinea la sua straordinaria abilità, le eccezionali qualità nel dominare gli elementi, accezione etimologica. La sua vita di scienziata, in equilibrio tra passato e futuro, è davvero una magia. Che la medicina si sia spesso piegata alla speculazione finanziaria, alla corruzione politica e al dominio (interessato) delle analisi hi-tech è un fatto, non una lettura ideologica: prima lo hanno dimostrato i processi, ora lo affermano anche i governi. I malati ne subiscono quotidianamente le conseguenze.
Repubblica 10.10.15
Mille miliardi in fuga dalla Cina in crisi e dai Paesi emergenti
I Fondi internazionali temono una serie di default in Asia e America Latina e accettano rendimenti minimi, ma sicuri, su dollaro e euro Bce e Fed chiamate a evitare la tempesta finanziaria
di Federico Rampini


NEW YORK «Questa è una situazione che non perdona. In un clima economico così, guai a chi sbaglia». L’avvertimento è di Mark Carney, il governatore della Banca d’Inghilterra. Rende bene l’atmosfera che regna a Lima, al meeting del Fmi. Banchieri centrali e ministri finanziari osservano lo stato dell’economia mondiale e quel che vedono non è un bello spettacolo. Si chiude un’èra che per alcuni – gli Stati Uniti – è stata post-crisi: una delle crescite più lunghe del dopoguerra, sei anni consecutivi. Si chiude anche – per gran parte del mondo – l’epoca della moneta facile, legata alla massiccia creazione di liquidità dalla Federal Reserve. E si chiude un boom della Cina durato un quarto di secolo, a cui subentra una crescita meno formidabile e con elementi di fragilità. E’ l’inizio di una fase nuova, dove... «guai a chi fa il primo passo falso», come dice Carney.
In realtà i passi falsi sono già cominciati. Basta guardare al Brasile, che un tempo era una star degli investitori internazionali e oggi si avvita nella classica spirale: caduta delle esportazioni, recessione, crollo della valuta, scandali per corruzione, instabilità politica. Dietro il Brasile c’è una coda di ex-stelle. Anche qui siamo ad una svolta storica, di quelle che si misurano sui tempi lunghi. Era dal 1988 che i paesi emergenti non subivano una fuga di capitali come quella che sta avvenendo ora. Nell’ultimo decennio erano stati loro a salvare il mondo, trainando la crescita. Adesso il Fmi stima che nel corso del 2015 mille miliardi di dollari avranno “evacuato” le economie emergenti per tornare verso lidi più stabili (se non proprio sicuri). Un segnale di questa paura viene dal tasso zero sui Buoni del Tesoro americani a tre mesi. Non è una novità assoluta visto che era già accaduto coi Bund tedeschi. Ma è sconcertante che accada negli Stati Uniti visto che in teoria siamo alla vigilia di un rialzo dei tassi da parte della Fed, che dovrebbe trasmettersi ad altri rendimenti in dollari. Se ci sono investitori disposti a comprare Treasury Bond che non rendono proprio nulla, vuol dire che li considerano come un materasso di casa, o una cassetta di sicurezza dove mettere capitali alla vigilia di scossoni gravi. Un altro dato emerso a Lima: i paesi emergenti hanno debiti in eccesso per 3.000 miliardi di dollari. A differenza delle ultime due ondate di default, quella degli anni Ottanta in America latina e quella del 1997 nel sudest asiatico, stavolta l’iperindebitamento affligge più il settore privato che gli Stati sovrani. Questo non significa che sia meno grave. Se cominciano a fallire a ripetizione grandi conglomerati privati, le ripercussioni si sentiranno ovunque. A cominciare dalle finanze pubbliche di quella parte del mondo. Nella sola Cina, sempre secondo il Fmi, il 25% dei debiti delle grandi aziende è a rischio. Ma se comincia il default di qualche grande azienda di Stato, il prezzo finirà anche sui conti pubblici. Idem in Brasile, Russia, e così via. Una delle dietrologie per spiegare l’attivismo militare di Vladimir Putin in Siria è che il presidente russo abbia l’urgenza di distogliere l’attenzione dei suoi concittadini dai disastri che si preparano nell’economia domestica. C’è poi il cerchio largo degli effetti concentrici che i default nei paesi emergenti avrebbero sulle nostre Borse. Molti fondi comuni d’investimento americani ed europei si sono sovraesposti con titoli derivati nelle piazze finanziarie più esotiche, quando offrivano performance da sogno.
La transizione cinese ha attirato molta attenzione da parte del Fmi. La direttrice generale, Christine Lagarde, sottolinea il positivo: «La Cina si evolve, sta trasformandosi da un’economia che era dominata dagli investimenti, ad una trainata dai consumi. E’ una transizione voluta. Ci saranno turbolenze, incidenti di percorso lungo questa strada, ma il cambiamento è legittimo e la direzione di marcia è quella giusta». Tutto sta a capire quanto forti saranno le turbolenze. E poi trarre tutte le conseguenze dalla transizione cinese non sarà facile, per esempio per quei paesi come Germania e Italia che ancora affidano prevalentemente all’export il ruolo di tirarli fuori dalla crisi. Tra le banche centrali, l’onere si è spostato sulla Bce. La Fed può anche pronunciare il fatidico “missione compiuta”, con una disoccupazione Usa scesa al 5%, e iniziare cautamente a sfiorare il pedale del freno (rialzo dei tassi). L’unica zona del mondo dove la crisi del 2008-2009 non è stata seguita da una vera, robusta e durevole ripresa, è il Vecchio continente. La Bce iniziò solo nel marzo di quest’anno a comprare bond al ritmo di 60 miliardi di euro al mese. Gli effetti sull’economia reale sono ancora modesti. Mario Draghi ha ripetuto a Lima che è pronto a fare di più. Lo hanno lasciato solo, però: le politiche di bilancio dell’eurozona lavorano contro di lui, con l’austerity che in parte annulla gli effetti della politica monetaria. Tant’è, l’eurozona continua a sentire poderosi venti di deflazione, mentre se l’economia fosse sana, l’attuale creazione di liquidità dovrebbe essere salutata da qualche germoglio d’inflazione.
Repubblica 10.10.15
Quei fantasmi sulla Spianata
Il luogo è di nuovo al centro della contesa. La vecchia ferita sanguina ancora ed è esposta al pericolo di un contagio in una regione piena di fanatismi
La moschea di Al Aqsa l’ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen
di Bernardo Valli


ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo.
Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito. È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione.
Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia. Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco.
Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore. La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione.
I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione.
Corriere 10.10.15
«I bambini non escono più da soli. Non ci fidiamo gli uni degli altri» Disoccupazione I ragazzi si sentono oppressi e non trovano lavoro. La frustrazione li spinge in strada
Lo scrittore Khaled Diab: «Pericoloso il populismo di chi chiama alle armi»
di Davide Frattini


GERUSALEMME Le immagini lo mostrano con la camicia azzurra che indossa per andare in ufficio e il fucile mitragliatore a tracolla. Il sindaco Nir Barkat ha servito sei anni nella Brigata paracadutisti (quella che ha avuto come primo comandante Ariel Sharon), ne fa sfoggio in campagna elettorale e lo esibisce adesso che la sua città sembra tornata in guerra. Pattuglia le strade la notte, invita gli abitanti ebrei a fare lo stesso. «Chi possiede un’arma deve sempre portarla con sé — ha commentato — per fortuna in questo Paese ci sono molti militari e riservisti ben addestrati».
L’appello di Barkat spaventa lo scrittore Khaled Diab, di origini egiziane, che ha vissuto tra l’Europa e il Medio Oriente e da un paio d’anni abita a Gerusalemme. Lo spaventa la chiamata alle armi perché gli sembra «pericoloso populismo». Ammette che la paura è cresciuta: «Mio figlio ha sei anni, frequenta la scuola francese e il preside ha vietato a tutti i bambini, anche a quelli più grandi, di tornare a casa da soli. Durante l’intervallo non possono più uscire».
Blindati come gli accessi alla Città Vecchia dove la polizia ha installato i metal detector nella speranza di fermare i possibili attentatori palestinesi, gli ultimi attacchi sono stati tutti perpetrati con i coltelli. «Nella Città Vecchia non andiamo più — spiega Diab — perché il rischio di rimanere coinvolti negli scontri è troppo alto».
Come ha raccontato sul Corriere , per la sua famiglia il pericolo è doppio: «E se un estremista ebreo ci sente parlare arabo? E se un estremista palestinese ci piglia per ebrei, un padre di carnagione scura e il suo figlio biondo?». È «dall’estate dell’odio che il senso di sicurezza e il residuo di fiducia reciproca sono stati azzerati». Le violenze vanno avanti da oltre un anno, dal rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, dall’omicidio per vendetta di un adolescente palestinese, dai sessanta giorni di guerra con Hamas a Gaza.
«Gli analisti si chiedono se battezzarla terza intifada. Di certo è una rivolta che non si placa, anche se per ora non sembra essere organizzata da leader. Un elemento nuovo rispetto al passato è rappresentato dalle rappresaglie dei coloni ebrei che si fanno le leggi da soli».
Nel suo libro «Intimate Enemies» ricorda e cataloga le passioni comuni dei palestinesi e degli israeliani ma «le due società hanno visto uno spostamento dal nazionalismo secolare e di sinistra verso il populismo di destra, con forti connotazioni religiose».
«Il presidente Abu Mazen cerca di barcamenarsi. Usa una retorica molto bellicosa sulla questione della moschea Al Aqsa. Lo fa per zittire le critiche interne, quelle di chi lo considera troppo debole o lo accusa di essere un dittatore che non ha mai indetto le nuove elezioni. Deve anche contrastare la concorrenza di Hamas: pure gli islamisti sfruttano la Spianata per lotte politiche tra i palestinesi, vogliono dimostrare che Abu Mazen non è in grado di proteggere i luoghi sacri».
David Rosenberg sul quotidiano israeliano Haaretz attribuisce parte della rabbia araba alla stagnazione economica: la crescita in Cisgiordania è zero, le prospettive di un rilancio ancora peggiori.
«I ragazzi si sentono oppressi, trovare una casa è impossibile, mancano gli appartamenti o sono troppo cari perché Israele non concede i permessi per costruire. La disoccupazione è alta soprattutto tra i giovani, così la frustrazione li spinge a scendere in strada».
Repubblica 10.10.15
Sharon Appelfeld.
Per l’intellettuale israeliano gli scontri possono ancora essere fermati
“La sola possibilità contro la violenza è tornare al dialogo”
intervista di Guido Andruetto


«Purtroppo quello che sta accadendo non è nulla di nuovo, sono fatti drammatici che si ripetono ciclicamente ogni due o tre anni. Se mi si chiede qual è il mio giudizio su questa nuova ondata di violenza, io per prima cosa dico che non è nuova: è qualcosa che ci accompagna da troppo tempo». Non si sente volare una mosca nella casa di Aharon Appelfeld a Gerusalemme. Niente tv o radio in sottofondo, nessun computer collegato, il cellulare è spento dal mattino. Il vecchio fax l’ha acceso solo per spedire all’editore italiano Guanda alcune note sul suo prossimo libro, Tre lezioni sulla Shoah. Eppure l’eco dei drammatici scontri che stanno insanguinando la striscia di Gaza ed Israele, è arrivata nella stanza piena di libri.
Appelfeld, che cosa la preoccupa di più del clima di queste ore?
«Sono allarmato per questa recrudescenza di atti violenti, che a me sembrano destinati a reiterarsi a oltranza, ma mi sento anche di dire che le cose possono comunque migliorare, che c’è lo spazio per cambiare la situazione. Sono ottimista nonostante quello che sta succedendo ».
Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha invocato altri scontri per liberare Gerusalemme. Quali segnali di continuità nota con le precedenti rivolte?
«Non penso che si debba parlare di un ritorno dell’Intifada. E’ una visione errata. Le insurrezioni cui stiamo assistendo in queste ore non hanno certamente la spinta che aveva l’Intifada. Il fuoco di oggi non è forte come lo era in passato».
E’ convinto quindi che sia più facile domarlo?
«Esattamente, si può riuscire a controllare la situazione. Ed è quello che mi auguro accada al più presto. Credo che il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen potrebbero dare un contributo fondamentale, insieme, per spegnere o quantomeno per cercare di moderare l’entità di questo ennesimo focolaio di violenza ».
Qual è la sua reazione di fronte all’uccisione di ragazzi palestinesi e agli attacchi contro cittadini israeliani?
«È una violenza che mi addolora profondamente. Mi fa male constatare che non viviamo in pace. E sono sconcertato anche perchè quei giovani non tiravano bombe ma pietre. Le pietre possono essere pericolose ma restano pietre. Non sono bombe».
Quale via di uscita vede, allora?
«Dobbiamo trovare dentro di noi, la forza e la volontà per il cambiamento e per migliorare le nostre vite».
Da dove si dovrebbe cominciare?
«Mi piace pensare che si debba volare alto. Il mio sogno è la pace, bisogna aspirare ad essa, lavorando perché le scuole siano un luogo in cui stare insieme, perché si possa pregare insieme pur avendo fedi differenti, perché si possa vivere insieme serenamente. Tutti hanno bisogno di queste cose».
Israeliani e palestinesi, però, non le sembrano sempre più lontani?
«Non bisogna perdere la speranza di recuperare il dialogo. Nonostante tutto dobbiamo sforzarci per alimentarlo in tutte le forme possibili».
Aharon Appelfeld, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah, è lo scrittore autore di romanzi come “Un’intera vita” e “Il ragazzo che voleva dormire”
Repubblica 10.10.15
Suad Amiry.
La scrittrice racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace
“Per il mio popolo scendere in strada è l’unica soluzione”
La vita dei ragazzi negli ultimi anni è peggiorata, è sempre più difficile
La nostra è una situazione simile all’apartheid in Sudafrica
intervista di Francesca Caferri

Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori… «Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
Suad Amiry, 64 anni, è l’architetta e scrittrice palestinese autrice di romanzi come “Sharon e mia suocera” e “Murad Murad”
Repubblica 10.10.15
Il luogo è di nuovo al centro della contesa. La vecchia ferita sanguina ancora ed è esposta al pericolo di un contagio in una regione piena di fanatismi
La moschea di Al Aqsa l’ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen
di Bernardo Valli


ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo.
Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito. È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione.
Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia. Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco.
Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore. La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione.
I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione.