sabato 28 novembre 2015

IN VIA ECCEZIONALE OGGI I TESTI DI TUTTI GLI ARTICOLI SEGNALATI E NON DIVERSAMENTE RAGGIUNGIBILI SONO RACCOLTI IN QUESTA PAGINA DI MISCELLANEA, QUI REPERIBILI NELLO STESSO ORDINE NEL QUALE SONO ELENCATI IN PRIMO PIANO SU "SEGNALAZIONI"

Repubblica 28.11.15Quel processo in Vaticano
risponde Corrado Augias

GENTILE Augias, confesso una mia debolezza, seguo distrattamente la vicenda del processo detto “Vatileaks II” a carico di religiosi, una donna e due giornalisti. L’iter e l’esito dipendono da un Codice che non conosco, ma se è già prevista la conclusione prima dell’8 dicembre (Immacolata Concezione e inizio del Giubileo), si può considerare il processo una specie di bomba a orologeria a fin di bene (o un buttare i soldi dalla finestra, pochi comunque). La libertà di stampa non mi pare in pericolo. I libri pubblicati sono in libera vendita (forse anche in Vaticano). La difesa dei due giornalisti è stata lesa in modo inaccettabile? Credo di sì, ma che cambia? Per una pena detentiva e/o pecuniaria occorrerebbe un’estradizione o una richiesta di risarcimento.
Impensabile che la Repubblica italiana acconsenta. Dice: ma si dimostra che lo Stato Vaticano è retto da un potere assoluto. “E nun ce lo sapevo?”, direbbe Pasquino. D’altronde, come ha dichiarato il portavoce padre Lombardi, erano “cose già note al Papa”.
Giovanni Moschini — g.moschini@yahoo.it
IL PUNTO di vista del signor Moschini è una possibile spiegazione del perché si sono dovuti strattonare rudemente i politici per fargli esprimere un po’ di solidarietà ai due giornalisti incriminati. È come se il processo non fosse sentito come una vera violazione di garanzie fondamentali, piuttosto come una blanda formalità. Sui processi vaticani e sulle inchieste che riguardano i fatti di quello strano piccolo Stato, pende una specie di ambivalenza: la cappa sinistra di tempi andati, di diritti negati e, insieme, il pensiero latente che poi tutto s’aggiusta. Non è così, ovviamente. Ricordo che la Giustizia vaticana, dopo alcuni mesi di indagini sul triplice omicidio di una donna e due guardie svizzere, una delle quali il colonnello comandante, arrivò, vedi caso, alle stesse conclusioni anticipate dal portavoce quattro ore dopo i fatti. In queste circostanze si misura l’anacronismo d’uno Stato assoluto nel quale la pena di morte è stata abolita solo nel 1969 poi rimossa completamente dalla legge fondamentale solo nel 2001 (Giovanni Paolo II). Il professor Carlo Raggi (simoenta@gmail.com) mi scrive: «L’intelaiatura costituzionale della Santa Sede è di ascendenza feudale, tanto è vero che, dal punto di vista del diritto pubblico, è classificabile come monarchia assoluta elettiva, priva di suffragio universale vale a dire di democrazia. Per quanto riguarda la Giustizia, bisogna riconoscere a Nuzzi e Fittipaldi una dose di coraggio nel presenziare alle udienze del processo; nel caso — per la verità improbabile — di un loro arresto in aula, non potrebbero ricorrere né alla Suprema corte di giustizia europea né al Tribunale penale internazionale dell’Aja. Infatti la Santa Sede, non ha sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non aderisce alle Nazioni Unite né fa parte della Comunità Europea». Quale mole di lavoro ha davanti papa Francesco. Tra l’altro: chissà chi gli ha suggerito di mettere nella commissione per il riordino degli affari economici una tipetta come Francesca Immacolata Chaouqui, povero papa.

La Stampa 28.11.15
Giubileo, è già allarme trasporti
Periferie senza bus da 6 giorni
Roma, protesta a oltranza degli autisti che da quattro mesi non ricevono lo stipendio
di Giacomo Galeazzi

Seicentomila romani senza bus. Da sei giorni un quinto del territorio della capitale è tagliato fuori. Un black out pressoché totale nel trasporto pubblico a una settimana e mezzo dall’inizio dell’Anno Santo e con 35 milioni di pellegrini in arrivo a Roma. L’autorità di garanzia per gli scioperi lancia l’allarme.
È ormai una corsa contro il tempo per scongiurare la paralisi dell’inaugurazione giubilare l’8 dicembre.
Intere borgate isolate
A lasciare a piedi le periferie romane è lo sciopero degli autisti della Tpl che non ricevono lo stipendio da mesi e che perciò hanno bloccato la circolazione. Nel mirino della mobilitazione proprio le borgate e i quartieri dove si trovano decine di case per le vacanze e ostelli religiosi, cioè quelle strutture ricettive che garantiscono ai turisti accoglienza a tariffa economica. Il blocco dei bus andrà avanti a oltranza, senza nessun preavviso e al di fuori di ogni mediazione sindacale. Protesta selvaggia, cittadini appiedati. La paralisi nel trasporto che taglia fuori le periferie dalla città eterna sono per il prefetto Franco Gabrielli «l’emergenza delle emergenze». Il commissario Francesco Paolo Tronca si è impegnato ad agevolare il pagamento dei crediti da parte del comune, mentre il garante per gli scioperi, Roberto Alesse prepara l’estensione della moratoria per il Giubileo anche ai sindacati che non hanno firmato al ministero delle Infrastrutture l’intesa anti-scioperi. La società Tpl gestisce un’ampia parte delle linee di bus periferiche . Secondo i dati dell’Agenzia per la mobilità della capitale, da sei giorni risultano in circolazione solo 12 collegamenti sui 103. Oltre 20%della città isolate. I bus restano parcheggiati nei depositi. Al deposito della Maglianella la tensione alle stelle. Ieri sera il comune ha liquidato 12 milioni di euro per il pagamento degli stipendi. Non basta.
Ritardi record e linee ferme
Un anno e mezzo di retribuzioni a singhiozzo dei 1800 autisti ha messo ora fuori gioco quartieri popolosi come Casalotti, Selva Candida, Palmarola, Ottavia, Lucchina, Monte Mario Alta. Tra la stazione ferroviaria Ottavia e Palmarola quattro km a piedi per studenti e lavoratori. Stessa sorte per le zone servite dal deposito di via Raffaele Costi in zona Nomentana: out snodi nevralgici come Casilina, Tiburtina Prenestina. «Il commissario Tronca mi ha detto che modulerà il piano bus su due tempistiche: a dicembre la versione provvisoria e a gennaio quella definitiva», getta acqua sul fuoco Gabrielli. Primavalle, Torrevecchia, Val Melaina, Fidene, Serpentara, Casal Boccone, Conca d’Oro, Tufello, Bufalotta.
Si estende la mappa del disagio coi pendolari sul piede di guerra. «E’ una penalizzazione ulteriore per noi che già abitiamo in zone degradate», lamenta Mario Giordani, infermiere in servizio a un’ora e mezzo di tragitto da casa. «E’ incivile uscire la mattina, aspettare un’ora finché non passa una vettura e poi non avere la certezza di trovarne un’altra per tornare la sera», aggiunge Mara Lombardi. Accanto a lei una badante moldava si infuria sotto la pensilina affollata di persone in attesa: «Ho pagato 250 euro di abbonamento annuale e da una settimana mi tocca spendere per il taxi tutto quello che guadagno con l’assistenza ad un’anziana perché se non mi presento, perdo il lavoro». Nelle borgate la protesta accomuna italiani e stranieri. «Non riesco ad arrivare in fabbrica, ieri ho dovuto chiedere le ferie al titolare dell’azienda- allarga le braccia un operaio egiziano».

La Stampa 28.11.15
Shalabayeva, la giudice disse “Mi avrebbero schiacciata”
Le intercettazioni della Procura di Perugia. Ora Roma trasferirà le sue carte
di Guido Ruotolo

Due anni fa. Anzi poco più. Tra il 29 e il 31 maggio del 2013, tra Casalpalocco, Roma e Ponte Galeria per la procura di Perugia si è consumato un «sequestro di Stato». I dirigenti della Squadra Mobile e dell’Ufficio Immigrazione della questura di Roma, prelevarono Alma Shalabayeva e sua figlia Alua, le imbarcarono su un volo privato e le rispedirono a casa.
Un’operazione illegale, che i funzionari e dirigenti della questura di Roma fecero in combutta con i vertici dell’ambasciata del Kazakhistan a Roma (Nurlan Khassen, Andrian Yelemessov e Yerzhan Yessirkepov).
Dalla lettura degli avvisi di convocazione degli indagati per gli interrogatori, la Procura di Perugia che indaga per competenza, essendo coinvolta nelle indagini anche un giudice di pace, Stefania Lavore, non spiega il movente, non indica le ragioni del “tradimento” dei servitori dello Stato italiano. Perché il dirigente dell’Ufficio Immigrazione, Maurizio Improta (oggi questore di Rimini), il capo della Mobile, Renato Cortese (oggi direttore dello Sco), o lo stesso giudice di pace avrebbero messo in atto un disegno criminale?
La procura di Roma che aveva un fascicolo aperto (il procuratore Giuseppe Pignatone a questo punto manderà gli atti a Perugia), finora aveva individuato reati di abuso e falso solo per i dirigenti e funzionari dell’Ufficio Immigrazione, ritenendo probabilmente una «forzatura anomala» l’accelerazione della pratica di fermo, identificazione, trattenimento ed espulsione della donna e di sua figlia. Abuso, falso. Non sequestro di persona. E’ vero che la procura di Perugia ha indagato per più tempo anche con le intercettazioni. Il giudice di pace Stefania Lavore, ai suoi interlocutori al telefono avrebbe detto «mi avrebbero schiacciato», «ho fatto pippa», «non ho sputtanato nessuno». Frasi che gli inquirenti di Perugia interpretano a conferma della sua consapevolezza che convalidando il trattenimento al Cie, Alma Shalabayeva sarebbe stata rimpatriata con la forza.
La moglie del dissente kazako Ablyazov Mukhtar, nonostante avesse dichiarato di temere per la sua vita, di essere la moglie di un rifugiato politico (in Gran Bretagna), di voler chiedere anche lei l’asilo politico, fu prima trattenuta al Cie di Ponte Galeria e poi imbarcata con la figlia di 6 anni su un volo privato e spedita ad Astana.
La svolta nelle indagini di Perugia arriva dopo che la Cassazione, il 30 luglio del 2014 aveva annullato la convalida del trattenimento della donna. «La contrazione dei tempi di rimpatrio - avevano scritto i magistrati della Cassazione - e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della ricorrente dall’irruzione (nella villetta di Casal Palocco, ndr) alla partenza, hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiede l’asilo politico».
Ecco, le carte dell’accusa della Procura di Perugia si basano sostanzialmente sulle dichiarazioni di Alma Shalabayeva. I suoi avvocati non avevano mai presentato una domanda di asilo politico per la donna.
Nelle motivazioni del provvedimento della Cassazione scrivono i giudici che «l’irruzione notturna, la conoscenza effettiva della identità della ricorrente, la validità ed efficacia anche del passaporto diplomatico centroafricano oltre al possesso di ben due titoli di soggiorno in corso di validità, uniti alla oggettiva mancanza di condizioni linguistiche e temporali per poter chiarire in modo inequivoco l’effettiva condizione di soggiorno in Italia da parte della ricorrente», tutto ciò rende illegittimo il trasferimento della donna e di sua figlia. Dunque, per la procura di Perugia c’è forse un mandante politico dietro la gestione dell’affare Shalabayeva? Un ministro, il governo? Chi ha dato indicazioni ad Improta o Cortese per affrontare in questo modo la vicenda? O per caso i servitori dello Stato sono stati corrotti? E da chi?
A questo punto le strade delle indagini delle procure di Perugia e Roma si sono fortemente divaricate. Tocca a Perugia dimostrare l’intrigo internazionale dietro un comportamento anomalo di espulsione della moglie di un rifugiato politico e di sua figlia.

La Stampa 28.11.15
«I kazaki non possono aver fatto tutto da soli»
7 domande ad Alma Shalabayeva
di Ilario Lombardo

Per prima cosa Alma Shalabayeva chiede di non rivelare troppo della sua vita in Italia, per esempio dove vanno a scuola i figli. Perché? Le domandiamo, mentre è accanto ai suoi avvocati Astolfo e Alessio Di Amato: «Perché ho ancora paura dei kazaki».
Ci sono otto indagati, con l’accusa di averla sequestrata. Pensa che manchi qualcuno?
«Certamente la deportazione mia e di mia figlia è stata illegale ed è stata gestita in un tempo incredibilmente breve senza aver mai ascoltato quello che avevo da dire. Nonostante le mie continue richieste di asilo politico».
Ma crede che, nella gerarchia di comando, ci siano responsabilità anche del Viminale?
«Non lo so. E’ sicuro però che il regime kazako non si è mosso da solo. Io e mia figlia siamo state sequestrate e poi deportate nonostante avessimo un permesso di residenza inglese e uno dell’Unione europea. Sono stata trattata come una criminale mentre i criminali erano quelli che hanno favorito con la mia espulsione».
Pensa ci sia stata superficialità o complicità da parte delle autorità italiane?
«Sono sicura che il ruolo principale lo abbiano giocato i diplomatici kazaki. Il Kazakistan funziona come una vera e propria organizzazione di rapimenti. Ma qualcosa è successo, come sembrano dimostrare anche le carte dell’inchiesta: la polizia italiana avrebbe fornito le copie della fotografia del mio passaporto, necessarie per i documenti di espatrio. Questo, secondo i miei avvocati, proverebbe un rapporto privilegiato tra poliziotti e diplomatici kazaki. Ma sarebbe anche un reato, mi dicono: trattamento illecito di dati personali…».
Cosa si aspetta dall’ inchiesta?
«Verità e giustizia. Io ho fiducia nella magistratura italiana e sono certa che ogni aspetto di questa brutta vicenda verrà a galla. Voglio ringraziare la procura di Perugia, perché ha preso seriamente in considerazione la mia denuncia e ha condotto un’inchiesta autonoma, senza condizionamenti».
Lei vive a Roma, perché è tornata in Italia?
«Perché qui mi sento protetta. Questo è un Paese con un giornalismo indipendente e un indipendente sistema di giustizia. E’ stato grazie a una donna italiana, Emma Bonino, che sono sopravvissuta. Non la ringrazierò mai abbastanza. Ha salvato la mia vita e quella di mia figlia spingendo a una pressione internazionale tale che il regime kazako mi ha dovuto lasciar andare».
Come passa le sue giornate qui a Roma?
«Aiuto mio marito, Mukhtar Ablyazov, nella sua battaglia contro il regime kazako che lo vuole neutralizzare. E sto per avviare un’associazione contro le dittature nel mondo».
Suo marito è un dissidente, ma è stato arrestato in Francia per appropriazione indebita.
«Sta aspettando per l’estradizione in Russia. Sono molto preoccupata. Estradarlo vorrebbe dire violare diritti umani su basi politiche. Spero che la Francia alla fine ci ripensi».

Repubblica 28.11.15
La moglie del dissidente kazako
“È stata un’azione premeditata così l’Italia ha ceduto al ricatto”
intervista di D. Aut.

ROMA Seduta nel grande salone dello studio del suo avvocato romano, Alma Shalabayeva segue gli sviluppi dell’inchiesta di Perugia e ripete come un mantra la stessa parola: «rapimento». Per la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, il blitz del 29 maggio 2013 e le 48 ore seguenti che hanno portato alla sua espulsione e a quella di sua figlia, sono stati un «rapimento, operato con coscienza e consapevolezza fin dall’inizio».
Su quali basi lancia accuse così pesanti?
«Perché fin dalla prima irruzione, ho tentato in tutti i modi di spiegare agli agenti e ai funzionari di Polizia chi fossi, chi fosse mio marito e quale fosse il mio status. Da subito ho fatto presente che Mukhtar Ablyazov era un dissidente e un perseguitato politico dal governo kazako».
Qual è stata la risposta italiana?
«Una chiusura totale. Oggi posso dire di essere stata deportata nonostante avessi un passaporto diplomatico assolutamente autentico e non mi è stata data neanche la possibilità di spiegarmi con un traduttore. In quei giorni ho assistito ad una costante violazione dei diritti umani».
Questo atteggiamento si è ripetuto anche in altre situazioni?
«Si è ripetuto ovunque, sia al Centro per l’immigrazione che nel corso dell’udienza con il giudice di pace. Quando mi trovavo al Cie di Ponte Galeria ho detto a tutte le persone presenti chi ero, che avevo un regolare passaporto e che mio marito era un perseguitato politico. E lo stesso ho fatto con gli uomini dell’ufficio immigrazione, ma nessuno mi ha dato ascolto».
Insieme a lei le autorità italiane hanno espulso anche sua figlia Alua, una bambina di sei anni. Come è andata quella vicenda?
«Il 29 maggio mia figlia era stata affidata alla zia Seraliyeva e nonostante questo la Polizia italiana l’ha condotta con l’inganno all’aeroporto di Ciampino dove siamo state imbarcate insieme. Ho chiesto in tutti i modi di non prendere Alua ma non mi hanno dato ascolto».
Nei giorni precedenti all’irruzione nella villa di Casal Palocco ha avuto sentore che qualcosa stesse per accadere?
«Notai che c’era qualcosa di strano e notai un insolito viavai fuori dalla casa. Ovviamente conoscevo bene la condizione di mio marito, ma non avrei mai immaginato che si sarebbe arrivati a questo».
Di cosa aveva paura?
«Del governo kazako. Era chiaro a tutti che io e mia figlia saremmo state trattate da Astana come due ostaggi. Gli servivamo solo per avere mio marito. E le autorità italiane si sono prestate a questo ricatto».
Dobbiamo guardare ad Astana, quindi, per capire chi sono i mandanti di questa operazione?
«Mi sembra evidente. Tutte le operazioni della vostra Polizia sono state condotte dialogando con i rappresentanti kazaki in Italia. Sono loro i primi organizzatori del mio rapimento e della mia espulsione».

La Stampa 28.11.15
Il piano Pd sulle primarie: vietate a stranieri e minori
“Serve la tessera elettorale”. La minoranza: bene, ma si limita la partecipazione
di Carlo Bertini

Non c’è solo la discesa in campo di Bassolino a impensierire gli uomini del premier, che ormai hanno scartato l’idea di provare a impedirla con una norma ad personam. Ora che si è deciso di tenere le primarie il 20 marzo in una sorta di election day in tutte le città, bisogna prevenire tutte le possibili contestazioni che nel passato hanno generato guai al Pd, come appunto fu a Napoli e in altre zone d’Italia. Non ci si può permettere caos ai seggi e ricorsi agli organi di garanzia in piena campagna elettorale, sarebbe un disastro. Dunque ci vogliono primarie regolamentate meglio e uno dei problemi è quello di evitare «che votino anche i passanti». Il Pd varerà un regolamento più stringente: affinché siano ammessi solo quelli che hanno la tessera elettorale, abilitati a votare alle urne delle amministrative. Regola già esistente, ma applicata fin qui con elasticità, perché spesso e volentieri per non respingere nessuno si è consentito a chi presentava il semplice documento di identità di esprimere la sua preferenza. Il numero due del Pd Guerini ha già accennato a queste regole rinforzate in un’intervista su queste pagine, ma cosa significa in concreto? Il tema è la partecipazione degli stranieri e dei minori e l’idea è che voti alle primarie solo chi può votare alle secondarie, cioè alle urne. Anche se in alcune realtà potrà essere consentito ai minorenni di preiscriversi. Per il resto tutti i votanti dovranno dare per forza la tessera elettorale, un recapito e la disponibilità a essere inseriti in un albo degli elettori. Non c’è alcuna voglia di «burocratizzare» le primarie con regole che peraltro andranno concordate con le coalizioni locali. Ma di mettere alcuni paletti per la trasparenza: a cento voti devono poi corrispondere cento nomi e cognomi.
Banchetti e Leopolda
Renzi ancora non ha messo mano alla pratica, anzi il premier ha chiesto una moratoria sulle candidature e sulle primarie fino a gennaio, concentrandosi per ora a tenere insieme il partito. Per questo in Direzione ha ringraziato quelli della minoranza per aver spostato di una settimana la loro convention dal 5 al 12 dicembre, pure se sarà in concomitanza con la Leopolda; che sarà divisa in tre parti, «ieri, oggi e domani». Il 5-6 dicembre il leader ha infatti chiamato a raccolta tutti i ranghi del Pd in piazza con i «banchetti» in una manifestazione cui ieri ha dato il titolo «Italia, coraggio!», per non farsi «rinchiudere nella paura, raccogliere idee e mostrare i risultati dell’azione di governo». Una manifestazione che il premier vuole più unitaria possibile, senza divisioni sul campo in una fase così delicata.
I bersaniani scalpitano
Ma la minoranza sta coi fucili puntati, «se si vota solo con la tessera elettorale va bene, ma così si riduce la partecipazione, vuol dire che non devono votare giovani ed extracomunitari», fa notare Nico Stumpo, uomo forte di Bersani e membro del tavolo che al Nazareno discute di primarie. «Per limitare le intrusioni bisogna invece impegnarsi a costruire un albo di elettori per una partecipazione consapevole, sei mesi prima, non certo a percorso avviato a un mese dalle primarie». Se ne parlerà a gennaio, che sarà un mese di fuoco per il leader, che si troverà a fare i conti con le candidature da sbloccare nelle grandi città e con la gestione di un partito molto turbolento, con malumori venuti a galla da più parti, che riaprono un tema spinoso: quello sul doppio incarico di premier e segretario, che da tempo la sinistra cavalca e che verrà al pettine quando si discuterà della bozza di riforma dello statuto che è sul tavolo di Renzi. Il quale però non ci pensa proprio a toccare un punto identitario del Pd su cui non si transige. E che sarà la bandiera di chi si candiderà contro di lui al congresso del 2017.

Corriere 28.11.15
L’incognita delle alleanze e di un partito spaventato
I fronti La nomenklatura dei democratici teme la rottamazione non degli avversari ma dell’intera classe dirigente del Nazareno
di Massimo Franco

Non è detto che sia «finita l’era del centrosinistra», come accusa il Sel di Nichi Vendola dando per scontato l’approdo di Matteo Renzi al «partito della Nazione». Certo è in crisi la sinistra radicale che offriva al Pd sponde e voti per formare governi in cambio di una netta chiusura all’elettorato moderato. I voti sono emigrati verso il M5S o l’astensione. E le cosiddette «giunte rosse» superstiti appaiono sopravvivenze del passato, non proiezioni del futuro. Il premier sta dunque cercando coalizioni alternative in vista del voto amministrativo di primavera. In Parlamento è stato relativamente facile; fuori, meno.
La forza elettorale mostrata dai Democratici alle Europee del 2014, e la loro debolezza nelle Regionali del maggio scorso vanno studiate. Danno l’idea di un partito in grado di calamitare consensi di opinione; ma incapace di consolidarli quando si tratta di interessi corposi, radicati, e gestiti da nomenklature impermeabili a cambiamenti troppo bruschi. Le convulsioni del Pd sulla scelta del candidato a sindaco di Milano dilatano le difficoltà. Il ritorno a Giuliano Pisapia o l’opzione per Giuseppe Sala non sono soltanto un dilemma tra vecchio e nuovo partito.
Le resistenze tra i Dem sulla seconda ipotesi raccontano la paura di una liquidazione non del Pd antirenziano, ma della dirigenza del Pd in quanto tale. Il laboratorio milanese fa paura al Pd perché dalle sue alchimie può emergere una nomenklatura geneticamente modificata. Quando il portavoce di Sel, Nicola Fratoianni, fa notare che Cagliari è l’unica giunta in cui il suo partito resiste, alleato con Renzi, fotografa una novità: sebbene non veda i motivi di una crisi che è in primo luogo di consensi della sinistra tradizionale. La recriminazione è più utile a mettere a fuoco la sfida che ha davanti il Pd.
È quella di creare una vera alleanza: sfida che vede Renzi in ritardo. L’immagine di una forza pigliatutto spaventa i potenziali compagni di strada. E l’erosione che il partito democratico sta subendo a sinistra non porta automaticamente elettori moderati. Per questo l’Italicum, fino a qualche mese fa un vestito su misura per la vittoria di Renzi, è diventato una camicia di forza. L’assenza di alleati, a parte il Ncd, e una singolare maestria nell’attrarre su di sé ostilità trasversali, rende il serbatoio renziano grande ma rischioso.
Non c’è più, nella società, un mondo «progressista» da mobilitare contro il «nemico» Berlusconi, oggi al tramonto. Esiste un centrodestra litigioso e raffazzonato, eppure deciso a combattere, che nell’alternativa tra Renzi e Beppe Grillo potrebbe schierarsi con quest’ultimo. Il premier ha un’«arma impropria» di grande impatto popolare come il referendum sulle riforme istituzionali. Ma deve prima vincere le elezioni di primavera. Altrimenti si ritroverà sotto le forche caudine di una pletora di avversari rinfrancati.

Il Sole 28.11.15
L’impasse sulle comunali diventa la leva per azzerare la regola del segretario-premier
Nel Pd si discute di primarie e comunali ma in realtà la mira è altrove: è separare il ruolo di segretario da quello di premier. L’obiettivo è insomma la leadership di Renzi nel partito per lasciargli solo il ruolo di premier
di Lina Palmerini

Innanzitutto va detto che Matteo Renzi è il primo a incarnare la regola del segretario-premier. Prima di lui non c’era riuscito nessuno visto che fu scritta alla nascita del Pd con Veltroni e l’ex segretario nel 2008 perse le elezioni, le perse anche Bersani nel 2013 e Letta fu premier di una stagione (che dura ancora) di larga coalizione. E dunque essendo Renzi il primo interprete e testimone di questa norma, ora deve fare i conti con chi da sempre l’ha mal digerita. La manovra è già in corso e non è nemmeno troppo coperta. Cominciano a uscire interviste e prese di posizioni ufficiali prendendo come spunto proprio la fatica del Pd renziano a disciplinare le primarie, trovare candidature credibili e soprattutto ad avere una classe politica territoriale non solo capace ma anche rinnovata. Tutto questo non c’è, è vero. E la responsabilità va addebitata innanzitutto a Renzi che ha lavorato poco come segretario illudendosi che facendo il premier potesse riuscire a tenere tutto insieme. L’illusione insomma è stata quella che con le misure economiche - dagli 80 euro di ieri all’abolizione della Tasi di oggi - potesse trainare il consenso anche senza strutture di partito, senza una spina dorsale organizzativa che corresse lungo la Penisola. Si sbagliava e si è visto. Si è visto dalla fatica alle scorse regionali e a questi primi anticipi di campagna elettorale per le comunali 2016 in cui tutto è complicato da Milano – dove non si capisce se ci sarà Sala o tornerà Pisapia – a Napoli dove è rispuntato Bassolino fino al caos di Roma.
Va detto per correttezza che tutti i mali non sono nati con Renzi. L’impasse del partito c’era già ai tempi di Bersani – e perfino prima – altrimenti non ci sarebbe stata quell’ondata di sindaci arancioni – da De Magistris a Doria a Pisapia – che spazzò via primarie e candidature del Pd bersaniane. Il fatto è che Renzi ha girato la testa rispetto a questa fragilità pagandone – lui – il prezzo più caro innanzitutto con il caso Marino a Roma. E in questo modo ha prestato il fianco a chi, da tempo, pensa che quella regola dello Statuto di accorpare il ruolo di segretario Pd a candidato premier sia sbagliata e vada abolita. Ci pensa da tempo la minoranza di sinistra anche se ai tempi di Bersani non ha mosso un dito per cambiarla. E ci pensano pure i giovani turchi che hanno trovato lo spazio per cominciare a far esplodere le contraddizioni di un Renzi più premier e poco segretario.
Come si diceva, quella regola fu introdotta quando nacque il Pd di Veltroni proprio per sanare un vecchio vizio della sinistra italiana: quello di uccidere i propri governi a colpi di fuoco amico. E dunque un premier anche segretario avrebbe potuto evitare quelle lotte intestine che hanno invece segnato il destino degli Esecutivi di centro-sinistra. Perfino Prodi ebbe bisogno di un partito ad hoc e di un’investitura alle primarie ma, come si ricorda, non bastò. E allora si creò quella regola che era del tutto coerente con l’impianto di un partito a vocazione maggioritaria, che aspirasse a essere guida politica nel Paese e non solo un pezzo di un collage di partitini. Quella regola nasceva dai fallimenti dell’Unione.
Una norma che tanto più deve valere oggi che quella vocazione maggioritaria ha trovato una legge elettorale perfettamente coerente, più coerente del Porcellum, perché alla fine è un ballottaggio che assegna la vittoria a un partito. A una lista, quindi, non a una coalizione. E fintantoché sarà così e Renzi non deciderà di cambiare l’Italicum quella regola inventata nel 2007 resta sacrosanta e coerente perché dovrà essere il Pd a esprimere la guida del Governo. E non un premier-delegato dal partito. L’ultima volta è accaduto a Enrico Letta e si è visto come è andata. Renzi lo sa bene e c’è da aspettarsi che combatterà contro le manovre in corso.

Repubblica 28.11.15
Roberto Speranza
“Noi e Ncd opposti. Il Partito della nazione sconcerta la base”
“Renzi deve capire che non gli serve un megafono del governo, ma un partito autonomo”
intervista di A. L.

ROMA. Le primarie del centrosinistra a Napoli non saranno allargate all’Ncd. Roberto Speranza, ex capogruppo del Pd alla Camera, capo di Sinistra riformista, è stato in prima linea a sparare sul fantasma di quell’accordo. «Se la retromarcia è vera - commenta ora - mi va bene così. Noi siamo il Pd. E il centrosinistra non si ricostruisce con chi si chiama Nuovo centrodestra».
Forse si voleva vedere l’effetto che fa...
«L’hanno visto l’effetto che fa. Basta giochi delle tre carte. Basta Partito della Nazione. A noi non interessa cosa vuol fare l’Ncd ma che cosa vuol fare il Pd, che orizzonte politico si dà in queste amministrative che sono un passaggio importante di ricostruzione del centrosinistra. Bisogna dialogare con il civismo, le associazioni, le forze del campo democratico. Esattamente il contrario del Partito della Nazione che si profila come un qualcosa di indistinto, tutto e il contrario di tutto, il prenditutto americano».
Dica la verità: questa storia delle primarie allargate ad Alfano vi ha fatto imbufalire.
«Ho chiesto che chiarissero subito questa roba. Ho visto anche dichiarazioni imbarazzate dall’Ncd. E’ una contraddizione insostenibile. Un conto è il governo del Paese, nato da una situazione di emergenza e da una non vittoria alle elezioni, un conto sono le competizioni elettorali. Ncd, per me, sta dall’altra parte».
Gli elettori del Pd sono stoici.
Far loro ingoiare anche questa non sarebbe semplice.
«Il popolo del Pd è in grandissima sofferenza già per alcuni flirt parlamentari, leggi Verdini sulle riforme. È facile sommare i voti in Parlamento. Altra cosa, impossibile, è sommare i voti degli elettori».
Ha ragione Prodi quando sostiene che il Pd è una “missione incompiuta”?
«Il Pd è il futuro, è un grande soggetto politico su cui oggi si regge il Paese. Ma deve superare alcune contraddizioni, riscoprire la sua vocazione di centrosinistra. Il rischio è che sui territori si riduca ad una sommatoria di comitati elettorali. Per questo insisto: serve una vera riflessione sullo stato del partito».
È un momento di grandi fibrillazioni interne: renziani della prima ora, giovani turchi in espansione, franceschiniani inquieti...
«Abbiamo avuto renziani dalla prima all’ultim’ora ma c’è chi, nel Pd, mantiene la sua autonomia. Il Pd non è solo Renzi e non si esaurisce con la Leopolda. Va fatta una discussione sul partito. Renzi deve capire che non gli serve un megafono del governo ma un partito forte e capace di pensiero autonomo».

Corriere 28.11.15
Chi decide per Milano se la politica è annebbiata
di Venanzio Postiglione

Si chiamava «modello Milano». Sindaco saldo, coalizione larga, politica forte. Pochi mesi dopo: sindaco uscente, coalizione in bilico, politica annebbiata. Chi sarà il candidato del Pd? Renzi ha (quasi) battezzato Giuseppe Sala, che non viene dalla sinistra, forse non è neppure di sinistra, ma è sospinto da Expo, dai sondaggi e da un consenso trasversale che induce a credere (addirittura) nell’esistenza del «partito della nazione». Il sindaco, invece, ha (quasi) scelto la sua vice Francesca Balzani: per tenere tutti uniti, dare una prospettiva alla giunta e dimostrare (cosa difficile) che possa esistere un metodo Pisapia senza Pisapia, un mondo arcobaleno senza il suo disegnatore.
E siamo al dunque. Sala senza l’aiuto di Pisapia? Un candidato arcobaleno senza Sala? Più il tempo passa e più i due big si allontanano, con il sindaco che parla di continuità e il signor Expo che immagina la discontinuità, con il primo che abbraccia la sinistra e il secondo che accarezza i moderati.
Chi decide? La risposta «decide la città» è allo stesso tempo nobile e (senza offesa) ingenua. Con un quadro nazionale instabile, il fallimento del Pd a Roma, il caos del partito a Napoli e i 5 Stelle alle porte, costruire un ponte levatoio politico sulla Cerchia dei Navigli è un azzardo. Lo sanno tutti. Di fronte al passo indietro di Giuliano Pisapia, legittimo, ci mancherebbe, e all’erede indicato forse un po’ tardi, la coalizione si è occupata soprattutto di fissare, spostare, rivedere la data delle primarie. Un po’ prima, un po’ dopo, un po’ qui e un po’ lì. Lasciando per strada un’idea di leadership, un progetto di governo, un orgoglio diffuso che ha coinvolto la città ma, paradossalmente, ha spiazzato la politica.
E i vuoti si riempiono. Milano è incerta, allora chiama Roma. Mercoledì il sindaco e Balzani sono da Renzi per capire se c’è spazio per un sussulto arcobaleno, per chiedere se dà fiducia al metodo Pisapia o se ha già deciso per Sala, magari perdendo una fetta di sinistra e guadagnando un pezzo di centrodestra. Il premier che ha portato la narrazione dell’Expo fino al punto da trasformare il prefetto di Milano nel commissario di Roma ha pochi giorni per un guizzo. Una mediazione via via più complicata o una rottura politica di fine anno.
Il sondaggio sulla città appena uscito ha avuto letture distratte. Chi si è fermato sul ballottaggio con Sala che staccherebbe di 20 punti Sallusti si è perso la pagina iniziale. Quella del primo turno. Con il centrodestra al 37 per cento, mica poco. Una partita aperta, se i moderati trovassero scintille e persone. Milano ha inventato Berlusconi, ha avuto un sindaco leghista nel ‘93, Formentini, e un sindaco imprenditore nel ‘97, Albertini: non è la patria della sinistra. E’ la patria delle novità politiche, piuttosto. Nel momento più felice della sua storia recente, la città merita i candidati migliori. Da ogni parte. E le idee più brillanti.

La Stampa 28.11.15
“L’ora di lavoro è un concetto superato”
Il ministro Poletti: dobbiamo pensare a contratti che non siano solo basati sul tempo
L’ira dei sindacati: vuole rottamare gli accordi, basta scherzi su temi come questo
di Paolo Baroni

Di fronte ai cambiamenti tecnologici l’ora di lavoro è un «attrezzo vecchio», sostiene il ministro Giuliano Poletti. Che il giorno dopo la bufera suscitata dalle sue frasi sui laureati («prendere 110 e lode a 28 anni non vale un fico») apre un nuovo fronte. «Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l’ora-lavoro», ha spiegato. Ma «valutare anche l’apporto dell’opera». Per il responsabile del lavoro, che ieri parlava agli studenti della Luiss, questo è un «tema di cultura su cui si deve lavorare». Perché arrivati nel 2015, a suo parere, occorre dare risposte a tutte le modalità innovative di organizzare il lavoro e fornire le prestazioni, e di conseguenza anche nuovi modi di calcolarne il corrispettivo. Superando l’attuale struttura molto rigida incentrata su conteggio dei tempi di lavoro, posizioni e inquadramenti e luoghi di lavoro prefissati.
Le nuove tecnologie e i nuovi mestieri, in molti casi, rendono naturale il passaggio da un compenso legato al conteggio delle ore ad uno legato all’opera prestata, novità che - tra l’altro - «apre anche nuovi spazi di libertà». E senza arrivare a scomodare Marx, è evidente che l’attuale struttura dei contratti non è in grado di dare risposte.
Sindacati infuriati
Dai sindacati è subito arrivato un altolà. In casa Cgil leggono nelle parole di Poletti la volontà di «rottamare il contatto nazionale» ed un nuovo attacco ai sindacati, come spiega il segretario confederale Franco Martini. Dura anche Susanna Camusso: «Bisogna smettere di scherzare su questi temi, bisogna ricordarsi che la maggior parte delle persone fa un lavoro faticoso: nelle catene di montaggio, le infermiere negli ospedali, la raccolta nelle campagne, dove il tempo è fondamentale per salvaguardare la loro condizione». Carmine Barbagallo (Uil) ha invece «la sensazione che si vogliano far passare per idee di modernità concetti da liberismo sfrenato. Ad ogni buon conto, un ministro del Lavoro non può pensare di affrontare temi del genere con annunci spot». Per il segretario confederale della Cisl Gigi Petteni «è molto meglio che il ministro si concentri sulle politiche attive del lavoro o sull’abuso che si sta facendo dei voucher, piuttosto che dare indicazioni sul modello contrattuale. Non è il suo mestiere».
Tiraboschi: frasi in libertà
Chi «sposa a pieno» l’idea di Poletti è il giuslavorista Michele Tiraboschi. «È vero il lavoro moderno è più a risultato che legato al calcolo delle ore – spiega -. Peccato che il governo abbia abrogato i contratti a progetto, che magari in passato saranno anche stati applicati male, ma erano proprio contratti legati ai risultati, ed ha scritto una riforma del lavoro, il Jobs act, che è tutto un revival del lavoro di stampo novecentesco, esclusivamente subordinato ed etero-organizzato. Un ministro non può parlare in libertà, ma deve trovare delle soluzioni». Per il presidente della Commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), le parole di Poletti «vanno attentamente meditate. Ma un conto è la flessibilità di orari e prestazioni richiesta dalla rivoluzione in corso, altra cosa è tornare ad un lavoro esclusivamente retribuito sulla base della realizzazione di un’opera senza parametri di riferimento. Altrimenti perché abbiamo abolito il lavoro a progetto? E perché per i non contrattualizzati il governo prevede il compenso orario minimo?». In serata poi il ministro, rispondendo ai sindacati, ha precisato che «la posizione del governo e del ministro sulla riforma dei contratti è quella nota: si è in attesa che le parti sociali maturino un’intesa sulla materia».

Repubblica 28.11.15
L’anti-città culla dei terroristi
di Stefano Boeri
Architetto e urbanista

CARO direttore, non sono le periferie delle città italiane il solo posto dove guardare quando si riflette sui luoghi germinali del terrorismo nostrano. Non solo perché i nostri Corviale, le nostre Vele, i nostri Zen o Gratosoglio — nati come roccaforti isolate nel pulviscolo delle villette suburbane — non hanno nulla a che vedere con il gigantismo e la compattezza geografica delle banlieue di Parigi o di Marsiglia, così estese da occupare l’intera cintura esterna della metropoli. E neppure perché le nostre aree di degrado e periferia sociale, diversamente da Parigi, da Londra e da Bruxelles, sono un arcipelago e non una “ciambella”: da noi arrivano ad annidarsi perfino nel cuore antico di città come Genova, Napoli, Milano.
La verità è che degrado degli spazi, povertà, marginalità sociale, non sono il denominatore comune delle folli traiettorie dei giovani terroristi europei. Che vengono anche da quartieri piccolo borghesi, dove si alternano i condomini e le case unifamiliari; da famiglie lontane dalla povertà assoluta, da genitori attivi e scuole efficienti. Se dobbiamo trovare un gradiente spaziale del terrorismo, questo non sta nelle periferie, ma nelle zone dove si concentrano popolazioni con una cultura, una religione, un’origine geografica omogenea. Dove si addensano famiglie con la stessa origine geografica; le stesse tradizioni, aspettative e frustrazioni. La virata nel terrorismo non è la reazione folle ad una sofferta marginalità sociale, ma al contrario il rifugio entro una identità fortissima e semplificata, da parte di giovani — a volte anche benestanti — orfani di un’identità chiara. Giovani di seconda o terza generazione che da un lato non si sentono più di incarnare le tradizioni familiari e dall’altro non si sentono rappresentati dal cliché culturale del luogo che li ospita. Il Califfato — surrogato di appartenenza insieme mediatico e reale, transnazionale e geolocalizzato — è spesso la deriva di chi ha perso la sfida di un’identità più ricca perché nata dal confronto e dal conflitto, in uno spazio fisico condiviso, tra culture, tradizioni, appartenenze diverse.
Nelle aree urbane dove manca il confronto con l’altro, dove si abita solo tra simili, si rompe l’equilibrio tra il capitale sociale “di legame” (che aiuta a costruire un’identità di gruppo) e il capitale sociale “ponte” (che aiuta a scambiare con altri gruppi risorse culturali) di cui ci parla Robert Putnam. È qui, nei quartieri dell’Anticittà, che si concentrano tutte le caratteristiche anticomunitarie e antiurbane: l’assenza di varietà sociale, la diluzione dell’intensità delle relazioni e anche dei conflitti con altre identità, la povertà di scambi tra culture. Qui vincono i vincoli di gruppo, di clan; le reti del sangue e della lingua. Qui nascono le gang di quartiere o — come reazione — la fuga solitaria nella dimensione disperata del terrorismo: antagonista, ma (ci piaccia o no) capace di offrire un’uscita ad altissimo tasso di innovazione alla prigione delle tradizioni familiari e di gruppo.
Ma queste zone, oggi, nel caleidoscopio della città contemporanea, stanno dappertutto. Non cerchiamole solo in “periferia”, nei casermoni di edilizia popolare, ma anche nei condomini dei quartieri piccolo/borghesi, nelle zone di villette, nelle palazzine di provincia. E soprattutto cerchiamo soluzioni efficaci per tutti i territori dove c’è omologazione e concentrazione di abitanti simili. Bene che sicurezza e cultura avanzino in parallelo; meglio se si intrecciano in un’unica politica urbana di aumento della biodiversità culturale nelle nostre città.
Come? La risposta, ancora una volta sta nella scuola, la più grande e diffusa delle infrastrutture sociali. Bisogna favorire la potenza inclusiva delle nostre scuole, presenti ovunque nel territorio. Innanzitutto stabilendo standard minimi di varietà socio-culturale per i bambini e i ragazzi delle nostre scuole, che implichino, se è il caso, anche incentivi alla mobilità intra-urbana degli studenti — e che evitino sempre la costituzione di classi e scuole-ghetto. In secondo luogo, favorendo l’apertura delle scuole nei pomeriggi e nelle giornate di festa alle energie culturali del quartiere e della città: alle start up, ai corsi di cultura italiana, all’arte e alla musica dal vivo e autoprodotta, a forme di lavoro. E, ancora, reinventando il modello di “sicurezza partecipata” dei Neighbourhood policing team londinesi o quello di “deradicalizzazione” dei quartieri di Copenhagen. Incontri settimanali, nelle scuole del quartiere, tra le forze dell’ordine, i presidi, i responsabili dei genitori, dei docenti degli studenti, ma anche delle associazioni di quartiere e delle diverse comunità di fede. Occasioni in cui favorire il confronto e mettere in atto una vera e propria “prevenzione” democratica che segnala, oltre ai casi di microcriminalità, l’emergere di percorsi (di andata o ritorno) dall’eversione.

Repubblica 28.11.15
L’allarme di Touraine
“Difendersi è giusto ma salviamo le libertà”
intervista di Fabio Gambaro

«La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia», ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro,
Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».
Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani...
«E’ certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici».
Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi?
«La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi».
Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. E’ importante anche per lei?
«In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi».
Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza?
«L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico».
A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. E’ la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica».
Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. E’ preoccupato?
«Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto».

Repubblica 28.11.15
“Vietato parlare di Islam”
Il filosofo ateo Onfray non pubblica in Francia
Il saggio sul Corano uscirà solo all’estero
di Paolo G. Brera

Michel Onfray, l’intellettuale francese anarchico e ateo divenuto celebre con il suo Trattato di Ateologia, stavolta ha gettato la spugna e si è chiuso dietro la porta: il suo libro Penser l’Islam uscirà a fine gennaio in tutto il mondo fuorché dove è stato scritto, in Francia. «Nel contesto attuale, qui non è possibile alcun dibattito sereno sull’Islam», dice tramite il suo editore Grasset.
Da giorni lo inseguono le polemiche per un suo tweet reclutato in un video di propaganda dell’Is insieme al suo invito, estrapolato da un’intervista, a «smettere di bombardare i musulmani in tutto il pianeta»: «Destra e sinistra, che hanno seminato a livello internazionale la guerra contro l’Islam politico, raccolgono la guerra dell’Islam a livello nazionale». Era il 14 novembre, all’indomani della strage di Parigi, e appena prima di dare del «cretino» al premier Manuel Valls.
«Le solite strumentalizzazioni, le interpretazioni non mi interessano», replicò all’ondata di proteste che lo travolse bollandolo come «utile idiota» per la causa del terrorismo, e precisò di non avere la minima intenzione di difendere lo Stato islamico. Tant’è, di fronte a quella che chiama «un’isteria» collettiva nei sui confronti, ieri il filosofo ha ammesso a Le Point di provare una «grande fatica»: «Ne ho abbastanza che i miei tweet siano più importanti dei miei libri. Ho deciso di chiudere il mio account Twitter. Voglio tornare alle mie faccende, commentare i commenti non mi interessa».
Celebre per le sue intemerate contro tutte le religioni, che da illuminista ritiene fomentino l’odio, il fanatismo e la mortificazione del corpo e della fisicità, ha concepito il suo nuovo libro - di cui ha sospeso «a tempo indeterminato» la pubblicazione in Francia - come un dialogo-intervista tra lui e la giornalista algerina Asma Kouar. Nel testo c’è una rilettura filosofica del Corano: «Ho esaminato gli hadith e li ho incrociati con le biografie di Maometto per mostrare che in questo corpus esiste materiale per il peggio e per il meglio: il peggio sono le minoranze che agiscono attivamente per la violenza; il meglio è ciò che le maggioranze silenziose praticano privatamente». Poi c’è una lettura politica di questi anni oscuri, e di una politica estera francese che Onfray giudica «islamofoba».

Repubblica 28.11.15
Pierre Nora
Lo studioso dell’Académie: “La ferita che abbiamo subito ricolloca il nostro Paese sulla ribalta della Storia. Avevamo perso da tempo il senso della collettività”
“Il tricolore e Les Invalides la Francia torna ai suoi simboli”
intervista di Guillaume Perrault

Pierre Nora, l’accademico di Francia che ha diretto l’ambiziosa impresa dei Lieux de mémoire, analizza gli attentati del 13 novembre e l’omaggio nazionale reso alle vittime.
Che posto assume nella nostra storia il dramma del 13 novembre?
«Tra gli attentati mirati di gennaio, contro disegnatori, giornalisti, poliziotti ed ebrei, e le carneficine del 13 novembre, c’è una differenza enorme. Poiché la legge del terrorismo è l’escalation, non possiamo fare a meno di domandarci fin dove si spingerà. Inoltre, gli omicidi di novembre hanno ingigantito ancora di più l’effetto rivelatorio che avevano avuto quelli di gennaio: un faccia a faccia tra una Francia democratica, impegnata nella secolarizzazione, e una minoranza musulmana di cui, per egualitarismo repubblicano, concezione francese della cittadinanza e senso di colpa coloniale, avevamo minimizzato, specie a sinistra, la dimensione specifica, religiosa».
Il Parlamento riunito a Versailles, la commemorazione agli Invalides: scenari e la liturgia del potere sono indispensabili per superare le crisi?
«Versailles e gli Invalides non sono in questo caso dei lieux de mémoire, vale a dire dei luoghi simbolici dell’identità nazionale. Non si contano più le revisioni costituzionali che hanno avuto per scenario Versailles, e succede spesso che cerimonie di omaggio nazionale vengano tenute agli Invalides, luogo puramente militare. In compenso, è vero che gli scenari e la liturgia sono indispensabili per il lutto collettivo e nazionale, come anche per i lutti individuali. Se volessimo evocare un luogo della memoria in tutta la faccenda, io ne vedrei due: il Bataclan, che rappresenta la musica, il ballo, la gioia di vivere, tutto quello che il fondamentalismo musulmano vieta e cerca di sradicare. E Parigi, che continua a irradiare un simbolismo potentissimo. Le stragi non avrebbero avuto la stessa risonanza se non fossero avvenuti qui».
Dopo gli attentati, la Marsigliese ha invaso gli stadi, mentre i colori della bandiera nazionale campeggiano su monumenti, manifesti, social network… «Il ritorno in auge dei simboli nazionali è palese. Lo attesta il numero di bandiere francesi vendute dopo gli attentati. Non possiamo che rallegrarci di vedere questi simboli sottrarsi all’appropriazione della destra e dell’estrema destra. Già la manifestazione all’indomani degli attentati di gennaio era stata caratterizzata dall’apparizione molto spontanea di bandiere tricolori. È molto positivo. In Francia non c’è una religione civile come negli Stati Uniti, ma c’era, può esserci, un culto civico. Peccato che lo si avverta solo di fronte alla catastrofe».
È il ritorno tragico della Storia?
«La Francia dava la sensazione di essersi distaccata dalla grande storia da molto tempo, progressivamente, forse a partire dal 1918. Fra le due guerre, la Francia ha subito solo i contraccolpi della storia scritta da altri: la crisi economica, il comunismo e il nazismo. E le guerre coloniali, per quanto gravi, avevano un profumo di retroguardia storica. Dopo la fine del gollismo e del comunismo, la Francia non è più stata sollevata da grandi cause. L’Europa? Ci abbiamo provato, senza successo. L’ecologia? Anche se il sentimento è penetrato nell’opinione pubblica, non è una causa storica. Finora tutto ha trasmesso la sensazione di un’anemia del senso del collettivo, di un’individualizzazione dello stare insieme, una storia che è diventata un ognun per sé. La ferita collettiva che abbiamo subito ricolloca la Francia sulla ribalta della Storia. A questo ritorno nella Storia non è escluso che contribuisca anche l’arrivo brutale dei migranti: un problema che si trasforma in un fenomeno di una portata storica colossale».
Siamo in guerra contro il terrorismo?
«La parola mi mette a disagio. La guerra implica belligeranti, reciprocità, obiettivi da conseguire, identificazione del nemico. È così anche nelle guerre asimmetriche, come il conflitto israelo-palestinese. In mancanza di un termine più adeguato, la parola “guerra” compatta l’opinione pubblica e definisce quello stato di violenza che ci viene imposto. Quello che mi turba è che questo termine ci fa entrare in una logica che finisce quasi per legittimare quelli che ci fanno la guerra. Ma il terrorismo ispirato dal fondamentalismo islamico nasce ben prima dell’ingranaggio che ha condotto la Francia a bombardare lo Stato islamico. L’interesse dei terroristi è sempre quello di farsi riconoscere come combattenti».
Qual è la risposta adeguata al terrorismo?
«Il mezzo migliore per combattere il terrorismo sarebbe in teoria relativizzare la valutazione dei suoi effetti e fare della sua repressione una battaglia esclusivamente di polizia, invece che una guerra nazionale. Ma è chiaramente impossibile. Democrazie come le nostre sono male attrezzate per rispondere rapidamente alla sfida del terrorismo. Ma fortunatamente sono armate in profondità per riuscire, alla fine, a sconfiggerlo».
© Le Figaro / LENA Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti

il manifesto 28.11.15
Linke contro i piani di guerra tedeschi in Medio Oriente
Si moltiplicano i possibili obiettivi di ritorsione in vista del prolungamento dell’impegno della Bundeswehr in Mali annunciato dalla ministra della difesa Ursula von der Leyen
di Sebastiano Canetta

BERLINO Si chiama Sascha W, 34 anni, «il supporto logistico» della cellula di Parigi. E’ stato arrestato ieri dalla polizia tedesca a Magstadt su mandato della procuratore del Baden-Württemberg con l’accusa di traffico internazionale di armi da guerra. Le stesse utilizzate nel massacro di Parigi secondo Bild che pubblica la notizia insieme ai dettagli dell’operazione condotta con le teste di cuoio.
Il «sospettato» — già schedato dalle autorità in passato — è accusato di aver venduto on-line il 7 novembre due Kalashnikov di fabbricazione cinese e due Zastava M70 yugoslave agli «arabi di Parigi»; gli investigatori francesi sarebbero convinti che si tratti esattamente delle armi che hanno provocato la carneficina sei giorni più tardi, rivela il quotidiano al pari del ritrovamento di 15 fucili dopo la perquisizione a casa del trafficante.
L’arresto fa il paio con i blitz delle unità speciali della polizia federale effettuati anche a Berlino. Perquisizioni soprattutto nelle moschee e nei centri islamici dove ieri sono stati fermati un tunisino e un siriano «connessi» alla galassia dell’estremismo sunnita nella capitale; gli investigatori ipotizzano la preparazione di un attacco in una città nell’ovest della Germania. Non più segnalazioni dunque, ma «allarmi veri» conferma la polizia che dopo la bomba allo stadio di Hannover (mai ritrovata) respira lo stato di guerra che si manifesta anche ai berlinesi nel quartiere di Charlottemburg, con venti edifici sgomberati a causa di una sospetta auto-bomba collegata agli arrestati.
Una vera e propria «dark-net» messa sempre più sotto pressione e controllo dalle autorità mentre si moltiplicano i possibili obiettivi di ritorsione in vista del prolungamento dell’impegno della Bundeswehr in Mali annunciato dalla ministra della difesa Ursula von der Leyen. Sul tavolo della coalizione rosso-nera l’invio di nuovi soldati in appoggio (e progressiva sostituzione) delle truppe francesi in Africa, in attuazione di un piano messo in piedi due anni fa.
Uno sforzo bellico rinnovato ma non nuovo, perché la Germania fa la guerra in Mali ufficialmente da quasi tre anni. Il 28 febbraio 2013 il Bundestag ha incaricato per la prima volta il dispiegamento di soldati tedeschi nelle file della European union training mission per la formazione delle forze armate locali. Il mandato è stato prorogato fino al 31 maggio 2016 con l’impiego di 350 soldati inquadrati in una brigata mista franco-tedesca. L’obiettivo dichiarato è la vietnamizzazione del conflitto: «L’esercito maliano deve essere in grado di stabilizzare il paese sotto la propria responsabilità» spiegano i generali della Bundeswehr che non dovranno più occuparsi solo di difesa.
All’orizzonte anche del Parlamento si profila la possibile partecipazione diretta al conflitto in Siria con un appoggio ben più sostanzioso degli attuali ospedali di campo che prevede anche l’impiego dei vecchi Tornado. Dal punto di vista operativo Luftwaffe e Marine sono già in missione con il coordinamento della portaerei francese Charles De Gaulle e il prestito degli aerei cisterna. Una parte troppo attiva nella «guerra civile» siriana, secondo la Linke che si oppone ai piani di guerra tedeschi in Medio Oriente.
«Siamo contrari alla partecipazione della Bundeswehr in Siria. Sarebbe un’operazione senza obiettivi riconoscibili e fini prevedibili. Se la Germania verrà coinvolta crescerà la minaccia di attacchi terroristici nel Paese» riassumono nel quartier generale della Sinistra al Bundestag. Il problema, casomai, è la Turchia alleata soprattutto della cancelliera Angela Merkel che conta (anche) su Erdogan per fermare l’ondata di profughi che travolge la Repubblica federale. Per la Linke «il governo di Ankara è focalizzato sulla guerra contro il Pkk e del Pyd che in Siria e Iraq si difendono contro lo Stato islamico. Qui la Germania ha possibilità di influenza: deve dire, chiaramente, alla Turchia di fermare gli attacchi ai curdi».

La Stampa TuttoLibri 28.11.15
Non si può processare la guerra tedesca
Dalla difesa di un industriale a Norimberga alle riflessioni contro il mondo globalizzato
Massimiliano Panarari

Nella devastata (e liberata) Berlino della fine della guerra, Carl Schmitt (1888-1985) riteneva di essersi sottratto al rischio di imputazioni spostando il proprio campo di studio verso la politica internazionale e «mondando» la sua elaborazione dal suprematismo della «comunità di sangue» del «popolo» quale fondamento dell’ordinamento. Nell’estate del 1945, decise di dedicarsi alla stesura di un ben remunerato Parere richiestogli dai legali di un big (tra siderurgia e carbone) dell’industria germanica, Friedrich Flick, preoccupato di un’eventuale incriminazione per complicità nella guerra d’aggressione. Un lavoro alla fine inutile perché il magnate venne condannato, in un ramo secondario del processo di Norimberga, e per crimini contro l’umanità. Il 26 settembre del ’45 sarà poi lo stesso Schmitt a venire arrestato e internato per quasi un anno (nel corso del quale, guidato dalla «sapienza della cella», stilerà clandestinamente gran parte del famoso Ex captivitate salus). Il parere legale, a metà tra il documento difensivo e la dissertazione accademica, aveva circolato solo in fotocopie fino alla pubblicazione nel ’94; e ora viene tradotto da noi col titolo La guerra d’aggressione come crimine internazionale (a cura di Carlo Galli).
Sullo sfondo del tema cardine della fine dello jus publicum europaeum, Schmitt riadattava alcune delle sue intuizioni sul mutamento integrale della natura della guerra all’obiettivo puntuale della tutela del committente stemperandone maliziosamente la radicalità. Lungi dall’ammettere il carattere epocale di cesura della seconda guerra mondiale – come appunto aveva (e, ancor più, avrebbe) evidenziato nella sua produzione scientifica, tra la dottrina dei Grandi Spazi post-statuali e la violentissima polemica (ovviamente omessa in questa sede) contro la filosofia politica individualistica anglosassone che, a suo dire, ammantava con l’universalismo liberale la politica (e volontà) di potenza di Imperi “marittimi” e «deterritorializzati» – puntava a normalizzarla quanto più possibile. Il conflitto mondiale, allora, come una “qualsiasi” guerra moderna, da considerare un affare di Stato e, quindi, un atto di sovranità che rientrava nella sua totale responsabilità. Scagionando in tal modo il cittadino «normale» Flick (che così ordinario chiaramente non lo era, anche se Schmitt lo indicava in maniera pelosa quale «ordinary businessman economicamente attivo»), tenuto, come chiunque altro, ad obbedire al potere legale, mentre semmai andavano esclusivamente puniti gli «eccessi» di violenza di SS e Gestapo. Così argomentando, il sempre strumentale e coltissimo Schmitt si smentisce, fingendo che l’ordine moderno del diritto pubblico europeo (continentale) sia ancora in essere, ribadendo il principio «nullum crimen, nulla poena sine lege», e abbracciando quel positivismo giuridico funzionalistico che aveva tanto criticato negli anni dell’adesione all’hitlerismo. Dunque, la guerra (anche d’aggressione) non poteva essere processata, e in questo Schmitt, come sempre, si collocava agli antipodi del detestato grande avversario Hans Kelsen, teorico di un sistema giuridico universale.
Nella tipica doppiezza (e bassezza morale) del suo autore, «terribile giurista» lugubre e geniale, un volume di notevole interesse nella sua pars destruens per la capacità disincantata di analizzare l’avvento post-westfaliano dell’età globale e quel processo di giuridificazione della politica in cui siamo immersi da allora. E Adelphi (l’editore che ha sdoganato nel dibattito italiano il pensiero negativo e la grande cultura reazionaria del ’900) manda adesso in libreria Stato, grande spazio, nomos
(a cura di Giovanni Gurisatti, pp. 527,€ 60), una summa antologica che raccoglie mezzo secolo – da Il concetto del politico del 1927 a La rivoluzione legale mondiale del ’78 – di riflessione schmittiana sul diritto e le relazioni internazionali, un vertice ante litteram di (per così dire...) pensiero antiglobalizzazione.

Corriere  28.11.15
I vandali non si arrendono mai
Mesopotamia, Roma, Costantinopoli, l’Isis: le distruzioni d’opere d’arte sono una costante della storia
di Francesco Battistini

«Dannati barbari che hanno in odio la bellezza!». Quando l’Isis eravamo noi, ed erano gli altri a custodire l’arte blasfema, non servivano i video su YouTube a mostrare quel che andavamo a devastare nel nome di Cristo. Bastava Niceta Coniata: un mite intellettuale bizantino che nel 1200 si trovava a Costantinopoli, il giorno in cui arrivò la soldataglia d’Innocenzo III, e ci lasciò il racconto atterrito di che cosa combinarono quei cristiani alla Quarta Crociata. Altro che le mura di Ninive trapanate da Al Baghdadi, o il tritolo talebano sui Buddha di Bamiyan. Fu dopo aver denudato i ricchi bizantini, violentate le donne, che i santi guerrieri del Papa passarono alle opere d’arte. E, veri odiatori della bellezza, abbatterono l’immagine di Bellerofonte in groppa a Pegaso, fusero l’Ercole di Lisippo all’Ippodromo, frantumarono l’aquila d’Apollonio di Tiana, fecero a pezzi il cavallo del Nilo con la coda a squame, si spartirono l’altare sacrificale di Santa Sofia, cancellarono per sempre i capolavori di Fidia e di Prassitele. «Hanno gli orecchi rossi dal riverbero del fuoco dell’ira — scrisse Niceta prima di scappare —, nessuna delle Grazie e delle Muse trova ricetto in loro…».
Vandalo a chi? Non crediate che sfregiare le statue sia una specialità solo dello Stato islamico. O che siano un crimine soltanto di questo millennio i diecimila siti archeologici danneggiati in Siria, l’esplosione dei templi di Palmira e le pitture rupestri scalpellate nel deserto libico, le offese di Ebla e Mosul. C’è un reporter della storia, Viviano Domenici, firma del «Corriere della Sera», che ha voluto guardare dentro questi anni bui. E indagare sui tesori spariti a Bagdad e a Kabul, ritornare dove scavarono anche Agatha Christie e Lawrence d’Arabia, raccontare i Monuments Men conosciuti in decine di spedizioni, intervistare soldati americani in Iraq e studiosi delle mutilazioni archeologiche, per scrivere alla fine Contro la bellezza (Sperling&Kupfer, pp. 288, e 19): un viaggio negli scempi d’oggi che si riflettono nelle tragedie della storia.
Conta poco, dare la colpa a una religione più che a un’altra. L’iconoclastia è una caratteristica di monoteisti e politeisti: Abramo che distruggeva gl’idoli e Mosè col vitello d’oro e Maometto che ripuliva la Ka’ba e gli assiri e i sumeri, indietro nei secoli, che decapitavano più statue dell’Isis. La distruzione delle immagini preislamiche che tanto infervora i nuovi califfi, anche se il Corano non vieta affatto le raffigurazioni («nessun iconoclasta ha mai rifiutato una banconota con l’immagine d’un essere umano — ironizza Domenici — e anche l’Isis non si fa scrupoli a usare immagini per propagandare la sua barbarie»), tutto ciò è casomai «figlio e complice» di lotte per il potere.
Dalla Mesopotamia all’Egitto, da Roma all’Islam, dai conquistadores alla Rivoluzione francese, dai Saddam abbattuti in Iraq ai Lenin in Ucraina, s’è sempre fatto così. E Domenici spiega che in tutta la storia dell’umanità i vincitori hanno regolarmente cercato d’infliggere «un supplemento di morte» al vinto già ucciso. Prendendo l’immagine del nemico, più spesso della divinità che lo protegge, e umiliandola, ridicolizzandola, esorcizzandola: via il naso e la bocca, perché non respiri, non mangi e non parli più; niente mani, come si fa per i ladri; levate le coppe che brindano al cielo, per annullare il favore di Dio; staccate le teste, da seppellire dove la gente possa calpestarle… Le testimonianze sono migliaia: basta girare fra le chiese rupestri della Cappadocia, osservare la Sfinge di Giza e il ritratto di Nefertiti a Berlino, rileggere i dibattiti sinodali sulle icone, magari chiedersi perché il Pantheon a Roma, o Santa Maria sopra Minerva, poggino le fondamenta su resti di templi antichi. A Domenici, una prova di questa violenza politico-religiosa che «si è sempre espressa in forme e metodi che costituiscono un vero contro-linguaggio», apparve lampante quando l’archeologo svedese Nylander lo portò in piazza San Marco e gl’indicò il gruppo dei Tetrarchi sul fianco meridionale della basilica: quattro porfidi rossi ben conservati, ma tutt’e quattro accuratamente privati del naso e scalpellati sulle fibule del mantello, proprio là dov’erano i simboli del loro potere.
L’arte è la persona: se ne sbriciola la memoria per assassinare l’identità, la storia, tutto. E il vandalismo è solo un altro modo d’uccidere, un crimine di guerra che nessun tribunale internazionale processa mai. Per questo, preoccuparsi dei monumenti è come proteggere chi muore sgozzato: lo sapeva Khaled al-Asaad, l’archeologo rimasto a difendere Palmira e decapitato in piazza, musulmano come i suoi carnefici; lo capirono i tolleranti mullah medievali, che non volevano rovinare preziose miniature e, per punire l’idolatria, si limitavano a decapitazioni simboliche, tracciando una sottile linea nera sulla gola delle figure. O il califfo Omar ibn al-Khattab, conquistatore di Gerusalemme, che per prima cosa fece ripulire la sinagoga trasformata in una pattumiera. Alle immagini, nel bene e nel male, non si sottrae alcun potere. E a chi le impone o le distrugge, ci spiega Domenici, s’accompagna di regola «una forza oscura figlia di una visione magico-religiosa sempre pronta a spalancare voragini di orrore». Cambiano i cattivi maestri, non la lezione della storia: «E ora sono in cattedra quelli dell’Isis».

venerdì 27 novembre 2015

Repubblica 27.11.15
“In treatment” e l’ipnotica raffinatezza della psicologia
di Antonio Dipollina

LO psicologo Sergio Castellitto è talmente incauto che per difendersi da un’orribile accusa si rivolge a una sua ex paziente, avvocato di rango: e non ricorda, o forse sì, che con lei (Maya Sansa) finì malissimo. Lei ne approfitta vendicandosi subito. Ma il giorno dopo arriva l’impossibile coppia di separati con bimbo problematico a carico, per non dire del giorno dopo ancora l’industriale inquinatore Michele Placido che cerca la salvezza, avendo forse capito quanto sia disposto - lo psicologo – a farsi carico dei mali del mondo. È la seconda stagione di In Treatment, versione italiana del raffinato e perverso schema televisivo inventato in Israele. Si può pensare che la serie sia solo un abile intreccio da cui fuggire: ma non è facile, se si parte ci si cade dentro. Su Sky Atlantic (alle 19.20 e 23.10 dal lunedì al venerdì) e Sky Cinema Cult (alle 20.30). Il blocco dei cinque episodi settimanali può agevolmente diventare il film della domenica.
Corriere 27.11.15
Gillo Dorfles , 105 anni da artista Con un pizzico di incoscienza Percorsi «Sono un autodidatta, non ho seguito scuole, vado avanti in libertà»
di Paolo Conti


Chiedono a Gillo Dorfles quale sia la differenza tra il se stesso scrittore-critico e il suo doppio pittore e artista. E lui, un lucidissimo e ironico fulmine di 105 anni: «Quando scrivo sono il reporter del momento, senza alcuna ambizione di sentirmi un autore letterario. Ho invece, purtroppo, ambizioni nel settore dell’arte…».
Roma regala a Dorfles una bella e densa mostra al Macro, il Museo di arte contemporanea di via Nizza creato da Odile Decq, curata da Achille Bonito Oliva e con il coordinamento e l’allestimento di Fulvio Caldarelli e Maurizio Rossi. Cento opere tra dipinti, disegni, opere grafiche, ceramiche, gioielli (anche la nuova Illy Art Collection, sei tazzine da caffè disegnate ultimamente per la famosa industria, triestina come l’artista: Dorfles nacque appunto a Trieste il 12 aprile 1910). E poi carteggi con mezzo mondo, da Henry Kissinger a Italo Calvino, da Lionello Venturi a Giulio Carlo Argan passando per Tomás Maldonado, Bruno Zevi e Lucio Fontana, una trasversalità che pochi intellettuali italiani possono vantare. Originali in bacheca, tante grafie geniali, inchiostri scuri, dattiloscritti a macchina, testimonianze dello spirito di un Novecento che ora appare luminoso e vivo come non mai rispetto all’oggi.
Un percorso volutamente retrogrado: si parte dalle ultimissime opere, con tre inediti dell’estate 2015, e si arriva agli esordi, al Paesaggio iperboreo del 1935, ritrovando alla fine un filo coerente e compatto che tiene insieme tutto, anche la nascita del Movimento per l’arte concreta, fondato a Milano nel 1948 da Dorfles con Bruno Munari e altri. Ancora lui, Dorfles: «È vero, sono un autodidatta, non ho seguito scuole o accademie e tutto questo mi viene rinfacciato ma io vado avanti, forse per libertà o forse per incoscienza».
Sulle pareti del museo, molti video raccolti da Rai Teche riportano interviste e interventi trasmessi sulla tv pubblica in passato che, con gli scritti, ripropongono le mille identità di questo intellettuale multidisciplinare: il critico d’arte, certo, ma anche il semiologo, l’antropologo, il linguista, il teorico dell’estetica, dell’architettura, del design. Difficile sintetizzare la lunga e ricca vita di quest’uomo in una sola riga.
La mostra infatti si intitola Gillo Dorfles / Essere nel tempo ed è un dichiarato omaggio della Capitale, con il suo Museo di arte contemporanea di via Nizza, a un intellettuale e artista che proprio a Roma studiò medicina specializzandosi poi in psichiatria. Un inizio di vita adulta distante dall’arte ma che poi si ritrova, a ben guardare, in tutta la sua produzione artistica e teorica. Ed è lui stesso, dopo l’affettuoso saluto della direttrice Federica Pirani («La mostra ha due itinerari, uno interiore frutto della creazione e l’altro legato al suo essere testimone del tempo») che ammette con candore: «Questa mostra mi rallegra moltissimo, quando venni a Roma a frequentare i corsi dell’università non avrei mai sperato di vedere i miei lavori in un museo. Feci una piccola esposizione in una galleria tra il Babuino e Trinità dei Monti, erano esordi timidi, ora mi ritrovo nell’ambiente di questo museo, circondato dall’ufficialità e dall’amorevolezza».
Accanto a lui c’è Achille Bonito Oliva, e anche qui Dorfles fa scorrere la macchina del tempo: «L’ho conosciuto diciottenne, forse sedicenne, in un convegno ad Amalfi e mi colpì questo giovanotto intraprendente e non timido, pur così giovane ma già con idee molto mature».
Quell’ex giovanotto oggi ha 76 anni e una nota abilità nel sintetizzare in slogan il suo lavoro di critico e operatore culturale: «Dorfles vive un felice strabismo, l’essere insieme artista e critico. In quanto al critico, nella sua parabola c’è un aspetto decongestionante, intendo l’assenza di ideologia, cosa rara in un mondo che ha marginalizzato il futurismo proprio nel nome dell’ideologia. In quanto invece all’artista, è un dongiovanni degli stili e nelle sue ultime opere, rispetto alle sue prime, non c’è segnale di ammodernamento, resta sempre in equilibrio tra astrazione e figurazione». E ancora, sempre giocando con le parole: «Voi vedete qui quest’uomo così elegante. Eppure io sintetizzerei la sua opera con tre aggettivi: erotico, erratico, eretico, la prova della mobilità delle arti contemporanee». E alla fine Bonito Oliva, per chiudere il rito dell’inaugurazione, grida: «Lunga vita a Dorfles!» dando il via a una piccola ovazione generale.
Durante il periodo della mostra si svolgeranno due cicli di incontri a ingresso libero, sono previsti gli interventi di Mario Botta, Ugo Volli, Giovanni Anceschi, Giorgio Battistelli e altri.
La Stampa 27.11.15
Dioniso, eros, mitra, potere
“In scena tutto il lato oscuro”
“The Bassarids” inaugura la stagione dell’Opera di Roma
di Sandro Cappelletto


«Le Baccanti sono un testo misterioso, ti sprofondano nelle contraddizioni. Tutto è così ambiguo. Difficile dire dove è il positivo e dove il negativo». Mario Martone firma la regia di The Bassarids, l’opera di Hans Werner Henze, tratta dalla tragedia di Euripide, che stasera inaugura la nuova stagione del Teatro dell’Opera, restando in scena fino al 10 dicembre. Dioniso, dio seducente e crudele, punisce un re che tenta di resistergli. La fede che non tollera esitazioni e la ragione che le si oppone, l’ordine della legge e lo scatenamento di ogni eccesso. Il re, durante un’orgia, finirà sbranato dalla sua stessa madre resa folle da Dioniso, ai cui piedi la folla si prostra.
«Lo spettacolo si svolge sopra e sotto il palcoscenico e anche sotto la platea, da dove ascolteremo le voci del coro, come a simboleggiare la nostra doppia natura, il conscio e l’inconscio, il razionale e l’irrazionale, il luogo dei misteri. La casa in ordine e il disordine che è in ognuno di noi e in ogni società».
Una grande parete inclinata e riflettente dilata lo spazio, i gesti, le visioni di chi è in scena e del pubblico. E il re ha uno specchio.
«Lo specchio è elemento centrale. Il re non si accontenterà di vedere quello che accade riflesso, vorrà assistervi di persona e sarà l’inizio del suo smarrimento: Dioniso pretende che si vesta da donna».
Quando l’opera apparve, l’attenzione si soffermò sui temi dell’ambiguità e della liberazione sessuale. Che, mi pare, oggi la interessino meno: in scena vedremo uomini armati di mitra.
«Vedendo oggi quest’opera, noi contemporanei riconosciamo i segni che sono intorno a noi, però capovolti. Abbiamo un re, cioè un uomo politico, che predica una forma di astinenza dall’alcol, dalle donne, dalla carne, e un dio che viene a portare una liberazione erotica e sessuale, ma al tempo stesso è un dio violento. È l’oscurità anche terribile della tragedia che è impossibile appiattire nell’attualità».
Eppure, vorremmo tanto poter semplificare!
«Vorremmo, ma non è possibile. Qui non c’è catarsi, non c’è una soluzione. Se veniamo ancora scossi, è proprio per via del mistero di questo testo. Che mostra le contraddizioni della condizione umana, il nostro lato oscuro da conoscere, liberare, ma anche da tenere a freno».
Tempo di inaugurazioni: la Scala apre con «Giovanna d’Arco», il Regio di Torino ha riproposto l’«Aida» vista pochi anni fa, la Fenice di Venezia «Idomeneo» di Mozart. La scelta dell’Opera di Roma spicca per originalità?
«In un anno per me molto impegnativo, non ho voluto sottrarmi all’invito: l’opera è bellissima, l’occasione imperdibile. E in una città che sta soffrendo come sta soffrendo, questo è un segnale luminoso di coraggio. Ho aderito a un significativo progetto di rinnovamento».
Dopo la prima, lei tornerà di corsa allo Stabile di Torino per mettere in scena «La morte di Danton» di Georg Büchner. È direttore artistico di quel teatro dal 2007: stanchezza, ruggini, intatto piacere di lavorarci?
«Quel testo è un’altra scalata, bella e impegnativa. A Torino sto molto volentieri: il teatro ha tanto pubblico, il rapporto con la dirigenza è intenso. Tutto funziona bene».
il manifesto 27.11.15
Le frontiere aperte dell’Universo
Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività. Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola»
intervista di Andrea Capocci


Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media. Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Tra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie. «Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre».
In che senso, professore?
C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle grandi intuizioni…
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica.
A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle…
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle.
E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica.
Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
La Stampa 27.11.15
Anna e Angelica, le regine russe del primo socialismo italiano
La Kuliscioff era la compagna di Filippo Turati, la Balabanoff l’amante di Mussolini: due donne diverse legate dall’impegno civile e politico
di Amedeo La Mattina


La fucina intellettuale vibrava al numero 23 della Galleria di Milano. Era il salotto di Anna Kuliscioff, la casa della regina del socialismo italiano e del suo compagno Filippo Turati. Lì si riunivano l’intellighenzia riformista di Critica sociale e la redazione femminista della Difesa delle lavoratrici, nella quale lavorava Angelica Balabanoff. In quel luminoso appartamento, dove campeggiava un enorme ritratto di Karl Marx, Anna regnava sovrana. Ordinata, curata, elegante, sempre pronta con la battuta tagliente sulle labbra, odiava tutti coloro che contraddicevano il suo «Filippino», cioè Turati.
In quel salotto ogni tanto appariva un giovane baffuto con gli occhi spiritati, la mascella squadrata, il bavero del cappotto alzato e il cappello floscio da brigante. Era il giovane Benito Mussolini. La Kuliscioff non lo sopportava. Lo considerava un anarcoide ignorante e provinciale. Anna non aveva digerito la sconfitta subita dai riformisti nel congresso nel 1912 e la perdita dell’Avanti!, alla cui direzione i massimalisti vincitori avevano messo il focoso romagnolo. Un affronto doppio perché era stato estromesso Claudio Treves, il pupillo di casa Turati. E per ironia della sorte politica, del gruppo dirigente massimalista faceva parte la Balabanoff, che aveva un trasporto non solo politico per il giovane rivoluzionario.
Era stata Angelica nel 1904 a scoprirlo in Svizzera e a educarlo ai testi del marxismo, alla cultura e alla filosofia europea. «Se non l’avessi incontrata in Svizzera, sarei rimasto un piccolo attivista di partito, un rivoluzionario della domenica»: è il riconoscimento (l’unico nei confronti di una donna) che il Duce tributava negli Anni Trenta alla rivoluzionaria russa. La quale intanto girava per l’Europa e gli Stati Uniti a gridare (inascoltata) contro il capo del fascismo, «traditore e puttano».
Anna e Angelica. Entrambe russe, ebree, poliglotte, coltissime, provenienti da famiglie ricche, innamorate dell’Italia, degli italiani, della nostra cultura e di quel socialismo mediterraneo che negli Anni Dieci del Novecento sviluppava la migliore tradizione riformista e incubava le sue «eresie» comunista e fascista. Le divisioni politiche tra l’aristocratica Anna e l’intransigente Angelica trovavano pace nella redazione della Difesa delle lavoratrici. Le loro battaglie per l’emancipazione delle donne non dovevano fare i conti solo con la mentalità maschilista. Gli avversari ce li avevano pure nel partito dominato da uomini. Kuliscioff insisteva affinché il gruppo parlamentare socialista presentasse una proposta di legge per riconoscere alle donne il diritto di voto. Turati a casa diceva sì, non ti preoccupare, ma quando arrivava a Roma non se ne faceva mai niente.
Anna era un medico, la «dottora dei poveri», che si era laureata con una tesi sull’origine batterica delle febbri puerperali, aprendo la strada alla scoperta delle cause delle morti post partum. Angelica era la «missionaria del socialismo», amica di Rosa Luxemburg e di Lenin. Nei comizi incantava con la sua oratoria da predicatrice. Nel «loro» salotto fece irruzione un’affascinante e giovane veneziana, Margherita Grassini. Anche lei ebrea, sposata con Cesare Sarfatti, un rampante avvocato sionista che aveva detto alla moglie: «Segnati il suo nome perché questo giovanotto sarà l’uomo del futuro». Margherita prese in parola il marito e diventò l’amante di Mussolini, strappandolo all’austera Angelica, che aveva assunto la carica di caporedattore dell’Avanti!.
La Grande Guerra divise Kuliscioff e Balabanoff. La prima, come molti riformisti di allora, finì per essere favorevole all’intervento dell’Italia in difesa della Francia. La seconda rimase un’inflessibile neutralista, venne espulsa dall’Italia e nel 1917 in Russia si tuffò nel fuoco della rivoluzione bolscevica. Si pentì amaramente di avere seguito Lenin. Dopo un lunghissimo giro di boa tra Europa e Stati Uniti, fece ritorno in Italia nel 1947. In odio ai comunisti si schierò con i socialdemocratici di Saragat. Fu l’ennesima cocente delusione che Angelica subì nella sua lunga e tormentata vita, al termine della quale si ricongiunse, anche idealmente, alla compagna Kuliscioff.
Ora, da domani, quel salotto di Anna sarà esposto a Milano presso Palazzo Moriggia (Museo del Risorgimento). Fa parte della mostra organizzata dalla Fondazione Kuliscioff,. Foto d’epoca, manoscritti, poesie, articoli, giornali, riviste, opuscoli originali. Ci sono pure i disegni, anch’essi originali, che il vignettista Giuseppe Scalarini dedicò al tema della donna durante la Grande Guerra.
«Nel 1980 uccise la moglie. Fu dichiarato mentalmente infermo»
La Stampa 27.11.15
“Vi racconto la guerra tra idealisti e materialisti”
Esce per la prima volta in Italia La filosofia per non filosofi un manuale che il filosofo francese aveva tenuto nel cassetto
di Louis Althusser


Louis Althusser (1918-1990) è stato un filosofo francese e uno dei più importanti protagonisti dello strutturalismo degli Anni 60. Intraprende gli studi filosofici all’Ècole normale supérieure di Parigi dove continua l’ attività accademica fino al 1980. Nello stesso anno uccide la moglie. È dichiarato mentalmente infermo

Questo breve saggio si rivolge a tutti quei lettori che si considerano, a torto o a ragione, dei «non-filosofi» e che, tuttavia, desiderano farsi un’idea della filosofia.
Che cosa dicono i «non filosofi»?
L’operaio, il contadino, l’impiegato dicono: «Noi non sappiamo niente di filosofia. Non fa per noi, è per intellettuali specializzati. È troppo difficile. Nessuno ce ne ha mai parlato, perché abbiamo abbandonato gli studi troppo presto».
Il dirigente, il funzionario, il medico dicono: «Abbiamo studiato filosofia, ma era troppo astratta. Il professore era bravo ma oscuro. Ci siamo dimenticati tutto. E poi, a che cosa può servire la filosofia?».
I professori
Un altro dice: «Scusate, ma a me la filosofia interessava molto. Devo ammettere che avevo un professore appassionante e con lui la filosofia era comprensibile. In seguito, però, ho dovuto guadagnarmi da vivere e quindi, visto che le giornate hanno solamente ventiquattr’ore, ho lasciato perdere. È un peccato».
E se chiedete a tutti loro: «Se dunque non vi considerate filosofi, chi sono allora, secondo voi, gli uomini che meritano questo nome?», risponderanno in coro: «I professori di filosofia, ovviamente!».
Ed è assolutamente vero: a parte coloro che, per ragioni personali, cioè per piacere o necessità, continuano a leggere autori filosofici, quindi a «fare filosofia», i soli che meritano di essere chiamati filosofi sono proprio i professori di filosofia. [...]
Andiamo avanti e diamo un’occhiata discreta ai professori di filosofia: hanno un marito o una moglie come tutti, e anche dei figli, se ne hanno voluti. Mangiano e dormono, soffrono e muoiono come gli altri. Possono amare la musica e lo sport, fare politica oppure no. Niente di tutto questo fa dunque di loro dei filosofi.
Un mondo chiuso
Ciò che li rende tali è il loro vivere in un mondo a parte, un mondo chiuso, costituito dalle grandi opere della storia della filosofia. Un mondo che, apparentemente, non ha un fuori. I professori di filosofia vivono con Platone, Descartes, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, ecc. E cosa fanno (i migliori, beninteso)? Leggono e rileggono all’infinito le opere dei grandi autori, confrontandole e differenziandole, da un capo all’altro della storia, per comprenderle meglio. Questa rilettura perpetua è quanto meno sorprendente: i professori di matematica o di fisica, o di una qualunque altra materia, non rileggeranno mai in continuazione un trattato di Matematica o di Fisica, «ruminandolo» a tal punto.
Certo, trasmettono le conoscenze, spiegandole e dimostrandole, poi basta, non ci tornano più sopra. Al contrario, la pratica della filosofia consiste proprio nel ritornare continuamente sui testi. Il filosofo ne è ben consapevole e ve ne spiega per di più la ragione: un’opera filosofica non svela il suo senso, il suo messaggio, alla prima lettura, poiché è sovraccarica di senso, è per natura inesauribile e come infinita; ha sempre qualcosa di nuovo da dire a colui che sa interpretarla.
La pratica della filosofia non è una semplice lettura e neppure una dimostrazione. Essa è interpretazione, interrogazione, meditazione; il suo scopo è far dire ai grandi testi quello che vogliono dire, o possono voler dire, mostrare la Verità insondabile che questi contengono, o che indicano silenziosamente conducendoci verso di essa.
Di conseguenza, questo mondo senza un «fuori» è un mondo senza storia. Pur essendo costituito dall’insieme delle opere consacrate dalla storia, non ne ha tuttavia una. Prova ne sia che il filosofo, per interpretare un passaggio di Kant, potrà invocare tanto Platone quanto Husserl, come se non ci fossero ventitré secoli a separare i primi due e un secolo e mezzo tra il primo e l’ultimo, a dimostrazione del fatto che poco importano il prima e il dopo.
Senza storia
Per il filosofo tutte le filosofie sono, per così dire, contemporanee. Si rispondono le une alle altre facendosi eco, perché, in fondo, non fanno altro che rispondere alle stesse domande, su cui si fonda la filosofia. Da questo deriva la celebre tesi che «la filosofia è eterna». Come si può vedere, affinché la rilettura perpetua e il lavoro di meditazione ininterrotto siano possibili, è necessario che la filosofia sia al tempo stesso infinita (ciò che «dice» è inesauribile) ed eterna (tutta la filosofia è contenuta in nuce in ogni filosofia). [...]
Il lettore dirà adesso che, quella appena descritta, è una situazione limite, una tendenza estrema, che esiste certo, ma che le cose non stanno sempre così. In effetti, il lettore ha ragione: ciò che abbiamo appena descritto è, in forma relativamente pura, la tendenza idealista, la pratica idealista della filosofia.
È possibile però filosofare in tutt’altro modo. A riprova di questo, nella storia, certi filosofi, che chiameremo materialisti, hanno filosofato diversamente, e alcuni professori di filosofia tentano di seguire il loro esempio. Essi non vogliono più vivere in un mondo separato, ripiegato sulla sua interiorità, ma uscirne e vivere all’esterno; vogliono che tra il mondo della filosofia, che esiste, e il mondo reale si stabiliscano scambi fecondi. Per loro è questa la funzione della filosofia. Mentre gli idealisti pensano che la filosofia sia prima di tutto teorica, i materialisti sostengono che la filosofia sia prima di tutto pratica, che venga dal mondo reale e produca in questo, senza saperlo, degli effetti concreti.
Le due porte
Noterete che, a dispetto della loro profonda opposizione agli idealisti, i filosofi materialisti possono essere, diciamo così, «d’accordo » con i loro avversari su diversi punti, come per esempio sulla tesi che la filosofia non si insegna, pur non attribuendole lo stesso significato. La tradizione idealista difende, infatti, questa tesi ponendo la filosofia al di sopra delle conoscenze, e chiamando gli uomini a risvegliare dentro loro stessi l’ispirazione filosofica. La tradizione materialista, invece, non eleva la filosofia al di sopra delle conoscenze, ma invita piuttosto gli uomini a cercare la materia per imparare a filosofare al di fuori di loro stessi, nella pratica, nelle conoscenze e nella lotta sociale, senza tuttavia trascurare le opere filosofiche. Si tratta di una sfumatura, certo, ma carica di conseguenze.
Il significato
Prendiamo un altro esempio, al quale l’idealismo tiene moltissimo: il carattere inesauribile delle opere filosofiche, che differenzia evidentemente la filosofia dalle scienze. Il materialismo è «d’accordo» nel riconoscere il fatto che un’opera filosofica non può ridursi al testo letterale, diciamo alla sua superficie, poiché essa è sovraccarica di senso; si spinge perfino oltre, riconoscendo, proprio come l’idealismo, che questo sovraccarico di senso risiede nella «natura» della filosofia! Dato però che ha della filosofia una concezione completamente diversa dall’idealismo, il sovraccarico di senso di un’opera filosofica non esprime per il materialismo il carattere infinito dell’interpretazione, bensì l’estrema complessità della funzione filosofica. Se un’opera filosofica è sovraccarica di senso, allora deve, per poter esistere come filosofia, unificare un gran numero di significati. Si tratta di una sfumatura, certo, ma carica di conseguenze.
Ed ecco, infine, un ultimo esempio: la ben nota tesi idealista che tutte le filosofie sono contemporanee, che la filosofia è in qualche modo «eterna», e che non ha una storia. Per quanto paradossale possa sembrare, il materialismo può concedere, con riserva, il suo «accordo» su questa tesi. Con riserva, perché il materialismo sostiene che nella filosofia si produce della storia, che avvengono dei fatti, dei conflitti e delle rivoluzioni reali che modificano il «paesaggio» della filosofia. A parte questa riserva, il materialismo considera a suo modo che «la filosofia non ha storia», nella misura in cui la storia della filosofia è la ripetizione di uno stesso conflitto fondamentale, che oppone, in ogni filosofia, la tendenza materialista a quella idealista. Si tratta ancora di un dettaglio, certo, ma carico di conseguenze.