giovedì 25 febbraio 2016

Repubblica 25.2.16
Vittorio Gregotti
“Nella loro urbanistica ha vinto il capitalismo”
intervista di Francesco Erbani

La prima volta che Vittorio Gregotti andò in Cina era il 1963. Il potere era nelle mani di Mao Zedong e Zhou Enlai. Il marxismo era radicato nel mondo contadino e dominava una cultura antiurbana. Un bianchissimo stile sovietico improntava gli edifici pubblici. Quando ci è tornato, quarant’anni dopo, per progettare Pujiang, un insediamento da 80 mila abitanti, la Cina era diventata la prateria per città da 15 milioni e più di residenti, in cui scorrazzavano architetti dalle bizzarre e magniloquenti fantasie. Ora si vorrebbe tornare indietro, a forme architettoniche più in linea con la tradizione e città medio-piccole.
Architetto Gregotti, che ne pensa di questo richiamo al passato?
«Le megalopoli cinesi non sono come quelle africane o sudamericane, dove si accalcano baracche su baracche. Ma è evidente che queste città di spropositate dimensioni sono agglomerati di periferie. E sono fuori controllo. Manifestano sofferenze insormontabili: il trasporto, gli equilibri ambientali. Avendo la possibilità di pianificare, si tratta di un proposito ragionevole. Non so quanto attuabile in concreto».
Ma si può immaginare un recupero di modelli più cinesi?
«Qui il discorso diventa complesso. Le tradizioni cinesi sono tante. La storia dell’urbanistica e dell’architettura cinese è vasta e piena di influenze. A che cosa ci si riferisce? Agli hutong, i recinti che racchiudevano più abitazioni singole e che per secoli hanno costituito la struttura primaria dell’organismo urbano? La verità è che anche in Cina non si sopportano più le forme spinte della globalizzazione che ha prodotto un linguaggio universale».
È arrivata al capolinea la stagione dell’architettura-spettacolo?
«Sì, con l’aggravante che in Cina si è realizzata un’architettura funzionale al più spinto capitalismo finanziario».
Ma la Cina è un paese comunista. Gli architetti non si sono messi al servizio del regime?
«No. Buona parte di quegli architetti si sono impegnati in un ritratto edificante della globalizzazione. E hanno scelto forme mutevoli che rispecchiassero la duttilità del mercato e l’apologia del consumo».
In Cina hanno lavorato Rem Koolhaas a Zaha Hadid.
«In accordo con le ideologie neoliberiste, anche in Cina molti hanno teorizzato l’insignificanza del disegno urbano, l’indifferenza di un oggetto architettonico rispetto alla città. E hanno capito che il capitalismo finanziario globale è tutt’altro che incompatibile con il sistema cinese».
Anche lei ha progettato lì.
«Abbiamo disegnato un insediamento di circa 5 mila appartamenti, una ventina di chilometri a sud di Shanghai. Ma ne è stata costruita una parte. Mancano gli edifici pubblici, sintomo di quanto conti in Cina la forza del privato».