venerdì 4 dicembre 2015

il manifesto 4.12.15
Da oggi all'8 dicembre, va in scena a Roma, presso il Palazzo dei Congressi, Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria, giunta alla sua 14ma edizione
Una ballata alla messicana
Un percorso in mezzo a scrittori della letteratura iberoamericana, con il poeta poliedrico Julián Herbert e la giovane autrice Valeria Luiselli, entrambi messicani, gli argentini Marcelo Figueras e Hernán Ronsino
di Francesca Lazzarato


Proprio mentre a Roma ha inizio Più libri più liberi, fiera nazionale della piccola editoria, a Guadalajara, capitale dello stato messicano di Jalisco, sta per chiudersi la Feria Internacional del Libro, imponente manifestazione che si è affermata come l’appuntamento più importante per l’editoria di lingua spagnola e che, in poco più di una settimana, ospita seicentocinquanta scrittori, almeno duemila editori, e poi agenti letterari, distributori, traduttori, nonché quasi ottocentomila visitatori: e tutto questo in un paese dove i libri, come ha fatto notare Elena Poniatowska, per troppi cittadini sono ancora un oggetto di lusso. Creata e organizzata ventinove anni fa dall’università locale, la Feria è una immensa vetrina della produzione editoriale, ma anche un avvenimento culturale con un denso programma di seminari, tavole rotonde, incontri, dibattiti e convegni capaci di testimoniare della ricchezza di letterature che appartengono a culture diverse, e tuttavia sono comprese in un’ area linguistica in continua evoluzione, com’è oggi quella dello spagnolo «transnazionale».
ronsino
L’Argentina al centro
Un’eco di questo effervescente panorama – sempre più presidiato e gestito da giganteschi gruppi stranieri come Penguin Random House, che lo considerano particolarmente appetibile, ma popolato anche da una costellazione di editori indipendenti e dal fitto pulviscolo della microeditoria artigianale — arriva da qualche anno anche a Più libri più liberi, dove l’Istituto Italo-Latino Americano usa invitare alcuni scrittori tradotti in italiano, per farceli conoscere più da vicino. E mai come quest’anno, bisogna dirlo, la scelta risulta stimolante, grazie alla proposta di scritture profondamente diverse, difficilmente riunibili sotto l’ombrello di un’ipotetica e sempre dibattuta identità «continentale» (della quale, tra l’altro, gli scrittori invitati discuteranno durante un incontro collettivo), ma proprio per questo esemplificative della varietà e della vitalità delle tante letterature iberoamericane, come dell’impossibilità di applicare ai suoi autori etichette stereotipate e riduttive.
Per cominciare, arrivano dall’Argentina, paese che ha appena vissuto la vittoria elettorale (sia pure di stretta misura) di un’inquietante destra ultraliberista, due autori interessanti come Marcelo Figueras ed Hernán Ronsino. Il primo, poco più che cinquantenne, oltre a una lunga esperienza di giornalista e di sceneggiatore cinematografico possiede anche un sicuro talento di narratore (in fiera presenterà Aquarium, pubblicato quest’anno dall’Asino d’oro e ambientato nell’Israele della seconda Intifada) che si dispiega interamente nel nuovissimo El rey de los Espinos e gli consente di rinnovare radicalmente un genere quasi estinto come il romanzo d’avventura, attingendo ampiamente, com’è sua abitudine, ai materiali della cultura pop per raccontarci la storia di un giovanissimo becchino che, dopo aver seppellito un celebre autore di fumetti (trasparente alter ego del desaparecido e indimenticato H. G. Oesterheld), scopre la fuga dei suoi personaggi da «strisce» in cui non possono più tornare: un affascinante delirio che speriamo di vedere presto tradotto.
Di Ronsino, professore all’Università di Buenos Aires, in Italia conosciamo gli ultimi due volumi (Glaxo pubblicato da Meridiano Zero, e Biografia di un albero, uscito quest’anno presso Gran via) della sua cosidetta trilogia pampera, ambientata nella piccola città di provincia dov’è nato nel 1975, Chivilcoy: un autore fortemente evocativo, che crea con lenta sicurezza narrazioni fatte di minuzie quotidiane, di assenze, di fili incrociati, fino a ricomporre una memoria personale quanto collettiva, quella di un’epoca che ha segnato con silenzi e cupe reticenze una generazione di scrittori latinoamericani, allora bambini e ancora oggi intenti a decifrare, un frammento dopo l’altro, l’enigma di quegli anni, vissuti in un continente che pareva, come qualcuno ha scritto, «un parco tematico di dittature».
Anche il quarantenne Alejandro Zambra, professore universitario, poeta, ottimo saggista e romanziere cileno tra i più tradotti e conosciuti all’estero (a Più libri più liberi presenta I miei documenti, una raccolta di racconti pubblicata da Sellerio) appartiene a quella generazione, e anche lui, in quasi tutte le sue opere di narrativa, fa i conti con il passato e con la costruzione della memoria, in un modo sottile che intreccia alla finzione temi autobiografici, dettagli intimi, ricordi e disvelamenti, come accade in Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013), raffinato esercizio di autoficción.
Figure evocate
Questo modo di raccontare il mondo filtrandolo attraverso le esperienze più personali e private potrebbe sembrare proprio anche della messicana Valeria Luiselli, poco più che trentenne, cresciuta in giro per il mondo e oggi residente a New York, dove tiene corsi di letteratura e scrittura creativa, che nella fiera romana parlerà del suo primo romanzo, pubblicato nel 2013 da La Nuova Frontiera. Ma dopo aver letto i primi capitoli di Volti tra la folla, si scopre che Luiselli è fatta di un’altra pasta, perché presto la storia si stacca dalla quotidianità della giovane madre che si destreggia tra scrittura e bambini piccoli, ed evoca invece il personaggio (o il fantasma?) del poeta Gilberto Owen, stabilendo un legame con questo artista geniale e alcolizzato, esponente dell’avanguardia messicana negli anni ’20 e ’30. Una storia oscura, un dialogo tra vita e morte che non somiglia in nulla a Historia de mis dientes, il nuovo romanzo di Luiselli (accolto con entusiasmo in Germania e negli Usa, tra non molto lo vedremo anche in Italia), una sorta di gioco irriverente e bizzarro in cui il banditore d’aste Carretera vende non tanto gli oggetti (tra i quali una quantità di denti «celebri»), quanto le storie che li riguardano, e che costituiscono il loro autentico e unico valore.
Luiselli, insieme a un discreto numero di nuovi autori, fa parte di quello che si potrebbe definire un vero «rinascimento» della letteratura messicana contemporanea, alla cui gloriosa storia si aggiungono oggi nomi ancora poco conosciuti da noi, ma dei quali sentiremo molto parlare, sempre che si trovino editori disposti a pubblicarli e che non siano del tutto estinte la curiosità e la propensione all’incontro con narrazioni complesse e fuori dagli schemi, un tempo tipiche dei lettori forti. Uno di questi autori, giustamente considerato tra i migliori del suo paese e di tutta l’America Latina, è Julián Herbert, che arriva a Più libri direttamente dagli incontri di Guadalajara, ai quali ha partecipato in veste di poeta, romanziere e studioso.
Herbert, nato nel 1971, è infatti un artista poliedrico, che riunisce in sé identità diverse: in primo luogo quella di uno dei più importanti poeti messicani di questi anni, la cui vasta produzione continua a sperimentare forme nuove (non ultima la videopoesia), poi quella di critico e saggista, ma anche di musicista pop, guida e vocalist di una band chiamata Madrastras, e infine quella di scrittore straordinario – l’aggettivo non è esagerato – che in fiera parlerà del suo romanzo Canción de tumba, uscito in italiano presso Gran via col titolo di Ballata per mia madre.
Tradotto in diversi paesi e premiato in Spagna con il Jaén de Novela, Canción de tumba è un esempio riuscito e perfetto di autoficción, che cerca, in parallelo, il senso della scrittura e del narrare e quello del rapporto con una madre prostituta, instabile, irresistibile, orgogliosa e bugiarda, ormai vicina alla morte. Una storia terribile, cruda, amaramente sarcastica, gonfia di eccessi e autodistruzione, ma che tuttavia procede verso una maturità dolorosa e pacificata.
Una storia da leggere, per chi non la conosce, e da leggere di nuovo, per chi l’ha già fatto, in attesa della traduzione del nuovo romanzo di Herbert, La casa del dolor ajeno, appena pubblicato in Messico da Random House, che sviluppa uno degli aspetti più interessanti di Canción de tumba, quello dell’analisi storica e sociale (rigorosamente condotta, però, secondo le ragioni della letteratura) presente nelle pagine sulla repressione del movimento dei ferrovieri negli anni ’50, e che allo stesso tempo conferma l’intenzione e la capacità dell’autore di cancellare i confini tra generi letterari per creare qualcosa di sempre diverso ed esteticamente audace.
Teatro della crudeltà
Per l’argomento, La casa del dolor ajeno potrebbe far pensare a un romanzo storico, dato che parla di un pogrom avvenuto in Messico nel 1911, quando, pochi mesi dopo l’inizio della rivoluzione, trecento immigrati cinesi vennero selvaggiamente uccisi e sepolti in una fossa comune. Ma questa vicenda del passato, ancora tutta da chiarire, diventa rapidamente storia di oggi, in cui si fondono xenofobia, razzismo, odio viscerale contro chi è percepito come troppo diverso per poter respirare la stessa aria dei suoi massacratori. La ricerca d’archivio, i viaggi nei luoghi del «piccolo genocidio», i colloqui con coloro che oggi ci vivono, il ricordo delle storie sentite da bambino, il teatrino dell’orrore in cui il Messico si è trasformato e che affonda le radici nella violenza di un tempo… tutto questo si fonde per dare vita a un testo originale, brillante e spietato, che è in parte reportage, in parte cronaca, in parte romanzo, e che suona terribilmente familiare anche alle nostre orecchie. Dal Messico raccontando una storia remota che però ci riguarda tutti, Herbert parla anche di noi, e lo fa da scrittore autentico: vale la pena di conoscerlo, di ascoltarlo.
La Stampa 4.12.15
Editoria, indipendente è bello
Piccoli e medi crescono di più
Si apre oggi a Roma la Fiera “Più libri più liberi”. Secondo un’indagine Nielsen il mercato potrebbe uscire dalla recessione
di Mario Baudino


Il mercato del libro sta uscendo dalla recessione. Ma proprio in questo 2015 segnato dalla grande acquisizione di Rcs da parte di Mondadori emerge alla Fiera della piccola e media editoria che si apre oggi a Roma (fino a martedì all’Eur, Palazzo dei Congressi, organizzata dall’Aie, l’associazione degli editori), un dato a sorpresa: i «piccoli» e «medi» sono andati bene. Meglio della media. Lo si intuisce dalle classifiche dei best seller (che non sono appannaggio esclusivo dei «giganti», anche se da essi vengono per lo più dominate): basti pensare al successo di Elena Ferrante per e/o o ai Camilleri e in genere ai giallisti di Sellerio.
C’è però un’indagine Nielsen (l’istituto che tra le altre cose segue l’andamento dei libri) che lo conferma. I dati verranno diffusi oggi, ma il senso generale è chiaro. Sono stati presi in esame editori con un fatturato tra zero e 13 milioni, arrivando cioè fino a e/o e Sellerio, che ormai tanto «medi» non sono più. E tuttavia, da zero a tredici, dal punto di vista del lavoro editoriale, si individua un’area con caratteristiche precise: quella che sembrava più in pericolo. L’altro giorno l’amministratore del Gruppo Mondadori (e presidente della nuova Mondadori libri), Ernesto Mauri, ribadiva in un’intervista al Corriere la convinzione che le dimensioni, la «massa critica» sono indispensabili per poter competere in un mercato difficile come quello italiano. Dove il «piccolo», l’indipendente, parrebbe sempre sul punto di ritrovarsi fuori gioco.
Ma potrebbe anche non essere così. Sandro Ferri, forte dei successi di e/o, propone un’alternativa: «Quella logica di aggregazione è sicuramente necessaria se si cercano margini di redditività maggiore, ma rende impossibile un’editoria di ricerca, che su certi titoli può, anzi deve perdere qualcosa. E’ verissimo che bisogna far tornare i conti, ma ci sono varie possibilità di interpretare questa esigenza. La maggioranza dei libri che pubblichiamo noi è sicuramente in perdita: una perdita imprescindibile, se si vuole rischiare, fare ricerca e non solo inseguire il possibile best seller. I titoli che vanno bene, e per fortuna ce ne sono, aiutano poi l’intero catalogo».
Sono ruoli, persino destini diversi, che possono anzi devono convivere. Ma è una convivenza per niente facile. Proprio i piccoli e medi editori, attraverso il loro responsabile all’interno dell’Aie, Antonio Monaco (edizioni Sonda di Casale Monferrato) presentano oggi una sorta di appello-manifesto.
«Il mercato dal 2010 si è ridotto del 25 per cento - ci ricorda Monaco - per ripartire è necessario ripensare le regole. Domani ci sarà un gruppo, la Mondadori, che ha il 38 per cento del mercato e il 50 per cento della presenza in libreria. Forse non è il caso di dare questo ulteriore premio di maggioranza; librai e soprattutto catene di librerie devono ripensare la situazione con noi e tutti gli altri, attraverso un legame più stretto con gli editori. Spesso proprio noi organizziamo manifestazioni culturali di grande importanza, partendo magari da una piccola libreria editrice. Non sempre gli enti locali se ne rendono conto. Chiediamo allora a tutti gli interlocutori possibili di valorizzare con noi libro e lettura». I numeri e le statistiche dicono che è possibile.
Il mercato nel 2015 avrà una piccola variazione positiva rispetto all’anno precedente. A fine ottobre segna un -1.6% di fatturato, pari circa a 14 milioni di euro in meno rispetto allo stesso periodo del 2014, ma senza considerare gli e-book e le vendite di Amazon, che non comunica i suoi risultati. La previsione dell’Aie è che alla fine si possa arrivare a un segno positivo.
Repubblica 4.12.15
“Il futuro? Una app capace di rispondere per noi”
intervista di Giuliano Aluffi


L’EMAIL tra fastidi contemporanei e prospettive future. Ne parliamo con Gloria Mark, docente di informatica all’University of California di Irvine, esperta nello stress da tecnologia e autrice del recente saggio Multitasking in the digital age (editore Morgan &Claypool, 2015).
Qual è il problema principale nel nostro uso dell’email?
«Abbiamo calcolato che l’utente medio controlla l’email 74 volte al giorno. È decisamente troppo. E ci sono delle conseguenze: in un esperimento, abbiamo tolto l’email a un campione di impiegati tenendo sotto controllo i loro parametri vitali e la loro produttività. Senza email ci si affanna meno nel multitasking, ci si concentra meglio sui compiti da eseguire e si lavora più a fondo su ogni obiettivo. Inoltre lo stress, misurato come la variabilità del battito cardiaco, è inferiore quando siamo senza posta elettronica».
Quale è il modo migliore per usare l’email, alla luce delle sue ricerche?
«I messaggi non dovrebbero essere inviati di continuo, ma in alcuni momenti precisi del giorno. Se la posta elettronica arrivasse nelle nostre caselle solo alle 10, alle 12 e alle 14 e alle 16, allora non perderemmo tutto quel tempo controllando la posta e lavoreremmo meglio. Inoltre la tecnologia può aiutarci a filtrare in modo migliore le email e anche a rispondere. Molte email non hanno bisogno di una risposta umana: può bastare una risposta automatica, come ad esempio quelle che il sistema di intelligenza artificiale di Google sta approntando. Un esempio: di fronte a un messaggio che ci chiede un documento, Gmail ci presenterà tre risposte precompilate: “Non ce l’ho” / “Devo cercarlo” / “Certo, te lo mando” e se ne potrà scegliere una con un solo click».
Ma allora Slack non sostituirà l’email?
«Il futuro della comunicazione digitale potrebbe essere una tecnologia simile a Slack, anche se non so se sarà proprio Slack, perché è un sistema che può essere migliorato: non funziona sui server locali delle aziende, e la versione a pagamento è costosa. In ogni caso nel futuro dell’email dovrà essere più facile associare i messaggi alle informazioni che abbiamo sul computer: ad esempio, se scrivo un messaggio che riguarda un mio studio, questo dovrebbe allegarsi automaticamente al messaggio, senza bisogno che lo faccia io manualmente. Oggi alcuni servizi di posta elettronica già provano capire quali sono i mittenti più importanti per un utente, così da evidenziare i loro messaggi. Questa è la strada giusta: analizzare e misurare ancora di più i nostri comportamenti d’uso, estrarne l’intelligenza e usarla per rimuovere ciò che ci fa perdere tempo».
Repubblica 4.12.15
Sfida all’ ultima email
Si chiamano Slack Basecamp, HipChat Nella Silicon Valley è caccia alle alternative alla posta elettronica Obiettivo: arginare l’assedio quotidiano che ci rende meno produttivi ma soprattutto più infelici
di Riccardo Luna


C’È un fantasma che si aggira nelle nostre vite. Un rito che si ripete ogni giorno, con puntualità crudele sebbene involontaria. È una frase, una semplice frase, il più delle volte pronunciata senza malizia ma anzi cercando di essere gentili, eppure quelle quattro parole sono capaci di gettarci nello sconforto. Sono queste: «Ti mando una email».
No, vi prego, un’altra email no. Fatemi una telefonata piuttosto, e se trovate occupato, ricorrete a un piccione viaggiatore o fate dei segnali di fumo. Qualunque cosa. Ma un’altra email no. Perché? Perché sono diventate troppe. Tra quelle dirette, quelle in cui siamo solo in copia con altre persone che quando rispondono moltiplicano quel messaggio esponenzialmente, e quelle in cui siamo in copia nascosta: l’email è ormai uno tsunami digitale che travolge le nostre vite, deprimendo la produttività e soprattutto la felicità. È una storia antica, per quanto antiche possono essere le storie nel mondo digitale; ma abbastanza perché ogni tanto qualcuno si alzi per annunciare gravemente la morte dell’email, sostituita da chissà quale altro strumento più intelligente.
L’ultimo si chiama Slack, che in inglese vuol dire “rilassato, lento”, detto di uno che “non sta lavorando”. Ecco perché la promessa di Slack è importante nei tempi frenetici che viviamo: “Be less busy”, che potremmo tradurre con “sii meno impegnato”. Rilassati. Eppure Slack è uno strumento di lavoro. Anzi, vuol essere lo strumento di lavoro «per team che vogliono cambiare il mondo ». Non a caso in Silicon Valley sta spopolando. Lo usano startup in rampa di lancio come AirBnb e Buzzfeed, ma anche colossi come Comcast e Walmart e istituzioni governative come la Nasa e il Dipartimento di Stato.
Cos’ha di speciale? In fondo nulla. È una app di messaggistica come altre, da Basecamp a Campfire, da Grove a HipChat. Ma fa tutto benissimo. Intanto consente a team di lavoro di collaborare anche in posti del mondo lontani, aprendo canali per ogni nuovo progetto. In quei canali si può partecipare inviando documenti da praticamente tutte le altre fonti, dalle app di Google a Dropbox, con un clic. Quei canali diventano così lo strumento di lavoro all’interno del quale tutti possono fare ricerche facilmente, essendo informati dei progressi e dei problemi in corso. Si sincronizza istantaneamente con tutti gli strumenti — telefonino, tablet, pc. È gratis per i piccoli team, oppure costa da 6 a 12 dollari al mese per utente.
Complessivamente, ogni giorno, 1,7 milioni di persone usano Slack: davvero poche in termini assoluti, non v’è dubbio, ma la crescita è stata rapidissima dal lancio nel febbraio 2014. E le critiche sono iperboliche: c’è chi grida al “miracolo”, chi parla di produttività che schizza in alto, chi semplicemente si dice felice. Perché tanto entusiasmo? Perché risolve uno dei problemi del nostro tempo: scambiarsi messaggi facilmente senza intasare l’email. Tutto qui? No, infatti, sebbene il fatturato non raggiunga i 50 milioni annui, è valutata già quasi 3 miliardi di dollari e secondo molti osservatori, se riuscirà nell’impresa di uccidere l’email e cambiare il modo in cui lavoriamo, può arrivare a 100. Ha senso? Sicuramente il fondatore ha una storia solida alle spalle. Si chiama Stewart Butterfield, ha 42 anni e dieci anni fa ha venduto a Yahoo! l’azienda che aveva creato per 25 milioni di dollari: era Flickr, il primo, popolarissimo servizio per caricare e condividere le proprie foto. Ancora non si perdona quella scelta frettolosa.
Slack è nato quasi per caso un paio d’anni fa: Butterfield aveva lavorato a creare un videogame, sua antica passione. Si era rivelato un flop, ma in compenso lo strumento che aveva realizzato per far collaborare il suo team funzionava alla grande. Tutti stavano più rilassati, dirà. Per que- sto lo ha chiamato Slack.
Può davvero liberarci dall’invasione quotidiana? Più delle previsioni, contano i numeri. Nonostante i tanti tentativi di ridurne l’uso, ancor oggi, ogni secondo, nel mondo vengono inviate due milioni e quattrocentoquarantacinquemila 465 email. Ogni secondo. Nello stesso tempo le ricerche su Google sono 50mila, i tweet 10mila, le foto caricate su Instagram 3mila, le chiamate su Skype meno di duemila. No, l’email non sta morendo. Noi sì in compenso.
Qualche mese fa il fondatore di Hootsuite, uno dei servizi che aiutano a gestire meglio i propri account Twitter, ha fatto un post per dire in sostanza “mi arrendo”. Il 12 gennaio, come proposito per l’anno nuovo, Ryan Holmes ha dichiarato “la bancarotta” del suo account; ovvero i messaggi in attesa di essere letti erano talmente tanti che ha fatto l’unica cosa possibile: li ha selezionati tutti e li ha spostati nel cestino. Libero, finalmente. E il brutto è che ormai non ci sono solo le email: i messaggi ci arrivano sotto forma di messaggi privati su Twitter, dal Messenger di Facebook, dalle chat di Whatsapp e adesso anche di Instagram, e via così.
Come fermare l’invasione che ci fa vivere peggio e ci rende meno produttivi? La posta in palio è altissima, per questo i giganti della Silicon Valley si cimentano con questa sfida: qualche tempo fa Google ha lanciato InBox, un sistema innovativo per la gestione del sistema di posta di Gmail: le aspettative erano alte, in rete era caccia agli inviti per testare per primi la app. A distanza di un anno è davvero impossibile dire che InBox possa considerarsi un successo. Sì certo, il tasto che consente di ritirare un messaggio entro 10 secondi dall’invio può essere utile per utenti impulsivi, ma se l’obiettivo era una gestione migliore delle email in entrata ancora non ci siamo.
L’impressione è che il problema non sia risolvibile con la tecnologia (almeno finché non arriveranno la telepresenza diffusa o fantascientifici strumenti per la lettura del pensiero, sostiene qualcuno). Quello che serve è l’educazione degli utenti. Già nel 2010 ebbe successo un manuale — “Send” — che già nel titolo faceva un’accusa precisa: “Perché le persone usano la email così male e come si può migliorare” (pare che Hillary Clinton ne abbia recentemente acquistata una copia dopo lo scandalo delle email in cui è rimasta coinvolta).
In realtà, con il proliferare dei servizi di messaggistica, la situazione è peggiorata. Peter Diamandis, gran guru della Singularity University e profeta del positivismo digitale, tre mesi fa invece del solito post sull’intelligenza artificiale è sceso sulla terra per pubblicare un prontuario di uso corretto dei social media. Il presupposto è che ogni strumento ha un utilizzo ideale e quindi «LinkedIn è per il lavoro, Facebook per gli amici, Snapchat per gli amici intimi, gli sms per le comunicazioni urgenti, Twitter per dire qualcosa a tutti, Skype per le telefonate a distanza, il telefono per comunicare qualcosa di davvero intimo, infine Slack, già Slack, serve a lavorare in gruppo».
E l’email? «La verità», conclude Diamandis, «è che l’email è probabilmente la peggior forma di comunicazione che abbiamo a disposizione». Peccato che i 3 miliardi di utenti della rete non siano d’accordo e questa semplice ragione la rende ancor oggi la strada migliore per raggiungere qualcuno. A quattro condizioni, secondo Diamandis: «Che l’oggetto sia chiaro e interessante; che le prime due righe sappiano cogliere l’attenzione di chi legge; che il testo sia breve; e che il messaggio richieda una risposta semplice, netta». Se non ci riuscite, provate con Slack.
Il Sole 4.12.15
Tlc. Servizio in partenza a Milano
Fastweb lancia la sfida del wi-fi gratis e in mobilità
di Andrea Biondi


Per i clienti Fastweb l’abbonamento fisso potrà farsi valere anche in mobilità. Smartphone, tablet e laptop (fino a 4 device per abbonamento) si connetteranno, automaticamente, alla rete Fastweb in wi-fi anche quando non si è a casa. «Sarà come avere in mobilità la velocità della fibra», spiega l’ad di Fastweb Alberto Calcagno. E il tutto senza consumare i dati a disposizione con il proprio profilo tariffario.
Dopo un periodo di sperimentazione – prima a Monza e Livorno, poi in altre 17 città – Fastweb ha lanciato ieri il servizio “Wow Fi” su scala nazionale. Un lancio da Milano per proseguire a Roma (febbraio 2016); Firenze e Torino (marzo); Bologna e Genova (aprile) e poi «entro fine 2016 in tutte le altre città coperte dalla rete Fastweb».
In sostanza ogni modem dei clienti in fibra (o di quelli Adsl di ultima generazione) della controllata italiana di Swisscom diventa un punto d’accesso a disposizione della community di clienti (Adsl o fibra). A Milano ce ne sono 45mila: «Uno ogni 50 metri» conferma Calcagno. Quindi è come se si trattasse di hotspot condivisi da tutti i clienti Fastweb che potranno navigare in wi-fi in giro per le città senza costi aggiuntivi e collegandosi a una rete protetta. Basterà registrarsi una volta sola con il proprio device per usufruire del servizio dappertutto, senza fare null’altro. Always on, insomma, partendo da una considerazione legata a numeri che lo stesso ad di Fastweb snocciola durante la presentazione: «Oggi l’80% del traffico dati su smartphone e tablet è su wi-fi. E per il 75% all’interno di luoghi chiusi». Certo c’è un Lte che avanza nel mobile. «Il servizio – replica l’ad di Fastweb – garantirà prestazioni quantomeno analoghe a quelle della telefonia mobile di quarta generazione. In Italia ci saranno almeno 2 milioni di nostri hotspot attivati a fine 2016».
La mossa di Fastweb non è in realtà una novità assoluta nel mercato delle tlc. Anche Vodafone, lo scorso aprile, ha lanciato il wi-fi condiviso per tutti i clienti di rete fissa all’interno di un servizio che, grazie alla partnership con Fon, è disponibile anche all’estero. Rispetto a Vodafone, Fastweb è comunque al momento più forte nel fisso in Italia, con «600mila clienti in banda ultralarga, pari a circa il 50% del mercato attuale», precisa Calcagno.
A ogni modo, che si tratti di Vodafone o Fastweb, quella del wi-fi condiviso è potenzialmente una strada che, se percorsa con decisione, rischia di sparigliare le carte in un mercato delle tlc che sta cercando una via d’uscita a una flessione dei ricavi da servizi che è costata miliardi di euro. Con la morte di sms, uccisi da social e servizi di messaging, i dati sono infatti rimasti la fonte di ricavo più pregiata. Lanciare la sfida attaccando quel fronte non è roba da poco. Fastweb però – che comunque nel mobile c’è, come operatore virtuale con oltre 500mila clienti e un 13,8% di quota nel segmento Mvno, dietro a Poste italiane – sta facendo la sua partita, mirando a fare incetta di nuovi clienti fissi facendo leva su vantaggi possibili anche nel mobile per chi utente mobile di Fastweb non lo è. Il tutto anche nel quadro di un piano di ampliamento della rete di nuova generazione sino a 100 megabit al secondo che a fine settembre ha raggiunto 6,2 milioni di case in oltre 70 città e che raggiungerà 7,5 milioni di case, il 30% della popolazione, entro fine 2016.
L’ad di Fastweb, a margine dell’incontro, ha parlato inoltre della newco annunciata da Enel per la banda ultralarga. «Ha una certa logica», ha detto, aggiungendo che si tratta di «un progetto che integra il mercato delle tlc e come tale lo stiamo valutando. Ci saranno in futuro delle discussioni e dei colloqui con Enel come con gli altri. È un tema di business come tanti altri».
Repubblica 4.12.15
Clima Così il mare inonderà l’Italia
Da Venezia a Cagliari sono trentatré le zone costiere che potrebbero finire sott’acqua entro la fine del secolo
Secondo l’ultimo studio dell’Enea anche il rischio desertificazione per le regioni meridionali: le temperature saranno uguali a quelle del Nord Afric
di Antonio Cianciullo

PARIGI L’artista danese Olafour Eliasson ha disposto davanti al Panthéon cento tonnellate di blocchi di iceberg provenienti dalla Groenlandia componendo il disegno di un orologio. E ha aspettato. Non molto perché in una Parigi dalla temperatura mediterranea, la composizione ha resistito poche ore: un messaggio chiaro, rivolto ai delegati della conferenza Onu, sulle conseguenze del cambiamento climatico. Conseguenze che per il nostro paese sarebbero drammatiche: intere aree costiere verrebbero sommerse.
Lo chiarisce uno studio appena aggiornato dai ricercatori del Laboratorio di modellistica climatica dell’Enea. Se le emissioni serra non verranno fermate, l’Italia perderà a fine secolo 5.500 chilometri quadrati di territorio sul litorale e 60 all’interno, solo nell’area che va da Trieste a Ravenna. Ma in tutto sono 33 le zone costiere in cui le acque, se continueremo a bruciare combustibili fossili e a tagliare foreste, penetreranno allagando terra fertile e strade, case e fabbriche. Andranno sott’acqua, assieme a Venezia, anche Ravenna, Ferrara, Cagliari e Oristano.
«Abbiamo aggiornato i dati tenendo conto degli studi più recenti e misurando i vari fattori: risalite dei mari, movimenti tettonici, aggiustamenti del livello del suolo», spiega Fabrizio Antonioli, il ricercatore Enea che ha coordinato lo studio. «La nostra stima mostra cosa succederebbe se si ignorasse ogni politica di difesa della stabilità climatica».
Nell’area del Nord Adriatico la risalita delle acque andrebbe, al 2100, da un minimo di 95 a un massimo di 130 centimetri. Tra Cagliari e Oristano si oscilla tra 92 e 130 centimetri. A Taranto si va da 90 a 125 centimetri. A rischio anche la foce del Tevere, la Versilia, le saline di Trapani, la piana di Catania.
«La risalita delle acque è uno dei fenomeni che sono stati più a lungo sottovalutati», aggiunge Stefano Caserini, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. «Erano 0,9 millimetri l’anno nel 1920, 2 millimetri nel 1990, ora sono più di 3 millimetri l’anno. E il vero problema è l’inerzia del sistema atmosfera-oceani: dal momento in cui riusciremo a fermare le emissioni serra dovremo aspettarci una risalita dei mari e delle temperature che durerà decenni. Purtroppo gli studi degli ultimi tre anni danno un quadro della situazione molto più grave di quanto si riteneva: nell’arco di alcuni secoli si potrebbe verificare un aumento del livello dei mari di 4 metri a causa della fusione dei ghiacci antartici».
Ma il cambiamento climatico — precisa un altro studio Enea pubblicato su Nature Scientific Reports — accelererebbe anche la spinta verso la desertificazione che colpirebbe in particolare le regioni meridionali. Il clima del Sud Italia diventerebbe quello del Nord Africa, con estati e inverni sempre più aridi e secchi e una crescente carenza di acqua che determinerà il progressivo inaridimento dei suoli, con ripercussioni che vanno dalla salute all’agricoltura. Se il Sud Italia rischia di avere un clima nordafricano, il Nord Europa tenderà a «mediterraneizzarsi »; in particolare Europa nord-occidentale, Gran Bretagna e Scandinavia avranno estati molto più secche ed inverni più piovosi rispetto a oggi. Le proiezioni realizzate attraverso i modelli climatici mostrano che le aree mediterranee si espanderanno anche verso le regioni europee continentali, coinvolgendo i Balcani settentrionali e la parte sud-occidentale di Russia, Ucraina e Kazakistan, dove prevarrà un clima sempre più mite con un aumento delle temperature invernali. Lo stesso fenomeno potrebbe interessare il Nord America, in particolare nella parte nord occidentale.
Repubblica 4.12.15
Istruzioni per l’uso del clima impazzito
Nei prossimi anni cambierà la nostra vita ecco come difendersi
di Jared Diamon


I CAMBIAMENTI climatici globali sono una delle forze che condizioneranno maggiormente la vita di tutti gli esseri umani che vivranno nei prossimi decenni. Quasi tutti ne hanno sentito parlare, ma è una materia così complicata e ricca di paradossi che poche persone, al di fuori degli addetti ai lavori, la capiscono davvero. Cercherò di spiegarla nel modo più chiaro possibile, con l’aiuto di un diagramma di flusso della catena di causa/effetto, che può essere usato per seguire la mia spiegazione.
Il punto di partenza è la popolazione mondiale di esseri umani e l’impatto medio di ciascun essere umano (cioè la quantità media di risorse consumate e scarti prodotti per persona e per anno). Tutte queste quantità stanno aumentando, anno dopo anno, e di conseguenza sta aumentando l’impatto umano complessivo sul pianeta: l’impatto pro capite, moltiplicato per il numero di persone che ci sono al mondo, dà come risultato l’impatto complessivo.
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UNO scarto importante è il biossido di carbonio o anidride carbonica (abbreviato in CO2), che provoca i cambiamenti climatici quando viene rilasciato nell’atmosfera, principalmente a causa del nostro consumo di combustibili fossili. Il secondo gas più importante all’origine dei cambiamenti climatici è il metano, che esiste in quantità molto più ridotte e al momento rappresenta un problema meno grave della CO2, ma che potrebbe diventare importante per effetto di un anello di retroazione positiva: il riscaldamento globale scioglie il permafrost, che rilascia metano, che provoca ancora più riscaldamento, che rilascia ancora più metano e così via.
L’effetto primario della CO2, quello di cui più si discute, è la sua azione di gas a effetto serra. Significa che la CO2 assorbe una parte delle radiazioni a infrarossi della Terra, facendo crescere la temperatura dell’atmosfera. Ma ci sono altri due effetti primari del rilascio di CO2 nell’atmosfera. Uno è che la CO2 che produciamo viene immagazzinata anche dagli oceani, non solo dall’atmosfera. L’acido carbonico che ne risulta fa aumentare l’acidità degli oceani, che già adesso è al livello più alto negli ultimi 15 milioni di anni. Questo processo scioglie lo scheletro dei coralli uccidendo le barriere coralline, che sono un vivaio di riproduzione per i pesci dell’oceano e proteggono le coste delle regioni tropicali e subtropicali da onde e tsunami. Attualmente, le barriere coralline del mondo si stanno riducendo dell’1-2 per cento ogni anno, il che significa che alla fine di questo secolo saranno in gran parte scomparse. L’altro effetto primario del rilascio di CO2 è che influenza direttamente (in modo positivo o negativo) la crescita delle piante.
L’effetto del rilascio di CO2 di cui più si discute, in ogni caso, è quello che ho citato per primo: il riscaldamento dell’atmosfera. È quello che chiamiamo «riscaldamento globale», ma l’effetto è talmente complesso che questa definizione è inadeguata: è preferibile «cambiamenti climatici globali ». Innanzitutto, le catene di causa ed effetto fanno sì che il riscaldamento atmosferico finirà, paradossalmente, per rendere alcune aree di terre emerse (fra cui il Sudovest degli Stati Uniti) più fredde, anche se la maggior parte delle regioni (fra cui quasi tutto il resto degli Stati Uniti) diventerà più calda. In secondo luogo, un’altra tendenza è l’incremento della variabilità del clima: tempeste e inondazioni sono in aumento, i picchi di caldo stanno diventando più caldi e i picchi di freddo più freddi; questo spinge quei politici scettici che non capiscono nulla dei cambiamenti climatici a pensare che tali fenomeni siano la prova che i cambiamenti climatici non esistono. In terzo luogo, c’è l’aspetto dello sfasamento temporale: gli oceani immagazzinano e rilasciano CO2 molto lentamente, tanto che se stanotte tutti gli esseri umani sulla Terra morissero o smettessero di bruciare combustibili fossili, l’atmosfera continuerebbe comunque a riscaldarsi ancora per molti decenni. Infine, c’è il rischio di effetti amplificatori non lineari di vasta portata, che potrebbero provocare un riscaldamento del pianeta molto più rapido delle attuali, prudenti proiezioni. Fra questi effetti amplificatori c’è lo scioglimento del permafrost e il possibile collasso delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia.
Venendo alle conseguenze della tendenza al riscaldamento medio del pianeta, ne citerò quattro. La più evidente per molte parti del mondo è la siccità. Per esempio nella mia città, Los Angeles, questo è l’anno più secco della storia da quando si sono cominciati a raccogliere i dati meteorologici, nel primo decennio dell’Ottocento. La siccità è un problema per l’agricoltura. Le siccità causate dai cambiamenti climatici globali sono distribuite in modo disuguale nel pianeta: le aree più colpite sono il Nordamerica, il Mediterraneo e il Medio Oriente, l’Africa, le terre agricole dell’Australia meridionale e l’Himalaya.
Una seconda conseguenza della tendenza al riscaldamento medio del pianeta è il calo della produzione alimentare, per la siccità e paradossalmente per l’aumento delle temperature sulla terraferma, che può favorire più la crescita delle erbe infestanti che la crescita di prodotti destinati al consumo alimentare. Il calo della produzione alimentare è un problema perché la popolazione umana e il tenore di vita del pianeta, e di conseguenza il consumo di cibo, stanno aumentando (del 50 per cento nei prossimi decenni secondo le previsioni): ma già adesso abbiamo un problema di cibo, con miliardi di persone denutrite.
Una terza conseguenza del riscaldamento del pianeta è che gli insetti portatori di malattie tropicali si stanno spostando nelle zone temperate. Fra i problemi sanitari conseguenza di questo fenomeno al momento possiamo citare la trasmissione della febbre dengue e la diffusione di malattie portate dalle zecche negli Stati Uniti, lo sbarco della febbre tropicale Chikungunya in Europa e la diffusione della malaria e dell’encefalite virale.
L’ultima conseguenza del riscaldamento medio globale che voglio citare è l’innalzamento del livello dei mari. Stime prudenti al riguardo prevedono che il livello dei mari salirà nel corso di questo secolo di circa un metro, ma in passato i mari sono saliti anche di dieci metri: la principale incertezza in questo momento riguarda il possibile collasso e scioglimento delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia. Ma anche un aumento medio di solo un metro, amplificato da tempeste e maree, sarebbe sufficiente a compromettere la vivibilità della Florida, dei Paesi Bassi, dei bassopiani del Bangladesh e di molti altri luoghi densamente popolati. Gli amici a volte mi chiedono se i cambiamenti climatici stiano avendo qualche effetto positivo per le società umane. Sì, qualche effetto positivo c’è, per esempio la prospettiva di aprire rotte navali sgombre dai ghiacci nell’estremo Nord, per lo scioglimento dei ghiacci artici, e forse l’incremento della produzione di grano nella wheat belt del Canada meridionale e in qualche altra area. Ma la stragrande maggioranza degli effetti sono enormemente negativi per noi.
Ci sono rimedi tecnologici rapidi per questi problemi? Forse avrete sentito parlare di ipotesi di geoingegneria, per esempio iniettare particelle nell’atmosfera o estrarre CO2 dall’atmosfera per raffreddarla. Ma non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza; inoltre gli approcci proposti sono molto costosi e sicuramente richiederanno molto tempo e provocheranno effetti collaterali negativi imprevisti, tanto che dovremmo distruggere la Terra sperimentalmente dieci volte prima di poter sperare che la geoingegneria, all’undicesimo tentativo, produca esattamente gli effetti positivi desiderati. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi.
Significa che il futuro della civiltà umana è segnato e che i nostri figli vivranno certamente in un mondo in cui non vale la pena di vivere? No, naturalmente no. I cambiamenti climatici sono provocati principalmente dalle attività umane, perciò tutto quello che dobbiamo fare per ridurli è ridurre queste attività. Vuol dire bruciare meno combustibili fossili e ricavare una fetta maggiore della nostra energia da fonti rinnovabili come il nucleare, il vento e il sole. Se anche solo Stati Uniti e Cina raggiungessero un accordo bilaterale sulle emissioni di CO2, coprirebbe il 41 per cento delle emissioni attuali. Se l’accordo diventasse pentalaterale, con l’adesione dell’Unione Europea, dell’India e del Giappone, coprirebbe il 60 per cento delle emissioni mondiali. L’ostacolo è solo uno: la mancanza di volontà politica.
Il premio Pulitzer Jared Diamond è professore di geografia all’Università della California. Ha scritto, tra gli altri, “ Da te solo a tutto il mondo”, “ Collasso” e “ Armi, acciaio e malattie” ( Einaudi) Questo articolo è uscito su Le Monde ( traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 4.12.15
“Grazie a Rada sono tornato un uomo libero”
Boris Pahor racconta la relazione con la moglie. Tra passione, ironia e ricordi dal lager
intervista di Simonetta Fiori


TRIESTE «Rada aveva capito il mio grande bisogno di libertà, perché chi proviene dal paese della morte è destinato a vivere come un naufrago». Della moglie parla quasi con soggezione, come se non bastasse un secolo di esperienze – centodue anni tra guerre mondiali, lager, totalitarismi – per accostarsi a quelle vette di intelligenza e ironia. «Forse non l’ho mai meritata», ripete oggi Boris Pahor mentre infila la scalinata che conduce alla sua casa sul mare, gli ultimi gradini discesi con passo saltellante («Li conosco bene, sono del mio giardino», rassicura chi l’osserva preoccupato). È nato a Trieste nel 1913, sotto l’impero asburgico. Ha visto
l’orrore del Novecento e forse anche per questo sa parlare d’amore. Quello di Radoslava Premrl, un’intellettuale slovena dal tratto aristocratico, «era come l’antico amore del mare per la propria costa, fedele come le volute delle doline carsiche». Le ha dedicato Libro per Rada, non ancora tradotto in italiano, «anche per dimostrarle che aveva torto. Lei era convinta che scrivendo di noi sarei stato tentato dall’autocelebrazione. Invece non ho tralasciato nulla, anche i miei difetti peggiori».
Come vi siete conosciuti?
«Durante un viaggio in treno, nel 1951. Io non sono proprio un tipo da conversazione, però le dissi che somigliava a Ingrid Bergman. “Ah, bella scoperta”, mi gelò lei. Era una giovane donna dalla battuta pronta».
E questo naturalmente le piacque?
«Era un tratto che mi affascinava anche se un po’ ne ho sofferto. Quando le sfiorai le labbra, nel mare di Barcola, lei fece il gesto di cancellare il bacio con l’acqua salata. Rideva, però era come se volesse scansare la tenerezza».
Forse aveva bisogno di sdrammatizzare.
«Sì, era un modo per dirmi che era forte e che aveva superato i momenti più brutti della sua vita».
A cosa si riferisce?
«Il legame tra me e Rada nacque anche perché avevamo un passato doloroso. Io ero sopravvissuto al fascismo e ai lager di Dachau e Natzweiler-Struthof, lei aveva subito il carcere, il confino e la tragedia di un fratello e di una sorella ammazzati».
Il passato doloroso può unire sentimentalmente?
«Sì, perché ci si riconosce l’uno nell’altro. Rada era pura vita. Una delle prime volte le dissi che doveva essere tenuta come riserva dell’intero universo. “Persone come te dovrebbero essere portate sulla terra alla fine delle guerre, dei lager, delle carceri”. Lei si adombrò sotto la frangetta dorata: “Ah, come se io non fossi stata in prigione” ».
Lei non lo sapeva?
«No. Rada sapeva tutto di me avendo letto le mie prime novelle pubblicate nel 1948, ma io non sapevo ancora che i fascisti l’avevano messa in galera a Gorizia insieme alla madre. Fu allora che mi accorsi di essermi innamorato ».
Come lo capì?
«Avevo voglia di accarezzarla, di avere più vicino quel vissuto che lei mi raccontava. E desideravo impadronirmi del suo buonumore, della grande felicità del vivere che restituiva nonostante la casa bruciata e l’orrore dei fratelli uccisi».
Il suo più grande gesto d’amore verso Rada è stato quello di aiutarla a liberarsi da una storia molto dolorosa.
«Le chiesi di scrivere di suo fratello Janko, un comandante partigiano divenuto eroe nazionale in Jugoslavia. Rada aveva scoperto che a spezzare la vita di Janko non erano stati i fascisti ma gli stessi compagni comunisti, intolleranti della sua libertà. Una vera tragedia».
Lei parlava con Rada dell’esperienza in campo di concentramento?
«No. Niente. Né a casa dei miei né con lei. Pensavo: se vogliono sapere, che leggano quello che scrivo».
Quindi Rada ha saputo dai suoi libri?
«Sì. Io battevo a macchina da mattina a sera, poi correggevo a mano, e Rada ricopiava la versione pulita. Sa, degli stati interiori è più facile scrivere che parlarne con la propria compagna. In Necropoli ho cercato di dire l’indicibile, ma è molto più complicato trovare il modo di spiegarlo a voce a chi non l’ha vissuto».
Il lager restava fuori dalla relazione.
«Poteva affiorare a brandelli nel quotidiano, le mollichine di pane posate vicino al piatto o il ricordo improvviso delle brodaglie che ci propinavano».
Come si ricomincia ad amare dopo il campo di concentramento?
«La prima pulsione l’avevo provata in sanatorio, vicino a Parigi, dopo la reclusione a Bergen-Belsen. Madeleine, una giovane infermiera francese, mi fece tornare la fiducia nell’essere umano. Facevamo l’amore nel boschetto, sull’erba. Mi sembrò una cosa del tutto naturale».
Però ha raccontato di aver avuto difficoltà a esprimere una vicinanza affettiva, anche con i figli.
«Ho maturato tardi il sentimento di paternità. Quando nacquero i miei due figli li osservavo da un punto di vista storico, come due esseri umani che non dipendevano da me. Avevo vissuto per un anno e mezzo nel paese della morte. Ci ho messo tanto per diventare normale».
Il più grande merito di Rada, lei ha scritto, è stato quello di rispettare il suo bisogno di libertà.
«La morte lascia un grande desiderio di libertà. Quando fui ricoverato in ospedale per la tisi, subito dopo il campo, non sopportavo che ogni giorno venissero a misurarmi la febbre. Io mi sentivo come un naufrago. E mia moglie questo lo comprese da subito».
Lei non volle sposarla in Chiesa.
«Non mi sentivo di giurarle fedeltà eterna. E qualche volta sono andato fuori del patto coniugale. Rada sapeva e non faceva storie. Una volta mi invaghii di un’attrice jugoslava molto bella, ma mia moglie era come condiscendente. Mi trascrisse una frase tratta da Colette: “Piuttosto infelice con lui che non senza di lui”. Parlava di noi due».
Fece finta di niente anche quando lei si innamorò di una francese che aveva subito violenza dal padre.
«Avevo già ottant’anni quando conobbi una donna più giovane. Alla fine della presentazione di La primavera difficile mi si avvicinò per dirmi: “Probabilmente noi ci conosciamo”. Più tardi avrei capito cosa voleva dirmi: io ero stato violato nella mia dignità, ma lei era stata violata dal padre. Ancora più atroce».
Lei avrebbe raccontato la storia del vostro incontro in “Petalo Giallo”.
«Quando uscì l’edizione slovena la diedi da leggere a Rada senza una dedica. “Dopo che mi darai un giudizio scriverò la dedica”. Non lo lesse».
Lei una volta a proposito di Rada ha usato le parole di Camus: “Eravamo solitari e solidali l’uno con l’altro”.
«Anche Rada si teneva un mondo dentro. Quando era ricoverata in sanatorio, ormai consapevole che non sarebbe mai più tornata a casa, le dissi. “Lo sai Cioci che ti voglio bene”. E lei, pronta: “Quando te ne sei accorto?”. Gli feci un gesto come per dire: eh, da tanto...».
Rada, Cioci, Zivka. Lei la chiamava in tanti modi.
«Cioci è un vezzeggiativo che si usa con i bambini. Le piaceva molto, come se l’accarezzassi. Una mattina sono arrivato in ospedale un po’ tardi, “Buongiorno Cioci”. Ho sentito due grandi sospiri, poi niente. Forse mi stava aspettando. Aspettava l’ultima carezza».
Repubblica 4.12.15
Venezuela
Fame e rischio caos La scomoda eredità del chavismo
Domenica le elezioni Per i sondaggi vinceranno le opposizioni Maduro in bilico E si teme il golpe
Le avanguardie socialiste proporranno un referendum per revocare il presidente
Le milizie del “prezzo giusto” controllano i negozi e obbligano a tenere tariffe politiche
Il presidente del Venezuela Nicolás Maduro. Accanto il funerale di un ragazzo ucciso dalle gang a Caracas
di Omero Ciai


CARACAS HANNO un giubbotto leggero color cachi, il cappelletto da baseball di Charlie Brown, e sono gli uomini più temuti del Venezuela. Sono le milizie bolivariane del “prezzo giusto”, le brigate che setacciano la città imponendo ai commercianti di vendere i prodotti al prezzo calmierato deciso dal governo. L’altra mattina Jesus piangeva, si asciugava le lacrime con la carta che usa per impacchettare la carne. «Vogliono che chiuda. Come faccio a vendere alla metà del prezzo che ho pagato per averla?», bisbigliava a bassa voce mentre piangeva. Macellaio, 45 anni, tre figli, bottega nel centro di Caracas. Dopo settimane di carestia aveva ricevuto una partita di carne bovina che avrebbe venduto, un po’ di nascosto, ai suoi clienti migliori. Qualcuno ha fatto la spia e sono arrivati quelli delle brigate. «Tutta questa carne la devi vendere a prezzo politico », gli hanno detto e sono rimasti nel suo negozio a vigilare finché non ha finito di venderla. La carestia è cominciata anche così. Con la legge del “prezzo giusto” che il presidente Maduro ha imposto più di un anno fa. Secondo il governo, con l’inflazione ormai al 200%, le uova, il latte, la farina, il riso, devono essere venduti ad un prezzo inferiore a quello che costa produrle. Così è sparito anche quel poco che c’era. Ed è cominciata la “borsa nera”, come se ci fosse una guerra. Un pollo vale la metà di un salario minimo, 9mila bolivar, circa 15 dollari al cambio reale. Maria, la moglie di Antonio il barbiere, dice che ha bisogno di almeno 20mila bolivar ogni settimana per fare la spesa. Loro guadagnano molto meno e da mesi sopravvivono con i vecchi risparmi. Sono arrivati qui bambini, sessanta anni fa, dalla provincia di Avellino. Hanno due figlie laureate in medicina. Una è tornata in Italia, l’altra resiste perché suo marito, venezuelano, dice che «presto tutto cambierà».
Una famiglia venezuelana può andare al supermercato solo una volta alla settimana. Il giorno dipende dall’ultimo numero della carta d’identità. Si comprano a prezzi politici prodotti che somministra direttamente il governo attraverso Pdvsa, la holding del petrolio. Le code sono interminabili e le milizie bolivariane supervisionano. Dentro, spesso, si trova pochissimo. Trovar da mangiare fino alla settimana successiva è come partecipare a una lotteria. Così il neologismo di moda a Caracas è “Bachaquear”. La “bachaca” è una grossa formica operaia e oggi serve per indicare quelli che si dedicano a cercare viveri che poi rivendono, casa per casa, ad un prezzo tre o quattro volte superiore a chi può permettersi di pagarlo. L’altro fenomeno è la scomparsa del cash. Il biglietto di taglio più alto della moneta venezuelano è 100 bolivar e, siccome ormai è quasi carta straccia, si paga solo con carte di credito o bancomat, per evitare di presentarsi alla cassa di un negozio con uno zaino di biglietti da cento. E a Natale, naturalmente, dimenticatevi il panettone, così diffuso in Venezuela per le migliaia di discendenti di italiani, perché quello prodotto in Brasile che arriva qui, a “borsa nera” costa mezzo stipendio.
Dopo essersi dedicata a distruggere l’industria e la produzione agricola nazionale, che per Hugo Chávez era in mano ai “nemici di classe” e andavano annientati, la rivoluzione bolivariana sta disintegrando i piccoli commerci privati. Passeggiando per Altamira, uno dei quartieri della media borghesia locale, si scoprono strade vuote e negozi chiusi. Più di un’attività commerciale su due è fallita. Non c’è più il gelataio e nemmeno la famosa bottega di “Delicatessen”, tonno, acciughe e salmone. Accanto al barbiere ha già chiuso il ristorante e cento metri più su anche la tintoria. Da tempo, tutto quello che si consuma in Venezuela è importato. E, con il petrolio, l’unica risorsa del Paese, sotto i 40 dollari, lo Stato non ha più i fondi sufficienti per rifornire il mercato. Il deficit di bilancio cresce e gli unici Paesi che prestano soldi a Maduro sono la Russia e la Cina, firmando contratti sulle future forniture di petrolio. Le farmacie sono senza medicine. Nemmeno un’aspirina. Mancano i ricambi per riparare le auto.
La voce, il volto e i video degli ultimi comizi di Chávez sono ovunque. Il leader della rivoluzione, morto più di due anni fa all’Avana, continua a ossessionare i venezuelani con i suoi deliri di guerra di classe. Resuscitato per la campagna elettorale delle elezioni parlamentari di domenica prossima. Per governo e opposizione l’appuntamento di domenica è un plebiscito: a favore o contro la rivoluzione. Per Maduro, neo leader chavista indicato dal caudillo morente come successore, che due anni fa vinse per un soffio le presidenziali, i sondaggi sono tragici. Ma comunque vada per l’opposizione la strada verso un cambiamento al potere è ancora molto lunga. Se domenica conquistano il Parlamento, gli avversari delle avanguardie socialiste proporranno un referendum per revocare il presidente.
D’altra parte, con la sconfitta della Kirchner in Argentina e le difficoltà di Dilma, l’avventura bolivariana a Caracas è sempre più isolata. Perfino Raúl Castro sembra ormai un socio riluttante.
Rimane l’opzione del terrore e la minaccia, spesso ripetuta e neppure troppo aleatoria, di scegliere la via dell’autogolpe. Con la formazione, se la sconfitta sarà consistente, di una giunta civico-militare e la chiusura del Parlamento a quel punto nemico.
il manifesto 4.12.15
Francia: l’arrembaggio del Fronte nazionale
Elezioni regionali. I sondaggi: l'estrema destra in testa in sei regioni (su 13) al primo turno del 6 dicembre (ma non vuole dire vincere al secondo). La devastazione a sinistra, tra Ps che vira a destra, verdi divisi e Front de gauche senza alleati
di Anna Maria Merlo


PARIGI Gli ultimi sondaggi, a pochissimi giorni dal primo turno delle elezioni regionali, domenica 6 dicembre, confermano la devastazione del panorama politico francese: il Fronte nazionale, secondo un’inchiesta Ifop, potrebbe arrivare in testa in sei regioni su 13, il numero ridotto dalla recente riforma, rispetto alle 21 della scorsa legislazione (in Francia metropolitana, dove la sinistra negli ultimi 6 anni ha governato in 20, tutte esclusa l’Alsazia). Su base nazionale, il Fn potrebbe confermare il posto di primo partito (come alle europee), con il 30%, seguito da Les Républicains (alleato con il Modem centrista) al 29%, il Ps (con i radicali) scende al 22%, Europa Ecologia è al 6% delle intenzioni di voto, il Front de Gauche al 4,5%. A destra tutta c’è anche Debout la France, al 3,5%. Essere in testa al primo turno non significa che l’estrema destra vincerà al secondo, domenica 13, anche se il Fronte nazionale potrebbe aggiudicarsi la presidenza in 2–4 regioni.
François Hollande ha registrato un rialzo spettacolare di popolarità (+22 punti, al 50% di opinioni favorevoli), ma questo risultato non dovrebbe avere nessuna influenza sul voto di domenica. La popolarità del presidente è difatti cresciuta nell’elettorato di destra, che non voterà certo per il Ps alle regionali. Mentre la scelta marziale – proclamazione dello stato d’emergenza per tre mesi, progetto di costituzionalizzare l’eccezione, accentuazione dell’intervento in Siria – rischia di allontanare gli elettori di sinistra. Sia dal voto Ps al primo turno, poiché anche tra i parlamentari cresce la critica (e anche la chiara opposizione) alla modifica della Costituzione, che da un eventuale riporto di voti dalle altre forze di sinistra sul candidato socialista al secondo turno. Nell’elettorato tradizionale del Ps è forte la tentazione astensionista. La sinistra della sinistra non sembra in grado di captare questo scontento. Bisogna dire che le divisioni stanno estenuando questo campo: Europa Ecologia-I Verdi, il Front de Gauche (con il Pcf), il Parti de Gauche, hanno deciso alleanze a geometria variabile, sul fronte écolo ci sono addirittura dei casi di liste concorrenti, nella maggior parte delle regioni (a cominciare dall’Ile-de-France, la regione di Parigi) Verdi e Front de Gauche sono separati al primo turno e entrambi sfidano il Ps. Il Ps ha trovato, e solo in pochi casi, un accordo limitato con i Radicali di sinistra.
La sinistra rischia di uscire a pezzi dal voto delle regionali, anche perché ormai il Ps di Hollande e Valls ha effettuato una svolta che lo porta fuori da quest’area politica. Il Ps governa 20 regioni nella Francia metropolitana, in alleanza con le altre forze (verdi, Pcf, radicali), il paragone con la nuova configurazione sarà più complicato, ma nessuno potrà nascondere l’entità della sconfitta annunciata. Les républicains di Sarkozy sono riusciti in genere ad unirsi con il centro del Modem e a presentare liste uniche, ma anche per la destra classica c’è la potente sfida dell’estrema destra.
La campagna è uscita dai confini delle singole regioni, entità complicate dopo la riforma, che in moltissimi casi non hanno neppure un nome preciso, ma solo l’addizione di quelli delle vecchie regioni accorpate (sarà difatti la prima decisione da prendere per i nuovi consigli regionali: quale nome scegliere? dovrà avere una relazione con la storia ed essere visibile anche a livello europeo). La campagna si è nazionalizzata, specialmente dopo gli attentati. La sicurezza e la lotta al terrorismo sono diventate la prima preoccupazione dei cittadini e l’argomento principale dei candidati. Su questo fronte, con la collera che cresce (l’inchiesta Ifop mette in luce che sovente si trasforma in puro “odio”), l’estrema destra aumenta i consensi. La sinistra rischia di uscire distrutta, perché ha di fronte solo cattive soluzioni per il secondo turno. In molti casi, saranno difatti possibili delle “triangolari”, cioè una corsa a tre (se la lista ha superato il 10% dei votanti al primo turno): ma correre, ben sapendo di perdere, puo’ dare una vittoria quasi certa al Fronte nazionale. Allora ritirarsi? Il risultato, per il Ps, significherà essere tagliata del tutto fuori e rinunciare ad avere dei consiglieri regionali per i prossimi 6 anni. “Tutti dovranno assumere le proprie responsabilità – ha affermato Valls – a destra come a sinistra, per impedire al Fronte nazionale di vincere una regione”. Valls è arrivato persino a proporre una fusione delle liste Ps e Les Républicains per il secondo turno nei casi più delicati, come nel Nord-Pas-de-Calais-Picardie, dove Marine Le Pen è candidata e sembra avere la vittoria in tasca. Ma la destra ha rifiutato. Neppure il “fronte repubblicano” sembra essere d’attualità a destra (ritiro della lista e invito a votare per il Ps contro il Fn).
il manifesto 4.12.15
Siria, il Labour sotto le bombe
Via libera ai Tornado. Londra va alla guerra. Batosta annunciata per Corbyn: il premier Cameron trionfa in aula grazie ai voti laburisti. Raf subito in azione. L’ex capo dell’intelligence militare Flynn accusa: «Nessuna strategia coerente»
di Leonardo Clausi


LONDRA L’aula non aveva ancora finito di applaudire l’eroica prolusione con cui il figlio segreto (nel senso che fino a ieri non lo conosceva nessuno) di Tony Benn, Hilary, metteva il suggello del Labour a una maggioranza che Cameron non si sognava neppure, che già i Tornado scaldavano i motori. Mercoledì sera, con 397 sì contro 223, la camera dei Comuni ha dato la sua robusta approvazione all’intervento, non senza nel frattempo distruggere l’unità parlamentare dei laburisti, cui Corbyn aveva dovuto concedere la libertà di voto secondo coscienza. Con un discorso roboante che pigramente accostava Daesh al fascismo di Franco, Mussolini e Hitler e il cui scopo era scippare a Cameron la leadership interventista e a Corbyn quella del partito, il ministro-ombra agli Esteri Benn è finalmente uscito dall’ombra.
Per Corbyn si tratta di una batosta già scritta: grazie anche alla romanza bellicista cantata da Benn, che enfatizza la spaccatura al cuore parlamentare del Labour e deve aver convinto vari indecisi dell’ultimo momento, sono stati in 66 dei suoi ad autorizzare gli attacchi aerei, contro 152 contrari. Più contenuto il danno nel governo-ombra, dove i no sono stati 17 contro gli 11 sì. Anche per questo Cameron deve aver ridotto da due a uno i giorni da dedicare al dibattito: i sondaggi indicano che, col passare dei giorni, l’umore del paese stava spostandosi dall’appoggio incondizionato del dopo-Parigi a una sempre più diffusa esitazione.
I primi obiettivi militari, raffinerie del Daesh in territorio siriano, sono già stati colpiti all’alba di giovedì: le incursioni della Raf sono partite dalla base di Akrotiri, a Cipro, dove al momento ci sono solo otto velivoli, due Tornado e sei Typhoon, ma altri ne stanno arrivando. Carichi di missili che dovrebbero fare la differenza, secondo Cameron e il suo ministro della difesa Michael Fallon. Sono i gioielli dell’arsenale nazionale, missili che nemmeno quelli americani possono vantare: i Brimstone, 140mila euro l’uno, che vedono e seguono il bersaglio come una muta di segugi. Per limitare le vittime civili, di cui i russi non si curano più di tanto.
«Bisogna colpirli prima che colpiscano noi, tanto siamo già un obiettivo» è stato il mantra dei Tory per tutto il dibattito. E così inizia la terza guerra a distanza di Cameron, la quarta della Gran Bretagna dal 2000. Nessuno sa quando finirà naturalmente, c’è chi parla di almeno tre anni di campagna, ma non è il momento di porsi simili domande disfattiste, minano il morale dei piloti. A un certo punto bisognerà passare a vie di fatto sul territorio, e per questo Cameron conta sui 70mila combattenti «moderati» – ricorrente parola feticcio — che in realtà sono frammentati in gruppi con agende spesso in conflitto.
Proprio l’effettiva esistenza e affidabilità di questi combattenti era alla base dei dubbi di chi era indeciso o contrario all’intervento, una questione direttamente legata anche alle prospettive di chi andrà a riempire il vuoto lasciato dallo stato sedicente islamico. Per ora, l’obiettivo minimo è quello di «degradare» le capacità militari di Daesh, anche perché Cameron non può parlare di uno straccio di linea. Per citare letteralmente il Guardian, che ha chiesto al neopensionato generale americano Mike Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency circa l’esistenza di un piano strategico: «No, no. Non ne abbiamo affatto. Tutto è incoerente e frammentario».
Il massacro di Parigi ha finalmente dato al primo ministro quello che voleva da mesi: il mandato parlamentare ai bombardamenti che solo un’aula bipartisan poteva assicurargli. Ora il premier può dire di non esser stato da meno dei suoi alleati Hollande, Erdogan e Obama, le cui rispettive aviazioni rischiano di collidere con quelle iraniane, russe e di altre democrazie liberali in un’operazione militare che è quasi eufemistico definire incerta. Di aver ribadito il ruolo militare e strategico, ancor prima che diplomatico, di una Gran Bretagna che proprio non vuole imparare dagli errori recenti in Iraq, Afghanistan e Libia. E di essere naturalmente al fianco di Parigi nella guerra contro il «culto della morte».
Ora si teme un redde rationem laburista interno, con i centristi che denunciano una caccia alle streghe: Ken Livingstone, che ultimamente ha fatto delle uscite ben poco tattiche, ha dichiarato il suo sostegno alla de-selezione di chi ha votato per l’intervento. Dal canto suo, Corbyn ha condannato i cyber-insulti ricevuti da alcuni deputati favorevoli all’intervento.
Repubblica 4.12.15
Quel voto con i tories per sedurre la sinistra
di John Lloyd


ADESSO Jeremy Corbyn ha un contendente: Hilary Benn. Paradossalmente, Benn si è trovato in questa posizione dopo essersi schierato con i conservatori al governo.
Fino a quando mercoledì non ha pronunciato il suo discorso – esprimendosi a favore della proposta del governo che autorizza la Royal Air Force a bombardare le postazioni dell’Is in Siria – a sinistra il lamento di coloro che pensano che la leadership di Corbyn danneggerà il partito era che non c’era nessuno disposto a competere contro di lui. Gli altri candidati alla leadership dei laburisti – Tristram Hunt, ex docente universitario, e Chuka Umuna, ex banchiere – non sono ancora emersi come poli di influenza distinti all’interno del partito. Benn, invece, lo ha fatto.
Prospettando l’esigenza di attaccare l’Is in termini di “attacco al fascismo”, ha fatto riferimento sia all’orgoglio britannico per il ruolo assunto nella Seconda guerra mondiale sia alle motivazioni che stanno dietro la necessità da parte della sinistra di farsi coinvolgere in questa guerra.
Quale persona di sinistra negherebbe la necessità di combattere il fascismo? Con un unico discorso, Benn ha fatto sembrare Corbyn e i suoi alleati uomini e donne timorosi di affrontare chi rappresenta una minaccia per tutto il mondo. E vi è un altro aspetto paradossale: Benn è figlio di un famoso politico laburista, Tony Benn, che negli anni Settanta e Ottanta guidò l’ala più a sinistra del Labour. Ebbene: Tony Benn sarebbe stato sicuramente al fianco di Corbyn.
Come si è visto, circa 69 parlamentari laburisti hanno votato con Benn e il governo, dando a quest’ultimo una maggioranza ampia. Benn si è esibito in un discorso fatto con passione. Jeremy Corbyn al confronto è un oratore mediocre, nei suoi discorsi fa quasi sempre affidamento su fogli e foglietti di varia lunghezza e piace soltanto a coloro che già lo appoggiano. La sua forza è quella di parlare “dal cuore”, ma mercoledì Benn ha dimostrato come si fa a parlare veramente dal cuore: usando la testa.
Se Benn intende continuare a mietere successi deve riflettere con attenzione sulla prossima mossa perché Corbyn dietro di sé ha il partito e tutti i nuovi giovani membri che vogliono portare il Labour più a sinistra.
Sfidare tutto ciò è rischioso: un esercito di attivisti potrebbe sollevarsi contro di lui. Dal canto suo Corbyn deve iniziare a vincere. E con ciò intendo seggi in parlamento, elezioni regionali, le amministrative. Il risultato delle elezioni straordinarie di Oldham, città nella quale il Labour difendeva la maggioranza, sarà un banco di prova. Più importanti ancora le elezioni per l’assemblea regionale scozzese della prossima primavera. Se la mancanza di popolarità di Corbyn nel paese si rifletterà in una perdita di voti sarà arrivato il momento di Benn, se egli riuscirà a coglierlo.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Repubblica 4.12.15
“L’Is è fascista” E nel Labour vola la stella di Hilary Benn
“Disprezzano noi, i nostri valori, la nostra democrazia. Bisogna sconfiggerli”
Hilary Benn, ministro degli esteri ombra del Labour,  figlio di un noto deputato oscura Corbyn appoggiando i raid e potrebbe insidiarne la leadership
di Enrico Franceschini


LONDRA – E’ nata una stella nel partito laburista britannico. Laburismo e politica ce li ha nel sangue: perché il 62enne Hilary Benn è figlio di Tony Benn, leggendario deputato e ministro laburista scomparso nel 2014, tra l’altro famoso per avere fatto passare una legge che gli consentì di rinunciare al titolo di visconte, frutto delle sue aristocratiche origini (ed erano parlamentari, come se non bastasse, anche nonno e bisnonno). Ma soltanto mercoledì sera, quando ha preso la parola verso la fine del dibattito alla camera dei Comuni sui bombardamenti in Siria, Benn junior ha brillato nel firmamento della sinistra britannica come mai prima. Un intervento “elettrizzante”, lo definisce la stampa di Londra, una retorica che qualcuno paragona a Winston Churchill. «Noi laburisti e in generale noi britannici non ci siamo mai spostati sull’altro lato della strada per evitare una minaccia», ha detto Hilary Benn. «Non abbiamo avuto paura dei fascisti. Li abbiamo combattuti arruolandoci nella Brigata Internazionale contro il dittatore Franco. Li abbiamo combattuti affrontando Adolf Hitler e Benito Mussolini. E oggi nei fanatici dell’Is abbiamo di fronte un nuovo Fascismo. Un fascismo che disprezza noi, i nostri valori, la nostra democrazia. E quel che sappiamo dei fascisti è che bisogna sconfiggerli».
Quando si è rimesso a sedere, forse è rimasto lui stesso sorpreso dallo scrosciante applauso risuonato nel palazzo di Westminster: un tripudio raro nella solitamente compassata camera bassa del parlamento. «In quest’aula non capita spesso di ascoltare un discorso così», si è complimentato subito il ministro degli Esteri conservatore Philip Hammond. Del quale Benn è la controparte, rivestendo l’incarico di ministro degli Esteri nel “governo ombra” (faccenda presa molto sul serio da queste parti) dell’opposizione laburista. L’opinione dominante dei commentatori britannici, il giorno dopo, è che a questo punto Benn non mira più a prendere il posto di Hammond in un futuro governo laburista, insomma a fare il ministro degli Esteri sul serio, bensì a rimpiazzare Jeremy Corbyn, che si è opposto ai raid, come leader del Labour e candidarsi a primo ministro nelle elezioni del 2020. Ex-politico locale ed ex-sindacalista, deputato dal 1999, ministro nei governi di Blair e Brown, “Ilario” (si direbbe in italiano) Benn non era sgradito a Corbyn, pur senza esserne un fedelissimo, fino a quando lo ha sfidato ai Comuni schierandosi a favore dei raid in Siria, convincendo un terzo dei deputati laburisti e quasi metà dei ministri del governo ombra a votare con lui per i bombardamenti. Non è di sinistra come il padre Tony, di cui Corbyn si sente discepolo, ma neppure blairiano doc. Non è giovanissimo, ma comunque più giovane del 66enne Corbyn. Se da qui al 2020 il partito sfiduciasse Corbyn, secondo i sondaggi amato da giovani e militanti ma non dalle masse, forse il Labour ha trovato il salvatore dalla “lenta agonia” – previsione del Financial Times – verso cui lo porta la svolta radicale avviata dal suo contestato leader attuale.
Repubblica 4.12.15
Quelle immagini dei jet al decollo servono solo a rassicurare noi
La risposta affidata solo alle armi è troppo semplice rispetto a una sfida complicatissima dal punto di vista militare e politico. E non ferma la propaganda dell’Is che ha ormai fatto breccia anche in Europa
di Jason Burke


LA SETTIMANA scorsa, in un pomeriggio piovoso nel sobborgo brussellese di Molenbeek, un uomo di 27 anni di nome Montasser parlava di Siria di fronte a un tè e a del pane arabo. Parlava di un uomo più giovane, di 19 anni, con cui era stato in contatto. Il ragazzo era in Siria orientale con lo Stato islamico, e si era offerto per una missione suicida. Montasser cercava di convincerlo a non morire. Non ci era riuscito. Alcuni giorni prima il ragazzo si era fatto saltare in aria contro le «forze nemiche infedeli» in Iraq.
L’episodio illustra molte cose di grande importanza nel momento in cui lo sforzo militare contro l’Is sale di livello. Dimostra che l’Is continua a esercitare forte attrattiva sui giovani musulmani europei, nonostante l’intensificazione dei bombardamenti. Dimostra che i confini del Medio Oriente, vecchi di un secolo, sono irrilevanti per Daesh e seguaci. E mette in evidenza che i raid aerei garantiranno benefici solo marginali nella battaglia contro l’Is. La minaccia dello Stato islamico per l’Europa è come una catena di meccanismi diversi, ma collegati. C’è il meccanismo che attira adolescenti dall’Europa alla Siria. C’è il meccanismo dello Stato che li addestra, li condiziona psicologicamente e poi gli assegna delle missioni. C’è il meccanismo che li rispedisce in patria per uccidere e quello che li mette in condizione di farlo una volta in Francia, Belgio, Regno Unito, Italia o altrove. Tutti questi meccanismi devono agire insieme perché Daesh possa effettuare un attacco contro città europee. E devono essere tutti smantellati per eliminare la minaccia.
L’Europa si è accorta che la cooperazione fra i servizi di intelligence non è andata di pari passo con l’allargamento dell’Ue, e che la mancanza di confini interni significa che bisogna incrementare le risorse per la vigilanza contro possibili minacce. Ci saranno investimenti in risorse tecnologiche, e modifiche legislative per garantire maggiori possibilità di intrusione. Si cercherà di trovare dei modi per individuare in numero maggiore gli estremisti già noti e impedire loro di sfruttare il caos portato dalla crisi dei profughi. David Cameron, il premier britannico, ha detto al Parlamento che la strategia oltre ai raid aerei comprende 70.000 potenziali alleati sul terreno e uno sforzo diplomatico per mettere fine alla guerra civile. Ma queste decine di migliaia di combattenti sono qualcosa che si può solo sperare, non prevedere. E anche i più ottimisti si limitano a sperare in piccoli passi verso una soluzione diplomatica finale al problema più generale del conflitto nella regione.
Uno degli obbiettivi principali della campagna aerea è impedire allo Stato islamico di sfruttare il petrolio. Ma oggi l’Is dal petrolio guadagna molto meno di un anno fa, e gran parte dei suoi introiti viene dalle tasse, non dal commercio. E le tasse non si possono colpire con bombe o missili. La verità, come i leader politici sanno, è che Daesh prospera non in virtù della sua forza, ma per la debolezza e l’interesse egoistico degli Stati che lo circondano, e in virtù della battaglia settaria fra sunniti e sciiti. I raid aerei servono a poco per risolvere le ragioni che spingono alcuni ragazzi a lasciare posti come Molenbeek e andare in Siria. Perché ci vanno? Se c’è qualche legame con la povertà, è un legame indiretto. La disoccupazione è chiaramente un fattore. Chi si occupa di radicalizzazione sottolinea che quasi nessuno di quelli che vanno in Siria ha responsabilità finanziarie. Probabilmente perché chi queste responsabilità le ha avverte un senso del dovere, o magari perché l’atto stesso di provvedere ad altre persone attraverso il proprio lavoro offre un ruolo e uno status che mettono al riparo dal rischio di radicalizzazione. La cosa più importante sono le persone, non le statistiche o i luoghi. La radicalizzazione è un processo, non un evento. Una ricerca dell’Università di Oxford mostra che nella maggioranza dei casi a spingere una persona verso l’estremismo islamista sono amici o familiari. La militanza islamica non è un lavaggio del cervello. È un movimento sociale che viaggia attraverso reti di parentela e amicizia per irretire giovani del tutto normali. La propaganda li attira perché, per quanto deviati e distorti siano i loro desideri, offre qualcosa. Una volta in Siria, nello spazio ristretto di brutalità e violenza del conflitto e dentro un gruppo estremista, si instaura una dinamica differente. Se mai tornano a casa, non sono più normali.
Nulla di tutto questo si può risolvere con i raid aerei, ma il problema vero è che le immagini di jet pesantemente armati che decollano verso i bersagli in Siria ci rassicurano. E ci sviano anche, perché pensiamo che i nostri leader abbiano trovano una risposta semplice e concreta alla sfida complicatissima che abbiamo di fronte. Significa che la prossima volta che ci sarà un attacco nell’Europa continentale la gente sarà arrabbiata e delusa. Sarà anche più spaventata di prima, perché qualcosa non ha funzionato. Provocare paura è ciò che vogliono i terroristi. Questa settimana, mentre l’Europa si accinge alla «guerra» contro l’Is, i nostri leader farebbero bene a ridurre le aspettative, invece di accrescerle.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
Corriere 4.12.15
L’inchiesta Olivier e gli altri predicatori della jihad che le leggi non riescono a fermare
L’«emiro bianco» in Francia e Zerkani in Belgio: il filo che unisce i terroristi da Charlie al Bataclan


PARIGI Google non basta. Ci vogliono ancora uomini in carne e ossa, per convincere un ragazzo a partire per la Siria, a diventare assassino degli altri e di se stesso. Alla fine tutto si tiene, come se ci fosse un solo filo che unisce la strage di Charlie Hebdo a quella di venerdì 13 novembre. Lunedì mattina l’aula numero 16 del tribunale di Parigi era quasi deserta. Eppure si celebrava la prima udienza del processo in contumacia a Salim Benghalem, il francese più celebre ai vertici del Califfato. Nel raccontare la parabola di un delinquente comune cresciuto nella banlieue di Bourg la Reine e diventato uno dei terroristi più ricercati al mondo, oggetto anche di bombardamenti ad personam, il giudice istruttore ha citato come spartiacque un suo «lungo soggiorno» ad Artigat, piccolo villaggio nella regione dell’Ariège, «presso un noto personaggio». Non c’era bisogno di aggiungere altro.
Nel febbraio del 2007 Abdulilah Qorel, nato in Siria, ha ottenuto anche la cittadinanza francese e un nuovo nome, Olivier Corel. Ma già a quei tempi era così noto da essersi guadagnato anche un nomignolo, «l’emiro bianco». Un anziano signore che da almeno vent’anni ospita nella sua fattoria chiunque sia desideroso di ricevere i suoi insegnamenti. «Ogni musulmano ha il dovere della jihad», questo è il messaggio. Il suo discepolo Benghalem si radicalizza in prigione. Ma una volta fuori è lui che riunisce i reduci della filiera del parco di Buttes Chaumont, una organizzazione che inviava aspiranti martiri in Iraq. Diventa amico e mentore di due personaggi che diverranno purtroppo famosi. Chèrif Kouachi, uno dei fratelli responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo , e Amedy Koulibaly, l’autore del massacro all’Hypercacher dello scorso gennaio. Poi sparisce, in Siria.
L’ormai settantenne Corel invece non si è mai mosso dal suo villaggio. Sono gli altri che vanno a trovarlo. Nel dicembre del 2011 è lui a celebrare il matrimonio di Mohamed Merah, che da lì a pochi mesi farà strage a Tolosa, uccidendo nel nome dell’antisemitismo sette persone, tra le quali tre bambini. «Non sta a me giudicare quello che ha fatto» disse in una delle sue periodiche interviste. Un altro dei suoi clienti fedeli è Fabien Clain, l’uomo che dalla Siria ha rivendicato per conto dell’Isis gli attacchi di venerdì 13. Nel 2009 era stato coinvolto nell’inchiesta sulle minacce giunte al Bataclan, colpevole di aver organizzato un concerto di sostegno a favore del Magav, la polizia di frontiera israeliana.
I tre classici indizi non sempre fanno una prova. Non per l’emiro bianco, almeno. Non scrive, non è sui social network. La sua opera di proselitismo si riduce ai sermoni privati distribuiti a gentile richiesta di adepti pronti a partire per le terre dell’Isis. L’ex procuratore antiterrorismo Marc Trévidic ha parlato spesso dei limiti della democrazia. «Non esiste una legge che possa impedire a un uomo di dire quel che vuole a casa sua». Sarà anche vero che l’indottrinamento avviene sempre più spesso su Internet, ma il fattore umano ha ancora la sua importanza.
Bernard Godard, uno dei più grandi studiosi dell’Islam europeo, sostiene che la chiusura delle moschee radicali come quella di Lagny, decisa mercoledì dal governo, arriva fuori tempo massimo. «Ormai i luoghi di culto sono controllati dalla stessa comunità musulmana. L’indottrinamento alla jihad avviene in luoghi privati, dove la responsabilità morale risulta quasi impossibile da sanzionare».
I collegamenti che uniscono gli ultimi vent’anni di jihad franco-belga sono evidenti ma risultano eterei per il codice penale. Partendo dalla fattoria di Artigat si arriva fino alla strage di venerdì 13. Insieme a Benghalem, Fabian Clain accoglie in Siria Abdellahmid Abbaoud, la mente degli attentati parigini, ucciso nel blitz di Saint Denis, ed è anche il mentore di Sid Ahmed
Ghlam, il giovane algerino che lo scorso 19 aprile diede l’assalto a una chiesa di Villejuif. Uno dei quattro attentati che sarebbero stati ideati proprio da Abbaoud. Fallisce solo perché prima di dare l’assalto Ghlam riesce nell’impresa di spararsi a un piede.
Nelle 245 pagine del dossier giudiziario su Abbaoud spunta spesso il nome di Khalid Zerkani, una delle figure più note degli ambienti islamisti del Belgio. Lo chiamano il Babbo Natale della jihad, per la sua opera indefessa di propaganda fatta nelle strade di Molenbeek. Nel 2013, dopo il suo primo rientro in patria, Abbaoud si rivolge a lui, divulgatore di libretti come «Le 16 cose da sapere quando si parte per la Siria». Dopo molti tentativi a vuoto, lo condannano nel luglio 2015 a causa di un video girato di nascosto da una madre preoccupata per le sorti del figlio, nel quale arringa giovani jihadisti. Ma il danno ormai è fatto. Nell’ultimo mese anche l’emiro bianco è stato interrogato più volte. Gli è stato contestato il possesso di un fucile da caccia. Ha già pagato la multa. I kamikaze passano, i cattivi maestri restano.
Corriere 4,12,15
Intervista
«Islam apocalittico, è il peggio di Europa e Medio Oriente»
Lo storico Berman: «La povertà non può spiegare tanta ferocia»


La strage di San Bernardino è terrorismo islamico?
«Sembra chiaramente terrorismo islamico».
Crede che il modo in cui i media raccontano eventi come questo cambi a seconda della religione e dell’etnia delle persone coinvolte?
«I nostri media liberal, di sinistra, tendono a presentare i casi di terrorismo islamico negli Stati Uniti come se fossero tutt’altro. È “rabbia legata al posto di lavoro”, è un caso di follia, e così via. Ma alla fine i fatti vengono a galla».
Lo storico liberal americano Paul Berman — autore di Idealisti e potere (Baldini Castoldi Dalai), Terrore e Liberalismo e Sessantotto (Einaudi) — parla al Corriere subito dopo la strage in California. Berman ha criticato in passato alcune posizioni della sinistra sull’Islam radicale giudicandole troppo concilianti. Ma al contempo è severo con i repubblicani che capitalizzano sull’odio per i musulmani.
Che effetto avrà questo attacco sulla coesistenza tra i musulmani e il resto della società americana?
«Questo episodio esige una leadership lucida e coraggiosa da parte dei politici americani e anche dei vertici della comunità musulmana americana. È necessaria una risposta che riconosca il reale pericolo costituito dal movimento islamista e, allo stesso tempo, insegni al pubblico a distinguere tra musulmani estremisti e musulmani contrari all’estremismo. In teoria dovrebbe essere facile. Ma in pratica possiamo aspettarci da una parte appelli demagogici all’intolleranza e dall’altra il diniego della realtà di chi non vuol vedere ciò che sta succedendo. La situazione è pessima — per i musulmani americani e per tutti».
Dopo gli attacchi di Parigi, scriveva su «Le Monde» che le scienze sociali non sono in grado di spiegare le cause profonde di questa violenza. Chi può darci le risposte?
«Dobbiamo usare le scienze sociali, ma non illuderci che povertà, ineguaglianza, desertificazione, esclusione sociale — le numerose “cause profonde” invocate dalle scienze sociali — possano spiegare i movimenti terroristici. Non spiegheranno mai perché qualcuno voglia farsi filmare mentre decapita persone la cui religione gli è sgradita. Alla gente piace pensare che le scienze sociali sappiano scrutare nel cuore umano. Dobbiamo invece indagare le ideologie stesse del terrorismo e dell’odio. E proporre delle alternative: è un dovere intellettuale. Certo, è anche un dovere di polizia e a volte un dovere militare».
Lei ha detto che il terrorismo islamico ha le stesse radici del nazi-fascismo e dello stalinismo. Questa eredità è alla radice della violenza?
«Il movimento islamista è un ibrido, ideologicamente parlando. Unisce ispirazioni totalitarie provenienti dall’Europa e una certa interpretazione dell’Islam. Lo Stato Islamico affianca una “lettura” apocalittica dell’Islam con una burocrazia da stato di polizia che ha poco a che fare con le tradizioni ottomane del lontano passato ma deve molto al partito Baath, basato sul modello sovietico. Il concetto islamista della cospirazione demoniaca degli ebrei invece è un’eredità nazista. Insomma, è un’unione infernale tra il peggio dell’Europa e del Medio Oriente».
È possibile una campagna di «disintossicazione ideologica», come lei ha auspicato in passato? Oppure le parole a un certo punto sono inutili?
«L’islamismo nelle sue varie componenti radicali si configura come un movimento totalitario di massa — o forse come due o tre movimenti. Le persone che ne fanno parte devono essere convinte a cambiare idea. Ed è possibile. I movimenti totalitari di massa del passato hanno cambiato rotta. Abbiamo un disperato bisogno di incoraggiare il dialogo. Ma è pur vero che quando qualcuno tira fuori un Ak-47 e comincia a sparare, il momento per una conversazione fruttuosa forse è passato».
Quali responsabilità ha l’Occidente ?
«L’Occidente e specialmente gli Stati Uniti hanno commesso ogni possibile errore, ma poiché gli errori vanno in ogni direzione non è semplice trarne degli insegnamenti. L’intervento in Iraq si è dimostrato disastroso, tranne che in Kurdistan. La decisione di non intervenire in Siria è stata un disastro persino peggiore. Allo stesso tempo, la responsabilità per gli orrori in Iraq e Siria ricade sul partito Baath e sugli islamisti violenti: movimenti che competono per il diritto alla tirannia e al massacro».
La Francia oggi sembra più «morbida» su Assad. La priorità è distruggere l’Isis .
«Assad non intende eliminare lo Stato Islamico, per lo meno nel breve periodo. Compra il petrolio da loro, vuole annientare l’opposizione più moderata in modo da far credere al mondo che solo lui può combattere lo Stato Islamico. Putin fece lo stesso in Cecenia. Sarebbe un errore cascarci».
L’America può affidarsi agli alleati regionali?
«Temo che non succederà molto finché l’America non mostrerà leadership. O piuttosto, sarà Putin a fare il leader. Ma Putin non ha un singolo pensiero umanitario in testa ».
il manifesto 4.12.15
Riyadh risparmia al Qaeda e bombarda gli ospedali
Yemen. Raid contro una clinica mobile di Medici Senza Frontiere, la condanna Onu. I qaedisti indisturbati intanto occupano due città a sud, tra Aden e Hadramaut
di Chiara Cruciati


Le bombe che l’Arabia saudita lancia sullo Yemen evitano accuratamente al Qaeda ma centrano in pieno gli ospedali. È successo mercoledì sera per la seconda volta in un mese e mezzo: Riyadh ha colpito la clinica mobile di Medici Senza Frontiere nel villaggio di al Khashabeh, vicino la città di Taiz. Nove feriti, due gravi. Lo staff è stato evacuato come successo il 27 ottobre: quella notte un bombardamento rase al suolo l’ospedale di Msf nel distretto di Haydan, nella provincia nord di Saada.
Secondo testimoni Riyadh ha usato l’odiosa tecnica del “doppio attacco”: un primo raid e un secondo a poca distanza, quando sono già in atto le operazioni di soccorso delle vittime. «Non c’è dubbio che la coalizione sapesse della presenza di Msf in quel luogo», ha detto il capo missione dell’organizzazione in Yemen, Jerome Alin, che ha aggiunto di aver comunicato più volte le coordinate della clinica all’aviazione saudita.
Una gravissima violazione, l’ennesima, che fa infuriare l’Onu: il segretario generale Ban Ki-moon ha condannato il raid contro «strutture e personale medico protetti dal diritto umanitario internazionale» e ha chiesto l’apertura di un’inchiesta. Le deboli parole delle Nazioni Unite servono a poco in un’operazione militare che la coalizione anti-Houthi guidata da Egitto e Golfo ha scatenato senza passare per il Palazzo di Vetro.
La legittimità gli viene fornita dal silenzio della comunità internazionale, a partire dall’alleato di ferro Usa, e dalla complicità diretta dell’Europa che continua imperterrita a vendere armi a Qatar, Emirati Arabi e Arabia saudita, usate per massacrare lo Yemen.
Si massacrano i civili e il movimento Houthi, colpevole di chiedere maggiore inclusione politica. Chi resta ai margini è al Qaeda nella Penisola Arabica, tanto libera da poter occupare altre due città a sud. Dopo aver assunto il controllo di interi quartieri ad Aden e buona parte della provincia di Hadramaut, martedì i qaedisti hanno preso le città di Zinjibar e Jaar, nella provincia di Abyan. Località strategiche perché lungo il corridoio che collega la città costiera di Aden ad Hadramaut.
Centinaia di miliziani del più temibile braccio di al Qaeda sono entrati nelle due città superando con facilità le difese poste dalle milizie locali pro-governative, hanno posto checkpoint agli ingressi e annunciato l’occupazione dai megafoni delle moschee. Ieri Jaar è caduta: la polizia locale, vicina al governo, ha ripreso il controllo della città. Ma il capoluogo di provincia, Zinjibar, resta in mano qaedista.
L’avanzata del gruppo è la diretta conseguenza dell’assenza dello Stato, ma anche dell’indifferenza dell’Arabia saudita che sfrutta a proprio favore le azioni qaediste: nella controffensiva su Aden i sauditi non hanno disdegnato il sostegno fornito da al Qaeda, che vede nel movimento Houthi un avversario tanto da ottenere l’appoggio di molte tribù sunnite meridionali.
Il governo ufficiale, guidato dal presidente Hadi e manovrato da Riyadh, è molto più interessato a distruggere gli Houthi e concentra le operazioni militari su Taiz, terza città yemenita e punto di collegamento tra la capitale Sana’a (a nord) e Aden (a sud). Per questo rifiuta regolarmente ogni tentativo di dialogo sponsorizzato dall’Onu: la minima concessione agli Houthi significherebbe perdere il controllo totale sullo Yemen e, per l’Arabia saudita, sul paese da cui supervisiona lo stretto di Bab al-Mandeb, via di transito del greggio diretto in Europa. Anche al Qaeda, in un tale contesto, è un valido alleato. Allo Yemen questa guerra a senso unico è costata già 5.700 morti.
La Stampa 4.12.15
Fondi neri, conti svizzeri e riciclaggio
Quelle ombre sulla famiglia Erdogan
Nel mirino il presidente e le presunte ricchezze del suo clan A Bologna c’è un esposto contro il figlio Bilal per mazzette
di Marta Ottaviani


Il presidente Erdogan non è nuovo a polemiche e accuse legate al suo stile di vita particolarmente dispendioso, e alle voci sulle enormi ricchezze - e su quelle ha puntato il dito Putin accusandolo di far affari grazie al petrolio dell’Isis - accumulate da quando ha avviato la sua scalata al potere negli Anni Novanta.
Il cerchio magico
Secondo i detrattori l’inizio della fortuna di Recep Tayyip Erdogan inizia nel 1994, quando è eletto sindaco di Istanbul. Per la megalopoli sul Bosforo inizia un periodo di cambiamento con la costruzione di nuove infrastrutture, soprattutto metropolitane e strade, che cambiano, e in meglio, la quotidianità della popolazione, ma hanno effetti anche sulle tasche e il potere del futuro primo ministro. Erdogan avrebbe iniziato a concedere appalti in cambio di ricompense finite su conti corrente all’estero. Durante lo scandalo WikiLeaks, nel 2010, ne spuntarono 8 in Svizzera, attivi già dal 2004. L’allora premier smentì, dicendo che quei soldi erano regali per il matrimonio del suo terzogenito Bilal e delle donazioni di un imprenditore turco che si era fatto carico delle spese per l’educazione del suoi figli. Il sistema di appalti lo avrebbe portato alla costituzione di un «cerchio magico» fatto da imprenditori e finanzieri che hanno approfittato delle opportunità offerte dalla crescita economica del Paese in cambio di favori all’allora premier e gran parte del suo partito islamico-moderato (Akp).
Il business del mattone
Due fra i settori in cui il «sistema Erdogan» si sarebbe espresso al meglio sono quello dell’edilizia e della sanità privata, esplosi negli anni in cui il Paese è stato gestito dall’Akp. La parola magica, che governa tutto il giro di affari, si chiama Toki, ossia la Direzione per l’Edilizia e la riqualificazione. Stando a stime ufficiali, dal 2003, un anno dopo la salita di Erdogan al potere, in Turchia sono state costruite oltre mezzo milione di case e 100 ospedali. Un giro di affari da miliardi, a rischio bolla economica, ma che ha garantito non solo il finanziamento delle campagne elettorali degli ultimi anni, ma anche le fortune personali del presidente e di molti altri.
Scatole cinesi
Il «sistema Erdogan», secondo i suoi più acerrimi nemici è un meccanismo complesso, formato da decine di prestanomi e società all’estero, difficile da dimostrare e da sgominare nonostante gli scandali come quello del 2013, passato alla storia come la «Tangentopoli turca». Il terzogenito del Presidente, Bilal, sembra avere ereditato dal papà lo stesso piglio per gli «affari» anche se forse non altrettanta furbizia. Nel dicembre di 2 anni fa la sua voce finì con quella dell’illustre genitore su Youtube, con Erdogan che gli chiedeva di far sparire fondi, facendosi aiutare da altri membri della famiglia. Non solo: c’è un esposto alla Procura di Bologna su Bilal, che si è trasferito nel capoluogo emiliano da un paio di mesi: l’ha presentato un imprenditore e oppositore politico di Erdogan. Nell’esposto si chiede di indagare su eventuali somme di denaro portate in Italia da Bilal in ordine ad un eventuale reato di riciclaggio.
Ma nonostante i guai, due anni dopo la «Tangentopoli turca», non solo il Presidente è ancora in sella, ma è riuscito anche a fare nominare il genero, Berat Albayrak, ministro dell’Energia.
Corriere 4.12.15
L’America e i musulmani L’incubo di scoprirsi vulnerabili
di Massimo Gaggi


NEW YORK Nella notte le reti televisive inseguono, angosciate, la caccia agli assassini di San Bernardino. I commentatori conservatori della Fox propendono per il terrorismo e gli esperti da loro intervistati accusano Barack Obama: basta fingere di non vedere, ignorare il problema per paura di irritare i musulmani, paghiamo le sue incertezze nella lotta contro l’Islam radicale. Sugli altri «network» i giudizi sono più cauti: forse la follia omicida di Syed Farouk nasce da conflitti di lavoro, non da motivazioni politiche o religiose. Man mano che arrivano le notizie sulle armi da guerra e gli ordigni esplosivi accumulate dagli attentatori, un vero arsenale per compiere più di una strage, la pista di una violenza legata a dispute in ufficio perde quota. Davanti all’America si aprono le porte dell’inferno: l’infiltrazione di un terrorismo islamico radicale dal quale il Paese sembrava immune grazie alla natura, apparsa fin qui pacifica e pragmatica, delle comunità musulmane degli Stati Uniti. Cittadini molto più integrati nella società rispetto agli islamici che vivono in Europa, che spesso arrivano a ostentare un patriottismo «yankee». Fin dalla strage di Charlie Hebdo , 11 mesi fa, Obama aveva sottolineato le differenze: «Da noi i musulmani hanno combattuto anche durante la Guerra civile» di metà Ottocento dalla quale è nato l’attuale assetto degli Stati Uniti. Comunità islamiche laboriose e pacifiche sparse in tutto il Paese: «La prima moschea, nel 1929, è sorta in North Dakota». Nonostante i timori legati al terrorismo, i musulmani d’America (2,6 milioni secondo il censimento del 2010 ma il dato è quasi certamente sottostimato: probabilmente negli Usa vivono da 3 a 6 milioni di persone di fede islamica, pari all’1-2 per cento della popolazione), fino a qualche giorno fa non erano visti come un vero pericolo. Le preoccupazioni erano soprattutto di convivenza sociale, di conflitti culturali. Come a Hamtramck, in Michigan, prima cittadina nella quale l’immigrazione da Yemen, Bangladesh e Bosnia ha reso i musulmani maggioranza in appena 10 anni: quattro moschee in centro e divieto di vendita di alcolici nelle strade vicine ai luoghi di culto, con conseguente crollo del turismo e proteste.
Da ieri i problemi sono ben altri. «Forse le cause della strage vanno trovate in conflitti sul posto di lavoro, forse è terrorismo o forse una combinazione delle due cose» ha detto cupo e a voce bassa Obama, ricalcando i giudizi appena formulati dal Fbi e ammettendo che le motivazioni degli attentatori sono ancora sconosciute. È quella «combinazione delle due cose» che spaventa di più l’America: significa che tra l’area chiara di una convivenza magari problematica ma comunque pacifica con una comunità musulmana moderna, aperta ai valori occidentali, e quella nera della minaccia di un’esplosione di terrorismo jihadista esportato dall’Isis anche al di là dell’Atlantico, si sta ora sviluppando una temibile area grigia: musulmani inquieti o scontenti come i fratelli Tsarnaev, quelli delle bombe della maratona di Boston, o i coniugi Farouk, che solo apparentemente continuano a vivere da cittadini assimilati, immersi serenamente nel «sogno americano», mentre in realtà covano odio e propositi omicidi, senza far trapelare alcun indizio delle loro reali intenzioni.
La Stampa 4.12.15
Negli Usa lo shopping natalizio inizia con pistole e fucili d’assalto
di Francesco Semprini


Non solo maxischermi, frullatori e capi griffati. A quanto sembra il «tre per due», l’offerta promozionale e il premio fedeltà hanno fatto breccia anche nel mondo delle armi da fuoco, un boom del Black Friday americano.
Nel venerdì nero, che segue il Ringraziamento e inaugura la stagione dello shopping natalizio con sconti da capogiro, è stato segnato il record di «background check» per l’acquisto di armi da fuoco. Vuol dire che le procedure di controllo individuale, per acquistare legalmente pistole e fucili, hanno segnato il massimo giornaliero.
A rivelarlo è l’Fbi, secondo cui il «Criminal Background Check System», l’autorità preposta al controllo preventivo, ha ricevuto 185.345 richieste solo il 27 novembre: il massimo da quando il sistema ha iniziato a verificare i precedenti penali degli acquirenti di armi, nel 1998, e pari a circa due al secondo.
Per capirci, lo scorso Black Friday le richieste sono state 175.754, ma non è tutto perché le richieste dello scorso venerdì hanno polverizzato anche il precedente record giornaliero di 177.170 domande presentate registrato il 21 dicembre 2012.
Ovvero - e questo è il dato che induce alla riflessione - una settimana dopo la strage della scuola elementare di Sandy Hook a Newtown, in Connecticut, dove hanno perso la vita 20 bambini e sei adulti. Come dire, anche dinanzi alle stragi gli americani reagiscono armandosi anziché allinearsi alle campagne per fermare il «far west» di pistole e fucili, come quella portata avanti dal presidente Barack Obama.
E del resto anche per il Black Friday, le verifiche, che non sono identificabili come volumi di vendita ma rappresentano un indicatore della propensione ad acquistare un’arma, il record è stato segnato proprio nel giorno di un’altra sparatoria, quella al centro di pianificazione familiare, dove sono rimaste uccise 3 persone e altre nove sono state ferite.
«La gente ha paura e si arma», spiega al Daily News Larry Hyatt, proprietario di Hyatt Guns nella Carolina del Nord.
Così ad ottobre sono state oltre 1,9 milioni le domande per l’acquisto di una pistola o un fucile. «Per noi il Black Friday è sempre un giorno intenso, anche perché coincide con l’inizio della stagione dalla caccia», rivela. Insomma non è certo l’offerta speciale che fa l’uomo armato, se mai servisse negli Stati Uniti. È vero però che queste non mancano come rivela il sito Pjmedia.com che elenca le 10 migliori offerte del Black Friday. Come la Smith & Wesson M&P Shield 9 mm a 374,99 dollari, il fucile a pompa Remington 870 a 239,99 dollari, o il Taurus PT111 Millennium Pro G2 pistol 9mm, fucile di precisione per cecchini, a soli 199 dollari.
Affari d’oro
I numeri del resto tradiscono l’ottimo stato di salute del comparto con 13,5 miliardi di dollari l’anno di ricavi per i produttori e 1,5 miliardi di utili, assieme a 3,1 miliardi per i rivenditori con un utile di 478,4 milioni. Un business in crescendo specie - ironia della sorte o causa diretta - da quando Obama è presidente. Due dati su tutti: è di quasi 43 miliardi di dollari l’impatto dell’industria della armi sull’economia Usa. Ma i costi derivanti dalla violenza delle armi da fuoco sono stati nel 2012 di 229 miliardi di dollari, pari all’1,4% del Pil Usa.