domenica 29 maggio 2016

Il Sole Domenica 29.5.16
Breviario
#Latino e greco
di Gianfranco Ravasi s.j.

«Non si impara il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si impara per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente».
Tra le mie varie funzioni presso la Santa Sede c’è quella di tutelare la Pontificia Accademia di Latinità, un’istituzione che coopta i maggiori studiosi di questa lingua. Ho, in tal modo, scoperto quanto forte – soprattutto all’estero – sia la passione per una cultura così alta che continua a vivere proprio attraverso la sua eredità. Agli italiani, e in primis alla scuola che invece la snobba, vorrei semplicemente ricordare le righe sopra citate che non hanno bisogno di commento, ma solo di riflessione. Non le ha scritte un vecchio precettore, ma Antonio Gramsci nel 1932, nei suoi Quaderni dal carcere, per ammonirci che chi non conosce il proprio passato non riesce a vivere il suo presente in modo vero ed efficace.

Il Sole Domenica 29.5.16
La fede nell’era della scienza
La ricerca della verità empirica può convivere con la ricerca teologica così come in musica linee melodiche diverse possono armonizzarsi
di Gianfranco Ravasi s.j.

«Cara, chi oserà / dire: “Io credo in Dio”? / Puoi domandare a preti o a sapienti / e la risposta sembrerà prendere in giro / chi ha fatto la domanda». L’imponente avventura che propone il teologo Giuseppe Tanzella-Nitti sembra sfidare lo scetticismo del Faust di Goethe che abbiamo evocato. Come dice il titolo dei due primi tomi, capaci di totalizzare 1500 pagine (ma se ne promettono altrettante in altri due volumi), il tema della ricerca è appunto la “credibilità” del cristianesimo, una credibilità non appesa alla mera adesione fiduciale – pur rilevante e per molti versi decisiva come ultimo gradino dell’ascesa al Dio trascendente – ma sostenuta anche dalla stessa razionalità. Anzi, ad essere coinvolto è soprattutto un settore specifico di questa razionalità.
Infatti l’intera tetralogia promessa dall’autore è rubricata sotto una titolatura generale sorprendente: «Teologia fondamentale in contesto scientifico». Tanzella-Nitti ha, infatti, alle spalle un passato di astronomo e la sua bibliografia comprende anche lavori di radioastronomia e astronomia extragalattica. Intendiamoci subito: la sua intenzione non è certo quella di erigere un sistema teologico a partire dalle istanze della scienza. Si tratterebbe, infatti, di un evidente svarione epistemologico, consapevoli come siamo – rispetto a certi concordismi e confusioni del passato – che si tratta di metodi e magisteri differenti: quello scientifico dedicato alla scena fisica dell’essere, il teologico votato a identificarne il fondamento metafisico.
Il teologo Tanzella-Nitti sta, perciò, coi piedi ben piantati nel suo territorio che è quello appunto della teologia fondamentale, destinata a “fondare” in modo coerente il credere cristiano. Non per nulla egli non esita a ricorrere anche a un vocabolo un po’ obsoleto, “apologia”, che rimanda a un discorso di difesa ma non con la spada impugnata nei confronti delle diverse prospettive o visioni della realtà cosmica e umana. La sua è, invece, un’articolata (ed è per questo che il discorso esige un’espansione così maestosa e monumentale) attestazione della credibilità del messaggio cristiano tenendo conto del fatto che l’orizzonte conoscitivo, culturale e persino sociale odierno è profondamente segnato dal sapere scientifico e tecnologico. Non per nulla Tanzella-Nitti è anche l’artefice di un Centro di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede (disf.org) e di una Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare (sisri.it).
Ricorrendo alla metafora musicale escogitata da un noto teologo tedesco, Josef Pieper (1904-1997), per definire il rapporto tra filosofia e teologia, egli parla di una sorta di “contrappunto” tra la ragione scientifica e la fede, applicando alla ricerca teologica l’arte di far coesistere due linee melodiche differenti, senza che entrino in distonia, anzi, generino alla fine “sinfonia”. Perciò, «prestare attenzione a quanto la razionalità filosofica o scientifica può suggerire, o talvolta apertamente mostrare, non vuol dire obbligarsi ad assumere la forma di ragionare dell’altro, ma ascoltare con intelligenza le sue ragioni». Questo programma, adottato dal teologo, dovrebbe in modo parallelo essere assunto anche dallo scienziato. La tentazione da esorcizzare è, quindi, quella dell’autoreferenzialità esclusiva ed escludente.
Naturalmente abbiamo semplificato un discorso metodologico molto più complesso e da crinale tagliente, ove è facile scivolare sull’uno o sull’altro versante. Per l’eventuale nostro lettore “laico” risulta, allora, particolarmente importante il primo tomo che propone una grandiosa cavalcata storica, a partire dagli approcci apologetici degli scrittori cristiani dei primi secoli per procedere lungo l’arcobaleno variegato dei molteplici progetti per convalidare la credibilità della fede cristiana. A questo proposito vorrei solo estrapolare un capitoletto che mi ha sorpreso. Nella sezione dedicata all’«apologetica moderna nel contesto della ragione scientifica», inaugurata ovviamente da Pascal, viene fatto emergere un sacerdote scienziato ormai dimenticato ma in passato molto popolare e acclamato.
Si tratta di un mio conterraneo, il lecchese Antonio Stoppani (1824-1891), il primo a marcare il rilievo esercitato dall’uomo sulle modificazioni dell’ambiente e del clima, tanto da coniare il termine Antropozoica per la nostra era geologica, anticipazione dell’attuale definizione di Antropocene. La sua figura mi accompagnò quando diressi la Biblioteca Ambrosiana di Milano, ove egli aveva rivestito la carica di “custode” del catalogo tra il 1856 e il 1861 e ove erano pervenuti successivamente molti suoi manoscritti e documenti, tanto da far sì che troneggiasse in una sala di quell’istituzione anche un suo busto bronzeo, opera dello scultore Giuseppe Mozzanica. Sostenitore di Rosmini, egli si era dedicato, in modo originale, proprio al dialogo tra scienza e fede, tant’è vero che Tanzella-Nitti riserva particolare attenzione a un suo saggio del 1884 emblematicamente titolato Il dogma e le scienze positive.
L’istanza del “contrappunto” non è, dunque, del tutto inedita, anche se non sempre condotta, in passato e ancor oggi, con quella finezza e sensibilità che è possibile ora a un teologo che è stato anche scienziato. Proprio per questo, sempre al mio ideale lettore “laico”, propongo un’analisi mirata della prima sezione del primo volume di Tanzella-Nitti ove egli, con limpidità anche di dettato, delinea la fisionomia della teologia fondamentale che non teme di essere “apologia” nel senso sopra indicato, capace quindi di collocarsi nel contesto contemporaneo marcato dalla conoscenza scientifica. Certo, questa impostazione, che è il filo conduttore dell’intera sequenza dei volumi già editi e di quelli in via di pubblicazione, vale anche e soprattutto per il cristiano. Egli può e dev’essere consapevole che «la riflessione teologico-fondamentale è chiamata anche oggi a favorire che, nella coscienza dei credenti, la fede possa trovarsi a proprio agio in ogni ambito del sapere, senza rifugiarsi negli spazi di un malinteso spiritualismo oppure defluire verso ciò che alla ragione sembra non più appartenere».
Dopo il vasto tracciato storico del primo volume, si apre l’itinerario analitico del cuore stesso del messaggio cristiano, dall’auto-testimonianza di Dio all’accesso storico a Gesù di Nazaret, alla sua parola e azione, fino alla sua risurrezione incuneata tra fede e storia: è il percorso che propone il secondo tomo, sempre tenendo come guida il “contrappunto” col contesto socio-culturale contemporaneo, in particolare col pensiero scientifico. È così che affiorano questioni capitali, come la collocazione della creazione dell’uomo e della rivelazione divina in una prospettiva cosmico-evolutiva, oppure la connessione tra azione divina e natura nel contesto epistemologico delle scienze naturali (in pratica la compatibilità o meno del miracolo), o ancora lo sguardo aperto sul futuro, cioè sulle realtà ultime, sia da parte della scienza sia secondo la visione dell’escatologia cristiana...
Abbiamo iniziato smentendo la provocazione di Goethe, vogliamo concludere ritenendo che Tanzella-Nitti desideri con la sua opera travalicare anche il pessimismo di Kafka che all’amico Gustav Janouch diceva: «Chi possiede la fede non la può definire e chi non la possiede non può definirla perché gli manca la grazia. Il credente, quindi, non può e il miscredente non dovrebbe parlarne».
Giuseppe Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità , vol. I, La Teologia fondamentale e la sua dimensione di apologia , Città Nuova, Roma,
pagg. 682, € 50; vol. II, La credibilità del cristianesimo, Città Nuova, Roma, pagg. 812, € 50

il manifesto 29.5.16
Freud e Binswanger divisi dal demone della metafisica
Psicoanalisi. Introdotto da Jung, Binswanger conobbe Freud nel 1907 e avviò subito con lui un carteggio, che fu preludio di una lunga amicizia
di Andrea Calzolari

Sentii parlare per la prima volta dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger da Luigi Gozzi, membro del Gruppo 63, drammaturgo allora esordiente, poi direttore a Bologna del Teatro delle Moline. Era la fine degli anni sessanta e Gozzi stava elaborando una poetica centrata sul manierismo dell’attore, ispirata, tra l’altro, anche a Tre forme di esistenza mancata, il primo libro di Binswanger, del 1956, tradotto in italiano nel ’64. Dedicato al manierismo, il saggio ne proponeva una accezione assai ricca e complessa, nutrita non solo dall’esperienza clinica ma anche da vaste conoscenze in ambito figurativo e letterario: utilizzava, per esempio, il capolavoro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, del 1948, per dimostrare come la pratiche linguistiche di alcuni manierismi schizofrenici, che affettano caratteristici stereotipi espressivi, si apparentino a antiche tecniche letterarie e retoriche.
Mentre si capisce, dunque, l’analogia tra il manierismo attoriale cui Gozzi si dedicava nel teatro d’avanguardia di quegli anni e la «paranoia critica» surrealista, ancora più interessante è vedere come il risultato delle ricerche di Binswanger fosse un brillante esempio di quella che egli chiamò la Daseinanlyse, tradotta un po’ approssimativamente qui da noi (e in francese) come «analisi esistenziale», vale a dire una indagine che cerca la fondazione delle categorie psichiatriche nella fenomenologia husserliana e nel pensiero di Martin Heidegger.
Una delle conseguenze di questo orientamento, e uno degli aspetti più significativi della Daseinanalyse, stava nello sfumare il confine tra il normale e il patologico, mostrando le radici dei fenomeni studiati dalla psichiatria nell’esistenza umana cosiddetta normale, vale a dire nell’essere-del-mondo dell’Esserci (Dasein) come era stato indagato in Essere e tempo da Heidegger. Poco dopo che Binswanger pubblicò Tre forme , dedicato a Heidegger, questi sconfessò lo psichiatra svizzero – che del resto era sempre stato consapevole del fatto che le sue indagini riguardavano i problemi dell’esistenza e non la domanda sull’esistenza – e liquidò con pochi, sprezzanti giudizi quel Freud che, viceversa, Binswanger avrebbe considerato sempre un maestro.
Figlio e nipote di psichiatri, Binswanger aveva studiato nel Burghölzli di Zurigo, la celebre clinica diretta dal grande psichiatra Eugen Bleuler, dove aveva lavorato con 0Chiunque conosca le affascinanti ma turbolente vicende della nascita e del primo sviluppo della psicoanalisi sa che quasi mai il distacco degli allievi dal padre fondatore si è consumato senza traumi e recriminazioni, e sa come di solito questi si concludessero non solo nell’interruzione di ogni relazione, ma nella reciproca disistima: il rapporto tra Binswanger e Freud costituisce una felice eccezione.
La storia di questa solida e generosa amicizia, che si mantenne nonostante il dissenso intellettuale tra i due, venne descritta dallo psichiatra svizzero in un volumetto del 1956 –Ricordi di Freud (Astrolabio 1971) seguendo la falsariga della sua corrispondenza con Freud, ora integralmente tradotta e curata da Aurelio Molaro in un bel libro: Sigmund Freud-Ludwig Binswanger, Lettere 1908-1938 (Cortina, pp. 316, euro 29,00) di piacevole interesse, benché l’introduzione sia impegnativa e un po’ ridondanti le note, fin troppo erudite.
Sullo sfondo delle vicende della scuola freudiana, si possono seguire le biografie dei due corrispondenti, scoprendo, per esempio, un Freud affettuoso, che nel 1912 pur di visitare Binswanger gravemente ammalato (era stato operato per un tumore) urta la suscettibilità di Jung, che pure considera il suo allievo più promettente: come si sa, i primi dissapori con quello che gli era sembrato l’erede destinato a succedergli alla guida del movimento psicoanalitico sarebbero sfociati nella più famosa delle eresie e nella costituzione di un indirizzo di ricerca ancor oggi autonomo e rivale alla teoria e al metodo freudiani.
Se non si consumò una rottura tra Binswanger e Freud, questo dipese non solo dal carattere di entrambi, ma anche dalla apertura della loro intelligenza, nonché da una disponibilità alla speculazione teorica, particolarmente pronunciata nello psichiatra svizzero, attratto fin da giovane dalla filosofia, interesse al quale nemmeno il suo interlocutore era peraltro estraneo. Le divergenze tra i due, in effetti, non derivano tanto dalla maggiore apertura di Binswanger al pensiero filosofico, da lui fin troppo sottolineata, di contro all’orientamento più scientifico di Freud, quanto a ciò che si rende evidente in una lettera del padre della psicoanalisi, il quale scherzosamente mette in guardia l’allievo dal «demonio» della filosofia, intendendo le speculazioni metafisiche che secondo lui, risolutamente ateo e materialista, possano ostacolare la conoscenza.
Così, quando Binswanger nel 1928 gli fece avere il suo volumetto sul sogno, Freud da una parte si congratulò, ma dall’altra non mancò di criticare la pagina conclusiva in cui Binswanger faceva appello a una metafisica dello spirito che non poteva non condurre all’idea di Dio.Paragonando la religione a una sbronza senza alcol, Freud scriveva di essere sempre stato sobrio, se non astemio: aveva appena pubblicato L’avvenire di un’illusione, ma – diceva – mentre i bevitori di razza gli incutevano rispetto, «solo chi riesce a ubriacarsi con una bevanda analcolica mi è sempre apparso piuttosto ridicolo».
Giudizio che ribadì, seppur temperandolo nei modi, otto anni dopo, quando nel 1936, per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, Binswanger tenne una conferenza, La concezione freudiana dell’uomo alla luce dell’antropologia, che è forse il suo testo più maturo e organico fra quelli dedicati al maestro. In quelle pagine espone i tratti a suo avviso essenziali della dottrina freudiana, centrata sull’idea dell’homo natura, vale a dire dell’uomo in quanto creatura naturale (in opposizione alle altre figure in cui una tradizione millenaria ha di volta in volta identificata l’essenza umana: l’homo coelestis, l’homo universalis e l’homo existentialis). Se Binswanger non esita a paragonare Freud a Goethe o a Nietzsche, nonché a riconoscere la grandezza rivoluzionaria e il rigore delle sue concezioni, è tuttavia ugualmente deciso nel prenderne le distanze, accusando la psicoanalisi di frantumare la totalità dell’esperienza umana e di ridurne la ricchezza, irrigidendola nella tensione tra pulsioni e illusioni.
Nel ringraziare affettuosamente Binswanger, Freud ribadì le sue posizioni con queste parole destinate a restare famose: «Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono sempre limitato al parterre e al souterrain dell’edificio – Lei sostiene che cambiando il punto di vista si possa vedere anche un piano superiore in cui abitano ospiti distinti come la religione, l’arte e altri ancora. Non è l’unico a pensarlo, è di questo parere la maggior parte degli esemplari civilizzati di homo natura. In tal caso è Lei il conservatore, io il rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, mi permetterei di assegnare a simili individui di alto lignaggio un posto nella mia casupola. Per la religione l’ho già trovato, da quando sono approdato alla categoria di “nevrosi dell’umanità”. Ma probabilmente ci parliamo senza capirci, e il nostro contrasto si appianerà solo fra qualche secolo».

Corriere La Lettura 29.5.16
Il cervello è cresciuto ma troppo in fretta
Sta succedendo qualcosa di molto interessante nel campo delle malattie mentali
Non può non colpirci la relativa abbondanza di disturbi psichici o psicologici che affliggono i membri della nostra specie
di Edoardo Boncinelli

Sta succedendo qualcosa di molto interessante nel campo delle malattie mentali. La ricerca della base genetica di un paio di quelle sembra rivelare che da un certo punto di vista il nostro cervello è cresciuto un po’ troppo in fretta, evolutivamente parlando, e noi ne stiamo pagando il prezzo. Una nozione questa, tanto interessante quanto inquietante. Pur considerando che non possiamo sapere quasi niente dei disturbi mentali degli animali non umani, non può non colpirci la relativa abbondanza di disturbi psichici o psicologici che affliggono i membri della nostra specie, nonché le complicazioni diagnostiche e terapeutiche che molti di essi comportano. È abbastanza ovvio che una malattia psichica non può essere semplice e inconfondibile come una malattia puramente organica, ma potrebbe esserci sotto qualcosa di più.
Una di queste malattie è l’autismo, una condizione patologica che influenza sfavorevolmente, fin da ragazzi, la vita di relazione degli individui affetti e, nei casi più gravi, può arrivare a compromettere la loro capacità di comunicare o addirittura di riuscire a farsi un quadro appropriato del mondo circostante. Anche se non tutte le forme hanno sintomatologie gravi, ed esistono pure degli autistici adulti ben inseriti nella società e nella comunità produttiva, una famiglia nella quale cresca un ragazzo autistico si preoccupa molto seriamente e cade facilmente in preda allo sconforto. Certi tratti tipici di questo disturbo sono comuni a molte forme ma si tratta chiaramente di una patologia piuttosto diversificata, sia qualitativamente sia quantitativamente, al punto che oggi si preferisce parlare di disturbi appartenenti allo spettro autistico (Asd, autistic spectrum disorders ) piuttosto che di autismo tout court . In linea di principio è anche possibile che forme di gravità diversa abbiano cause diverse.
Fra le cause invocate figura certamente la genetica, anche se la trasmissione del disturbo non punta verso l’indicazione di una precisa natura ereditaria. Negli anni si è cercato di associare qualche regione del genoma a questa o quella forma di autismo ma i risultati sono stati scarsi e, soprattutto, non riproducibili. Un vero peccato, perché lo sforzo è stato veramente enorme. In tempi più recenti si è appurato, non senza contrarietà, che i difetti genetici associabili a casi diversi di autismo sono molto eterogenei. Si tratta spesso di difetti strutturali o microstrutturali di questa o di quella regione del genoma degli individui affetti ma tali difetti sono tutti diversi. Ciò rende estremamente difficile ogni tentativo di diagnosi precoce o prenatale e non costituisce una buona premessa per una soluzione imminente del problema, nemmeno per quanto concerne il solo aspetto conoscitivo. Per difetti strutturali e microstrutturali si devono intendere lesioni più o meno estese, ma sempre contenute, a carico del Dna intorno a questo o quel gene, o anche in regioni genomiche lontane da ogni gene conosciuto.
Si è visto in sostanza che molte forme sono associate a microscopiche soppressioni di regioni genomiche o, al contrario, a duplicazioni delle stesse, e queste alterazioni sembrano tutte diverse da un caso a un altro. Da una parte, ciò è in sintonia con la variabilità clinica delle varie forme, dall’altra questo fatto non fa ben sperare per una futura identificazione delle cause della malattia. A meno che non si tratti di regioni genomiche diverse, ma tutte associate a geni appartenenti alla stessa famiglia e aventi quindi funzioni analoghe.
Una recente vastissima analisi dell’intero genoma di persone affette e non affette da autismo ha confermato e generalizzato il quadro. Si è visto inoltre che le diverse microalterazioni sono localizzate in regioni genomiche contenenti fin dalla nascita ripetizioni più o meno estese di sequenze di Dna. Laddove ci sono ripetizioni di sequenze di Dna, simili anche se non identiche, è più facile che compaiano soppressioni o duplicazioni geniche, perché in esse si vengono spesso a creare dei veri e propri «pizzicotti», risolti poi con un impietoso taglio di frammenti di Dna. Le diverse cause genetiche dei vari autismi potrebbero essere quindi una conseguenza, imprevista e tutto sommato imprevedibile, della struttura di certe regioni genomiche, il cui effetto si fa sentire prevalentemente nel controllo del funzionamento del cervello. Quelle regioni sarebbero quindi il risultato dell’evoluzione genetica disordinata che ha accompagnato l’incremento della massa del nostro cervello che, ricordiamolo, è aumentato di tre volte in «solo» un paio di milioni di anni.
Nello stesso tempo, un grande passo avanti è stato compiuto di recente verso la comprensione del fenomeno schizofrenia, la più tristemente famosa delle malattie psichiche, la psicosi per eccellenza, che colpisce intorno all’1% della popolazione mondiale, e deteriora in modo intermittente o permanente le facoltà mentali degli individui affetti e ne turba a volte disastrosamente il comportamento.
Si sa da tempo che il disturbo possiede una grossa componente genetica ma la sua natura non è a tutt’oggi nota, anche se ci sono molte indicazioni del fatto che lo schizofrenico possieda un cervello un po’ anomalo: la corteccia cerebrale in particolare sembra leggermente più sottile e presenta qualche problema anche a livello delle cellule nervose di cui è composta. In passato sono stati riportati numerosi esempi d’individuazione di specifiche regioni genomiche associabili all’occorrenza del morbo ma nessuna si era rivelata fino a oggi affidabile.
Le cose sembrano cambiate con un nuovo spettacolare studio che ha scandagliato l’intero genoma. Si è visto che esiste una regione del nostro genoma che è associata alla schizofrenia molto più strettamente di altre; si tratta del cosiddetto Complesso Maggiore di Istocompatibilità, che nell’uomo prende il nome di Hla, e che viene studiato tra le altre cose per determinare la compatibilità dei trapianti di tessuto o di organo. Le sue dimensioni sono enormi, 3,6 milioni di nucleotidi, ma i geni in esso contenuti sono stati in passato molto studiati. In particolare, uno di questi sembra implicato nella strutturazione e nel mantenimento della connettività fra neuroni diversi della corteccia cerebrale.
Non entro in dettagli perché molti risultati sono da confermare ma c’è un fenomeno che ci può interessare nel quadro del discorso che stiamo facendo: casi diversi di schizofrenia, associati a fenomeni di severità molto diversa, sembrano associati a differenze quantitative nella produzione di certe proteine. Queste differenze quantitative paiono ascrivibili, a loro volta, a microalterazioni del Dna delle regioni genomiche limitrofe ai geni che le producono. Anche qui, insomma, si osserva una presenza di regioni genomiche contenenti ripetizioni più o meno numerose di corte sequenze di Dna. Qualcosa, insomma, di molto simile a ciò che è stato osservato per l’autismo.
Per questo ci possono essere almeno due tipi di spiegazioni. Secondo la prima, le regioni limitrofe a geni importanti per il funzionamento del cervello «richiedono» una particolare struttura consistente in una serie di duplicazioni di sequenze di Dna. Oppure ciò non è vero ma le dette strutture sono solo il risultato di una tumultuosa espansione di quelle sequenze al momento del notevole aumento della nostra massa cerebrale. Altri dati genetici, vecchi di decenni, sembrano puntare nella stessa direzione: crescere in fretta comporta i suoi problemi. Abbiamo forse un cervello troppo grosso o cresciuto troppo alla svelta. Almeno adoperiamolo.

Repubblica 29.5.16
I tabù del mondo
Scacco alla ragione il paradosso antico della nave dei folli
La libertà di una rotta marina senza bussola è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare. Il successivo passo sarà l’internamento medico-psichiatrico
Secondo Michel Foucault alla fine del Medioevo il terrore collettivo per la lebbra viene sostituito da quello per la pazzia, vista dall’intelletto come totale alterità Nasce così la leggenda dell’imbarcazione in cui sono prigionieri i matti, immortalata da Bosch. Ma non basta isolare ciò che ci inquieta per esorcizzare il Male
di Massimo Recalcati

Alla fine del Medioevo la lebbra si ritira dall’Occidente dopo aver rappresentato per secoli il simbolo più scabroso del Male. Il personaggio del lebbroso come emblema dell’esclusione viene sostituito da quello del folle. Con questa osservazione storica inizia la celebre Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault. È in questo passaggio dalla lebbra alla follia che prende corpo la figura letteraria e leggendaria della Stultifera navis che, come ricorda Foucault, «ha ossessionato l’immaginazione di tutto il primo Rinascimento ». Si tratta di uno strano battello costipato di folli che naviga senza una meta lungo i fiumi e del quale il fiammingo Bosch ha offerto una straordinaria raffigurazione alla fine del Quattrocento nel suo Nef des Fous. Qui la follia esprime l’ombra che accompagna la vita umana e dal cui spettro essa vorrebbe liberarsi. La sua dimensione tragica incarna ambiguamente l’orrore e la fascinazione per l’ignoto, l’oscuro, il Male, la Morte, l’eccesso, tutto ciò, insomma, che costituisce il limite della ragione diurna. È quello che simboleggia la strana imbarcazione della Stultifera navis: l’esclusione prende le forme di un allontanamento non solo territoriale- dalla terra ferma al mare -, ma soprattutto mentale dall’ordine della città.
Destinata a vagare senza meta sulle acque, la follia viene isolata e segregata. Non appartiene all’umano ma è una forma subumana del Male totalmente estranea al regno terso della Ragione. Come ricordano già Diderot e D’Alembert nella loro Enciclopedia, i deliranti sono coloro che, etimologicamente, escono dal solco normale della Ragione. Sono i devianti, gli spettri, i mostri, i degenerati, gli anormali destinati all’erranza perpetua. Il folle è un randagio, senza casa, senza radici, senza identità, espulso, come accadde per il lebbroso, dalla Comunità degli umani.
Il gesto violento che li scaccia dalla vita della polis definisce retroattivamente la natura immunitaria della Comunità dei normali. Il folle è infatti considerato un tabù, un corpo estraneo che deve essere spurgato, allontanato, escluso. I marinai diventano allora i loro custodi: essere stivati nella Stultifera navis e abbandonati sulle acque manifesta l’esigenza di un rituale simbolico di purificazione ma anche un imprigionamento senza alcuna possibilità di redenzione. La libertà di una navigazione senza rotta è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare. Non siamo ancora al tempo dell’internamento medico-psichiatrico dei folli. La Stultifera navis non è un ospedale, non è un dispositivo ordinato, non è ancora il risultato di una pratica programmatica di segregazione. È piuttosto il tentativo di una cancellazione della follia da ogni diritto di cittadinanza.
In questo senso, come fa notare Foucault, l’esperienza della follia continua silenziosamente quella della lebbra poiché ciò che si cerca di cancellare è innanzitutto l’esperienza stessa della Morte come esperienza che la Ragione può governare. Foucault vede nel «Cogito ergo sum» di Cartesio l’origine di quella distinzione inflessibile tra normalità e follia che prepara l’istituzionalizzazione segregativa del folle. L’esercizio della Ragione escluderebbe, infatti, per principio la possibilità della follia. La Ragione — diversamente da quello che Freud mostrerà — non può ospitare nel suo seno la follia senza contraddirsi. La Ragione è misura, ordine, discriminazione delle differenze, capacità di giudizio, discernimento, sensatezza. La follia viene, dunque, esiliata dal pensiero prima ancora che dalla città: «Se l’uomo può sempre essere folle — scrive Foucualt — il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto, non può essere insensato». Il pensiero non può ospitare il suo contrario; il pensiero non può essere insensato.
La fondazione della Ragione avviene dunque sulla esclusione della sua ombra. La Ragione deve essere resa immune dal morbo della follia. Per questo la sua fondazione coincide con l’attivazione di procedure materiali di esclusione. Il tempo mitico della Stultifera navis che viaggia nella sua solitudine disperata all’aperto, lontana dalle mura della città, è destinata a lasciare il posto nel corso del XVI secolo all’edificazione delle prime grandi case di internamento che non a caso spesso sfruttano il sostegno delle mura degli antichi lebbrosari. La Ragione può guadagnare la propria identità solo sul fondamento dell’espulsione- recinzione-segregazione dell’alterità del folle: confinare il tabù della sragione è l’atto politico fondamentale sul quale si fonda il regno della Ragione.
In questa nuova prospettiva, secondo Foucault, la follia è destinata a smarrire ogni sua dimensione tragica per essere ridotta, come accadrà da lì a breve, a mera malattia del cervello. La sua segregazione istituzionale, come ha indicato con forza Franco Basaglia, avviene sul principio della sua disumanizzazione di fondo. Ma, come la psicoanalisi insegna, ogni politica di esclusione dell’Altro è destinata a vedere ritornare all’interno quello che viene rigettato ferocemente all’esterno. E’ la lezione tragica del Novecento: la Ragione che nel nome della difesa della sua purezza emargina la follia è la stessa che si rivela folle proprio in questa sua spinta auto-affermativa. Tutte le politiche puriste e fondamentaliste di anti contaminazione portano in se stesse il germe della follia più grande.

Corriere La Lettura 29.5.16
Il maestro di nodi chiamato Aristotele
Lo studio firmato da Francesco Ademollo e Mario Vegetti mostra come la cifra più profonda del pensatore greco sia una curiosità totale. Nella convinzione che affrontare sfide sia essenziale
di Mauro Bonazzi

Quando Dante arriva nel Limbo e vede la «filosofica famiglia», Aristotele è la figura di più alto rilievo: «Tutti lo mirano, tutti onor li fanno». Non era un elogio di circostanza, ma una presa di posizione decisa in favore di un filosofo fino a poco tempo prima guardato con sospetto, accusato di sostenere teorie incompatibili con la verità cristiana. Il suo fascino era troppo forte, la forza dei suoi ragionamenti ineccepibile: Aristotele è colui che ha mostrato di cosa è capace la mente umana, articolando tutte le conoscenze in un sistema completo, che rispecchia la struttura del mondo.
Aristotele stesso, del resto, che non peccava certo di modestia, aveva esaltato a più riprese l’importanza del suo progetto, convinto che grazie a lui il sapere umano avesse (quasi, bontà sua) raggiunto la perfezione.
Conoscere altro non è che organizzare, disporre ogni cosa al suo posto, fare ordine, in modo che le parti e il tutto si tengano e la verità possa finalmente trionfare. Aristotele «il maestro di color che sanno», appunto, come si ripete ogni volta che lo si nomina. Il problema, però, è che quando si celebra troppo si finisce per imprigionare il celebrato in un’immagine di maniera, trasformandolo in una statua: alto sul suo piedistallo, con lo sguardo severo, in una posa seriosa, intento a ripetere qualcosa che non interessa più a nessuno. Anche questo è successo ad Aristotele, che probabilmente non se ne sarebbe troppo preoccupato, continuando a fare quello che ha sempre fatto: indagare, cercare, analizzare. Perché, come Francesco Ademollo e Mario Vegetti mostrano nel libro Incontro con Aristotele (Einaudi), questa è la cifra più propria del suo pensiero, un’inesauribile curiosità per tutto quello che ci circonda, e un piacere quasi fisico per la ricerca e la scoperta.
Il sistema, scrivono i due autori, «costituiva semmai un orizzonte tendenziale di unificazione»; ma quello che davvero appassiona Aristotele è affrontare i problemi e cercare di risolverli. Non c’è niente che non meriti un po’ di attenzione e di tutto Aristotele s’interessò, senza distinguere tra alto e basso, nobile o volgare.
Trascorse vent’anni con Platone, discutendo di dialettica, astronomia e metafisica; ma intanto raccoglieva le opinioni della gente comune, convinto che tutti potessero offrire spunti utili per avanzare nella comprensione dei problemi. E per le sue ricerche scientifiche non si vergognò di frequentare allevatori, pescatori, cacciatori, interrogandoli sulla respirazione degli uccelli o su come copulano i polpi. Quando non ci pensava direttamente lui, inseguendo una rana in uno stagno o scrutando con attenzione un embrione di pollo: i suoi lavori zoologici (che costituiscono una parte consistente della sua produzione scritta, non andrebbe mai dimenticato) sono pieni di allusioni alle sue ricerche sul campo. «Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso».
Filosofia non vuol dire del resto proprio questo, un amore ( philia ) per la conoscenza ( sophia ), tutta? «La natura offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne la causa, cioè sia autenticamente filosofo». Così, ad avere la pazienza di leggerli (perché a volte ci vuole proprio pazienza: i testi di cui disponiamo sono gli appunti personali delle lezioni, non opere destinate alla pubblicazione), si scopre che gli scritti di Aristotele sono pieni di problemi, domande, difficoltà — piccole crepe nel poderoso edificio del sapere, insignificanti solo in apparenza, soprattutto quando in discussione è l’uomo.
Si prenda l’anima. Da scienziato rigoroso quale era, Aristotele aveva costruito un intero trattato per spiegare che l’anima esprime la vita di un corpo, il fatto che un corpo vive: con buona pace del suo maestro Platone non ha senso affermare che è immortale o separata dal corpo. Era una tesi ragionevole, che rispondeva all’esigenza di collocare lo studio dell’essere umano all’interno del sistema fisico. Ma davvero noi siamo completamente riducibili al mondo fisico? Tutti i nostri pensieri sono espressione di processi corporei? Platone lo aveva negato: siamo anche altro. Coerentemente a quello che aveva sostenuto nelle pagine precedenti del suo trattato, Aristotele avrebbe dovuto affermarlo. Forse lo pensava pure. Ma non ne era sicuro e alla fine non si risolse, tenendo aperte entrambe le possibilità.
Ha fatto male, obietterà qualcuno, perché il discorso risulta incoerente. Ma forse abbiamo noi raggiunto una risposta esaustiva, capace di eliminare tutti i dubbi? Del resto, il problema della ragione umana è ancora più delicato. Noi siamo animali razionali (la definizione, al solito, è di Aristotele). Disponiamo della ragione per orientarci nel mondo e per regolare le nostre relazioni con gli altri uomini: per conoscere e per agire. Sembrano affermazioni scontate; ma le due attività spesso sono in contrasto tra di loro. Per agire, per orientare le nostre azioni, abbiamo stabilito alcuni criteri regolatori: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto… Ma questi criteri non sembrano prioritari mentre usiamo la nostra ragione per conoscere il mondo che ci circonda. A volte non fa problema, ma a volte sì, e pure tanto, quando si pensa ai tanti temi sensibili in discussione oggi, dalla clonazione alla ricerca sugli embrioni. Cosa conta di più, allora, la conoscenza o l’azione morale? Quando l’uomo realizza veramente la sua natura di animale razionale: dedicandosi alla conoscenza o alla politica? È il grande dilemma tra la vita attiva e vita contemplativa: Aristotele lo ha posto e ancora oggi se ne discute.
Noi possiamo criticarlo per le sue esitazioni; di certo lui avrebbe sorriso vedendoci annaspare nel momento in cui comprendiamo l’entità delle questioni in discussione, quando ci rendiamo conto che quello che sembrava scontato non lo era. È questa la grandezza di Aristotele, ieri come oggi. Molte delle sue dottrine, dalla difesa della schiavitù al geocentrismo o al finalismo, sono ormai superate. Altre probabilmente lo diventeranno. Ma la lezione di metodo, l’onestà che lo porta a segnalare i problemi che rimangono irrisolti e la pazienza con cui continua a tornarci sopra sono la dimostrazione migliore di cosa è la filosofia.
Non si tratta di negare la verità e neppure disperare della nostra capacità di raggiungerla: soltanto, bisogna imparare a cercarla, ragionando correttamente. «Quelli che vogliono trovarsi con le difficoltà risolte prima devono averle affrontate bene, perché la liberazione dalle difficoltà è la soluzione delle difficoltà che si sono affrontate prima; ma non è possibile sciogliere i nodi che non si conoscono e la filosofia aiuta appunto a vedere i nodi che si trovano nelle cose». In un’epoca come la nostra, ossessionata dal bisogno di risposte, sono parole che andrebbero meditate con attenzione.
FRANCESCO ADEMOLLO MARIO VEGETTI Incontro con Aristotele. Quindici lezioni EINAUDI Pagine 304, e 22

Il Sole Domenica 29.5.16
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile

La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine – il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti – ci furono cinque morti a Napoli – ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica. Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.

Corriere La Lettura 29.5.16
Politica Emilio Gentile e le insidie dell’uomo forte
La democrazia recitativa nasce dalla crisi dello Stato
di Marco Gervasoni

Mai come in questi ultimi tempi si è diffusa la trita metafora dell’«uomo solo al comando». E la convinzione che le democrazie, per essere tali, non debbano avere un capo o debbano averlo il più fragile possibile. Ma la filosofia politica, le scienze sociali e last but not least l’esperienza storica ci dicono che è vero esattamente il contrario: più una società è democratica e più ha bisogno di capi forti (o di leader, se si preferisce).
L’Italia liberale e la Repubblica di Weimar sono crollate di fronte ai totalitarismi perché non avevano capi in grado di far fronte ai processi di democratizzazione. Benché non convinti che Emilio Gentile sia totalmente d’accordo con la nostra conclusione, questa ci è sorta spontanea dopo la lettura del suo bel libro Il capo e la folla (Laterza). L’autore, uno dei massimi storici contemporanei, e non solo italiani, si assume qui una sfida temibile e avvincente, risalire fino all’antica Grecia per studiare il rapporto tra capo e folla. In particolare Aristotele si può dire avesse già capito tutto: il demos può condurre uno Stato solo se opportunamente selezionato e guidato, altrimenti si cade nella tirannide; e ad aprire le porte della polis al despota è proprio la folla, cioè il demos bruto, una questione che intriga la filosofia politica dell’età moderna, da Bodin a Machiavelli a Hobbes.
Se gli attori della rivoluzione americana temono la folla e plasmano un sistema che ne impedisca il sopravvento, in Europa i rivoluzionari parigini le folle invece le utilizzano, ora contro il cosiddetto ancien régime ora nelle lotte politiche interne, finendo, come mostrò a suo tempo Furet, per esserne schiacciati. C’è qui, nelle pagine dedicate da Gentile al XIX secolo, un continuo ricorso a Tocqueville, il più lucido analista delle derive dispotiche della democrazia rivoluzionaria e il teorico delle due democrazie, quelle americana che salva la libertà e quella europea che invece la distrugge.
Le pagine di Tocqueville non sono solo profetiche riguardo all’avvento del bonapartismo di Napoleone III, ma pure sull’evoluzione della democrazia del XX secolo. Qui il testimone passa a Gustave Le Bon, uno scienziato sociale oggi ingiustamente dimenticato che, osserva Gentile, coglie un elemento fondamentale: la folla desidera essere domata, è come un fiume in piena finché non trova la sua diga nel capo. Questi però deve disporsi di fronte alla folla come un attore e indossare una maschera. Siamo a quella che Gentile chiama «democrazia recitativa» incarnatasi soprattutto in Charles de Gaulle e in John Fitzgerald Kennedy.
Le previsioni di Gentile sul futuro sono pessimistiche: la democrazia recitativa si è ormai imposta ovunque e, con la sua «personalizzazione», la partecipazione dei cittadini sta diventando un’illusione. Se è così, tuttavia, occorre capire perché i fondamenti della democrazia partecipativa, il parlamento e i partiti, perdano potere e legittimità. Probabilmente perché non sanno rispondere alle spinte di quest’ultima fase della modernizzazione. E perché si fondono, l’uno e gli altri, sullo Stato nazione che, se non è in via di sparizione come molti credono, è un’entità sempre meno visibile: Stato-nazione di cui — è lezione di questi giorni — proprio il demos sembra volere il ritorno.

Il Sole 29.5.16
La trama spessa dell’analisi storica
Nessun principio di razionalità assoluta e tantomeno qualsiasi genere di determinismo possono fornire una spiegazione valida ed esauriente dell’itinerario dell’umanità
di  Valerio Castronovo

Nessun principio di razionalità assoluta e tantomeno qualsiasi genere di determinismo possono fornire una spiegazione valida ed esauriente dell’itinerario dell’umanità. Le istituzioni politiche e quelle civili, le culture e le loro espressioni, le strutture economiche e quelle sociali non si sono avvicendate secondo una filiazione meccanica lungo una sequenza lineare nell’ambito di un percorso univoco e rettilineo, ma al contrario lungo tracciati diversi e ramificati, discontinui e con risvolti ambivalenti.
Proprio per questo, la storia è una disciplina la cui ragion d’essere non consiste solo nella conservazione della memoria del passato, ma nella riflessione e nell’educazione all’esercizio critico: a valutare la realtà e i retaggi di una determinata epoca nella loro effettiva concretezza, senza codici ideologici precostituiti né maneggevoli schemi esplicativi. Solo così la conoscenza storica, oltre a farci comprendere da dove veniamo, ci può essere di aiuto anche per capire meglio il mondo in cui viviamo e a intravedere ciò che potrebbe attenderci in un prossimo futuro.
È dunque un “mondo al plurale” lo scenario dell’analisi storica. Poiché la storia dell’umanità è una trama spessa e cangiante composta da un gran numero di fili, che è stata tessuta o ricucita da tante mani, sotto più cieli e a diverse latitudini, con disegni e propositi differenti, quando non del tutto opposti l’un l’altro.
Per orientarsi in questa sorta di labirinto, sono essenziali due concetti-chiave, come quelli di “complessità” e di “globalità”, in quanto consentono di intrecciare l’analisi dei fattori e degli eventi che hanno contrassegnato con una loro impronta le diverse epoche e comunità, con la descrizione del lento fluire delle strutture materiali e dei modi di vita, dei costumi e dei sistemi di valori, degli assetti demografici e delle pratiche del vissuto quotidiano.
In tal modo è possibile rendersi conto sia di determinati “momenti di svolta” sia delle “onde lunghe” della storia, di talune costanti e tendenze di fondo. E ciò in una visione d’insieme che abbracci l’Europa e gli altri continenti nelle loro specifiche identità e nelle loro diverse connessioni. Una storia che oggi, in un mondo sempre più caratterizzato da una rete di reciproche interdipendenze fra le sue varie parti e le sue diverse genti, è tanto più indispensabile conoscere fin dalle sue origini.
Ogni epoca storica (dal Medioevo all’età moderna, a quella contemporanea) ha naturalmente una sua specifica fisionomia, dei propri tratti distintivi che la differenziano dalle altre.
Ciò che le caratterizza è innanzitutto quanto attiene alle vicende e ai protagonisti di quella che si usa definire la “grande storia”, in quanto ha concorso a generare i più rilevanti mutamenti di scenario e di prospettiva: le ideologie politiche e le lotte di potere, le decisioni di sovrani e di governanti, le guerre fra le nazioni e le controversie religiose, le dispute territoriali e quelle interetniche, l’operato delle istituzioni pubbliche e delle autorità ecclesiastiche, le competizioni economiche e d’interesse. Insomma, tutto ciò che è volontà e iniziativa, responsabilità e costruzione, dei singoli attori e dei diversi congegni di cui s’avvalgono.
Ma una storia dell’umanità “al plurale” comporta anche una ricognizione dei molteplici aspetti dell’esistenza quotidiana delle generazioni susseguitesi nel corso del tempo, delle loro condizioni di vita e delle strutture familiari e di parentela, dei rapporti fra uomo e donna, degli abiti mentali e dell’immaginario collettivo, delle credenze popolari, dell’intreccio fra sacro e profano e della sensibilità religiosa, delle usanze e delle feste rituali, delle speranze e delle paure, di certi ricorrenti istinti e pregiudizi.
Naturalmente, non può mancare, in un profilo complessivo dell’evoluzione storica, una particolare attenzione a quanto è stato il frutto precipuo del progresso culturale e del sapere scientifico, delle teorie di filosofi e pensatori, delle concezioni di esponenti del mondo laico e di quello ecclesiastico, delle scoperte degli scienziati e del talento dei tecnici, nonché dei rapporti dell’uomo con l’universo e con la natura.
Una prospettiva “al plurale”, comprensiva anche delle dinamiche dell’economia, delle sue diverse congiunture e linee di tendenza, è tanto più indispensabile per mettere a fuoco l’età contemporanea, il Novecento, a cui è intimamente connesso, per vari aspetti e retaggi, l’universo in cui ci troviamo a vivere. Poiché si è trattato di un secolo che ha visto avvicendarsi due guerre mondiali e l’avvento di due ideologie totalitarie, come il nazismo e il comunismo, che, mosse dall’idea palingenetica di plasmare le coscienze e di cambiare il mondo, hanno coinvolto milioni di uomini e generato, da un lato, il genocidio di sei milioni di ebrei per mano del regime hitleriano e dall’altro, la tragica sorte di una moltitudine di deportati nei gulag staliniani; ma anche l’eccidio in massa di armeni nell’Impero ottomano e la persecuzione sistematica dei curdi in Turchia e in vari Paesi del Medio Oriente; nonché l’annientamento di Hiroshima e Nagasaki sotto le bombe atomiche americane.
Il Novecento è stato però anche un secolo che ha visto, insieme al disfacimento dei vecchi edifici imperiali in tre quarti del globo, il progressivo allargamento delle frontiere della democrazia, dopo lo scontro politico-ideologico fra Est e Ovest prolungatosi sin quasi alle soglie del Duemila; nonché una serie ininterrotta di mutamenti nella vita sociale e nelle istituzioni pubbliche, nello status civile e giuridico delle donne, nella condizione dei giovani, nei costumi e nei comportamenti collettivi; come pure una sequenza di profonde trasformazioni economiche, di una rivoluzione tecnologica come quella informatica, di grandi progressi sulla medicina, di un allungamento delle speranze di vita, di eccezionali scoperte scientifiche e di eclatanti esplorazioni spaziali.

Corriere La Lettura 29.5.16
Troppi Rousseau
Feticci. Si moltiplicano i richiami al filosofo francese, additato a esempio di trasparenza e rigore. Ma così facendo ci si allontana dal cuore del suo pensiero, che era intrinsecamente contraddittorio e che, un secolo
e mezzo prima di Nietzsche e Max Weber, mostrò l’origine infondata e irrazionale di ogni istituto razionale
di Daniele Giglioli

Su Rousseau circola da due secoli una vulgata che sarebbe caritatevole chiamare liberal-conservatrice, quando invece è francamente reazionaria: pura propaganda. Suona così: Rousseau è il cattivo maestro dei giacobini. Un precursore del totalitarismo. Da Rousseau si va diritti al gulag. Fosse per lui cammineremmo tutti a quattro zampe (questa a dir il vero era di Voltaire, e infatti almeno fa ridere). Ricostruzione che non sta né in cielo né in terra: se i giacobini fecero quel che fecero non fu per fanatismo rousseauiano, ma perché costretti a inventarsi soluzioni in fretta e furia nella brutale emergenza in cui versavano. Chi voglia comunque farsene un’idea può ricorrere al libro di un vecchio arnese da Guerra Fredda come lo storico israeliano Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (il Mulino, 1952) screditatissimo tra gli studiosi, ma incredibilmente citato ancora oggi come autorità in molti articoli di giornale: i luoghi comuni non muoiono mai.
Ma il buffo è quanto il falso Rousseau dei reazionari somigli, nella pratica se non negli intenti, almeno espliciti, al Rousseau cui il Movimento 5 Stelle ha intitolato la sua nuova piattaforma informatica in omaggio al cofondatore Casaleggio recentemente scomparso, il quale considerava Jean-Jacques «il padre della democrazia diretta». Ora, a un movimento che si pretende rivoluzionario e però chiama «direttorio» il suo organismo dirigente (laddove il Direttorio non segnò l’inizio, ma la fine della Rivoluzione francese), non si ha cuore di chiedere troppe pezze d’appoggio filologiche. E poi la politica cerca il suo bene dove lo trova e ha tutto il diritto di non andare troppo per il sottile.
Ciò che sorprende non è dunque questo, ma lo scarto tra le dichiarazioni (Rousseau profeta di una democrazia «più democratica» di quella rappresentativa) e la prassi: decisioni inappellabili dall’alto, trasparenza pretesa solo in basso, autorità carismatica dei fondatori, ossessione per una corruzione che alberga non tanto nel sistema, ma nel cuore stesso degli esseri umani, tutti criminali in potenza da sorvegliare in ogni singolo aspetto della vita, quando Rousseau diceva invece che l’uomo nasce buono ed è la società che lo perverte. Più che Rousseau questo è De Maistre, un reazionario della più bell’acqua; o al massimo, appunto, il Rousseau sfigurato (forse perché segretamente desiderato?) dalla propaganda reazionaria. Da cui la domanda: cosa accomuna le due interpretazioni?
Non certo il piatto adagio che gli estremi si toccano. Piuttosto il rifiuto, il rigetto, l’orrore per la contraddizione. Il pensiero di Rousseau è contraddittorio. Lui stesso lo sapeva. Non ha mai preteso di spacciare formule pronte per l’uso. Le soluzioni che avanzava servivano più a criticare lo stato di cose che a proporne in concreto uno diverso (è questa, da sempre, la funzione dell’utopia: additare le crepe del presente, non indicare un ordine perfetto che, se realizzato, diverrebbe un incubo incriticabile).
Il problema attorno a cui si è sempre arrovellato è il seguente: come rendere gli uomini liberi se sono loro i primi a non volerlo? A questo rispondono le finzioni teoriche e narrative del pedagogo nell’ Emilio , del legislatore nel Contratto sociale , di Wolmar in un romanzo come La nuova Eloisa , che allestisce un microcosmo familiare dove la menzogna è bandita e tutti vivono all’insegna di una trasparenza che implica assoluta fiducia nella veridicità altrui.
Esperimenti di pensiero. Casi limite, così come un caso limite era per Rousseau quello «stato di natura» originario di cui lui stesso diceva che «probabilmente non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai». E così come altrettanto un caso limite è la pretesa, nelle Confessioni , di essere stato l’unico a tentare l’«impresa senza esempi» di mostrarsi esattamente com’era, con tutto il suo bene e il suo male, episodi vergognosi compresi. Pretesa in cui era trasparente un ricatto: se vi racconto anche i miei lati più ripugnanti siete obbligati a credermi su tutto. E del resto già nelle opere politiche Rousseau insisteva su quanto il pedagogo e il legislatore debbano spesso ricorrere a suggestioni, mezzucci e perfino imposture per conseguire i loro scopi: il pedagogo che finge di smarrirsi con Emilio nella selva in modi che questi impari a sbrigarsela da solo; Numa Pompilio che consulta la Ninfa Egeria nella grotta o Mosè che chissà quanto a lungo si sarà girato i pollici sul Sinai prima di ridiscendere con le tavole della legge.
Ciò che Rousseau, in altre parole, ha pericolosamente messo a nudo, un secolo e mezzo prima di Nietzsche e di Max Weber, è l’origine infondata e irrazionale di ogni istituto razionale, l’abisso inscrutabile che presiede alla genesi di ogni soggettività individuale e collettiva. E tutto ciò in pieno Illuminismo, quando le migliori menti della sua generazione si beavano di credere che la ragione fosse un processo naturale, progressivo e irreversibile che avrebbe finito per imporsi da sé. Un ottimismo che Rousseau non ha mai condiviso: non a caso l’utopia di Wolmar nella Nuova Eloisa finisce male; lui stesso diceva che nessun popolo europeo avrebbe mai potuto mettere in pratica il Contratto sociale ; in un abbozzo di continuazione dell’ Emilio , cioè Emilia o I solitari , il suo pupillo viene tradito dalla sposa che il precettore gli aveva allevato come anima gemella; mentre nelle opere autobiografiche successive alle Confessioni ( Rousseau giudice di Jean-Jacques , Le fantasticherie di un passeggiatore solitario ) è costretto ad ammettere che la trasparenza promessa era impossibile e non aveva potuto fare a meno di abbellire, integrare, ritoccare. Contraddizioni penetrate nelle fibre più intime della sua psiche, negli anni sempre più minata dalla paranoia e dalla mania di persecuzione, fino all’ipotesi di un complotto universale ai suoi danni che vedeva coinvolti i suoi ex amici enciclopedisti e i gesuiti, i magistrati di Ginevra e le corti europee…
Che cosa fanno invece i maldestri esegeti di Rousseau? Laddove Jean-Jacques crea metafore geniali per mostrare quanto rischiosamente si articolino desiderio e pericolo, loro prendono le metafore alla lettera, scambiano le finzioni per verità, elevano a norma un esperimento. Alla contraddizione preferiscono la paranoia. Qualcosa di simile accadde a un altro sperimentatore abissale poi sprofondato nella demenza come Nietzsche: tra il cantore della bestia bionda celebrato dai nazisti e il conciliante fricchettone dei postmoderni (niente fatti, solo interpretazioni, tana libera tutti) ci sono più punti di contatto di quanto non si creda. La semplificazione è tanto necessaria in politica — dove bisogna scegliere: repubblica o monarchia, divorzio sì o no, nazionalizzare o privatizzare — quanto stupida nel pensiero. Ma più stupido ancora è confondere i due piani: chi lo fa si condanna all’impotenza o al disastro; nel migliore dei casi, al ridicolo.

Corriere La Lettura 29.5.16
La violenza secondo Lenin

Il paragone tra i campi di prigionia nazisti e quelli sovietici, così come tra i regimi del Terzo Reich e dell’Urss staliniana, è un terreno accidentato, denso d’implicazioni ideologiche. Ma Claudio Vercelli, nel libro Il dominio del terrore (Salerno, pp. 166, e 12), espone in modo efficace analogie e differenze. Rileva giustamente che in Urss lo sterminio non era il destino irrevocabile dei reclusi. Sottolinea che i prigionieri del Gulag vennero liberati in massa dalle stesse autorità sovietiche con la destalinizzazione, mentre solo la sconfitta bellica fermò la macchina della Shoah. Più discutibile è la tesi che nel nazionalsocialismo ci fosse una «disposizione genetica» alla violenza assente nel bolscevismo, che invece, scrive Vercelli, «si lasciò trascinare nella spirale del confronto manu militari » dall’impatto con le forze avverse. In fondo la rivoluzione d’Ottobre fu un’insurrezione armata, mentre Adolf Hitler venne nominato cancelliere dal presidente von Hindenburg. Ma soprattutto Lenin invocava già prima del 1917 la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e al potere si comportò subito di conseguenza, per esempio sciogliendo con la forza l’Assemblea costituente russa. Non pare si possa dire che allo scontro cruento il leader bolscevico sia stato trascinato dalle circostanze.

Corriere La Lettura 29.5.16
«La lingua è materia etica»
La memoria canta come i canarini all’erta
di Donatella Di Cesare

«La lingua è materia etica», osserva Wlodek Goldkorn nel suo italiano icastico. E chissà, forse in yiddish, la sua lingua di provenienza, quella del Bund, il partito dei lavoratori ebrei, che sognavano rivoluzione e redenzione, e finirono nelle camere a gas, avrebbe dovuto essere scritto il suo nuovo libro Il bambino nella neve (Feltrinelli).
A metà tra la denuncia politica, la riflessione filosofica, la narrazione avvincente, Goldkorn apre le porte del suo mondo ebraico mettendo allo scoperto amarezze, tensioni e speranze che lo attraversano.
Dalla Polonia al nuovo Stato di Israele, dalla Germania all’Italia. Nell’esilio i luoghi assumono un valore simbolico che li oltrepassa. «Sono nato a Katowice, ma vengo da Varsavia». Quale Varsavia? Quella del cimitero ebraico. Tornati dall’Unione Sovietica, dove avevano trovato riparo, pur tra gli stenti, i genitori avevano deciso di restare in Polonia per fedeltà ai fantasmi, perché «volevano che la loro vita proseguisse nel Paese del nulla». Erano ebrei comunisti. Parlavano di Trotsky e della rivoluzione mondiale. Per loro il comunismo era insieme scelta esistenziale e aspirazione alla giustizia: «Un modo di affrontare il mondo da ebrei».
Ma in Polonia dominava lo stalinismo. E gli ebrei non erano certo i benvenuti. «Come, sei vivo?». Così venivano accolti. Il 4 luglio 1946 a Kielce furono massacrati quaranta ebrei. Ciononostante la famiglia restò a Katowice, impegnandosi nella ricostruzione della vita ebraica in Polonia. Più tardi si trasferirono a Varsavia.
Goldkorn ricostruisce la sua adolescenza negli anni Sessanta. I rapporti tra la Polonia e lo Stato di Israele erano ancora buoni. Ma nel 1967 le cose cambiarono. Il presidente egiziano Nasser minacciò di distruggere Israele; Giordania e Siria erano con lui. Con una vittoria fulminea Israele ebbe la meglio. «I nostri ebrei hanno vinto», si sentiva ancora nelle vie del mercato. Ben presto, però, la propaganda di regime cominciò a parlare dei «progressisti arabi» e degli «aggressori israeliani».
La situazione si aggravò nella primavera del 1968. Erano ebrei molti leader della protesta all’università di Varsavia. Si gridò al «complotto sionista». Ebbe inizio una violenta campagna antisemita. «Di questa vicenda in Italia si sa poco», osserva Goldkorn. E non può fare a meno di esclamare «vergogna per l’intera sinistra»! Vergogna per quell’antisemitismo rivolto — ieri come oggi — contro lo Stato ebraico. Władisław Gomułka, segretario del partito e capo del governo polacco, paragonò Israele alla Germania nazista. Gli ebrei erano nemici interni. Partirono il 10 settembre del 1968. «Tu e mio padre avete buttato via le vostre vite. (…) Sareste dovuti andare in Israele, l’unica vera patria degli ebrei». Malgrado questo rimprovero alla madre, fu Wlodek a lasciare presto Israele.
Nel 1971 è a Ramallah in Cisgiordania, soldato dell’esercito israeliano. Descrive un episodio emblematico. Vicino alla loro base c’era una discarica dove si affollavano bambini palestinesi — un po’ per gioco, un po’ per rastrellare i rifiuti. Un venerdì andò con un sergente a svuotare i cassonetti e sulla via del ritorno si imbatterono in un bambino di sei o sette anni. Stava lì con un vecchio elmetto bucato in testa. «Puntagli contro il fucile», dice il sergente. Lui fa finta di non sentire. Quello lo minaccia: «Finirai davanti alla corte marziale». Poi sbraita: «Tu e tutti quelli come te, gli amanti degli arabi»! Certo Goldkorn non si identifica con il campo della nazione. Lui è erede dell’anarchismo ebraico-orientale. Ma osserva che non si tratta di amare l’altro, bensì di mettersi nei panni altrui — una capacità che va insegnata.
Lascia Israele. Si ferma in Germania — solo per capire che lì, dove il passato fa capolino persino nell’intimità delle case, non può restare. I suoi viaggi, però, non sono terminati. E neppure il libro, che prosegue con il ritorno a Varsavia, nel 1987. Quale Varsavia? Quella del ghetto, della insurrezione armata, del riscatto.
Ognuno a un certo punto della vita si sceglie genitori diversi. Lui ha scelto Marek Edelman, il combattente della rivolta del ghetto. Va a trovarlo molte volte a Łódz. Nel 1997 lo accompagna a New York per l’anniversario del Bund. Orgoglio di appartenere agli sconfitti della storia.
Con Edelman va a Treblinka. Da solo si reca negli altri campi di sterminio, a Sobibór, a Bełzec. Non può mancare Auschwitz. O meglio, Birkenau, «il mio cimitero». Lì, nella camera a gas, sono finite la nonna Taube e la zia Nachcia con in braccio la piccola Rut. E come dimenticare tutti gli altri morti, mai conosciuti, eppure così presenti? E il bambino che la zia Chatele lasciò nella neve del bosco per sopravvivere?

Repubblica 29.5.16
Eugenio Scalfari, ventiduenne, scelse la monarchia
Perché votai per il re
“Non mi fidavo della Democrazia cristiana Il mio amico Calvino si schierò invece per la repubblica. Non ci scrivemmo più”
E ancora. Da Andrea Camilleri a Dacia Maraini, Da Ermanno Rea a Lia Levi il ricordo dei ragazzi e delle ragazze del ’46 “In casa litigavo con mio padre. Per strada dovevano scortarci i carabinieri”
intervista di Simonetta Fiori

ROMA «PERCHÉ HO VOTATO per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano ». Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d’Italia ma anche la sua storia personale, l’ingresso nell’età adulta che l’avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s’abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.
Così il futuro fondatore di “Repubblica” scelse la monarchia.
«Croce era convinto che l’istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l’Italia era “il giardino del Vaticano».
Temevate l’egemonia scudocrociata?
«Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l’ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare».
Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
«No, più semplicemente si era esaurita l’intimità adolescenziale».
«ERAVAMO ORMAI DUE PERSONE adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi ».
È per questo che poi avresti trovato un’intesa con papa Francesco?
«Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l’ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. “Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia”, mi ha detto sorridente. “Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri”. “Beh, il minimo che potesse capitare”».
Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
«Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi».
Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
«Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica».
Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
«In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C’era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare».
Hai mai creduto all’ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
«Mah, il sospetto fu smentito con prove».
Un “miracolo della ragione”, così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
«Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell’inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista».
Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
«Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti».
Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com’era l’Italia del dopoguerra?
«Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l’apertura di case da gioco. L’organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. “Sei matto?”. Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant».
Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant’anni?
«Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti».
Il simbolo più alto del riformismo italiano.
Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
«Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte — la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli — ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci».
Poi quella stagione riformista tramontò.
Qual è stata l’altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
«La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l’indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell’Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte ».
Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici — Segni e Leone — o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l’attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
«A Pertini mi legava un’amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l’abitudine di fare la prima colazione insieme. E l’amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi “sassolini dalla scarpa”. Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. “Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta”. E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile».
E il rapporto con Giorgio Napolitano?
«Nel corso della sua presidenza l’ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c’è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d’accordo su tutto: sull’attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi».
Direttore, un’ultima domanda azzardata.
Ma non è che nella scelta del nome di “Repubblica” per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent’anni prima?
«Ma no, me l’ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo».

Il Sole 29.5.16
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016 / 3
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci

Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
Carlo Greppi, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile , Feltrinelli, Milano, pagg. 380, € 20

Il Sole Domenica 29.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016 / 2
Le due facce di un referendum
di Gennaro Sangiuliano

I francesi parlano di «République», sintesi estrema del loro spirito nazionale, i tedeschi dal dopoguerra in poi hanno sostituito la parola «Reich» (Stato) con quella di «bundesrepublik», indicativa del nuovo corso democratico e federale, i britannici, fedeli alla monarchia, si sentono ancora «United Kingdom», il Regno Unito. In Italia solo in anni molto recenti il lessico politico ha cominciato ad adoperare la parola «Repubblica», come capace di racchiudere i sentimenti culturali e costituzionali della nazione. Per molto tempo si è preferito adoperare la definizione debole di “Paese” se non addirittura quella di “società”.
Si è cominciato a parlare di spirito repubblicano grazie soprattutto all’impegno dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ne indicò il valore dei simboli. Per molti decenni, nel lungo dopoguerra, in un’Italia che pure cresceva economicamente, la Repubblica è rimasta sospesa, espressa nei decreti ufficiali ma venerata solo dai piccoli partiti laici (Pri e liberali) e da alcune grandi individualità, a cominciare da Einaudi e De Gasperi. Per il resto, i due grandi partiti chiesa in cui l’Italia si divideva, Dc e Pci, apparivano orientati a esaltare visioni non unificanti, da una parte una concezione clerico-confessionale della politica, dall’altra addirittura una visione che indicava nell’Urss la patria globale di tutti i comunisti a cui tendere. Bisognerà attendere gli anni Settanta quando Enrico Berlinguer comincerà a lavorare ad un’elaborazione nazionale del comunismo.
Del resto la Repubblica nasce in una fase delicata, alla fine di una rovinosa guerra in cui il fascismo aveva trascinato l’Italia, e mostra subito il connotato dell’incertezza. «La Repubblica non entra nella storia d’Italia», scrive Gianni Oliva, «con le piazze in festa e i nuovi tricolori esposti ai balconi: entra defilata, con un comunicato sobrio del Governo e con la polizia a presidio delle città del Sud; entra senza enfasi, dopo dieci giorni di tentennamenti, di bizantinismi giuridici, di ricorsi e di schermaglie politiche; entra esitante, con il peso delle vie di Napoli insanguinate da una dozzina di giovani morti». Lo storico Gianni Oliva ricostruisce con un saggio, ricco di particolari, le giornate di quel giugno di settant’anni fa che portarono alla nascita della Repubblica Italiana, i momenti in cui termina la monarchia sabauda ed ha inizio la vicenda repubblicana. Lo fa mettendo in sequenza i fatti rispetto ai quali l’esito finale fu a lungo in dubbio.
Il referendum si svolge senza incidenti, con i cittadini disciplinatamente in coda davanti ai seggi: «Quasi venticinque milioni di votanti, il 90% degli aventi diritto, dopo un mese di campagna elettorale che ha animato la Nazione villaggio per villaggio, arrivando con i manifesti e con i comizi anche nelle aree più remote: e tra gli elettori tredici milioni di donne, alle quali per la prima volta viene riconosciuto il diritto di voto».
L’entusiasmo della vasta partecipazione cede, però, presto il passo all’angoscia degli scrutini. Lo spoglio è lentissimo e fa registrare risultati sensibilmente diversi da quelli attesi. Si era pronosticata una travolgente vittoria repubblicana, perché quasi tutti i partiti antifascisti si erano attestati su quella indicazione, ma nei fatti la scelta della Repubblica fa fatica e il Paese è nettamente spaccato in due. La monarchia ottiene un voto trasversale, molti democristiani e addirittura comunisti. Anche le potenze vincitrici sono divise: gli inglesi per la monarchia, gli americani per la repubblica. Ad aumentare la tensione c’è l’afflusso difficile dei dati, la guerra al Nord ha distrutto linee telegrafiche e telefoniche, per cui arrivano prima i risultati del Meridione, dove la vittoria monarchica è schiacciante. Alcuni quotidiani del Mezzogiorno si sbilanciano e il giorno 4 annunciano la vittoria sabauda, lo stesso presidente del Consiglio De Gasperi ritiene che il Re ce l’abbia fatta. L’esito, però, si definisce nel corso della notte tra il 4 e il 5, quando affluiscono tutti i dati del Nord: alla fine, 54 per cento alla repubblica e 46 per cento alla monarchia, 12 milioni e 700mila voti contro poco meno di 11 milioni, come annuncia alla stampa il ministro dell’Interno Giuseppe Romita la sera del 5 giugno. «La comunicazione non è definitiva, perché la proclamazione del risultato spetta alla Suprema Corte di Cassazione, ma sufficiente a creare turbamenti: il “ribaltone” è un calice amaro, serpeggiano le prime voci di brogli, si accusa il Governo di aver manipolato i dati, nasce la leggenda metropolitana di Romita che avrebbe nascosto nei cassetti del Viminale un milione di schede prevotate per la repubblica», scrive Oliva.
Nello scontro si inserisce l’ambiguità del decreto luogotenenziale istitutivo del referendum, nel quale si parla di vittoria per chi ottiene «la maggioranza degli elettori votanti». Ma cosa si deve intendere per «elettori votanti»? Dal momento che il Governo non ha fornito dati su schede bianche o nulle, il 54 per cento della Repubblica deve intendersi calcolato sul totale dei voti validi o sul totale dei votanti? La nebulosità della norma crea una questione giuridica che si presta a diventare un “caso” imbarazzante. La Repubblica ha vinto, questo è evidente, ma non ha stravinto. La politica è troppo debole per assumere una decisione e delega la risposta alla magistratura; ma la Corte di Cassazione è altrettanto debole e si rifugia nel rinvio. Scrive in quelle ore Vittorio Gorresio, allora capocronista del “Risorgimento liberale” di Mario Pannunzio: «La folla in piazza Montecitorio chiedeva la bandiera, ma non ne fu esposta nessuna perché non si sapeva quale».
Nella città più monarchica d’Italia, Napoli, dove per il Re ha votato l’80% della popolazione, si formano assembramenti, si contesta il Governo, si grida alla truffa. Altri episodi di contestazione scattano in altre città del Meridione. Ci saranno vittime. Una parte dei militari fa pressioni sul Re e si dichiara pronta al golpe. Ma Umberto ribadisce la sua fedeltà istituzionale e toglie d’impaccio la politica decidendosi per l’esilio. Tutti gli renderanno merito del comportamento responsabile, anche avversari forti come Ferruccio Parri e Palmiro Togliatti. Quello del giugno ’46 fu un passaggio arduo. Per Oliva il «rischio della guerra civile e della spaccatura tra un Centro-Nord repubblicano e un Sud monarchico» fu reale, perché «i morti di Napoli avrebbero potuto innescare una spirale di violenza fuori controllo e trascinare il Paese nel caos».
Anche per questo l’Italia dovrebbe esaltare con maggiore coesione lo spirito repubblicano, cornice unificante, idem sentire, che vada olt re le legittime divisioni della politica.
Gianni Oliva, Gli ultimi giorni della monarchia. Giugno 1946: quando l’Italia si scoprì repubblicana , Mondadori, Milano, pagg. 216, € 19,50

Repubblica 29.5.16
Dove abitano i populismi
Una perdurante difficoltà ad attrarre l’elettorato popolare che si indirizza in parte verso i 5Stelle e, soprattutto, verso la Lega
di Piero Ignazi

MATTEO Renzi ha già avviato, e subito infiammato, la campagna elettorale per il referendum confermativo sulla riforma della Costituzione. Questa è la prova decisiva per il segretario del Pd: l’ha detto e confermato già troppe volte per fare marcia indietro. Tutto il resto non conta. Per vincere ha anche sdoganato i “professoroni”, sbeffeggiati nel passato per le loro posizioni non entusiastiche, ma oggi esaltati per il loro sostegno. Ma questa enfasi sulle riforme istituzionali è ben risposta o non crea contraccolpi?
Ci aspettano sei mesi di campagna elettorale ininterrotta e martellante. Forse, alla fine, gli italiani si saranno anche convinti che stanno per votare qualcosa di importante, e magari anche di apprezzabile. Finora rimangono distanti e perplessi. In cima alle loro preoccupazioni vi sono altri temi, economici e identitari, dalla disoccupazione alla pressione migratoria. Non che il governo sia stato inerte su questi fronti. Ma quanto fatto non ha influito sulla “percezione” della vastità e gravità di tali fenomeni. Un recente sondaggio Ipsos segnalava che l’opinione pubblica ritiene di essere invasa da milioni di immigrati (mentre sono intorno all’8% della popolazione) e di avere altrettanti giovani a spasso (mentre sono poco più dell’11%, appena qualche punto sopra la media europea). Queste distorsioni della realtà allignano soprattutto nelle componenti meno acculturate e meno attente alla cosa pubblica, quelle che recepiscono messaggi ad alto contenuto emotivo, e da questi traggono i loro convincimenti (che spesso sono ben distanti dalla realtà: secondo l’Ipsos una persona su tre con bassa scolarizzazione pensa che gli immigrati siano il 40% degli abitanti).
Condizioni di vita disagiate, e sensazioni di minacce incombenti sulla sicurezza fisica e occupazionale, oltre che sull’identità, portano gli strati sottoprivilegiati della società ad orientarsi verso chi offre risposte tranchant ai loro problemi. E oggi, chi le offre, sono i partiti populisti. In tutta Europa questi partiti sono diventati il rifugio del “voto proletario”: operai, disoccupati, e impiegati esecutivi a bassa qualificazione sostengono in massa partiti come il Fn di Marine Le Pen in Francia e l’Fpo di Norbert Hofer in Austria. La composizione sociale dei movimenti populisti di destra è tale da averne fatto i nuovi partiti operai d’Europa. La sinistra ha resisto elettoralmente per vari anni puntando alla conquista dei ceti medi e medio-alti con elevata istruzione. Per attrarli i partiti socialisti hanno annacquato le loro politiche pro-labour in ossequio all’ideologia dominante neoliberista, ed hanno promosso una agenda liberal, sensibile ai diritti civili. Grazie a questo passaggio culturale e ideologico la sinistra ha sfondato in territori prima appannaggio dei conservatori. Ma ha poi pagato la sua mutazione: ha perso contatto con il tradizionale serbatoio elettorale “proletario” che è passato ai populisti.
Il Pd sta seguendo questa deriva? Gli ultimi sondaggi indicano una perdurante difficoltà ad attrarre l’elettorato popolare che si indirizza in parte verso i 5Stelle e, soprattutto, verso la Lega. I messaggi del capo del governo sembrano rivolti a consolidare una base sociale trasversale grazie soprattutto alla politica dei bonus, benché traspaia una inclinazione per i settori medio-alti. Matteo Renzi preferisce farsi immortalare tra imprenditori piuttosto che tra operai, ed evitare i luoghi dove le difficoltà del vivere quotidiano si impongono, come i quartieri degradati della grandi città del sud e le periferie urbane in genere, laddove vivono le persone a basso reddito. Piuttosto che immergersi nelle realtà difficili e aspre delle marginalità e difficoltà nazionali, il segretario del Pd si concentra su un altro terreno, quello delle riforme costituzionali. Vuole essere giudicato su quello, non sulla disoccupazione o sulla sicurezza delle città, sulle cure per tutti o sulla corruzione. E così dà l’impressione di disinteressarsi dei “veri” problemi. In questo modo rischia di perdere contatto con gli elettori sottoprivilegiati e lasciar libere autentiche autostrade ai populisti di varia natura.

Corriere 29.5.16
Giachetti: no a intese con Verdini ma accetto anche i voti della destra
«Da Marino e D’Alema attacchi gratuiti. Non so perché»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «Mi colpisce il cambio di clima...».Si sente già al ballottaggio, Roberto Giachetti?
«Incontro tante persone che sperano in me, confidano che io ce la faccia perché vogliono cambiare, a 360 gradi».
Però Renzi sarà al suo fianco l’1 giugno e non per la chiusura. Paura del flop?
«Fosse così avremmo scelto un teatrino e non la sala della Conciliazione, la più grande di Roma. E poi io avevo già previsto la mia chiusura itinerante in motorino, dalle 10 alle 22 di venerdì, mica posso portarmi dietro Renzi in dieci piazze... La mia chiusura è un happening che dura tre giorni».
Renzi il 3 sarà a Bologna, non è geloso di Merola?
«No, sono contentissimo per lui e anche ottimista, convinto di andare al ballottaggio. Ho solo il dubbio su chi mi accompagnerà. Marchini? Non è in lista, l’ha scaricato pure Berlusconi. Meloni? Tutti hanno capito che è uno scontro puramente nazionale, Roma je passa proprio de striscio ».
Che fa, tifa per la Raggi?
«Per me è uguale, l’importante è che ci vada io. I ballottaggi sono un altro film: si azzera tutto e si riparte. Mi aspetta un attimo? C’è una persona che vuole salutarmi».
Posso chiederle chi era?
«Renzo Arbore. Si è alzato da tavola, qui a Testaccio, ed è venuto a salutarmi. Gli chiederò un consiglio su chi nominare night manager ».
Sabrina Ferilli vota Raggi.
«Diverse persone mi hanno fatto lo stesso ragionamento, “sei una brava persona ma non vi voto più”. A molte di loro ho fatto cambiare idea. Ho ancora una settimana per riuscirci anche con lei».
E con Fassina, nessuna speranza?
«Non ho la più pallida idea di cosa farà Fassina, ma il popolo della sinistra non avrà dubbi. Non ci credo che qualcuno per far del male a Renzi consegna Roma all’avventura».
Grillo che diserta il comizio di chiusura della Raggi?
« Nun me ne po’ frega’ de meno . Se hanno capito che le stelle non brillano, sono problemi loro. Io sono stato bravo, ho evitato ogni inquinamento di politica nazionale e terrò fede all’impegno. In quattro mesi ho percorso 4 mila chilometri e non intendo rincorrerli sulla polemica».
Se vince lei governerà con Verdini, come dice la Raggi?
«No, Verdini non è in campo e non ha accordi con nessuno. Per far capire che il problema non si poneva, ho anche presentato le mie liste subito».
Invece si pone, Abrignani ha detto al «Corriere» che Ala sostiene il Pd ovunque e dovrete farvene una ragione.
«Su Roma questo problema non c’è, la giunta è fatta e non possono esserci sospetti. Però, visto che le elezioni si vincono con un voto in più, lo chiederò a tutti i romani».
I voti di Verdini dunque non puzzano...
«I voti dei romani non mi fanno schifo. Per il prolungamento del tram fino a Termini e Marconi, mi prendo anche i voti della destra. Chiaramente al ballottaggio ci andrò con lo stesso raggruppamento di centrosinistra con il quale mi sono presentato alle primarie».
Nella sua squadra ha chiamato Livia Turco, D’Alema non sarà stato contento.
«Figuriamoci se volevo fare un dispetto a D’Alema. Io, senza mai aver avuto scontri politici, sono stato trattato assai male da lui, gratuitamente. È andato due volte in tv a dire che sono inadeguato. Io non ce l’ho con lui e non capisco perché lui ce l’abbia con me».
Sta provando a recuperare il sostegno della sinistra Pd?
«Ho scelto la Turco per la straordinaria energia, freschezza e modernità di visione sul sociale. Magari questo potrà servire alla minoranza del Pd, a Fassina e a tutti quelli che dicevano “il renziano Giachetti”. È la dimostrazione che io ragiono con la mia testa e non ho pregiudizi. Rossi Doria ha una storia di sinistra, prova che non ho rancore verso Marino».
Vi siete sentiti?
«No, però mi saluta dalla tv insultandomi, tutto aggratis ».
I Radicali sono alla scissione, lei ci soffre?
«È una cosa che mi fa male, è chiaro. Mi addolora che si siano presi a botte proprio ora, che mi appoggiano da tutte e due le parti».
Porterà in Campidoglio la lezione di Pannella?
«Marco è stato presidente di Ostia e in 100 giorni ha portato le ruspe del Genio civile per abbattere manufatti abusivi. Io porterò a Roma la sua onestà, il rigore, la determinazione e le ruspe, perché Ostia diventi più bella di Barceloneta».

Corriere 29.5.16
Sinistra in crisi e turborenziani
Bettini riapre il dossier Roma
di Alessandro Capponi

Boccia la minoranza-dem, le correnti locali, a cominciare dai «turborenziani» a Roma, ricostruisce nel dettaglio l’investitura di Ignazio Marino — fu «Epifani a proporgli la sfida di Roma» — e ciò che è accaduto con Mafia Capitale, a partire dal «consociativismo» con la giunta Alemanno. Goffredo Bettini ( foto ), raggiunto al telefono a Bruxelles, parla del libro che presenterà domani a Roma: descrive «l’arretramento dogmatico della tradizione comunista» che potrebbe alla lunga nuocere a Renzi, «puro talento politico». Invece, semplicemente, «la “ditta” ha esaurito ogni funzione». «I “gufi” — scrive — non sono quelli che criticano se le cose non vanno ma che criticano per farle andare male».
«Mi sento finalmente libero», scrive nelle ultime pagine: fa riferimento al fatto che, per la prima volta dopo lustri, nessuno a Roma potrà «accollarmi la responsabilità della scelta del sindaco», ma è evidente che quella stessa libertà gli permette oggi, ne La difficile stagione della sinistra (261 pagine, Ponte Sisto) di raccontare tutto senza rancori né sconti. La minoranza-dem: «La tradizione della sinistra non è riuscita a esprimere una vitalità, una qualsivoglia influenza e una sponda autorevole per il Fiorentino (Renzi, ndr )». Parla di Roma perché «soprattutto» dai territori, «è iniziata una degenerazione correntizia. In questi mesi è peggiorata. Spesso con il contributo non irrilevante dei cosiddetti turborenziani o renziani della prima ora ( sic !). Spero che a Napoli la Valente ce la possa fare. Ma è stato incomprensibile l’accanimento contro un dirigente della statura di Bassolino». Soprattutto parla di Mafia Capitale — «le pratiche deviate continueranno se non c’è, da subito, un’inversione di tendenza» — di Ignazio Marino e di «un rapporto che non divenne mai amicizia», né portò all’incarico per la corsa al Campidoglio del 2013: «Non spettava a me indicare una scelta», fu D’Alema a suggerirlo per il Senato e «Epifani a proporgli la sfida di Roma». Sembra anche accennare a un’autocritica: «Roma è di per sé un grande problema strutturale e le giunte di sinistra di questo problema non sono venute a capo se non in modo parziale e transitorio».

Repubblica 29.5.16
Fabrizio Barca
Ferilli, Santamaria e altri personaggi dello spettacolo scelgono il M5S. Per l’autore della mappa dei circoli dem nella capitale “si vota sulla città, non su Renzi”
“L’addio dei vip al Pd? Così danneggiano Roma”
“Se la voglia è quella di mordere i dem, questa è l’occasione sbagliata: serve maggiore responsabilità”
“Nessuno vota M5S per le loro proposte. Se Roma non è pazza vota Giachetti, gli manca solo il tempo”
intervista di Mauro Favale

ROMA. «Per disobbedire al partito, come ha detto lei, Sabrina Ferilli ha scelto la volta sbagliata». Fabrizio Barca è stato ministro per la Coesione territoriale nel governo guidato da Mario Monti. Un anno fa ha compilato una “mappa” dei circoli Dem a Roma, un documento impietoso nei confronti del Pd definito anche «dannoso» e vittima di «deformazioni clientelari». Oggi è schierato al fianco di Roberto Giachetti e per il candidato al Campidoglio ha scritto un pezzo di programma. «Ed è un programma di sinistra — sottolinea — che, molto più di prima, interviene con attenzione sui mostruosi divari sociali in città». Per questo, secondo lui, la dichiarazione di voto a favore del M5S che l’attrice romana, da sempre elettrice del centrosinistra, ha affidato ieri al Fatto Quotidiano, è un errore. «Magari se ci vediamo le faccio cambiare idea».
Con quali argomenti?
«Dicendole che qui non si vota sul Pd ma per capire chi può raddrizzare una città che versa in una situazione drammatica. Il Pd ci azzecca poco».
E cosa “c’azzecca”?
«Una persona, una giunta, la loro affidabilità nel realizzare una politica di sinistra».
Giachetti, dice la Ferilli, «è una gran brava persona. È il resto della truppa che non mi garba».
«Roberto Giachetti ha fatto le sue battaglie, ha dimostrato di essere uno coerente e soprattutto lavora come un turco. Se guardo al pedigree della candidata a 5 Stelle, Virginia Raggi, vedo che ha lavorato poco in consiglio comunale: in commissione il suo astensionismo oscilla tra il 30, il 50 e il 100%».
La Ferilli, invece, voterà per lei. E così anche altri personaggi dello spettacolo che, un tempo, erano vicini al Pd. Si è dato una spiegazione di questo atteggiamento?
«Sono 6-7 anni che a Roma, l’impegno sul fronte della cultura non c’è stato. Sarebbe ridicolo se non ricordassi che mia sorella è stata in giunta con Ignazio Marino ed è stata costretta a dimettersi. Inviterei tutti a guardare il programma di Giachetti in cui si parla di rigenerazione culturale della città».
Ma questo mondo, secondo lei, è ancora rappresentativo? La Ferilli, per intenderci, “sposta” voti?
«Penso che nella crisi dei partiti, nell’incertezza generale, le persone cerchino dei garanti, dei punti di riferimento di cui fidarsi. Sono figure che un loro peso ce l’hanno. E proprio per questo dovrebbero avvertire una profonda responsabilità e separare il loro (anche giustificato) risentimento verso un partito dalla scelta di chi governerà la città per i prossimi 5 anni».
A proposito di partito: la Ferilli dice che questo «meticciato » nel Pd non le piace.
«Proprio questo riferimento mi fa dire che ha scelto l’occasione sbagliata per dare una stoccata al Pd. Ripeto: queste non sono elezioni sul segretario del partito o sul premier».
Eppure proprio l’endorsement di Matteo Renzi per Giachetti, la decisione del premier di scendere in campo per lui in prima persona, potrebbe fare allontanare un pezzo di elettorato di sinistra.
«C’è voglia di mordere il Pd e il suo segretario, mi pare l’elemento dominante ma, con molta franchezza, mi pare un atteggiamento poco responsabile. Se quello è l’obiettivo, dico io, colpiscano quando arriva il turno giusto ».
Al referendum di ottobre?
«Al referendum, alle elezioni politiche, al congresso: se vogliono colpirlo scelgano loro quando. Ma adesso no».
Non è che il M5S è maggiormente in grado di rappresentare certe istanze?
«Non c’è persona che mi dica che vota M5S perché convinto dalle loro proposte. O perché la Raggi ha capito Roma. Vogliono punire il Pd. “Diamogli una scossa”. Ma certe scosse, certe scommesse rischi di pagarle care».
Detta così per Giachetti non sarà facile.
«Se Roma non è pazza al ballottaggio manda lui. A quel punto i romani avranno 2 settimane per convincersi. A Giachetti manca solo il tempo».

Repubblica 29.5.16
Renzi: “In arrivo 500 milioni per le periferie”
Firmato il decreto del governo. Nei comuni ultimi giorni di campagna elettorale, polemiche dem-verdiniani
Il premier: dopo la Salerno-Reggio, penseremo al Ponte sullo Stretto
A Napoli nuove polemiche tra Bassolino e la candidata Pd Valente

ROMA. «Abbiamo firmato un decreto governativo con 500 milioni di euro dedicati alle periferie». È l’annuncio di Matteo Renzi, ieri, alla Biennale Architettura a Venezia. «Se nei quartieri periferici riesci a creare occasioni di vita comunitaria è più facile abbassare il rischio di insicurezza - ha detto il premier - sempre più persone andranno a vivere nelle città, che cresceranno a dismisura: o riusciamo a creare spazi di vita e di comunità o creeremo immensi quartieri dormitorio». È poi volato a sud, il presidente del Consiglio, per inaugurare un elettrodotto a Favazzina, in provincia di Reggio Calabria. «Questo governo crede che il Mezzogiorno possa e debba ripartire - ha detto ancora agli amministratori locali - è il motivo per cui continueremo a farvi stalking, saremo col fiato sul vostro collo». E poi, sul Ponte sullo Stretto: «Quando si chiude la Salerno-Reggio Calabria e si dà un segnale di recupero per le strade in Sicilia saremo pronti ad affrontare il tema del ponte o, come dice Delrio, la Napoli-Palermo dell’Alta Velocità».
Intanto da nord a sud la campagna elettorale dei democratici è segnata dalle polemiche sugli accordi con le liste di Denis Verdini e della sua creatura politica Ala. «Il partito della Nazione non esiste, esiste il Pd», ha detto il presidente Matteo Orfini rispondendo alle richieste di una presa di distanza da parte della sinistra del partito. «Maggioranza e minoranza interne, soprattutto ad una settimana dal voto, dovrebbero avere come unico obiettivo preservare questo patrimonio e lavorare per governare non solo il Paese, ma le nostre città. Li invito a farlo».
A Napoli, le critiche erano arrivate dall’ex sindaco sconfitto alle primarie - Antonio Bassolino. Cui ha replicato piccata la segretaria regionale pd Assunta Tartaglione: «Sbaglia chi critica, pontifica o mina l’unità del partito denigrando Valeria Valente. Il Pd vuole riconquistare Palazzo San Giacomo con lei e chi non lo vuole forse non vuole più essere parte dei militanti e degli iscritti al Pd». Le accuse ovviamente arrivano anche dagli altri partiti, a cominciare dal Movimento 5 Stelle. Preoccupato soprattutto di sostenere la candidata a sindaco di Roma Virginia Raggi, che gli ultimi sondaggi davano per favorita: «Da oggi fino alle elezioni ne inventeranno una al giorno su Virginia - scrive Alessandro Di Battista - hanno il terrore di vederci leggere riga per riga i bilanci del comune di Roma e scoprire chi ha fatto i debiti. Noi avanti compatti, parliamo delle nostre idee per Roma e riempiamo piazza del Popolo venerdì 3 giugno». Sempre a Napoli, poi, scoppia un caso in un lista civica che appoggia Luigi De Magistris: il sito Fanpage rivela che un candidato, Salvatore Matuozzo, è il padre di due ragazzi con precedenti penali uccisi in un agguato a Secondigliano.

La Stampa 29.5.16
Al voto a Roma tra i rifiuti
Nessuno raccoglie più l’immondizia
Tra scioperi, permessi mensili ed “epidemie” influenzali il presidente dell’Ama suggerisce: tenete i sacchetti a casa
di Mattia Feltri

Fra una settimana, a Roma, si andrà a votare in gloria dentro panorami di spazzatura. Il calendario della nettezza urbana dice per oggi raccolta rallentata, per domani niente raccolta causa sciopero, per martedì e mercoledì vago tentativo di rimonta, per giovedì altro rallentamento festivo, per venerdì e sabato quel che si può e, per domenica, giorno d’elezioni, il giusto risultato. «Tenete i rifiuti in casa», ha detto Daniele Fortini, il presidente dell’Ama, la municipalizzata. E cioè, va accudita oggi e domani, di modo che i marciapiede non si colmino di cartoni, stracci, ferraglia, legname e ogni altro ben di Dio produca la città; compresi naturalmente i sacchi neri squarciati dai gabbiani e fra cui guizza la più ampia comunità residente nella capitale, quella dei ratti. Nessuno seguirà l’indicazione: meglio lordare e impuzzolentire le strade da cui, col caldo, già cominciano ad alzarsi zaffate d’urina di senza tetto caricati a birra.
Lo sciopero di domani è stato indetto dai sindacati degli addetti all’igiene ambientale, bell’eufemismo in stile Nicole Minetti, la cui igiene di pertinenza era dentale. Coi medesimi risultati, visto il suolo di Roma: se si cammina guardando a terra si ricostruisce l’intera filiera - dai mozziconi ai resti di pizza ai liquami - della vita quotidiana. Gli addetti all’igiene chiedono cento euro l’anno in più, e avranno le loro buonissime ragioni, che forse sapranno dettagliare in compensazione alle assenze registrate ogni giorno all’Ama: oltre il 18 per cento. Come se lì dentro avessero istituito in autonomia la settimana corta. Le assenze per malattia sono superiori alla media nazionale e i picchi influenzali si registrano curiosamente in coincidenza di ponti o a ridosso del week end; così, dopo il prossimo giovedì festivo, è facile pronosticare nuove epidemie. Sopra la media nazionale è anche la percentuale (il 19 per cento) di chi usufruisce di tre permessi mensili per assistere parenti disabili. Siccome nel privato si scende all’1,5 per cento, se non si vuole pensar male, e si considera una deplorevole eccezione quella del dipendente trovato poche settimane fa in groppa al cavallo nel giorno di permesso, tocca giungere alla conclusione che sull’Ama si accanisce la sfortuna.
Proprio ieri, fra l’altro, un rapporto della Confartigianato ha avvertito che la raccolta costa a ogni abitante 249.9 euro, doppio secco della media nazionale. Il numero ha suggerito al Codacons - l’incontenibile associazione consumatori - di chiedere la restituzione ai cittadini del suddetto 50 per cento, trascurando che i romani si fanno giustizia da sé: negli ultimi sei anni è stato evaso un miliardo di euro di tassa sui rifiuti; fra gli evasori ci sono ministeri, caserme dei carabinieri, ospedali e naturalmente un numero infinito di normali residenti, a dimostrazione che nello sfascio c’è ampia collaborazione. Verificabile, tra l’altro, a occhio nudo: i cassonetti destinati alla raccolta differenziata vengono usati a capriccio del passante, plastica nella carta, confezioni alimentari nel vetro, con entusiastica partecipazione di turisti che si adeguano in poche ore all’anarchia locale. A un etnologo sarebbe utile, nei prossimi giorni di astensione dal lavoro e attività ridotta, passeggiare per Roma e catalogare i rifiuti abbandonati nei dintorni dei cassonetti: martedì mattina si troveranno materassi, televisori, mobiletti, antenne paraboliche, carrelli dei supermercati che i netturbini scanseranno sconsolati. Sulla statistica possiamo di nuovo aiutare noi: di solito circola il 60 per cento dei camion, gli altri restano guasti in garage, ed è difficile supporre che questa settimana l’affidabilità dei mezzi conosca un’epifania.
Di conseguenza ieri è stata l’occasione giusta perché i candidati a sindaco esponessero le loro eccellenti idee, accomunati dalla certezza che la spazzatura possa diventare una ricchezza. Giorgia Meloni conta di portare la differenziata al 75 per cento, il che sarà facilissimo visto che già oggi la si stima al 60, e sulle stesse basi per cui si potrebbe dire che è all’80 o al 20. Roberto Giachetti punta sulle nuove tecnologie. Alfio Marchini su una non meglio precisata inversione del ciclo dei rifiuti. Virginia Raggi - come si sa - è deliziosamente minimalista e pensa a pannolini lavabili per bebè e ai mercatini dell’usato. Per cui, fra una settimana, se riusciremo a scalare le montagne di pattume, andremo a scegliere il salvatore.

Repubblica 29.5.16
Dario Franceschini.
L’allarme del ministro della Cultura: “Avanzare dubbi sul sì significa tradire i nostri sogni”
“Chi vuole sconfiggere Renzi usi le elezioni o il congresso non una riforma attesa 30 anni”
“Se vince il no si andrà alle urne, ma non ci saranno vincitori solo il caos, come vuole Grillo”
“Usare una riforma così importante per mandare a casa Matteo è un atto contro il Paese”
intervista di Goffredo De Marchis

ROMA. Votare No al referendum è «un vero atto contro il Paese». O meglio, dice Dario Franceschini, lo è usare «una riforma attesa da 30 anni per l’obiettivo finale di buttare giù Renzi». Il suo messaggio è rivolto certo alla minoranza del Pd, a Bersani, Cuperlo, Speranza e D’Alema, che con le loro critiche tradiscono «il sogno» del centrosinistra, ma non solo. «Penso ai fiumi di parole che abbiamo versato in riunioni e convegni per raggiungere il risultato contenuto nella legge costituzionale e nella legge elettorale. Penso ai professori, ai commentatori, ai mondi intellettuali della sinistra che hanno accompagnato quel dibattito. Dimenticare il passato solo per una ragione di lotta politica, è inaccettabile», spiega il ministro della Cultura.
Fatto sta che il referendum rischia di spaccare il Pd. Non tocca a Matteo Renzi evitarlo?
«Non vedo il rischio di una spaccatura. Ma siamo davanti a un problema più complicato. Io ho scelto di non essere più dentro le vicende politiche, mi sento quasi un osservatore. E osservo. Sono stupefatto nel vedere come un tema di importanza enorme, la riforma, venga utilizzato per altri obiettivi ».
Mandare a casa Renzi.
«Esatto».
È la politica, bellezza.
«Non proprio. L’Italia è strutturalmente disabituata, e quindi tendenzialmente ostile all’idea di un leader troppo forte. In particolare, lo è il centrosinistra come dimostrano le operazioni di indebolimento compiute nel nostro campo verso leader che erano molto meno forti di Renzi. Poi, siamo disabituati alla durata dei governi tanto è vero che pur essendo questo esecutivo in carica da poco più di due anni siamo già il governo di centrosinistra più longevo. Sono fattori che spiegano la fibrillazione ma mi fa male se certi argomenti vengono usati da una parte del mio partito».
Uomo forte non è una formula indigesta a sinistra?
«Uomo forte nel senso di uomo che decide. Questo è Renzi. Se un altro di noi fosse stato al suo posto, me compreso, si sarebbe fermato sulla legge elettorale per non rompere il Pd o sulla riforma per evitare la frattura con Forza Italia, o sul Jobs act per tenere dentro la Cgil, sulla scuola per non rompere con gli insegnanti e sulle unioni civili per non litigare con la Chiesa. Devo continuare?».
Così sembra che il No sia lesa maestà.
«Qualcuno punta a colpire Renzi? Siamo nella fisiologia della politica, non mi sconvolge. Lo strumento però è sbagliato. Chi vuole affrontare il segretario dentro il Pd, lo sfidi al congresso; chi lo vuole sconfiggere nel Paese, lo sfidi alle politiche. Ma usare una riforma attesa da 30 anni per buttarlo giù è un atto contro il Paese».
Non è Renzi a cercare il plebiscito annunciando: «Se perdo mi ritiro».
«Non è una minaccia, non è una personalizzazione. A me sembra una con-sta-ta-zio-ne. Questo governo, ed è agli atti, nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio. Anche perché non stiamo scegliendo tra due riforme diverse, che è il tema più surreale usato da alcuni costituzionalisti. Stiamo scegliendo tra la riforma e niente».
Per la verità molte critiche sono nel merito. L’appello dei costituzionalisti del No contesta scelte precise.
«Basta andare su Google per ricordarsi che questa riforma risponde a obiettivi inseguiti per anni. Superamento del bicameralismo, riduzione del numero dei parlamentari, rafforzamento dei poteri del governo e del premier. Aggiungo: non è un secolo fa che ci siamo alzati tutti in piedi ad applaudire Giorgio Napolitano alla Camera quando prese di petto le forze politiche, mi verrebbe da dire a schiaffi, in nome delle riforme. Io vedo due film».
«Vince il Sì. Quando si va a votare nel 2018, ci troviamo in uno scenario sognato per decenni: una sola camera che fa le leggi, chi arriva primo ha la maggioranza assoluta, stabilità per 5 anni. La nostra lista dei desideri. Un sogno».
Vince il No.
«Si torna a votare con il sistema bicamerale, con una legge elettorale diversa al Senato, nessuno avrà la maggioranza e ricomincia tutto daccapo. Quest’ultimo film è il “sogno” di Grillo che come tutti i populisti punta al caos».
Basta eleggere direttamente i senatori, chiede Bersani.
«Le dico la mia opinione. L’elezione diretta dei senatori, agli occhi di un cittadino normale, significa sostanzialmente aver tenuto il bicameralismo. So che non è così, perché i poteri delle due Camere rimangono distinti ma contrasterebbe con la natura che si è voluta dare al Senato».
Ovvero?
O cambiare l’Italicum.
«Riapriamo Google. Noi volevamo il doppio turno. Quello di collegio non era possibile perché lo chiedeva soltanto il Pd. Ma c’è il ballottaggio e la soglia per il premio di maggioranza. Ciò che si è invocato per anni. Eppoi non si è mai visto un Paese che cambia la legge elettorale prima ancora di averla provata ».
Forse fanno scandalo le riforme votate con Verdini «Quando ho discusso per il Pd la lista dei sottosegretari del governo Letta con Verdini nessuno ha gridato allo scandalo. Il rapporto con lui è figlio di una legislatura nata anomala perché noi non abbiamo vinto le elezioni».
Intanto perdete di vista le comunali del 5 giugno.
«Sembrano lontane perché in uno schema ormai tripolare il primo turno è difficilmente risolutivo. Lo è il ballottaggio. Ma il governo non rischia e la differenza c’è: per le amministrative si vota ogni 5 anni, per la riforma costituzionale una volta ogni 40».

Il Sole 29.5.16
Produttività, un sonno durato 20 anni
di Luca Ricolfi

Che si torni a parlare di produttività, come negli ultimi giorni è successo sulla scia del discorso di insediamento di Vincenzo Boccia alla presidenza di Confindustria, è senz’altro un bene. E questo per un motivo tanto semplice quanto cruciale: la produttività in Italia ristagna da vent’anni, e l’interruzione di questo lungo sonno è una condizione necessaria, assolutamente necessaria, per restituire un futuro a questo Paese. Ci sono due piccole complicazioni, tuttavia.
La prima è che un eventuale risveglio della produttività (sia quella del lavoro, sia quella totale) è solo una condizione necessaria di ripresa del Paese. Se questo risveglio dovesse avvenire senza un robusto aumento dell’occupazione e del Pil, o peggio ancora dovesse avvenire mediante una drastica riduzione dei posti di lavoro (come è accaduto in Spagna durante la crisi), quel risveglio si risolverebbe in un ricupero di competitività di una parte dell’apparato produttivo, ma non sarebbe in grado di tradursi pienamente in un innalzamento del benessere di tutti: salari più alti, migliori posti di lavoro, aziende più dinamiche e moderne, opportunità lavorative per i giovani. Tornare a crescere vuol dire precisamente questo.
La seconda complicazione è che, nonostante molti ritengano di sapere perché da vent’anni in Italia la produttività non cresca più, in realtà nessuno lo sa con ragionevole certezza. Non lo sanno gli economisti, meno che mai lo sanno i sociologi. Non lo sanno gli imprenditori, meno che mai lo sanno i politici. E il fatto che autorevolissimi studiosi, centri di ricerca, organismi internazionali più o meno politicizzati forniscano ricostruzioni e diagnosi notevolmente diverse l’una dall’altra, è solo la spia di quel che ho appena detto: quando ci sono almeno una decina di spiegazioni in competizione fra loro, vuol dire che non sappiamo veramente come sono andate le cose. Una situazione deplorevole, perché quello di cui avremmo bisogno è un racconto del caso italiano sufficientemente preciso e circostanziato da indicarci la strada per uscire dal letargo in cui il Paese è piombato a metà degli anni ’90. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se non sappiamo perché ci siamo addormentati, sappiamo però che cosa dobbiamo fare per risvegliarci. Questo per certi versi è vero, perché ci sono cose che sicuramente farebbero bene alla produttività (ad esempio la diffusione della banda larga), ma per altri versi non è vero affatto. Ci sono politiche che alcuni studiosi ritengono benefiche per la produttività, e altri ritengono dannose (tipico esempio: le liberalizzazioni del mercato del lavoro).
E anche sulle politiche che tutti (o quasi tutti) ritengono benefiche, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, o la riduzione della pressione fiscale sui produttori, il punto non è sapere se servono oppure no, ma qual è il rapporto costi/benefici di ciascuna rispetto a tutte le altre. In un contesto di risorse scarse, molto scarse, i politici non dovrebbero dimostrare soltanto che un provvedimento è utile, ma anche che i suoi benefici, monetari e non, sono superiori ai costi, e che non esistono alternative equivalenti ma più efficienti. Detto per inciso: uno dei fondamenti psicologici della demagogia (dei politici) sta nella (nostra) tendenza a chiederci unicamente se una misura è utile, anziché chiederci quanto costa e se esistono alternative migliori.
Ecco perché il sonno ventennale della produttività in Italia è un puzzle non solo interessante per gli studiosi, ma anche decisivo per il paese. Perché quello dell’Italia è davvero un caso speciale fra le economie avanzate. Come ha scritto di recente Giuseppe Schlitzer in un paper dedicato al “paradosso della produttività” (forse l’analisi più acuta che io abbia letto sull’argomento), quello che rende il caso italiano difficile da spiegare in modo convincente, è che non si tratta genericamente di spiegare come mai la produttività ristagna, ma di rendere conto di una precisa concatenazione di eventi: il fatto che fino al 1995 la produttività dell’Italia avesse una dinamica normale; il fatto che, a un certo punto, nella seconda metà degli anni '90, abbia improvvisamente smesso di crescere; il fatto, infine, che la stagione del ristagno duri ininterrottamente da vent’anni.
Non è ovviamente un articolo di giornale il luogo per sviscerare un tema così complicato. Quello che mi sento di dire, tuttavia, è che l’evidenza empirica disponibile pare forse ridimensionare un po’ le spiegazioni più in voga, molto incentrate su cose (peraltro importantissime) come il mercato del lavoro, le relazioni industriali, la politica fiscale, la politica monetaia, ma non sempre altrettanto pronte a cogliere quel che si muove (o non si muove) fuori del circuito economico. Forse dovremmo riflettere di più sul fatto che, a ristagnare, non è solo la produttività del lavoro, ma è la produttività totale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), e che il brusco arresto di quest’ultima precede di ben cinque anni quello della produttività del lavoro (la produttività del lavoro ristagna dal 2000-2001, quella totale dal 1995-1996). Una produttività totale dei fattori stagnante indica una sorta di stallo, o di neutralizzazione reciproca, fra le molteplici forze e contro-forze che si celano dentro il cosiddetto “residuo di Solow” (lo scarto fra la dinamica del prodotto, e quella che ci si potrebbe attendere in base alla dinamica degli input produttivi). Una di tali forze è sicuramente il progresso tecnico e organizzativo non incorporato nel capitale, ma l’altra è il complesso delle esternalità, delle condizioni collaterali e di contesto, che rendono possibile una vita economica fluida e dinamica: una burocrazia efficiente e non pervasiva, una giustizia civile veloce, norme chiare e facili da applicare, adempimenti snelli e non troppo numerosi, poteri amministrativi ben delimitati, percorsi autorizzativi lineari, ragionevole stabilità delle leggi, dei regolamenti e della normazione secondaria, tempi certi per aprire un’attività, o anche semplicemente per ottenere un allacciamento telefonico. Ma anche: investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, sostegno alla ricerca, valorizzazione della conoscenza (a partire da scuola e università).
Ebbene, tutto questo è mancato, e forse la sua mancanza ha fatto più danni alla dinamica della produttività di quanti ne abbiano fatti gli altri innumerevoli fattori sempre evocati.
Ma la latitanza del potere politico e amministrativo, si potrebbe obiettare, c’è sempre stata, nel nostro sfortunato paese e, prima del 1995, non ha mai impedito all’Italia di crescere a un ritmo comparabile a quello delle altre economie avanzate. Perché quel che era possibile ieri ha smesso di essere possibile oggi?
La mia impressione, in parte basata sui miei studi sui vantaggi e svantaggi comparativi del federalismo, in parte sull’equilibrato bilancio tracciato da Schlitzer, è che quel che è successo a metà degli anni ’90 in Italia non è stato un improvviso collasso della macchina pubblica ma, molto più semplicemente, il fatto che, di colpo, complici la globalizzazione, la crisi della lira e l’imperativo categorico dell’ingresso nell’euro, tutte le nostre inefficienze, manchevolezze e ritardi sono divenute insostenibili. Da un mattino all’altro ci siamo trovati a dover tirare la cinghia, ridurre il debito pubblico, competere senza il salvagente delle svalutazioni, tenendoci un elefante pubblico di cui la maggior parte dei nostri concorrenti poteva felicemente fare a meno. Non è l’apparato statale dell’Italia che è di colpo cambiato a metà degli anni ’90, ma è semmai l’arena in cui l’Italia e gli altri paesi europei si accingevano a competere che è cambiata, una svolta questa della cui drammaticità ben pochi si accorsero (fra i pochi, Giovanni Sartori e Giulio Tremonti). Di fronte a un simile sconquasso, come abbiamo reagito?
In parte abbastanza bene, ovvero aggredendo il debito pubblico con la più grande ondata di privatizzazioni mai vista in un’economia occidentale, anziché imponendo un decennio di sacrifici alle famiglie e alle imprese. Ma in parte malissimo, ovvero costruendo il mito condiviso del federalismo fiscale, un mito partorito dalla Lega Nord ma immediatamente sposato dalla sinistra. Un mito che si basava su un’eccellente idea, ridurre gli sprechi dell’apparato pubblico e avvicinare la politica ai cittadini, ma che, in mano ai nostri politici affamati di voti (e qualche volta anche di altri benefit), si è rapidamente trasformato nel più grande harakiri che il paese si sia inferto dopo la seconda guerra mondiale. Anziché essere usato per ridurre i costi, quel poco di federalismo che abbiamo avuto è stato usato per duplicare, qualche volta triplicare, i centri di spesa. Ma il fatto più grave, dal punto di vista del nostro tentativo di capire l’arresto repentino della produttività in Italia, è che, in tutte le sue varianti (decentramento amministrativo prima del 2000, riforma del Titolo V nel 2001, legge 42 nel 2009), l’ideale federalista è stato di fatto tradotto in un’immane moltiplicazione dei centri di decisione, dei soggetti coinvolti nei processi politici, degli adempimenti degli operatori economici; in una pessima (perché confusa) ridefinizione dei compiti dei vari apparati della Pubblica Amministrazione, con conseguente proliferazione dei conflitti fra poteri pubblici; in un dannosissimo allungamento dei percorsi autorizzativi a tutti i livelli e per tutti i tipi di soggetti. Insomma: nel momento in cui avremmo dovuto accorgerci che uno Stato così non potevamo più permettercelo, e che era giunto il tempo di snellirlo e alleggerirlo, abbiamo invece cominciato a renderlo sempre più pesante e barocco. Anziché generare esternalità positive, ci siamo molto industriati a moltiplicare le esternalità negative che già avevamo in carico.
Ci sono prove che questo possa essere un pezzo importante, anche se non certo l’unico, della storia del declino della produttività?
No, prove vere e proprie potrebbero venire solo da uno studio comparativo assai complesso e approfondito. Però indizi sì, qualche indizio le statistiche e la storia ce lo offrono. Il primo indizio è che la produttività del lavoro non è ferma in tutti i settori: è addirittura diminuita nella maggior parte dei servizi, ma in compenso è aumentata nel settore manifatturiero e in agricoltura. Una spiegazione possibile è che la produttività è aumentata nei settori della produzione materiale (e in alcuni servizi avanzati come le telecomunicazioni) perché lì il progresso tecnico-organizzativo conta, ed è in grado di contrastare le esternalità negative generate dall’elefantiasi dell’apparato pubblico, mentre là dove (come in gran parte dei servizi) il progresso tecnico è più lento sono le esternalità negative ad avere la meglio.
L’indizio più importante, però, viene dalla storia economica e istituzionale. A mia conoscenza c’è un solo paese avanzato in cui, negli ultimi vent’anni, la traiettoria della produttività sia stata simile a quella dell’Italia: il Belgio. Un paio di mesi fa (dopo gli attentati terroristici a Bruxelles), su questo giornale, Beda Romano faceva notare che, in Belgio, dal 1970 si sono susseguite almeno «sei grandi riforme istituzionali», e che esse «hanno creato sovrapposizioni e inefficienze». E osservava: «è un paradosso, per salvaguardare il futuro del Belgio e rispondere alle richieste di autonomia delle tre regioni (Fiandre, Vallonia e Buxelles) e delle tre comunità (francese, fiamminga e tedesca), le sei grandi riforme istituzionali (…) hanno avuto l’effetto di indebolire lo Stato attraverso un continuo trasferimento di competenze dal centro alla periferia (…). Tra parlamenti locali e parlamento federale, il paese conta sei assemblee».
Difficile non cogliere l’analogia con la storia del nostro paese. Per questo, quando si parla del ristagno ventennale della produttività in Italia, mi sento di sottoscrivere pienamente l’invito che più volte è risuonato in questi giorni: ognuno faccia la sua parte. Purché non ci si dimentichi che, fra i tanti che dovrebbero fare la loro parte, c’è anche l’apparato pubblico. Il quale, nell’ostacolare il naturale, fisiologico, aumento della produttività una parte l’ha avuta sicuramente. E la cui parte, arrivati a questo punto, potrebbe essere innazittutto quella di farsi un pochino da parte.
Sintesi della relazione presentata sabato 28 maggio a Orta dall’autore dell’articolo all’Assembrea di Federmanager Vercelli e Novara - VCO

La Stampa 29.5.16
Ecco il piano Cairo per Rcs
140 milioni di tagli e risparmi
Possibile nel medio termine anche la fusione fra i due gruppi editoriali
di Francesco Spini

Tagli di costi con risparmi per 140 milioni di euro, nuovi prodotti e piattaforme per far crescere i ricavi in Italia come in Spagna. La Consob ha dato il nulla osta alla pubblicazione del documento informativo relativo all’offerta pubblica di scambio (Ops) con cui la Cairo Communication punta a conquistare Rcs Mediagroup: per ogni titolo di quest’ultima offre 0,12 azioni della sua società, che equivalgono a 0,58 euro. L’offerta non è cambiata, nessun nuovo alleato s’è finora appalesato. Il patron Urbano Cairo ha sempre sostenuto che la sua offerta anche così com’è può battere l’Opa tutta in contanti a 0,70 euro di Andrea Bonomi, Diego Della Valle, Mediobanca, Unipol e Pirelli perché l’Ops permetterebbe all’investitore di beneficiare della ristrutturazione su Rcs.
Nel documento si esplicita la possibilità che «nel medio termine» il gruppo fondato da Cairo possa essere integrata con la società che pubblica il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Fusione che potrà avvenire «subordinatamente alla definizione di una struttura del debito coerente con i flussi di cassa attesi, al mantenimento del controllo e alla soddisfacente verifica della situazione patrimoniale del gruppo Rcs». Prima però dovrà portare a casa l’Ops che partirà il 13 giugno per chiudersi l’8 luglio. Nel documento da 300 pagine che illustra l’operazione non ci sono dismissioni previste, né in Italia né in Spagna. Si punta sulla crescita dei ricavi e sulla «massima efficienza»: il piatto forte è un piano di tagli da 140 milioni da realizzarsi entro i tre anni del piano industriale ma che l’imprenditore conta di condurre in porto rapidamente. Nessun accenno a tagli di personale. Sarà attuata una verifica puntuale dei costi con un approccio «a base zero», ossia rianalizzando daccapo tutti i costi in base ai benefici e rivedendo i rapporti con i fornitori che, o accetteranno prezzi più bassi (se individuati sul mercato) o saranno sostituiti. In particolare Cairo vuole rivedere i costi esterni «anche valutando la re-internazionalizzazione di attività oggi esternalizzate», migliorare la «saturazione» dei centri stampa creandone in comune tra il suo gruppo e Rcs. E ancora: si ricercano economie di scala per l’acquisto della carta e dei servizi, sinergie tra concessionarie pubblicitarie e distribuzione.
Per espandere i ricavi - di cui per ora non rivela gli obiettivi - racconta di voler arricchire il contenuto editoriale, rafforzando le piattaforme tecnologiche del gruppo. Conferma la volontà di creare una collaborazione stretta tra La7 e il «Corriere». Con Gazzetta dello Sport e Marca, Cairo vuole «sviluppare - si legge nel prospetto - una piattaforma paneuropea integrata di contenuti sportivi», che sia di riferimento per le notizie di calcio e ciclismo. A proposito di biciclette: altra idea è rilanciare il Giro d’Italia visto che L’Équipe dal Tour de France raccoglie oltre 100 milioni contro i 25 che Rcs ricava dalla corsa in rosa. Sui periodici, forte della sua esperienza (ha lanciato 9 settimanali, 2 mensili e 3 quindicinali), mira a rilanciare nomi storici di Rcs a partire da «Oggi», e punta a lanciare in Spagna riviste sulla falsariga di quanto ha fatto in Italia: si parla di un familiare, un femminile e uno televisivo. Sul fronte digitale dovrà aumentare la «profilazione degli utenti» per incrementare la pubblicità. Inoltre Cairo «valuterà eventuali opportunità di allargare la propria presenza nell’informazione locale» anche con acquisizioni. Gli investimenti, si legge nel documento, non andranno oltre i «valori storici» di Rcs, ovvero tra i «25 e 30 milioni per anno».

Repubblica 29.5.16
La Resistenza ritrovata nelle baite partigiane buon cibo e wi-fi per brindare alla Storia
Tra le montagne del Cuneese dove Marco Revelli, figlio di Nuto, ha dato nuova vita ai rifugi. E ora arrivano i turisti
di Maurizio Crosetti

Lo storico Marco Revelli, 69 anni: ha creato una fondazione per il restauro dei rifugi dove nacque la Resistenza. Sopra, uno dei ristoranti aperti a Paraloup e una ragazza in mountain- bike

PARALOUP (CUNEO) I VERI partigiani salirono quassù senza avere mai visto un fucile, l’unico un po’ pratico d’armi era il maestro Rapisarda, professore di clarinetto. I primi, veri partigiani all’inizio erano avvocati, studenti, commercianti, contadini, eppure proprio qui fecero cominciare la Resistenza, la libertà strappata ai lupi e tutto il futuro che abbiamo noi adesso, e i nostri figli e i loro, nel tempo che verrà. Era il 12 settembre 1943: tra le baite dei pastori nasceva Giustizia e Libertà. Chissà cosa direbbero Nuto, Duccio e Dante se vedessero la terrazza del ristorante, le stanze del rifugio, la biblioteca e il museo cresciuti sopra i sassi delle loro battaglie. «Mio padre direbbe una sola cosa: seve mat, siete matti». Il professor Marco Revelli, 69 anni, è un gentiluomo d’altri tempi, oltre che lo storico famoso e il teorico radicale del conflitto tra capitale e lavoro. È anche il figlio di Nuto, l’uomo che girava le valli del Piemonte più povero col magnetofono e faceva parlare i vinti, i miserabili delle campagne e dei borghi, le donne contadine che ressero da sole una società intera. Nel nome del padre, e dei padri della nostra sgangherata e tenacissima Repubblica, il professore ha creato la Fondazione Nuto Revelli, ha acquistato i ruderi di Paraloup e li ha recuperati. E adesso i ragazzi che appoggiano le mountain bike sulle pietre e ordinano un piatto di “tomini elettrici” sulla terrazza di legno affacciata alla valle, forse neanche immaginano che proprio qui i primi partigiani videro Boves bruciare. C’erano urla e sangue e morte. Poi, 50 anni di abbandono. Le baite crollate, i proprietari indifferenti o lontani, i loro eredi inconsapevoli o distratti. Finché il figlio di Nuto non ha deciso di riprendersi una parte della storia e farla tutta nuova.
«Si cominciò nel 2005, quando per la prima volta in vita mia venni a Paraloup, luogo solo immaginato, quasi un topos letterario». Paraloup vuol dire “difesa dai lupi”. «C’era con me un amico, il regista Teo De Luigi, che guardò i sassi e i muri diroccati e mi disse: vergognatevi ». Allora il professore pensò di avere un dovere, «la restituzione di un debito». E cominciò a comprare pezzi di pietra e memoria. «Era difficilissimo, una pazzia, qui le proprietà sono frammentate all’inverosimile e in pochi volevano vendere, e poi la burocrazia, due anni di lotte con l’Enel solo per un cavo elettrico. Quando aprimmo il cantiere nel 2008, non avevamo neanche la luce». Intervennero le banche, si ottennero fondi europei e nel 2013 l’incredibile inaugurazione del ristorante del Rifugio Paraloup, un milione di euro tutto, 9 baite su 14 risistemate. Non un sacrario, però. «Non volevamo un museo statico e neppure una riserva indiana, anche perché c’erano da raccontare almeno due storie: la nascita della Resistenza e alcuni secoli di vita montanara. Così Paraloup è diventato un luogo doppio ». Ai veri partigiani servivano due ore di cammino sulle mulattiere per salire in vetta, oggi bastano dieci minuti in automobile da Rittana, sei chilometri più in basso. Un cartello dice: “Centro di rieducazione equestre”, qui con i cavalli si aiutano i ragazzi disabili. Ci sono le indicazioni per i sentieri, il maneggio, i percorsi per le bici che s’arrampicano come camosci. Il professor Revelli fa strada. «Abbiamo la baita biblioteca, la baita museo, due baite rifugio, la baita cucina, la baita ristorante con terrazza e la baita dell’accoglienza, si fa turismo e si racconta la storia dove si è svolta. Almeno cento ragazzi delle scuole vengono ogni settimana ad ascoltarla, attentissimi. E chi sale soltanto per un piatto di tajarin non vale certo di meno: se non sa e se vuol sapere, saprà». Lo crede anche il sindaco di Rittana, lo storico Walter Cesana che ci accompagna: «Prima dei partigiani, prima di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco, qui vivevano 12 famiglie di pastori, un’ottantina di persone che si chiamavano tutte Goletto e non erano mica imparentate, il racconto della montagna è un bene prezioso».
Sono belle e strane queste baite salvate dal tempo: hanno una specie di involucro di sassi e un corpo centrale in castagno, come se il vecchio abbracciasse il nuovo, il frutto dentro il guscio. «Non volevamo che il restauro restituisse un luogo finto, una replica, per questo abbiamo scelto soluzioni tecniche particolari. Ci sono le parti “a rudere” esterne, ma con un’intelaiatura robustissima, e le coibentazioni col materiale della Nasa. Abbiamo wi-fi e banda larga, e insieme i sassi e i muri a secco». Non c’è la retorica che a volte, anche con le migliori intenzioni, si accompagna ai luoghi del passato e della guerra, eppure questo non sarà mai un posto qualunque. «Io penso che almeno la metà dei visitatori sappiano dove sono, e cosa accadde qui». Anche qualcun altro, dice il professore, farebbe meglio a saperlo: «Che assoluta tristezza quelle parole della ministra Boschi sui veri partigiani e su come votano, una cosa deprimente, a volte servirebbe un po’ di pudore». Sembrano solo baite nel prato, invece è uno dei luoghi fondativi della Repubblica. «Ogni tanto ci penso, ed è un pensiero che mi piace». Sara Gorgerino ha 34 anni e gestisce il rifugio da tre, insieme alla socia e amica Chiara Goletto. «Abbiamo scommesso su noi stesse e sulla montagna », dice Sara. «Qui succedono un sacco di cose, s’incrociano cibi e cultura con l’aiuto di Carlin Petrini, mostre fotografiche e passeggiate al chiaro di luna, rafting e cavalcate, letture e polentate. Non lo cambierei per niente al mondo, anche se non è la vita di Heidi e montagna vuol dire farsi il mazzo, spalare quattro metri di neve, sistemare i sentieri, lavorare senza guardare l’orologio. Ma quando a sera si fa silenzio, quando all’alba ci svegliamo col sole che sorge di là dal monte, beh, siamo proprio contenti ». «Facciamo cose semplici e cerchiamo di farle bene», interviene Luca Galfrè, il cuoco. Ha 24 anni. «Sempre più giovani tornano a lavorare in montagna, io dico che la nostra generazione la salverà». Tra le baite si apre la “quintana”, uno spazio naturale dove il professor Revelli pensa di mettere un giorno un palcoscenico. «È un posto perfetto per letture e spettacoli». I libri, sempre. «Quelli di mio padre si vendono ancora tanto, vengono ristampati regolarmente e tra un paio d’anni tutte le interviste del Mondo dei Vinti e dell’Anello forte, già recuperate e digitalizzate, saranno in rete. Non ci fermiamo, vorremmo portare a Paraloup una sezione della Scuola del ritorno, serve a formare i nuovi montanari dando assistenza a chi vuol tornare a vivere qui. E poi occorre creare un’associazione fondiaria sul modello francese, perché si superi l’ostacolo della frammentazione delle proprietà che blocca lo sviluppo ». Durò venti mesi l’avventura partigiana di Paraloup, e i lupi non riuscirono a prevalere. Il luogo fu difeso fino all’ultima baita, dove adesso un tappeto di fiorellini celesti ha preso il posto delle mitragliatrici e della gramigna. Sono piccoli, delicatissimi anche nel nome: scarpette della Madonna. Ed è molto bello osservare le persone che arrivano, posano bici e bastoni, chiedono un bicchiere di prosecco o un Cinzanino. Forse sanno, forse no. In fondo al vallone, Cuneo e Borgo San Dalmazzo sono sagome appena indovinate nella foschia. Nessun fuoco, mai più. Mai più nessun lupo.
(21- continua)

La Stampa 29.5.16
Io e Giorgio, strana coppia di anarchici
di Dario Fo

Giorgio e io eravamo due persone terribilmente diverse. Da sempre, fino a ieri, ognuno dei due voleva imparare qualche cosa dall’altro, voleva completare se stesso in un certo senso, inserire dentro di sé elementi che erano congeniali all’amico, non a lui. Entrambi eravamo anarchici. Io lo ero strutturalmente, da sempre, per natura. Lui invece lo diventava, forse per mettersi in equilibrio con me. Eravamo una strana coppia. Abbiamo percorso insieme teatri, strade, piazze. Bologna e Milano, Torino e Napoli, le città della Romagna…. Quante esperienze vissute, recitate e giocate insieme e in nessun modo testimoniate. Mancano le riprese di eventi ed esperienze che probabilmente furono uniche.
Una storia del teatro italiano dovrebbe passare anche da lì. Io conobbi Giorgio Albertazzi nei primi Anni 50, quando a Torino la tivù era agli albori e noi facevamo prove, esperimenti di teatro dal vivo. Formavamo una specie di équipe, che andava in onda quasi senza prove. Franca lo conobbe quando noi due eravamo appena fidanzati. Fu Giorgio che la chiamò, per recitare per la televisione «La professione della signora Warren» di Oscar Wilde. Giorgio era il regista e la ammirava davvero. A ogni ripresa, a ogni stop lui la applaudiva. Molto tempo dopo, portammo insieme al successo in tre «Il diavolo con le zinne». Testo, regia e costumi miei, Giorgio e Franca protagonisti. È la storia di un giudice, Giorgio appunto, che cerca di essere onesto e perbene. Per corromperlo, un diavolo entra nei panni della sua serva, Pizzocca. Lo spirito del demonio carica Pizzocca di attrattive sessuali per sedurre e corrompere il povero giudice. Fu un divertimento, per il pubblico e per noi tre.
Testo raccolto da Margherita Rubino

Repubblica 29.5.16
La libertà di Saviano
di Mario Calabresi

HO incontrato Roberto Saviano per la prima volta a maggio del 2008, il suo libro era uscito due anni prima e da 19 mesi viveva sotto scorta. Aveva 28 anni e stava infagottato in un girocollo di lana blu, anche se a New York faceva già caldo. Era arrivato negli Stati Uniti per partecipare a un festival di letteratura. Venne invitato ad una cena in cui l’ospite d’onore era Salman Rushdie, i due non si erano mai visti e mi trovai tra loro quando cominciarono a parlare di libri pericolosi e di vite blindate. In quel suo primo viaggio americano Saviano venne messo sotto protezione dell’Fbi, l’autore dei Versi Satanici invece si muoveva liberamente per Manhattan.
Rushdie gli chiese quando Gomorra aveva cominciato a dare fastidio e Saviano si mise a raccontare: «Quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene».
SEGUE A PAGINA 27
«Anzi, i camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a farne delle copie taroccate da vendere per la strada e un boss aveva rimesso le mani in un capitolo riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano. Poi però la cosa è cresciuta e questo ha iniziato a disturbarli. Perché fino ad allora non finivano mai sulla prima pagina dei giornali, neppure quando facevano massacri, e si sentivano tranquilli e riparati. Il libro ha risvegliato l’attenzione in tutta Italia e questo non mi è stato perdonato».
Oggi Gomorra ha compiuto dieci anni, i riflettori dell’opinione pubblica e della giustizia sono tornati ad accendersi sulla camorra, che era scivolata nel disinteresse da tempo, i casalesi hanno pagato un prezzo giudiziario importante a questa notorietà e Roberto Saviano vive ancora sotto protezione. La scorta non è un merito, è una gabbia e il segnale più evidente di un Paese malato. Un Paese che ha il record dei giornalisti sotto tutela perché denunciano la criminalità organizzata (anche per questo l’Italia è messa così male nella classifica mondiale della libertà di stampa), dove si bruciano le auto ai cronisti, dove gli avvocati dei mafiosi minacciano platealmente nelle Aule dei Tribunali chi ha avuto il coraggio di raccontare. Di questo dovremmo parlare.
Invece c’è chi fa campagna elettorale, come il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna, sostenendo che a Saviano si dovrebbe togliere la scorta e che con i soldi risparmiati si combatterebbe meglio la camorra. Se ragionassimo come il senatore potremmo replicare che anche i soldi delle nostre tasse potrebbero essere meglio spesi se non dovessero pagare il suo stipendio da parlamentare che ha già cambiato partito tre volte. Che l’accusa a Saviano sia strumentale e serva a fare campagna elettorale in zone dove la camorra controlla il territorio lo svela senza vergogna lo stesso D’Anna: «Da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti». E lottare significa sostenere che Saviano è «un’icona farlocca» e che la protezione gli va tolta perché «è uno che ha copiato metà dell’unico libro che ha fatto». Non si capisce quale sia il nesso tra le due cose, mentre è chiarissima l’intenzione di guadagnare consenso e popolarità denigrando chi denuncia la criminalità organizzata in un feudo elettorale dove la camorra prospera. La questione poteva finire qui, salvo che persone come D’Anna sono sempre più compagni di viaggio della maggioranza di governo, ma ieri l’ex direttore del Foglio Giuliano Ferrara non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione di scrivere un articolo per sposare il pensiero del senatore verdiniano e per rincarare la dose contro Saviano. Ferrara finge di fare un pezzo “pericoloso” e perciò coraggiosissimo, visto che dice di amare quel politico di razza casertana che ha l’ardire di affermare che «il libro è farlocco e la scorta farlocca», ma la verità è che non c’è nulla di più facile in Italia che sputare controvento, dissacrare e diffamare. Prendere un’icona e farla a pezzi è la massima soddisfazione e garantisce consenso, sorrisini complici e simpatia.
Su cosa significhi dire tutto questo in Campania, sul messaggio inviato e sulle conseguenze evidenti Ferrara non se ne preoccupa, ama il gesto plateale e rumoroso, ha usato tutto il suo spazio sulla prima pagina del Foglio per ridicolizzare Saviano, e sarà felice che anche noi ce ne dobbiamo occupare. Anzi si concede anche il lusso di dire che «le minacce in Italia sono un genere su cui vivono e prosperano fior di stronzi». Non riesco a togliermi di mente un altro politico della stessa razza “antica e nobile” di D’Anna quando disse che un professore bolognese era «un rompicoglioni» in quanto colpevole di denunciare d’essere in pericolo per avere la scorta. Purtroppo Marco Biagi venne ucciso sul portone di casa mentre scendeva dalla sua bicicletta. Ma il piacere di un certo dileggio è rimasto intatto.
I libri di Roberto Saviano si possono criticare, sezionare, smontare, ma in modo onesto e non per strizzare l’occhio ai casalesi. A me non piacciono le icone, gli eroi, le gabbie mentali e la messa all’indice del pensiero critico. Mi piacciono le persone coraggiose, quelle sì e mi piacerebbe che si ragionasse sulle conseguenze che quel libro ha avuto nell’opinione pubblica e nella vita di un ragazzo.
Saviano ormai passa più della metà del suo tempo fuori dall’Italia, proprio per camminare libero, per scegliere di entrare in un bar o di andare al cinema senza dover chiedere il permesso in anticipo. Per non avere la scorta. E spera che non sia lontano il giorno in cui non ce ne sarà più bisogno anche qui, ma questi attacchi allontanano quel giorno e rendono “La Scorta” un simbolo intoccabile.
In quel maggio di otto anni fa Salman Rushdie concluse così la sua chiacchierata: «Devi riprenderti la tua libertà. Ascoltami bene Roberto, non arriverà mai un giorno in cui un poliziotto o un giudice si prenderanno la responsabilità di dirti: è finita, sei un uomo libero, puoi andare tranquillo, uscire da solo». Poi l’accompagnò alla macchina dell’Fbi e mentre gli chiudeva la portiera aggiunse: «Roberto abbi cura di te, sii prudente, ma riprenditi la tua vita e ricordati che la libertà è nella tua testa». L’auto blindata dei federali partì veloce, mentre Rushdie, da solo, si mise a camminare nella notte lungo il Central Park.
Saviano ha capito quella lezione, cammina nel mondo da solo, e vorrebbe essere libero anche a casa sua. Libero dalla scorta, dai politici che scambiano voti e dai diffamatori.

La Stampa 29.5.16
Il mare è un cimitero
400 corpi nella stiva della nave affondata
I 91 superstiti del naufragio di giovedì: “Eravamo 500”
di Guido Ruotolo

Almeno quattrocento morti. È il bilancio del naufragio avvenuto giovedì a 35 miglia dalle coste della Libia. Quella sera, nel bollettino ufficiale delle operazioni di salvataggio era stato segnalato il recupero di 91 migranti in una imbarcazione semiaffondata. Ma attraverso le testimonianze dei sopravvissuti il bilancio del naufragio ha assunto un’altra dimensione, con oltre quattrocento morti.
Strage di bambini
Si dispera la ragazza nigeriana: «Abbiamo provato in tutti i modi a difenderci dal mare che entrava nella barca. Con le mani, con i bicchieri di plastica. Per due ore abbiamo combattuto con l’acqua ma non c’è stato nulla da fare. Il mare ha cominciato a invadere, ad allagare la stiva. E chi si trovava al piano di sotto non ha avuto scampo. Donne, uomini e bambini, tanti bambini sono rimasti intrappolati. E sono annegati».
Anche i mediatori culturali, i funzionari della questura, i volontari delle associazioni che si occupano di accoglienza sono sconvolti. Dice Simona Fernandez, del centro accoglienza Salam: «Ogni storia racconta nuove sofferenze. Nuove violenze. È terribile il racconto di questo naufragio».
Al porto di Taranto, in uno dei quattro hotspot funzionanti (gli altri sono a Pozzallo, Trapani e Lampedusa), dalla mattina presto e per tutto il giorno, sono proseguite le procedure di identificazione dei 706 migranti sbarcati dalla nave spagnola «Reina Sofia». Sono disperati raccolti in diversi momenti negli ultimi due giorni dalle imbarcazioni di salvataggio. Molti sono i superstiti del naufragio con più di quattrocento dispersi avvenuto giovedì, cioè il secondo. Nel primo, mercoledì, furono recuperate cinque salme e 562 migranti vivi. Ma sarebbero almeno cento i dispersi. Nel terzo, invece, avvenuto venerdì, i morti sarebbero duecento. E stamani a Reggio Calabria sbarcheranno i sopravvissuti al terzo naufragio con le 45 salme recuperate.
Le voci dei superstiti
I giornalisti non possono entrare nell’hotspot, ma grazie alle testimonianze dei volontari e alle conferme dei funzionari di polizia, emerge la ricostruzione della drammatica odissea di 1200 migranti. «Siamo stati rinchiusi in capannoni sul mare per diversi giorni in attesa di imbarcarci. Mercoledì siamo salpati. Eravamo più di mille e duecento, eritrei e nigeriani soprattutto. C’era solo una barca a motore, tipo un rimorchiatore che trainava le altre due barche. Nella prima e nella seconda c’erano cinquecento persone, nella terza duecento». Giovedì mattina succede qualcosa che fa precipitare la situazione. Uno strappo e si rompe la cordata. Il rimorchiatore si allontana, la terza barca va alla deriva. La seconda si trasforma in una trappola infernale. Con lo strappo si apre una falla nell’imbarcazione e l’acqua comincia a entrare. Dopo due ore arrivano le navi della Marina militare. Kidane, 13 anni, è eritreo: «Ho visto morire mia madre e una sorellina di 11 anni - racconta -. Quando sono arrivati a salvarci c’erano tanti cadaveri che galleggiavano, i marinai non riuscivano a prenderli tutti». E poi ci sono i pianti di disperazione delle donne, molte imbarcatesi giovedì, che così racconta un mediatore culturale: «È impressionante il numero dei dispersi. Ogni donna piange la morte di un figlio, di una madre, di una sorella».
Il figlio di nome «Destino»
Lola compirà 18 anni a dicembre. È nigeriana. La sua è una storia di violenze. Anche lei è sopravvissuta al naufragio. Ha diciassette anni e un bambino nato una settimana fa in Libia che ha chiamato «Destiny», destino. La mamma ha un ginocchio fratturato e la febbre: «Sono scappata dalla Nigeria perché mio padre voleva darmi in sposa a un vecchio di 60 anni. Ho speso duemila dinari libici per arrivare a Tripoli. Mi hanno violentata e costretta a prostituirmi. Quando ho partorito mi hanno lasciata partire».
Lola e Destiny adesso saranno ospitati nel centro di accoglienza Salam, dove lunedì sono arrivati 76 minori egiziani, tra i dieci e i sedici anni. Sono i nuovi sopravvissuti del 2016. Dovremo abituarci a considerarli tali. Sopravvissuti alle guerre, all’Isis, alla fame e al destino.

Corriere 29.5.16
Sulla portaerei Cavour confine ultimo d’Europa
di Beppe Severgnini

Una fortezza Bastiani galleggiante, e i Tartari arrivano davvero. Arrivano disarmati e disperati. Oltre dodicimila, questa settimana. Almeno settanta se li è presi il mare, ma potrebbero essere molti di più.
La portaerei «Cavour», avvicinandosi in elicottero da Lampedusa, sembra un giocattolo tra le onde. Dall’alto appare lo scafo, poi la plancia di comando e il radar di scoperta aerea, infine il ponte con lo ski-jump, il trampolino di lancio al termine della pista di decollo. Ventisettemila tonnellate grigie nel mare blu, a trenta miglia dalle acque libiche. L’Europa finisce qui.
Non è una fine cronologica: non ancora. È una fine geografica. Una frontiera che risulta evidente a chi arriva da sud, e cerca sollievo alla miseria. Meno chiara a chi osserva da nord. L’opinione pubblica europea fatica a capire che qui, in questo quadrato di Mediterraneo, si gioca il destino di due continenti. Dietro i porti degli scafisti iniziano trenta milioni di chilometri quadrati d’Africa, popolata da un’umanità in movimento. A terra si litiga senza capire. In mare si capisce senza litigare.
La nave «Cavour» guida Eunavfor Med, la missione europea contro i trafficanti di essere umani. Non è l’unico sforzo comune. Nel Canale di Sicilia, più a nord, opera Triton, l’operazione dell’agenzia Frontex. Più a sud Mare Sicuro, che protegge i pescherecci italiani e le piattaforme che stasera mandano fiamme all’orizzonte. Ci sono imbarcazioni di organizzazioni non-governative e della Guardia Costiera. Tutti a cercare di fermare qualcosa che non si ferma.
L’ammiraglio Andrea Gueglio, ligure, comandante della missione, tira fuori qualche cifra che spiega la forza dei suoi lugubri avversari. Venire dalla Libia costa. Un passaggio su un gommone, da 500 a 1.000 euro. Su una barca in legno, da 1.100 a 1.300 euro. Su un peschereccio, da 2.500 e 3.500 euro. Un viaggio può fruttare agli scafisti più di un milione. Non smetteranno, se non sono costretti. Oggi il traffico di essere umani è la seconda industria libica, dopo il petrolio.
Eunavfor Med è stata ribattezza «Operazione Sophia» dal nome di una bimba nata sulla fregata tedesca «Schleswig-Holstein», figlia di una donna africana soccorsa in mare. All’operazione aderiscono 24 nazioni: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Rep. Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia. C’è chi fa di più e chi fa di meno. L’Italia guida la missione, fa molto e lo fa bene. I nostri militari non saranno guerrieri feroci: ma quando c’è da combinare disciplina e prontezza, sono tra i migliori.
È curioso come i caratteri nazionali diventino complementari, su una nave europea. Il capitano di vascello Alberto Sodomaco è un triestino di poche parole. Il comandante Captain Jose Maria Fuente de Cabo, Chief of Staff, uno spagnolo esuberante. Due ufficiali francesi e un ufficiale sloveno si occupano di intelligence. L’austriaco tiene i conti e parla di politica. I tedeschi, che andiamo a visitare sulla nave rifornitrice «Frankfurt», sono organizzati: hanno pronti i kit per i migranti, numerati. All’inizio partecipavano ai soccorsi con pesanti tute sigillate, perfette per il mare del Nord. Poi hanno capito che a trenta miglia dalla Libia fa caldo.
Nave «Cavour» pattuglia lentamente, cinque nodi. Saliamo e scendiamo scale verticali, ascoltiamo spiegazioni di turbine e armamenti. C’è qualcosa di surreale nel vedere il sistema missilistico superficie-aria Samm-It e i cannoni calibro 76mm, a doppio caricamento, dotati di munizionamento radio-guidato di tipo Dart (Driven Ammunition Reduced Time of flight): le minacce, oggi, sono altre. Ma i visori notturni servono. Gli elicotteri sono indispensabili. L’hangar, necessario per il ricovero e la manutenzione, diventa teatro di una conversazione collettiva, la domenica pomeriggio. Si alzano uno dopo l’altro, gradi diversi sulle spalle: ufficiali, sottufficiali, marinai e vogliono parlare di immigrazione e di Europa, di libri e di Donald Trump. È un tentativo di portare normalità in un luogo eccezionale, e funziona.
Tante ragazze del sud, nella fortezza Bastiani galleggiante. Le trovo dovunque. Tra gli ufficiali e in infermeria, nell’hangar e in plancia. Non in cucina e in lavanderia, a meno che non si siano nascoste al mio arrivo. Parlando con alcune di loro capisco che la Marina Militare non offre solo un impiego e uno stipendio, ma una narrazione. La sensazione che la propria vita vada da qualche parte, come questa nave.
C’è Martina Muto, comune di 2° classe, 19 anni, di Pompei, addetta alle operazioni dell’hangar della portaerei. Parla e sorride con gli occhi azzurri. Quando, durante un’esercitazione di salvataggio, c’era bisogno di un uomo in mare, s’è buttata lei, una donna. Dice Gueglio che, quand’è risalita, era entusiasta: «Ammira’, ma quando mai potevo immaginare una cosa del genere!».
C’è Anna Tradigo, comune di 1° classe, 21 anni, tarantina. È minuscola, vivace, porta i capelli raccolti. Lavora nell’hangar, ha militato in A2 di pallacanestro: quando si gioca sulla nave, tutti la vogliono in squadra. «Voglio diventare tecnica dei Ris dei Carabinieri», dice seria. «La prima volta mi è andata male, ma essere qui aumenta il punteggio. E poi in mare mi trovo bene». L’hanno messa a tavola con l’ospite, l’ammiraglio e il comandante, ma non sembra per nulla intimorita.
C’è il tenente di vascello Seila Di Luca, capo componente del servizio armi e ufficiale di guardia in plancia. C’è il tenente di vascello Gabriella Nastasìa, pugliese. Incarico: «capo componente tecnico operazioni garante della connettività Internet e telefonia di bordo». Traduzione: quando non riescono a telefonare a casa, vanno da lei. Sulla «Cavour» solo telefoni fissi, niente cellulari. Internet per la posta elettronica. Niente social.
C’è il tenente di vascello Ilde Covino, dottoressa di bordo: mi mostra le due sale operatorie, l’unità di terapia intensiva e quella di rianimazione, l’unità per il trattamento dei pazienti ustionati e quella di diagnostica per immagini, l’unità odontoiatrica e le tre sale degenza con 32 posti letto. È orgogliosa del suo ospedale che si muove sul mare e sa, purtroppo, che si riempirà spesso.
In questo momento, a bordo, stanno 550 persone. Ma sulla «Cavour» ci sono 1.200 letti. Uomini e donne hanno alloggi separati. Mi portano nello spazio femminile dell’equipaggio – diciotto brande, ognuna protetta da una tenda. In fondo bagni e docce. «Siete solo in nove», dico. Come fa a saperlo? «Ho contato gli accappatoi».
L’ammiraglio Gueglio sostiene che le donne hanno migliorato la Marina e ingentilito le navi: è scomparso il nonnismo, per esempio. È come se i maschi si sentissero osservati, e la cosa non gli dispiacesse. Chiedo se sono ammessi rapporti sentimentali o sessuali. Mi guardano come un marziano. «Un uomo e una donna insieme? La porta resta aperta», spiegano. E se qualcuno la chiude?, domando. Sorridono.
C’è una strana atmosfera su una nave in missione. È come se tutti sapessero di essere utili. È come se il lavoro servisse e il riposo contasse. L’equipaggio nel tempo libero legge, guarda la tv, corre, gioca, mette il tavolo da ping-pong dove stavano gli elicotteri. La domenica sera la vedetta e un barista, Massimilino Bucci e Raffaele Raffo, prendono tromba e sax e suonano «September» degli Earth, Wind and Fire. Ci sanno fare, suonano bene. Leonardo Vaira, nostromo di bordo, invita Antonia Ferro, infermiera. Ballano. Ballano al centro della sala. Ballano sapendo che hanno visto cose tristi e altre ne vedranno. Ballano sul confine ultimo dell’Europa: che non è finita, grazie a gente come loro.

Corriere 29.5.16
Le paure svegliano l’Europa
di Francesco Giavazzi

Forse solo la paura convincerà l’Europa a smuoversi. A prendere quelle decisioni che molti ritengono essenziali per la sopravvivenza dell’Unione, ma che un Consiglio europeo dopo l’altro vengono regolarmente rimandate.
Secondo quanto scrive qualche giornale europeo, alcuni capi di governo dell’Ue, in particolare i leader di Germania, Francia e Italia, avrebbero dato mandato ai loro «sherpa» di preparare un Piano B, cioè un programma da attivare nel caso il referendum del 23 giugno portasse la Gran Bretagna fuori dall’Unione. È probabile che lo stesso accada fra cinque mesi, alla vigilia delle elezioni americane e di fronte alla possibilità che Donald Trump sia il nuovo presidente. In un caso la paura è che l’abbandono di Londra porti alla disgregazione dell’Unione o comunque rafforzi il potere di ricatto di Paesi, come l’Ungheria, che si stanno sempre più allontanando dai valori fondamentali dell’Europa. Ci sono anche preoccupazioni più concrete. Ad esempio in campo militare: nel 2010 Parigi e Londra firmarono un accordo di cooperazione molto ampio che comprende anche l’armamento nucleare. Sopravviverebbe questo accordo alla Brexit?
Nell’altro caso, l’eventualità che Donald Trump sia il prossimo presidente degli Stati Uniti pone un dilemma all’Europa. Come scriveva domenica scorsa Alberto Alesina, è probabile che Trump, una volta eletto, dimentichi gran parte delle sue promesse.
C i sono però due aree in cui il presidente degli Stati Uniti ha poteri esecutivi: gli accordi commerciali e quelli sul clima — che cancellerà per poi rinegoziarli su basi opposte a quelle da cui si è mosso Obama — e gli accordi di cooperazione militare, in primis la Nato. La richiesta di Trump che gli europei «si paghino la loro difesa» e cessino di cavalcare la spesa militare americana è popolare negli Stati Uniti, non solo fra gli elettori repubblicani.
Formalmente Trump ha torto. I Paesi della Nato contribuiscono alle spese dell’Alleanza ciascuno in proporzione al proprio reddito: gli Usa per il 22%, la Germania per il 15, Francia, Gran Bretagna e Italia sono intorno al 10. Ma la realtà è che gli Stati Uniti spendono oggi per la difesa una cifra che corrisponde al 3,5% del loro Pil, contro il 2% circa di Francia e Gran Bretagna e l’1% o poco più di Germania e Italia. E quanto gli Usa spendono al di fuori della Nato, ad esempio per garantire la copertura aerea notturna dei cieli di tutto il pianeta, beneficia anche noi. Pagarsi la Nato da soli, non riducendone i compiti, costerebbe agli europei almeno l’1% del Pil all’anno. È evidente che a quel punto l’Alleanza cesserebbe di esistere e verrebbe sostituita da una difesa comune europea.
Sono 60 anni, da quando è nata l’Ue, che gli europei parlano di difesa comune senza combinare nulla. Nemmeno l’Isis è riuscito a far superare le gelosie nazionali. Forse sarà Donald Trump a fare il miracolo, con ricadute positive sull’economia europea. Perché nel momento in cui dovessimo pagare il 100% della Nato dubito continueremmo ad acquistare aerei da caccia americani.
Da quanto si sa del Piano B pare che sia proprio la difesa l’area dalla quale si propone di partire per rispondere alla Brexit accelerando l’integrazione. Lo strumento saranno le «cooperazioni rafforzate», una previsione dei Trattati che consente ad un sottoinsieme dei 27 Paesi (o quanti ne rimarranno) di accelerare l’integrazione in alcune aree, ad esempio la difesa.
Nemmeno la paura, invece, pare essere in grado di far fare passi avanti all’integrazione economica. Qui mi aspetto che il Piano B sarà vago. Sia sulla possibilità di affiancare alla Bce uno strumento fiscale che consenta di controllare la domanda quando la Banca centrale, dopo avere ridotto i tassi di interesse a zero, non riesce più a farlo. Sia sulla possibilità di creare una rete di protezione finanziaria per i Paesi dell’euro, a cominciare da un’assicurazione europea sui depositi bancari e regole applicabili in concreto, non solo in teoria, nel caso una banca fallisca.
La possibilità che una nuova crisi di fiducia colpisca l’eurozona rimane significativa, forse più probabile della Brexit e dell’elezione di Trump. Ma evidentemente le teste (e gli interessi) di alcuni attori della politica europea sono più dure di quelle, pur non tenere, delle gerarchie militari.

il manifesto 29.5.16
Putin e Tsipras a tutto gas
Grecia-Russia. Il vertice che consolida un’alleanza sempre più strategica. E stavolta la Ue non reagisce. Per il premier greco l’energia deve essere «un ponte e non causa di conflitti»
di Teodoro Andreadis Synghellakis

La visita di Vladimir Putin in Grecia ha chiaramente una valenza strategica, e Alexis Tsipras non ha fatto assolutamente nulla per nasconderlo. Atene vuole potenziare il suo ruolo come crocevia nel campo energetico, considerato, ovviamente, di primaria importanza per lo sviluppo economico nel suo complesso. E oltre al gas naturale, questa collaborazione può comprendere le energie rinnovabili e il petrolio, dal momento che, come ha voluto sottolineare il primo ministro greco, «l’energia deve essere un ponte che favorisca la collaborazione tra i diversi stati, e non una causa di conflitti».
In tutto sono stati firmati nove protocolli di collaborazione, cinque a livello pubblico, tra i due paesi, e quattro tra società del settore privato.
Per quel che riguarda i delicatissimi temi della più vasta area del Mediterraneo orientale e dell’ex Unione sovietica, il presidente russo da una parte ha dichiarato che le autorità turche non hanno ancora fornito nessuna giustificazione per l’abbattimento dell’aereo militare turco in territorio siriano, avvenuto lo scorso novembre. Un atto in cui ha perso la vita il pilota del velivolo e che Putin ha definito «un crimine di guerra». Dall’altra, per quel che riguarda la Crimea, ha ribadito che «la questione che riguarda il suo status è da ritenersi chiusa» e che «Mosca non porta avanti colloqui con nessun soggetto riguardo a questo tema».
L’importanza dell’incontro con Tsipras è testimoniata anche dal fatto che il colloquio tra i due leader, che da programma sarebbe dovuto durare trenta minuti, in realtà ha sfiorato le due ore. Il primo ministro greco si è detto favorevole al riavvio delle consultazioni per rendere meno rigide le regole su rilascio del visto ai cittadini russi, non tralasciando di toccare il delicato tema delle sanzioni: «Le misure economiche adottate dall’Ue nei confronti di Mosca e le limitazioni che la Russia, da parte sua, ha imposto ai paesi europei, influenzano le possibilità di collaborazione con la Grecia», ha dichiarato il leader di Syriza.
Tutti gli osservatori internazionali hanno voluto ricordare la visita compiuta un anno fa dal leader greco a San Pietroburgo, per discutere col «nuovo Zar di Russia» di crisi economica e collaborazione energetica. All’epoca si levarono forti voci di dissenso, specialmente da Berlino, per richiamare Tsipras a una ipotetica linea coesa, condivisa da tutta l’Unione. Ora di reazioni simili non vi è traccia, da una parte perché, probabilmente, ci si rende conto che non si può isolare all’infinito un giocatore così potente sulla scacchiera internazionale, e anche perché Atene ha firmato gli accordi richiesti dalle istituzioni creditrici.
Si potrebbe dire, quindi, che la Grecia continua a mantenere un rapporto privilegiato con Mosca (questo è anche l’anno dedicato all’amicizia tra i due paesi), a proporsi come polo commerciale interessante, anche in virtù del porto di Salonicco, che l’inquilino del Cremlino ha visitato ieri, e della posizione strategica del paese, geograficamente balcanico e culturalmente appartenente, in gran parte, anche all’Europa occidentale. Ma non è più realistico pensare, in questa fase, a quel capovolgimento di fronte e cambiamento di equilibri a cui molti si erano riferiti – e non pochi avevano temuto -, nella primavera scorsa.
Poco dopo l’arrivo di Putin ad Atene, le organizzazioni greche per i diritti civili hanno dato vita a un sit-in di protesta davanti al parlamento, in piazza Syntagma, contro la negazione delle libertà fondamentali della comunità lgbt in Russia.
A conclusione della permanenza in Grecia, non poteva mancare una visita lampo di tre ore al Monte Athos, con imponenti misure di sicurezza. Basti dire che sono stati usati tre motoscafi, e ai giornalisti non era dato sapere in quale dei tre era salito Putin, mentre a brevissima distanza seguivano due unità della marina e della guardia costiera greca.
Presente all’Athos, anche il Patriarca di tutte le Russie Kirill, il quale ha accolto l’ospite nel monastero di Aghios Panteleimonas. È d’obbligo sottolineare, tuttavia, che la chiesa ortodossa russa, riguardo alle libertà civili e al rapporto con la società, continua a dimostrarsi molto più conservatrice di quella greca.

il manifesto 29.5.16
200 ex generali contro Netanyahu: subito negoziati con i palestinesi
Israele/Territori Occupati. Militari e agenti dei servizi segreti condannano chi, nel governo, ripete che non c'è un partner palestinese con il quale negoziare e chiedono il ritiro dai Territori occupati per far nascere lo Stato di Palestina
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Oltre 200 ex generali ed ufficiali delle forze armate ed agenti dei servizi segreti, che si definiscono “Comandanti per la sicurezza di Israele”, criticano pubblicamente la mancanza di iniziativa da parte del governo Netanyahu e hanno elaborato un “piano” per sbloccare la situazione di stallo con i palestinesi. Non si tratta di una proposta particolarmente avanzata e rispettosa di tutti i diritti dei palestinesi. Chiede però un ampio ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 per consentire ai palestinesi di costruire un loro Stato indipendente.
Il presidente del gruppo, Amnon Reshaf, ha condannato i “mercanti di paura” secondo i quali non ci sarebbe un partner palestinese per trattare un accordo. Un riferimento evidente agli esponenti della maggioranza di destra che negano l’esistenza di una controparte per eventuali negoziati e descrivono il presidente dell’Anp Abu Mazen come un nemico e un sostenitore del terrorismo. Il piano chiede uno stop della costruzione di insediamenti ebraici nei Territori occupati, l’accettazione dell’iniziativa di pace araba del 2002 e il riconoscimento di Gerusalemme Est, la parte araba della città, come capitale dello Stato palestinese.
L’iniziativa allarga la spaccatura tra i militari e il governo Netanyahu che si è fatta ancora più profonda nei giorni scorsi dopo l’improvvisa nomina dell’ultranazionalista Avigdor Lieberman a ministro della difesa al posto di Moshe Yaalon, un ex comandante delle forze armate.
Intanto la Francia si prepara ad ospitare, il 3 giugno, un incontro con i ministri degli esteri di diversi Paesi finalizzato alla convocazione, in autunno, di una conferenza internazionale per rilanciare il negoziato israelo-palestinese. L’iniziativa francese è stata respinta da Netanyahu che si è detto disposto solo ad incontrare Abu Mazen.

La Stampa 29.5.16
L’Asia rischia la guerra per l’acqua
di Maurizio Molinari

La siccità record che affligge il delta del Mekong è all’origine di tensioni tali fra Pechino e le nazioni dell’Indocina da suggerire il rischio di possibili conflitti per l’acqua dolce in Estremo Oriente.
Il delta del Mekong è alla prese con la peggiore siccità degli ultimi cento anni, causata secondo l’Ente federale americano per gli Oceani (Noaa) dal fenomeno meteorologico «El Nino» ovvero un insolito aumento delle temperature oceaniche nel Pacifico Equatoriale. In aprile si è registrata la più intensa ondata di calore degli ultimi 137 anni ed il governo del Vietnam afferma che le acque del Mekong sono scese ai livelli più bassi dal 1926. La siccità investe l’intero corso del grande fiume che si snoda lungo oltre 4300 km dal Tibet fino alla Thailandia ed al Mare della Cina Meridionale, causando gravi danni soprattutto all’agricoltura in Cambogia, Laos, Thailandia e Myanmar oltre al Vietnam, che sta soffrendo le conseguenze peggiori. Nel primo trimestre dell’anno il Pil di Hanoi si è ritratto - dal 6,17% precedente al 5,6% - per effetto dell’impatto della carenza di acque sull’agricoltura, maggior fonte di sostentamento per i suoi circa 90 milioni di abitanti. Il Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti ritiene che la produzione di riso dell’Indocina - pari al 13 per cento del totale globale - ne risentirà, portando a un aumento dei prezzi ai danni in gran parte dell’alimentazione dei Paesi poveri.
La Cina ha risposto a tale emergenza annunciando il rilascio di maggiori quantità d’acqua dalla diga di Jinghong, ma ciò ha prodotto un effetto negativo perché il Vietnam ritiene che la carenza d’acqua sia aggravata proprio dalla presenza di sei grandi dighe che Pechino ha costruito nell’alto corso del Mekong, sull’altopiano del Tibet che controlla. Per Niwat Roykaew, presidente del gruppo ambientalista Chiang Khong, «la Cina trattiene con le dighe le acque raccolte nella stagione dei monsoni dai ghiacciai impedendo al livello del fiume di salire come il suo ciclo naturale prevede» con il risultato di far diminuire le acque esercitando quella che il geostratega indiano Brahma Chellaney definisce «una forte pressione sulle nazioni asiatiche attraversate dal Mekong e da una miriade di fiumi minori che ne discendono». Poiché l’Asia è il Continente con il maggior numero di dighe - solo in Cina ve ne sono 90 mila - la minor quantità di acqua dolce pro capite e alcuni dei livelli più alti di inquinamento idrico, quanto sta avvenendo lungo il corso del Mekong suggerisce il rischio, secondo un recente studio dell’«Australian National University», di «conflitti fra nazioni innescati da dispute sulle acque dolci a causa del sistema di dighe costruite da Pechino alle sorgente dei grandi fiumi asiatici che si trovano nella regione dell’Himalaya». Per avere idea del domino di conseguenze basti pensare alla forte ostilità con cui il Vietnam ha accolto il progetto del Laos di costruire in tempi brevi ben 11 dighe sul tratto del Mekong che attraversa il proprio territorio. La Cina da parte sua è anch’essa alle prese con un’emergenza-acqua che, secondo uno studio del ministero delle Risorse idriche di Pechino, è testimoniata dalla scomparsa di circa il 55 per cento degli oltre 50 mila fiumi che la attraversavano negli Anni Novanta. La Banca Mondiale ritiene che la carenza d’acqua in Cina sia una conseguenza della brusca accelerazione della crescita attraversata negli ultimi anni e l’Unicef conferma tale lettura attestando che dal 1990 circa 593 milioni di cinesi hanno avuto accesso a maggiori quantità di acqua nelle loro case e città. Il contenzioso sulle risorse idriche in Estremo Oriente diventa così il risultato della sovrapposizione fra crescita cinese, surriscaldamento del clima e rivalità nazionali trasformando l’Asia nel palcoscenico di una nuova tipologia di crisi.

La Stampa 29.5.16
Pechino vuole battere la povertà
E porta l’e-commerce ai contadini
di Cecilia Attanasio Ghezzi

Lei Tang è una mamma di trent’anni. Sorride dietro la postazione che Alibaba, il gigante dell’ecommerce cinese, ha costruito sei mesi fa nel suo villaggio. Un prefabbricato in legno di una ventina di metri quadri al limite della sua Dachong, tremila abitanti dediti principalmente all’agricoltura. Il suo nuovo lavoro consiste nell’aiutare i contadini della zona a comprare, vendere e a pagare le utenze online. Accoglie una trentina di persone al giorno e guida i più intraprendenti a richiedere prestiti attraverso la piattaforma di microcredito aperta dalla stessa azienda. Finora cinque persone hanno richiesto un credito di circa 4mila euro ognuno. C’è chi vuole ampliare l’orto e chi riparare il tetto della porcilaia.
Ma c’è una signora sui 60 anni che ha deciso di fare del suo passatempo un business. Ha aperto un negozio online di calzini di lana e ha già bisogno di un aiutante.
Nella sola Dachong ci sono altre due postazioni simili, una è gestita da Jingdong, il competitor di Alibaba, l’altra dalle Poste di stato. Quest’ultima, secondo il direttore dell’ecommerce della contea Jiang Jinquan, «non sopravviverà al mercato». Lei Tang non è soddisfatta. Guadagna a percentuale, ma tira su più di 400 euro al mese, «quanto un’insegnante delle medie». E ha possibilità di crescita. Per pubblicizzare i suoi servizi, la sera trasforma gratuitamente il suo locale in una balera. Sa che molti torneranno di giorno a curiosare. E qualcuno di loro si avvarrà dei suoi servizi. «Quando ho scoperto di essere di nuovo incinta pensavo di dover emigrare. Alibaba e il governo mi hanno dato la possibilità di rimanere qui».
In Cina, a fine 2015, c’erano 688 milioni di utenti attivi. «Appena» il 30% si collegava dalle campagne ma quasi due terzi di loro comprava online. Una percentuale simile a quella delle grandi metropoli e con un potenziale di crescita incomparabile legato alla penetrazione ancora superficiale di internet. Le transazioni online hanno superato la cifra record di 525 miliardi di euro, un incremento del 33% rispetto al 2014. Le dimenticate aree dell’entroterra hanno contribuito con oltre 26 milioni di euro, più 22,5 sull’anno precedente. E c’è una novità: non solo si compra, si vendono i prodotti locali. Zhongnanhai, il Cremlino cinese, per scongiurare il rallentamento della crescita punta su servizi e consumi. Così ha scelto 200 contee dove, con un investimento di 270 milioni di euro, favorirà la sperimentazione del modello Alibaba. Parola d’ordine: e-commerce rurale.
Qui, nella contea da 500mila abitanti di Qingzheng sono state aperte 176 postazioni come quella che fa felice Lei Tang. Le merci passano attraverso due snodi fondamentali che hanno ribattezzato «porti intelligenti». Sono giganteschi poli multifunzionali principalmente adibiti a magazzini. Ma ci sono anche alberghi a ore, meccanici, punti di ristoro e supermercati per i camionisti che passano di lì. Tutti nuovi posti di lavoro. Non solo. Un’azienda di Singapore, la Glp, ha fiutato l’affare che poteva nascere dall’abbassare e velocizzare il prezzo dei trasporti. Così ha creato Mashangdao, un’applicazione come Uber che permette ai camionisti di coordinarsi con i «porti» e riempire i camion anche nei viaggi di ritorno. Un mega schermo nella struttura centrale descrive posizione e disponibilità degli utenti. Oltre 800mila camionisti si sono iscritti in tutto il paese. Secondo Yu Jianggan, direttore operativo, «i tempi di consegna si sono ridotti di un terzo e i costi del trasporto sono dimezzati».
Jin Yulong, direttore dell’ufficio locale di propaganda, ha i denti anneriti dal fumo, le scarpe sformate e le mani di chi lavora la terra da una vita. È entusiasta: «In soli sei mesi i miei concittadini hanno aperto 300 negozi online. Chi è andato a fare l’operaio in città può pensare di ritornare».

Il Sole 29.5.16
La corsa alla Casa Bianca. Un comizio anti-immigrati del candidato repubblicano degenera in violenza
Scontri per Trump in California
Per Hillary Clinton si riapre il caso dei legami con Goldman Sachs
di Marco Valsania

NEW YORK I grandi vizi - pubblici e segreti - del candidato repubblicano e della probabile portabandiera democratica che moltiplicano le incertezze sulle elezioni presidenziali americane di novembre sono sotto i riflettori. Trump ha visto una sua infuocata arringa anti-immigrati al Convention Center di San Diego, nella California meridionale ricca di residenti di origine latinoamericana, zittita da oltre 30 arresti, dopo che la protesta di centinaia di dimostranti è degenerata in tafferugli con i militanti del costruttore e personalità televisive newyorchesi, provocando l’intervento della polizia in tenuta anti-sommossa.
La Clinton, nelle stesse ore, è finita al centro di nuove denunce sulle sue relazioni pericolose con l’alta finanza: dopo aver già rifiutato di rilasciare il testo di discorsi profumatamente remunerati da Goldman Sachs, è venuto alla luce che l’amministratore delegato di Goldman in persona, Lloyd Blankfein, ha investito in un hedge fund lanciato dal genero di Clinton, Mark Mezvinsky. Un’operazione, oltretutto, rivelatasi disastrosa: la società, Eaglevale Partners, è in perdita e ha di recente chiuso uno dei suoi fondi, Hellenic Opportunity, dopo aver bruciato oltre il 90% degli asset in scommesse errate sulla Grecia.
Le violenze di San Diego dimostrano come Trump, se ha ormai la nomination repubblicana in tasca, non ha tuttavia risolto i suoi problemi, a cominciare dalla necessità di apparire più presidenziale e di concentrare l’attenzione sugli avversari. Ha promesso di puntare su 15 Stati, comprese roccaforti del partito democratico quali New York e California, per vincere a novembre. Ma gravi controversie, per la proposta di costruire muri alla frontiera con il Messico e di espellere milioni di clandestini, esplodono oggi all’interno della sua stessa organizzazione elettorale, oltre che nell’opinione pubblica. L’elite del partito, che pure si sta compattando alle sue spalle, mostra segni di nervosismo: la necessità di ridisegnare l’organizzazione per le elezioni generali ha visto negli ultimi giorni le improvvise dimissioni forzate del direttore politico, Rick Wiley, che si era scontrato con responsabili locali in tre Stati.
Tra i collaboratori di Trump, rivela il New York Times, si sta anche diffondendo un clima di paranoia: temono che i loro uffici presso la Trump Tower di New York siano sotto controllo con tanto di microspie e intercettazioni. Confusione regna anche sulla raccolta di finanziamenti: neppure i sostenitori che vorrebbero donare alla campagna o ai super-pac, le organizzazioni fiancheggiatrici, hanno finora ricevuto indicazioni su come procedere. Lo stile manageriale, autoritario e irascibile del candidato mostra la corda nel gestire una complessa e capillare operazione che va sempre più al di là della sua abilità di dominare i media con uscite imprevedibili.
Le divisioni, però, si aggravano anche nel partito democratico. Clinton zoppica verso la nomination: i sondaggi, un tempo nettamente favorevoli, la vedono appaiata allo sfidante Bernie Sanders nel cruciale Stato della California, il più grande del Paese, che terrà le primarie il 7 giugno e dove 8 anni fa era riuscita a battere lo stesso Barack Obama. Clinton dovrebbe conquistare comunque delegati sufficienti per raggiungere il quorum, ma il susseguirsi di scandali, da quello delle e-mail governative compromesse, ai soldi dell’alta finanza, solleva lo spettro di continue erosioni di consensi e di colpi di scena da qui alla Convention di luglio.
Sanders ha esplicitamente dichiarato che cercherà di convincere i super-delegati, i funzionari di partito che non sono tenuti a votare per alcun candidato, a riconsiderare il loro iniziale appoggio a Clinton, forte di sondaggi che oggi lo vedono vincere in uno scontro diretto contro Trump, mentre Clinton verrebbe sconfitta. Sanders e Trump si sono anche sfidati a un dibattito, ma il repubblicano ha poi fatto marcia indietro.

Il Sole 29.5.16
Le ragioni (anche spiacevoli) per cui votano Bernie Sanders
La verità sui sanderisti
Non c’è solo idealismo puro all’interno della variegata coalizione che sostiene il senatore del Vermont
di Paul Krugman

Per usare un aggettivo solo, è una verità complessa: non tutto è negativo, certo che no, ma non è la cristallina sollevazione degli idealisti che i sostenitori più entusiasti di Bernie Sanders si immaginano.
I politologi Christopher Achen e Larry Bartels hanno pubblicato recentemente un’istruttiva analisi al riguardo sulle pagine del New York Times. Ecco il capoverso chiave, che probabilmente farà infuriare i sostenitori del senatore del Vermont: «I commentatori che hanno prontamente attribuito il successo di Donald Trump alla rabbia, all’autoritarismo o al razzismo, più che a questioni politiche, hanno passato quasi completamente sotto silenzio il fatto che il consenso in favore di Sanders si concentra in misura significativa non fra i progressisti ideologizzati, ma fra i maschi bianchi delusi».
L’obiettivo non è demonizzare, bensì, se vogliamo, disangelizzare. Come qualsiasi movimento politico (incluso il Partito democratico, che è una coalizione di gruppi di interesse), il «sand ersismo» è un assemblaggio di persone con una varietà di motivazioni, non tutte piacevoli.
Ecco una lista basata sulla mia esperienza personale:
1.Gli idealisti sinceri: è indubbio che un numero non trascurabile dei sostenitori di Sanders sogna una società migliore, e per una qualunque ragione – forse perché sono molto giovani – è pronto a ignorare argomentazioni pratiche sulla ragione per cui non è possibile realizzare in un giorno tutti i loro sogni.
2.I romantici: questo genere di idealismo scolora in qualcosa che non ha a che fare tanto con la volontà di cambiare la società, quanto con il divertimento e la gratificazione per l’ego che deriva dall’essere parte del Movimento. (Quelli fra noi che sono stati studenti negli anni 60 e nei primi anni 70 riconoscono facilmente questa tipologia.) Per un po’ (specialmente per coloro che non avevano un’idea chiara dei meccanismi matematici dell’elezione dei delegati) è sembrata una cavalcata meravigliosa: i giovani battaglieri in marcia per rovesciare i vecchi scellerati. Ma fra l’amore e l’odio la linea è sottile: quando la realtà ha cominciato a prendere il sopravvento, tanti, troppi di questi romantici hanno reagito sprofondando nel risentimento, affermando con rabbia che li stavano ingannando.
3.I puristi: è un filone leggermente diverso del movimento, anche questo caso ben noto a noi che abbiamo una certa età. È composto da persone per le quali la militanza politica non consiste nell’ottenere dei risultati, quanto nell’assumere una posa personale. Sono i puri, gli immacolati, quelli che rigettano la corruzione del mondo e tutti coloro che si sono anche minimamente sporcati (in pratica, chiunque sia riuscito a fare effettivamente qualcosa). Un numero significativo di delegati di Sanders è composto da persone che nelle elezioni del 2000 sostennero il verde Ralph Nader; i risultati di quella candidatura non li turbano, perché i risultati sono sempre stati secondari: l’obiettivo vero è affermare la propria identità personale.
4.Vittime della sindrome Clinton: una parte dei supporter di Sanders sono persone che in primo luogo odiano Hillary. È una sindrome da cui non riescono a liberarsi: sanno che Hillary Clinton è corrotta e malvagia, perché lo sentono ripetere continuamente. Non si rendono conto che la ragione per cui lo sentono ripetere continuamente è che alcuni miliardari di destra si danno da fare da oltre vent’anni per promuovere questo messaggio. Sanders ha preso parecchi voti da Democratici di destra che non votano per lui, bensì contro la Clinton. E sicuramente ci sono pure Democratici di sinistra che hanno assorbito lo stesso messaggio, anche se non guardano la Fox News.
5.Salon des refusés: è un gruppo numericamente ristretto, ma par ticolarmente rilevante in seno agli editorialisti pro-Sanders. Sto parlando di intellettuali che per una qualche ragione sono rimasti esclusi dalla cerchia ristretta dell’establishment democratico, e che hanno visto Sanders come il lasciapassare per il successo. Nella maggior parte dei casi hanno opinioni eterodosse, ma queste hanno poco a che vedere con la campagna. Ciò che conta è il loro status di outsider, che rende conveniente sostenere un candidato outsider (e li rende riluttanti ad ammettere che il loro candidato non porta più beneficio alla causa progressista).
Che fine farà questa coalizione di non-sempre-disinteressati quando la corsa delle primarie sarà finita? Gli idealisti sinceri probabilmente si renderanno conto che, indipendentemente dai loro sogni, Trump sarebbe un incubo. I puristi e le vittime della sindrome Clinton non sosterranno Hillary, ma tanto non lo avrebbero fatto comunque. Gli intellettuali insoddisfatti penso che alla fine, in linea di massima, la appoggeranno. Il vero dubbio sono i romantici. Quanti cederanno al risentimento? Molto potrebbe dipendere da Sanders: è lui stesso uno di questi romantici rancorosi, incapace di andare oltre?
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 29.5.16
Piano Condor
L’Argentina condanna 15 ex militari
di Filippo Fiorini

Quando il capo dell’intelligence cilena «Mamo» Contreras fece la sua proposta ai colleghi dei servizi segreti sudamericani, disse che voleva creare «un’Interpol anti-sovversiva». Era il 1975, il mondo era diviso dalla Guerra Fredda. In Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Paraguay e Bolivia governavano i militari e ci si voleva metter d’accordo per dare la caccia ai ribelli di sinistra, senza che le frontiere fossero un intralcio.
Di lì ai primi anni Ottanta, quegli stessi apparati di spionaggio avevano rapito, torturato e ucciso almeno 105 persone, nell’ambito di un’offensiva che portò a migliaia di morti in tutto il continente e operazioni segrete all’estero, tra cui una bomba a Washington e una sparatoria nel centro di Roma.
Il processo per questi fatti, concluso venerdì a Buenos Aires, è parte di un’istruttoria iniziata nel ’99. Per riassumere tutti gli illeciti di quello che fu chiamato «Piano Condor», il PM ha impiegato 21 mila pagine e tentato di imputare quattro ex capi di Stato. Per due di loro, il dittatore cileno Pinochet e l’omologo paraguaiano Stroessner, non si ottenne mai l’estradizione, e per un terzo, l’argentino Jorge Videla, la vita si è conclusa prima del verdetto.
Nonostante gli intralci, si è arrivati a comminare 227 anni di prigionia, da dividere tra 14 ex militari argentini e un uruguaiano. La peggior parte, 25 anni, è toccata a quest’ultimo, l’ex «Agente 303» Manuel Cordero, che i giudici hanno messo sullo stesso piano di un’altra spia specializzata in rapimenti, Miguel Angel Furci, e dell’ex comandante del IV corpo dell’Esercito, Santiago Riveros, già condannato all’ergastolo in Italia per l’uccisione di nostri connazionali a Buenos Aires.
Meglio è andata a Reynaldo Bignone. L’ultimo generale a essersi seduto da presidente alla Casa Rosada ha ricevuto 20 anni da sommare a 8 precedenti condanne per delitti di lesa umanità. Il fatto è che, sebbene il figlio di una delle vittime abbia urlato: «Adesso marcirete in carcere, assassini», nessuno è stato concretamente processato per omicidio. Lo impediva un tecnicismo giuridico e le imputazioni più gravi sono state associazione a delinquere, tortura e sequestro.
Non si è nemmeno dimostrato il coinvolgimento della Cia e il valore della sentenza sta soprattutto nel cosiddetto «diritto alla verità». D’altra parte, in Italia i crimini del condor tengono ancora alla sbarra altri 32 imputati.

il manifesto 29.5.16
Plan Condor, condannato Bignone
Argentina. Sentenza storica: 20 anni al presidente golpista per 100 sparizioni di militanti di sinistra. È la prima volta che la giustizia prova i delitti della rete - a guida Cia - latinoamericana con cui i golpisti si scambiavano «favori» criminali
di Geraldina Colotti

Sentenza storica, in Argentina. Un tribunale ha condannato l’ex presidente de facto Reynaldo Bignone a vent’anni di carcere per la sparizione forzata di oltre 100 persone nell’ambito del Plan Condor. All’ex colonnello uruguayano Manuel Cordero, unico imputato non argentino, la corte ha comminato 25 anni. Bignone, 88 anni, sta scontando l’ergastolo per molteplici violazioni ai diritti umani commesse durante la dittatura civico-militare argentina, dal 1976 al 1983. Fu presidente dall’82 all’83, l’ultimo anno del governo de facto. Bignone è uno dei pochi capi di Stato di un regime militare implicato nel Plan Condor ad essere ancora in vita. Insieme a lui sono stati condannati per sequestro, tortura e sparizione forzata altri 15 ex militari, le cui pene variano da 8 a 25 anni.
È la prima volta che la giustizia comprova quel che la storia ha da anni acclarato: la portata e i delitti della rete criminale a guida Cia mediante la quale i regimi militari sudamericani si scambiavano i «favori» negli anni ’70-’80, eliminando gli oppositori di sinistra ovunque si trovassero: dall’Argentina al Cile, dall’Uruguay alla Bolivia, al Paraguay. Il Piano Condor venne organizzato nel 1975, durante una riunione dei capi dei servizi segreti di Argentina, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay. In un secondo tempo si aggiungerà il Brasile, e poi anche Ecuador e Perù (seppure con un ruolo meno importante). L’operazione contro «il pericolo rosso» (la diffusione dei governi marxisti nella regione) è continuata anche negli anni ’80, durante la «crociata» di Reagan e Wojtyla contro il comunismo. Molte fonti calcolano che le vittime del Condor potrebbero essere circa 6.000.
Tra i casi più noti, l’assassinio a Washington di Orlando Letelier, ex ministro del governo Allende, ucciso con un’autobomba. E la scomparsa e la successiva uccisione del figlio e della nuora del poeta Juan Gelman, il cui figlio venne ucciso a Buenos Aires. La nuora di Gelman fu portata in Uruguay mentre era incinta. Lì, prima di essere uccisa, dette alla luce una bambina, data in adozione poi ritrovata dal nonno nel 2000.
Al Condor i giudici hanno attribuito 105 esecuzioni e sequestri durante i governi de facto di Argentina, Brasile (1964-1985), Uruguay (1973-1985), Paraguay (1954-1989), Bolivia (1971-1978) e Chile (1973-1990). Delle 105 vittime, 45 erano dell’Uruguay, 22 del Cile, 14 dell’Argentina, 13 del Paraguay e 11 boliviani. In Paraguay, grazie al lavoro dell’avvocato Martin Almada è stato scoperto «l’archivio del Condor». Nel dicembre del 1992, finita la dittatura, Almada torna dal suo esilio in Francia. Ha compiuto anni di ricerca, raccolto numerose testimonianze, ricostruite a partire dalle frasi che aveva sentito pronunciare dai militari quando si trovava nei centri di tortura. Le sue indagini, portate avanti con l’aiuto di un giudice e di un sacerdote, lo conducono a una stazione di polizia alla periferia della capitale Asuncion. Lì scopre una montagna di documenti inscatolati: l’Archivio segreto del Terrore, puntigliosamente documentato dai militari paraguayani. Vi sono anche prove di sequestri e sparizioni in Argentina, in Brasile, Cile, Uruguay.
Materiale prezioso per i diversi procedimenti aperti su singoli delitti. Il processo che si è concluso venerdì in Argentina ha prodotto una enorme quantità di prove, non solo proveniente dagli Archivi del terrore, ma anche dai documenti declassificati dagli Stati uniti durante il governo di Bill Clinton. A marzo, durante la sua visita in Argentina compiuta dopo la vittoria del neoliberista Mauricio Macri, Barack Obama ha accettato di declassificare altri documenti di intelligence, per rispondere a una richiesta storica delle organizzazioni per i diritti umani. Il presidente Usa ha riconosciuto che il suo paese «ha agito con ritardo» rispetto alle violazioni compiute dai regimi militari sudamericani di allora.
Il Condor ha agito anche in Europa, con la complicità di fascisti e servizi segreti. Molte vittime erano di origine italiana e per questo a Roma nel 2013 ha preso avvio il processo Condor, ancora in corso. Riguarda 32 militari e civili di Bolivia, Cile, Perù e Uruguay accusati della scomparsa e dell’uccisione di 33 cittadini italiani e 20 uruguayani.
E il papa Bergoglio ha ricevuto venerdì a Roma in udienza privata Hebe de Bonafini, fondatrice e presidente delle Madri di Plaza de Mayo, storica associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare argentina. Hebe ha perso due figli e la nuora durante la dittatura civico-militare argentina, che ha provocato circa 30.000 scomparsi. In passato, aveva criticato «il silenzio» del papa durante la dittatura, basandosi su alcune testimonianze poi smentite. Tempo fa, aveva però ammesso di essersi sbagliata. E ieri, durante un «incontro lungo e affettuoso», Hebe ha esposto al papa le preoccupazioni per gli attacchi di Macri alle politiche sociali dei precedenti governi kirchneristi. «Il papa è peronista», ha detto alla fine dell’incontro.

Repubblica 29.5.16
Faccia a faccia tra Scalfari e Renzi
Il fondatore di “Repubblica” si confronterà con il premier

Nell’anno delle elezioni amministrative e del referendum costituzionale, La Repubblica delle Idee dedica alla politica uno spazio di ampio rilievo. Che culminerà con un confronto tra Eugenio Scalfari e Matteo Renzi. Si comincia venerdì 3 giugno con il Vaticano: “Dove va la Chiesa di Francesco?”. La rivoluzione di Bergoglio sarà l’oggetto del confronto tra Alberto Melloni, Antonio Spadaro e Marco Ansaldo. Il giorno successivo, Lirio Abbate ragionerà con Carlo Bonini e Filippo Ceccarelli sul degrado della capitale in un incontro intitolato: “Roma, capitale in scacco”. Ancora il 4 il Priore di Bose Enzo Bianchi e Antonio Gnoli dialogheranno sullo “Scandalo della misericordia”. Lunedì 6, lo spazio è per l’attualità, il primo turno delle amministrative sarà l’oggetto del talk show condotto da Laura Pertici: “Quanto conta il voto delle città?” con Mario Calabresi, Lucia Annunziata, Stefano Folli, Claudio Tito, Stefano Cappellini, Giovanni Orsina, Giovanna Vitale e Luigi Vicinanza. La capitale e “il governo di Roma” tornano al centro del dibattito il 7 giugno, quando Stefano Cappellini e Filippo Ceccarelli intervisteranno Francesco Paolo Tronca, commissario prefettizio del Comune di Roma. “Corruzione, il male italiano” è uno dei temi della giornata successiva: il politologo Ilvo Diamanti e il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone dialogheranno con il vicedirettore di Repubblica Gianluca Di Feo. Lo stesso giorno il sindaco di Milano Giuliano Pisapia sarà intervistato dal vicedirettore di Repubblica Dario Cresto- Dina e da Roberto Rho sul “Modello Milano”. Il 9 Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma, si confronterà con Attilio Bolzoni e Conchita Sannino sullo “Stato delle mafie”. Chiude la serie sabato 11 giugno il faccia a faccia tra il fondatore di Repubblica Scalfari e il premier Renzi con Claudio Tito.

La Stampa 29.5.16
Joseph Rykwert, architetto:
“Le archistar curano il loro ego e il tessuto delle città va a pezzi”
intervista di Alain Elkann

Joseph Rykwert è tra i più importanti critici e storici d’architettura della sua generazione. È nato a Varsavia, vive a Londra dallo scoppio della II guerra mondiale, è professore di Architettura all’Università della Pennsylvania. Ha appena compiuto 90 anni e lavora a un nuovo libro. Parla polacco, tedesco, russo, francese, italiano.
Ha appena ricevuto la Laurea Honoris Causa a Bologna, una delle tante che le hanno conferito. Cosa prova?
«Beh, quando le persone si danno così da fare per te, è piacevole. La mia prima laurea honoris causa la ebbi a Edimburgo, insieme ad Amartya Sen, per lui era la 19a. Questo è un onore più che un premio».
Si considera un intellettuale, un architetto, un professore?
«Penso a me stesso come a un architetto che vaga tra storia e teoria».
Ha scritto libri dove la città ha un ruolo centrale, per esempio “L’idea di città”.
«Sì, quando vivevo a Varsavia, da bambino, aveva 1,5 milioni di abitanti. Una piccola città. Poi ho scoperto la metropoli con Londra. Mi interessa sapere come la gente vede, fisicamente, la città in cui vive. Che mappa della città hanno in testa, per dire?»
C’è una città perfetta?
«Non ci può essere una città perfetta. Le città sono imperfette perché sono volute solo a metà. Manhattan, per esempio: New Amsterdam era sulla punta meridionale di Manhattan e Wall Street corrispondeva alle mura. Poi nel 1811 fu disposto il grande piano per dividere New York in rettangoli».
Che dire di Parigi?
«Fu fondata sulla riva sinistra, poi rimase limitata all’isola, finché un castello, il Louvre, apparve sulla riva destra e il centro fu spostato. Ma il centro storico romano era sede dell’università e di alcuni monasteri».
E Londra?
«La struttura di base di Londra è la tensione tra la città regia e Westminster con abbazia, Parlamento e Palazzo e il nodo del potere mercantile, City. I due centri erano connessi lungo il fiume dallo Strand e da Fleet Road. Ora entrambi i centri sono sminuiti dal London Eye, che sembra dire che Londra è vista più che vissuta».
L’Italia è davvero il paese delle 100 città ?
«Sì, ci sono diverse capitali. Non è questione di numero di abitanti, Dublino o Edimburgo, per esempio, hanno il carattere di capitale a differenza di Manchester, Liverpool o anche Glasgow. La Gran Bretagna ha tre capitali, ma l’Italia ne ha molte. Torino e Venezia, o Firenze, Palermo, Napoli, e, naturalmente, e soprattutto, Roma. Ma anche tutte le città attorno alla via Emilia, come Parma, Modena, Bologna e Rimini, avevano governi e tribunali».
Non pensa che Venezia sia la città più straordinaria del mondo?
«Certo, è straordinaria, ma ci sono altre città sull’acqua in Cina e nel Sud-est asiatico. Quello che mi pare unico di Venezia è la sua monarchia elettiva e il modo in cui utilizza il suo fronte del porto per mettere in mostra il suo potere. S’inizia con l’ospizio degli Incurabili alle Zattere, si prosegue con i Magazzini del Sale, poi la Dogana, all’ingresso del Canal Grande. Dall’altra parte i Magazzini del Grano, poi la Zecca e la Biblioteca di Stato. Nello stacco della piazzetta c’è il patibolo tra le due colonne e poi il Palazzo Ducale con il carcere annesso, i Piombi. Una dimostrazione di potere che dev’essere sembrata ovvia a chiunque arrivasse a Venezia per via d’acqua».
Che ne dice di Roma ?
«Roma è davvero “Caput mundi”, come tante altre città simbolo, la sua storia è iniziata con un omicidio. Romolo e Remo come Caino e Abele. Il centro della Roma più antica sono il Palatino, il Campidoglio e il Foro. Ora sono stati svuotati di senso e sembrano quello che sono, un parco archeologico. Noi tutti abbiamo il nostro personale centro romano - il mio è, credo, piazza di Spagna».
Qual è la sua città preferita?
«Tutte le città sono interessanti, da Pechino a Shanghai, da Varanasi a Mumbai. Le trovo tutte affascinanti».
I grattacieli hanno cambiato l’idea dell’architettura e della città?
«Il punto con gli edifici alti è che consumano e sprecano lo spazio intorno a loro. L’edificio più alto del mondo al momento è in costruzione a Gedda, è alto un chilometro. Attorno, il deserto. In realtà si tratta di un edificio dove non si può entrare a piedi, ci si deve andare in auto. E un edificio ancora più alto è previsto a Baku. Questi edifici non hanno alcun pregio architettonico».
Quali sono gli architetti che ammira?
«Apollodoro di Damasco, che progettò il Foro di Traiano, forse il Pantheon. Si dice che sia stato condannato a morte da Adriano perché parlò in modo irrispettoso dell’architettura di Adriano. Ammiro abbastanza Borromini e Bernini, che pure non si amavano a vicenda. Naturalmente Leon Battista Alberti, - quando dice che la città è una grande casa e la casa è una piccola città - e Bramante e Le Corbusier, meno Mies van der Rohe. Gropius è stato molto bravo a scegliere i suoi collaboratori, come Kandinsky e Klee e soprattutto Itten. Non amo le archi-star perché si affidano alla natura eccezionale della loro personalità e non alla qualità del loro lavoro. È molto difficile essere un architetto in questo periodo neo-capitalista perché ci manca il senso di una necessità per lo spazio pubblico. Senza la percezione della società, si possono fare singoli edifici ma il tessuto della città va a pezzi».
Traduzione di Carla Reschia

Il Sole Domenica 29.5.16
Perché difendo le periferie
Crogioli di energia, libertà, passione e persino bellezza. Per l’architetto e senatore, nato alle porte di Genova, vanno rigenerate. Come si è fatto con i centri storici
di Renzo Piano

Ma perché difendi la periferia? Una domanda che mi fanno spesso, è successo anche qualche giorno fa alla Biennale di architettura di Venezia.
Stavo guardando le fotografie del Giambellino, la periferia di Milano dove lo scorso anno abbiamo lavorato con i giovani architetti del gruppo G124 al Senato. Abbiamo abbattuto un muro, che è sempre una bella cosa, e liberato il mercato comunale che ora si affaccia sul verde parco. Il quartiere dove Giorgio Gaber girava in Lambretta e che canta nella Ballata del Cerutti.
Ritratti di facce radiose, sorridenti nonostante tutto: chi coltiva pomodori nell’orto collettivo, chi con pazienza insegna italiano agli stranieri, chi è straniero e aggiusta il citofono del vicino italiano. La foto di un cinema all’aperto nel cortile delle case popolari, le sedie le portano giù da casa. Al Giambellino ci sono seimila abitanti di venti nazionalità diverse, e forse me ne sfugge qualcuna. Negli occhi di molti di loro leggo l’orgoglio di viverci. Le periferie sono ricchissime di bellezza umana e anche fisica che è nascosta. I miei pensieri correvano dietro queste immagini, avanti e indietro nel tempo. Gli anni da studente universitario a Lambrate, i concerti jazz al Capolinea, lungo i Navigli dove si fermava il tram 19.
Pensavo ai giovani di tante associazioni del Giambellino che si impegnano per migliorare il loro quartiere e ci riescono, quando un ragazzo mi si è avvicinato: «Scusi architetto, permette…». Aveva in mano il libro che abbiamo fatto sull’esperienza al Giambellino, s’intitola Diario dalle periferie: «Ma perché lei difende le periferie? E poi secondo lei è possibile una periferia migliore?».
Stavo per rispondere quando un amico mi ha distratto. Solo un attimo. Mi sono girato ma quel giovane non c’era più. Voglio dare adesso una risposta.
Perché sono figlio della periferia
Per prima cosa difendo le periferie perché è una questione d’appartenenza: sono figlio della periferia, sono nato e cresciuto nella periferia di Genova verso Ponente, vicino ai cantieri navali e alle acciaierie. Per me il centro di Genova, della Superba appunto, era lontano e intimidente. La mia è una periferia un po’ speciale, perché per metà è formata dall’acqua. Parlo del mare che invoglia alla fuga, a viaggiare per conquistarsi il futuro.
Le periferie sono fabbriche dei desideri. Cresci con l’idea di partire, diventi grande avendo il tempo d’annoiarti e di pensarci su.
Perché la periferia è la città del futuro
Difendo le periferie anche perché sono la città del futuro, che noi abbiamo creato e lasceremo in eredità ai figli. Dobbiamo rimediare allo scempio fatto e ricordarci che il 90 per cento della popolazione urbana vive nelle zone marginali.
Le periferie, che bisognerebbe chiamare città metropolitana, sono la grande scommessa del secolo: diventeranno o no urbane? Se non diventeranno città saranno guai grossi.
C’è una simmetria tra i centri storici che volevamo salvaguardare negli anni ’60 e ’70 e il rammendo delle periferie. Certo le periferie non sono così fotogeniche come i centri storici: belli, ricchi di storia, arte e fascino. Però oggi, se devo dirla tutta, i centri storici talvolta sono diventati centri commerciali a cielo aperto, infilate di boutique di lusso una dietro l’altra. I centri storici sono sazi e appagati mentre sono le periferie dove c’è ancora fame di cose e emozioni, dove si coltiva il desiderio.
La città europea insegna a non creare quartieri solo per lo shopping o solo per gli affari ma a mescolare le diverse funzioni. Le periferie sono la città che è una grande invenzione, forse la più grande fatta dall’uomo. Ovvero il luogo dove si impara e pratica la convivenza, la tolleranza, la civiltà, lo scambio e la crescita.
Perché nelle periferie c’è energia
Difendo la periferia anche perché è un concentrato d’energia, qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Quasi sempre il termine periferia è accoppiato ad aggettivi denigranti come violenta, desolata, triste. Ma le facce della gente del Giambellino sono tutt’altro che tristi.
Viene spesso definita come deserto affettivo, ma è vero il contrario: le periferie sono crogioli di energia e di passione. Che poi non si tratti solo di forze positive lo sappiamo.
Il disagio urbano è una malattia cronica della città, una sofferenza che in alcuni momenti si acuisce. Un male che è generato dal disagio sociale ma anche dal degrado e dalle bruttezze dei luoghi, dal disamoramento con cui le periferie sono state realizzate. Bisogna lavorare sulla dignità del luogo, è fondamentale. Un quartiere ben costruito è un gesto civico, una città ben costruita è un gesto di pace di tolleranza.
Perché c’è bellezza in periferia
Ecco può sembrare una contraddizione di termini ma la periferia può essere bel la, perciò la difendo. Anche alcuni scorci, certi cortili, le proporzioni dei caseggiati del Giambellino sono belli. Così come la bellezza noi del G124 l’abbiamo trovata anche a Librino, a Roma sopra e sotto il Viadotto dei presidenti, a Borgata Vittoria a Torino e siamo a caccia di perle anche quest’anno a Marghera.
Si tratta di un’armonia nascosta che va cercata e scoperta. Le periferie godono di una bellezza per la quale non sono state costruite: sono state fatte senza affetto, quasi con disprezzo. Eppure c’è una bellezza che riesce a spuntare fuori, fatta certo di persone ma anche di luce, orizzonti, natura e tanto spazio.
Spazio, per esempio, per piantare nuove piante: guardare un albero riserva sorprese, non è mai uguale al giorno prima. D’autunno le foglie cambiano colore e cadono lasciando passare la luce del sole, ogni primavera si assiste al rito del rinnovamento. Una metafora della vita e della rigenerazione. Una bellezza che non è cosmesi. D’altronde il principio bellezza, quella autentica, in tutto il bacino del Mediterraneo non è mai disgiunta dalla bontà. L’idea dei greci: kalos kagathos, bello e buono.
Perché ho sempre progettato in periferia
Da quando il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita mi sono dedicato con i giovani che ho raccolto nel gruppo G124 al rammendo delle periferie. Anche da parlamentare faccio l’unica cosa che so fare: l’architetto che è un mestiere politico, nel senso che viene da polis.
Ho sempre lavorato e progettato ai margini della città. Fin dai tempi del Laboratorio di quartiere di Otranto realizzato con Unesco. Era la fine degli anni Settanta: insieme agli abitanti si faceva il progetto, insieme si sceglievano e mettevano a punto gli strumenti per intervenire, e ancora insieme si apriva il cantiere. Un processo partecipativo che non serviva, come purtroppo spesso accade, a persuadere ma ad ascoltare, capire e fare progetti migliori.
Fu allora che inventammo la figura dell’architetto condotto. Esserlo, come accade per il medico condotto, ti insegna una cosa fondamentale: l’arte di ascoltare la gente e di trovare l’ispirazione.
Anche oggi i miei progetti più importanti riguardano la riqualificazione di periferie urbane: dal campus della Columbia University a Harlem, al tribunale di Parigi verso i confini della banlieue nord, alla nuova scuola Normale superiore di Saclay a sud della capitale.
Devo rispondere ancora alla seconda domanda di quel ragazzo della Biennale: è possibile una periferia migliore?
Certo che è possibile, basta andare a Marghera dove sono appena stato per un sopralluogo con G124 per capirlo. C’è già una periferia migliore, negli ultimi vent’anni questo quartiere ha fatto passi da gigante.
Come scriveva Italo Calvino, anche le più drammatiche e le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Quel qualcosa dobbiamo però scoprirlo e alimentarlo. Così avremo città migliori.

Il Sole Domenica 29.5.16
Iconoclastia
L’Islam che non immagini
di Maria Bettetini

Ancora in tempi recenti l’Isis ha diffuso le immagini della distruzione delle mura di Ninive a opera di efficienti bulldozer. Per fortuna si tratta di mura in gran parte ricostruite, per fortuna – paradossale a dirsi - nell’Ottocento francesi e inglesi rubarono bassorilievi e sculture, di cui oggi possiamo godere nelle sale del Louvre e del British Museum. Ma perché tanto accanimento, perché colpire con brutalità i siti archeologici che raccontano il passato dell’umanità tutta? Maria Bettetini ha studiato le radici religiose e filosofiche di questa nuova iconoclastia, e ne ha tratto un agile libello di cui diamo un’anticipazione.
Tutte le religioni hanno dovuto e dovranno fare i conti con le immagini. A dire il vero anche tutte le filosofie, perché chiunque commerci con la verità non può tacere del falso, o dell’immagine del vero, che sono due cose a volte da intendere come distinte, a volte sovrapponibili. Quindi, sia che la verità risulti imposta da una fede, o indagata dalla fatica del pensiero, oppure dagli sforzi dell’ascesi, o dichiarata inaccessibile, al pari si dovrà argomentare di immagini e finzioni. Se la religione ebraica ha fermamente delimitato il tema, mantenendosi alla lettera del primo dei dieci comandamenti, e quindi praticando un’aniconia senza sconti, se il cristianesimo ha per duemila anni aborrito o amato le immagini, a seconda dell’epoca e delle decisioni dei papi, degli imperatori, dei riformatori, allora l’Islam avrà una posizione che dovrà tenere conto degli altri due monoteismi. L’Islam, infatti, si propone come una religione che prende il meglio dai monoteismi che lo hanno preceduta, e sublima la loro storia e i loro valori in un monoteismo ultimo, dopo il quale non sarà da attendere altra rivelazione o altro progresso. Non è quindi “altro” rispetto a ebraismo e cristianesimo, e questo dato di fatto storico e teorico basterebbe a mostrare l’inconsistenza della contrapposizione tra “Occidente” e “Oriente, ossia i fedeli dell’Islam”.
Qual è dunque l’atteggiamento di questa religione di fronte alle immagini?
Il tema non verte solo sul rapporto tra vero e finto o vero e falso, ma anche su quello tra spirito e materia. Noi oggi, infatti, intendiamo per immagine qualcosa che faticheremmo a definire “oggetto”, realtà materiale. Conviviamo ogni giorno con milioni di “cose” fatte di materia evanescente e fuggevole, fatte di realtà virtuale. Già qualche anno fa avevo avanzato l’ipotesi per i nostri tempi di immagini cannibali e di iconoclastia light: la grande quantità che ha invaso il nostro quotidiano, grazie a tablet, smartphone, computer sempre più potenti e facili da usare, fa sì che nessuna delle immagini che ci scorrono davanti agli occhi si fermi davvero nella nostra mente e lasci un’impressione al nostro cuore. Sono tante, ma scappano via presto, o noi le cestiniamo presto. Magari invadono la memoria dei mezzi, alla quale affidiamo tutte le immagini, sollevandoci anche dallo scrupolo dell’oblio di qualche volto, o panorama, o monumento. Non ci tangono però, perché questo accumulo è in verità una rottamazione, un abbandono. Questo ci rende cattivi destinatari delle immagini che dovrebbero scioccarci, nelle intenzioni del terrorismo. Quando non siamo direttamente coinvolti per amicizia o parentela, vista una vittima di bombardamento, viste tutte. Vista una statua assira presa a picconate, viste tutte.
Dobbiamo invece tentare di riflettere, non per piangere lacrime a comando, ma per comprendere il significato dell’accanimento contro il passato, nella “persona” di ciò che è sopravvissuto per centinaia, migliaia di anni. Sono oggetti ed edifici in pietra, in nobile metallo, protetti anche dall’involontaria sepoltura delle aree desertiche. Sono materia da punire. Come accennato, il faticoso e dibattuto rapporto tra l’immateriale e il materico deve per forza essere affrontato da qualunque filosofia o religione. Se anche il Buddhismo, che aborre ogni forma di latria che non sia quella verso il tutto che l’universo è, senza distinzioni, se anche il Buddhismo conserva un dente e un dito dell’Illuminato, e le sue sharira, gemme derivate dalla cremazione, sono suddivise e venerate in tutto il mondo, e trasportate con amore in “viaggi” non diversi da quelli della Vergine di Fatima in visita alle parrocchie, allora non potremo non tenere conto del problema della materia, cercando di studiare la violenza, l’accanimento dello Stato Islamico contro le reliquie di un passato da uccidere.
Dove trovano i soldati dell’Isis la giustificazione a distruggere siti archeologici, monumenti, retaggi di importanti civiltà estinte, e a vantarsene pure? Come dall’Islam si è arrivati a quella sua caricatura che è l’Isis? Si potrebbero dare delle risposte frettolose: si tratta di civiltà pagane, idolatre; il vero musulmano (che significa “fedele”) segue l’esempio del suo Profeta, che distrusse gli idoli del santuario di Mecca. Poi, dal punto di vista sociologico e antropologico, si potrebbero citare i proventi derivati dalla vendita dei reperti sul mercato archeologico clandestino, più che mai florido. Anche se chi riceve sovvenzioni dalle ricchissime famiglie dell’Arabia Saudita, vendendo una statua si limita ad arrotondare per le spese personali.
Potremmo lasciare da parte le spiegazioni frettolose (se pur non campate per aria) e invece cercare di conoscere, dal punto di vista della storia delle idee, come un uomo di quarant’anni, discendente da una buona famiglia di Mecca, abbia potuto mettere in piedi una religione nuova ma fondata su ebraismo, cristianesimo, zoroastrismo e sui riti pagani preislamici. Quali idee abbiano cementato una nuova civiltà, conducendo quindi a precisi atteggiamenti nei confronti delle immagini. Come si cercherà di mostrare, uno dei nodi è nella contraddizione tra una religione che intende il passato come epoca buia, propriamente “dell’ignoranza” (jahiliyya) e però contemporaneamente del passato fa suoi riti, profeti, dogmi (come la verginità di Maria!). Se tutto il passato è errore, perché includerlo – se pur in parte - nella fondazione dell’unico, nuovo, vero credo?
Cercheremo quindi di conoscere l’atteggiamento verso le immagini di chi, nelle terre che poi diventeranno musulmane, ha adorato una o più divinità, con o senza averne immagine, per poi immergerci nella parte ovest della penisola arabica, nella seconda metà del sesto secolo d.C. Le pagine di questo libro intendono costituire una sorta di guida turistica, che introduce ai luoghi e ai personaggi dell’Islam e intorno all’Islam, per studiarli e ascoltarli. Lo studio aiuta a liberarsi da pregiudizi ed errori dettati quasi sempre da ignoranza e grossolanità. L’auspicio è quello di aggiungere conoscenza alle menti di chi legge (e prima di tutto di chi scrive), nella speranza che i dati permettano quella tensione all’obiettività propria dell’onesto narratore, sia uno storico, un reporter, un filosofo. La verità non è in questo libro, ma alcune istruzioni per l’uso confidiamo di sì.
La nostra collaboratrice Maria Bettetini anticipa i contenuti del suo prossimo libro, «Distruggere il passato. L’iconoclastia dall’Islam» all’Isis , Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 136, € 12

Il Sole Domenica 29.5.16
Pietro Pomponazzi (1462 - 1525)
Disincanto rinascimentale
Ritorna un capolavoro della scienza cinquecentesca che affronta con stile naturalistico demoni, magia e libero arbitrio
di Michele Ciliberto

Le Edizioni della Normale hanno varato una nuova collana di «Classici tradotti» inaugurata da due testi assai importanti: il De incantationibus di Pietro Pomponazzi e l’Etica di Campanella, di cui per le stesse Edizioni era uscito il testo latino a cura di Germana Ernst, che ora lo ha tradotto anche in lingua italiana.
Il testo di Pomponazzi - presentato con il titolo Le incantazioni - è stato tradotto da Vittoria Perrone Compagni che, oggi, è la maggiore studiosa del suo pensiero: oltre a pubblicare su di lui molti saggi, ha curato l’edizione italiana di altri suoi testi cruciali, dal De immortalitate animae al De fato - un testo da ogni punto di vista eccezionale per il contributo che offre a uno dei problemi più discussi fra Quattrocento e Cinquecento, da Valla a Erasmo, a Lutero: quello del libero arbitrio.
Composto nel 1520 - come si arguisce dalla data di sottoscrizione apposta dall’autore: 16 agosto 1520 -, il De incantationibus è scritto quasi contemporaneamente al De fato, ed è effettivamente «l’esito di una lunga riflessione», che probabilmente si estende anche al di là di questa data (come sottolinea Perrone Compagni, nelle prime righe della sua bella Introduzione). «Opera destinata a far epoca proprio per la sua carica eversiva», «testo famoso per lo scandalo che destò nei secoli» ( per riprendere due giudizi di Eugenio Garin), esso ha avuto una notevole fortuna anche nel Novecento, testimoniata dai lavori di studiosi come Cassirer e lo stesso Garin, intrecciandosi, lungamente, al problema della nascita della scienza moderna.
È, questo, un punto che appare con chiarezza proprio dai giudizi di Cassirer, che al De incantationibus dedica pagine centrali nel suo libro su Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento: in Pomponazzi, scrive Cassirer, la causalità «rimane certo ancora legata al mondo tradizionale delle rappresentazioni astrologiche», non essendovi in lui «ancora una scienza esatta della natura». «Ma...una volta rotti questi quadri ed il concetto di causa astrologico sostituito da quello matematico-fisico, quest’ultimo non troverà più nessuna resistenza intima, che si opponga alla sua formazione. In questo senso mediato, anche l’opera strana ed astrusa del Pomponazzi, da un punto di vista puramente metodologico, ha aiutato a preparare il terreno al nuovo modo di concepire l’accadere naturale, proprio delle scienze esatte».
In un testo del 1976, Lo zodiaco della vita, Garin si muove in una prospettiva differente, ribadendo, certo, l’importanza del testo di Pomponazzi, ma situandolo nella polemica sulla astrologia dal Trecento al Cinquecento, e mostrando come esso si contrapponga alle posizioni di Giovanni Pico della Mirandola e alla critica della astrologia che egli svolge in un altro testo capitale, le Disputationes adversus astrologiam divinatricem. Su questo sfondo Garin opera una rigorosa storicizzazione del De incantationibus in due direzioni: da un lato, lo interpreta alla luce del problema della causalità che attraversa tutta quella discussione, coinvolgendo anche il problema delle religioni, del loro nascere e del loro morire; dall’altro, sottolinea come il dialogo tra Pomponazzi, Pico ed anche Ficino concluda,non apra,un intero periodo storico, perché successivamente i problemi saranno impostati in altri termini: «di fondazione della scienza; di fondazione della astronomia come scienza; di filosofia della storia e delle società umane».
Uno dei meriti principali del lavoro della Perrone Compagni è precisamente quello di sviluppare ed arricchire questo approccio rigorosamente storico, con un ampio apparato di note, oltre che con l’Introduzione già citata, tenendo fermo un punto essenziale: scopo del testo di Pomponazzi è spiegare «scientificamente» tutta la realtà naturale, eliminando le presenze e l’intervento dei demoni su cui aveva fatto perno la letteratura inquisitoriale, impedendo una corretta comprensione del mondo.
«Corpora coelestia...universum gubernant et conservant», scrive Pomponazzi, e questo riguarda anche le religioni, le quali nascono, si sviluppano, e muoiono, come sta accadendo, a suo giudizio, anche al cristianesimo. Ciò si può capire da un fatto preciso: quando una nuova religione sorge, essa è accompagnata da grandi prodigi e miracoli, i quali hanno una causa naturale; mentre quando una religione tramonta e finisce, i miracoli vengono meno e le preghiere non hanno più effetto, a conferma che un ciclo è ormai definitivamente compiuto. Anche la vicenda delle religioni è dunque determinata dalle stelle, come ogni evento umano: qualsiasi fenomeno, anche il più strano e singolare, può essere spiegato su basi razionali, attraverso cause naturali. Il che non toglie, ritornando alle religioni, che esse possano svolgere una funzione educativa nella società, configurandosi come strumento per governare i popoli rozzi ed ignoranti. È per questo che sono stati introdotti angeli e demoni: per spingere il volgo verso il bene e allontanarlo dal male. Favole di cui i sapienti non hanno bisogno.
Che un testo così netto e radicale abbia suscitato polemiche e violente discussioni non stupisce; il De incantationibus è uno dei contributi più importanti alla costruzione - dura e faticosa - delle «libertà dei moderni», attraverso un approccio scientifico di tipo naturale alla realtà imperniato sul paradigma astrologico. In questo senso, è, effettivamente, un capolavoro della scienza rinascimentale, che, come si vede anche dai pochi testi citati, è però altra cosa dalla scienza moderna. Concetto che si potrebbe ribadire per altri grandi protagonisti del Rinascimento - da Bruno a Campanella. Se c’è oggi un lavoro da svolgere, è proprio quello di sganciare questi autori dalle genealogie costruite dai “moderni”, considerandoli nella loro autonomia e specificità. Tra gli altri meriti, questa traduzione commentata del De incantationibus ha anche quello di andare in questa direzione.
Pietro Pomponazzi, Le incantazioni , Introduzione, traduzione e commento a cura di Vittoria Perrone Compagni, Edizioni della Normale, Pisa,
pagg. 363 € 25

Il Sole Domenica 29.5.16
Cent’anni di Corea di Huntington
Un gene colpito dai pregiudizi
Nel 1916 veniva pubblicato lo studio che dimostrava le basi ereditarie di una malattia fortemente stigmatizzata e poi oggetto di persecuzioni eugeniche
di Gilberto Corbellini

Dall’1 al 10 giugno l’Associazione Italiana Corea di Huntington (AICH) Milano Onlus organizza nel capoluogo lombardo, ma anche in altre città, eventi scientifici pubblici e iniziative di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia genetica che più di ogni altra ha condizionato l’immaginario, e influenzato il pregiudizio e la discriminazione sociale delle malattie ereditarie.
Proprio quest’anno ricorre il centenario dalla pubblicazione dello studio che dimostrava le basi ereditarie della malattia, e allo stesso tempo dava origine a una campagna di propaganda sociale che per decenni trasformava la malattia in uno stigma, e i malati in pazzi e bruti di cui la società doveva liberarsi. Lo studio di Davenport del 1916, intitolato «Huntington’s Chorea in Relation to Heredity and Eugenics», era il risultato della prima ricostruzione su larga scala, eseguita con Elizabeth B. Murcey, di alberi genealogici che includevano 12 generazioni di discendenti da soggetti affetti da malattia di Huntington nello stato di New York e nel New England.
La corea di Huntington (HD) era stata descritta nei primi decenni dell’Ottocento e in modo clinicamente ben definito da George Huntington nel 1872. I risultati di Davenport e Murcey confermarono la trasmissione autosomica dominante, dimostrando come numerose persone affette discendessero da pochi progenitori. Sedici anni dopo, lo psichiatra americano Percy R. Vessie usò quegli alberi genealogici per risalire alle origini della malattia sul suolo statunitense, imputandola a tre uomini emigrati con le loro mogli nel 1632 in America, dal villaggio di Bures St. Mary, nella contea del Suffolk, in Inghilterra. In questi luoghi era diffusa la stregoneria e le donne furono perseguitate per i loro movimenti coreici e i comportamenti anomali. Sembrava che i tre discendessero, a loro volta, da un progenitore comune, Mary Haste, e avevano dato origine alla più vasta comunità di persone affette negli Stati Uniti.
La comunità più numerosa di malati di HD si trova in Venezuela, nei pressi del lago Maracaibo, sebbene esistano sacche di alta incidenza in aree geografiche isolate, come la Tasmania, ma anche nelle isole Mauritius. Lo studio della comunità venezuelana ha consentito di spiegare la genetica molecolare della malattia e solo per questo meriterebbero di essere compensati e non discriminati. Gli ingenti investimenti nella ricerca hanno portato ai test genetici e stanno preparando l’arrivo di terapie geniche per i malati del mondo sviluppato, mentre i poveri malati venezuelani non hanno e si teme non avranno accesso a benefici medici.
La HD divenne dopo il 1916 rapidamente il modello di patologia ereditaria, peraltro con manifestazioni comportamentali socialmente disturbanti, da usare per sensibilizzare l’opinione pubblica circa la validità e praticabilità delle dottrine eugeniche. Non fu un caso che Davenport, il quale insieme a Harry Laughlin fu il principale esponente del pensiero eugenico statunitense, avesse scelto di studiare la HD. Con le sue descrizioni, egli influenzò le politiche eugeniche che si diffusero negli anni successivi in numerosi stati federati degli Stati Uniti. Queste prevedevano, ad esempio, una selezione degli immigrati, e Davenport giudicava «un’opera di lungimirante filantropia sterilizzare tutti quelli che hanno già sviluppato la corea cronica e assicurare che come la loro progenie manifesti precocemente i sintomi non dovrà riprodursi». Numerosi stati federali negli USA adottarono leggi per la sterilizzazione obbligatoria, soprattutto dopo che la Corte Suprema approvò nel 1927 la legislazione che in Virginia la prevedeva per diverse condizioni, ma non per la HD. Nella Germania nazista, invece, la malattia era una delle nove che rendevano una persona idonea alla sterilizzazione obbligatoria secondo la legge del 14 luglio 1933. Solo i soggetti affetti erano inclusi, ma gli altri membri familiari dovevano essere controllati.
Le pubblicazioni di Davenport e Vessie rimasero a lungo dei testi di riferimento per la HD, influenzando la percezione culturale e la descrizioni mediche, cioè contribuendo ad alimentare la stigmatizzazione. Non furono i soli. Anche un giovane neurologo inglese, MacDonald Critchley, nel 1934 sosteneva che tutti i membri delle famiglie in cui era presente la malattia si sarebbero dimostrati «tendenti a manifestare sintomi di tracce esageratamente psicotiche, e la storia di demenza, insania, suicidio, criminalità, di dipendenza da alcol e droga si presenta ancora e ancora».
Dopo la seconda guerra mondiale genetisti del livello di James V. Neel difesero questa linea di pensiero. Nel 1969 Thomas H. Gilmore e Mary B. Hans scoprivano che la donna accusata di stregoneria, di cui parlava Vessie, non era l’antenata dei tre uomini emigrati da Bures St. Mary. Inoltre, Alice Wexler, sorella della genetista Nancy Wexler a cui si deve la creazione del consorzio che scoprì il gene implicato nella malattia, condusse ricerche mirate, trovando che gli atteggiamenti disdicevoli di cui erano accusati i tre uomini e i loro discendenti consistevano in proteste politiche, blasfemia e episodi di ubriachezza.
L’insegnamento più importante che viene dalla storia della HD è che la stigmatizzazione di cui sono stati a lungo oggetto i malati è andata scomparendo con l’avanzare delle conoscenze scientifiche. C’è voluta la scienza per disinnescare la cattiveria umana nei confronti di questi malati. Né la religione, né l’etica, né la politica, etc, erano riuscite a far nulla. L’avanzamento delle conoscenze scientifiche ha dimostrato che gli studi orientati da ideologie eugeniche non erano fondati, che usavano le osservazioni per giustificare pregiudizi. Essi partivano dall’idea che le varianti genetiche patologiche fossero prive di interesse conoscitivo, e da eliminare sulla base di un completo fraintendimento della teoria darwiniana dell’evoluzione.
La malattia di Huntington ha mobilitato una cooperazione scientifica internazionale senza precedenti per una malattia genetica rara, dove il cemento intellettuale è stata la passione e la dedizione per la ricerca di base. Uno sforzo premiato con successi di portata storica. La comunità scientifica, e chi pianifica la politica della ricerca biomedica dovrebbero guardare a questa impresa umana come a un esempio cui ispirarsi.

il manifesto Alias 29.5.16
Ultimi vennero i polacchi
Storia. Già accusato di lesa nazione, Jan Tomasz Gross documenta, con Irena Grudzinska Gross, i saccheggi dei lager e le vessazioni sugli ebrei da parte di una popolazione anch'essa vittima dei tedeschi: «Un raccolto d'oro», Einaudi
di Valentina Pisanty

Chi si fosse chiesto perché Art Spiegelman, in Maus, abbia rappresentato i polacchi come porci (peggio, no?, che i tedeschi come gatti) lo capirà leggendo Un raccolto d’oro Il saccheggio dei beni ebraici di Jan Tomasz Gross e Irena Grudzinska Gross, docenti di Princeton emigrati dalla Polonia nel 1968. Non è un fumetto, non racconta lo sterminio dalla prospettiva di un’unica famiglia, non ricorre all’espediente del testimone secondario, sconvolto dal trauma del sopravvissuto; ma con Maus il saggio dei Gross condivide l’ambientazione (la Polonia occupata), la tipologia dei personaggi (il triangolo ebrei-nazisti-polacchi) e soprattutto la cornice interpretativa, in stridente contrasto con le narrazioni auto-assolutorie della Polonia post-bellica (a scuola raccontano che i polacchi aiutavano gli ebrei a salvarsi).
«Sono quei nazisti a incitare la gente!», si difende la domestica polacca di Vladek e Anja Spiegelman alla notizia di una sommossa antisemita patrocinata dalla polizia locale. «Se si tratta di ebrei non c’è molto da incitarli, i polacchi!», risponde Anja. Altrettanto severo è il giudizio storico dei Gross. Già dalla fotografia da cui trae avvio l’analisi – una sorta di foto-ricordo, probabilmente scattata nei dintorni di Treblinka nell’immediato dopoguerra – l’attenzione è indirizzata verso un particolare sconcertante. I soggetti, un gruppo di contadini e contadine della Masovia, hanno l’aria di chi ha concluso proficuamente una giornata di lavoro; vanghe in mano, si dispongono su due file in posa per lo scatto, un po’ impacciati, mentre otto soldati in divisa si uniscono alla compagnia, al lato, come se avessero collaborato alle attività del giorno. Ma – è questo il particolare sconcertante – ai piedi della comitiva, là dove ci si aspetterebbe di vedere il raccolto, balugina un mucchio di ossa e di teschi umani. Dato il luogo, non è difficile intuire a chi appartengano i resti, e immaginare le ragioni del loro disseppellimento: con ogni probabilità i contadini cercavano i denti d’oro e altri preziosi sfuggiti ai nazisti.
Il saccheggio dei lager dismessi è una pratica ampiamente documentata dalle testimonianze dell’epoca. «Una volta arrivati sul posto, abbiamo constatato che là dove prima sorgeva il lager c’era ora un campo tutto pieno di scavi e di solchi a opera della popolazione locale», scrissero Michal Kalembasiak e Karol Ogrodowczyk in un rapporto del 13 settembre 1945. Nel corso di un’indagine sui crimini tedeschi Rachela Auerbach registrava un’analoga testimonianza, mentre definiva Treblinka «il Colorado polacco». Altri documenti riportano le parole degli scavatori stessi, stupiti per l’accusa di furto dal momento che alla febbre dell’oro ebraico partecipavano tutti, alla luce del sole, inclusi alcuni soldati sovietici.
La ricostruzione procede a ritroso nel tempo per capire da dove scaturisse la serafica ammissione di una fattispecie di reato che, dalla distanza di sicurezza che ci separa dagli eventi, appare particolarmente infame.
L’elenco dei misfatti è impressionante: dal mercato nero all’interno dei campi – dove le guardie spacciavano la roba sottratta alle vittime in cambio di vodka, cibo e prestazioni sessuali fornite dalle popolazioni locali – al commercio di secchi d’acqua venduti a peso d’oro ai deportati ancora chiusi nei vagoni in arrivo, sfiniti dal viaggio e in procinto di essere mandati nelle camere a gas; dalle delazioni ai ricatti e alle estorsioni cui venivano sottoposti gli ebrei nascosti (spesso a pagamento) nelle campagne e nelle città; dai saccheggi di negozi e di abitazioni ebraiche alle battute di caccia nei boschi, fino all’eccidio di intere famiglie, talvolta con la collaborazione della polizia e dei vigili del fuoco.
In uno degli episodi meno truci, tra quelli riportati nel libro, Chaja Finkelsztajn racconta di come, subito prima del pogrom di Radzilow, una vicina di casa le suggerì di darle le sue cose migliori, visto che di lì a poco non le sarebbero più servite.
Una richiesta frequente, a quanto pare, generalmente seguita da reazioni sdegnate da parte dei postulanti quando le vittime si rifiutavano di collaborare alla propria spoliazione.
«Peggio dei tedeschi», commentano molti ebrei (incluso Vladek Spiegelman) nel rievocare simili vessazioni. Chiaramente non è vero: nulla è peggio dello sterminio realizzato su base industriale. Tuttavia si capisce da dove nasca questo giudizio, iperbolico solo in quanto l’altro termine di paragone – l’efferatezza nazista – eccede qualsiasi scala di valori. Tenuto conto che l’unica possibilità di salvezza per i singoli ebrei passava attraverso la collaborazione delle popolazioni locali (dopotutto si trattava di un paese invaso da un nemico comune), il tradimento dei vicini di casa doveva risultare oltremodo doloroso, specie alla luce della meschinità dei suoi moventi.
Com’è stato possibile che interi villaggi partecipassero a massacri come i «casi d’agosto» del 1944, quando 250 persone furono accusate dell’uccisione di centinaia di ebrei clandestini per mezzo di armi da fuoco, asce e paletti di legno? Ed è solo la punta dell’iceberg, vista la riluttanza nazionale – anche dopo la guerra – a perseguire quel tipo di crimini. «Non è il numero delle vittime, ma quello degli assassini che ha un significato eloquente», osservano i Gross. Un sostrato di pregiudizio antigiudaico, alimentato dalle consuete accuse di deicidio, di rapacità economica e di attitudine alla cospirazione, giustificava tanto le azioni più sanguinarie quanto i reati contro il patrimonio, che alcuni motivavano con argomenti patriottici (meglio a noi che ai nazisti), nella convinzione diffusa e a malapena sottaciuta che, almeno sul piano della degiudeizzazione, i tedeschi avessero fatto un favore alla Polonia.
Secondo l’interpretazione ufficiale, le violenze antiebraiche furono eccezioni, comportamenti devianti acuiti dal caos della guerra. Diversa la lettura suggerita da Un raccolto d’oro. Pur riconoscendo che non si trattò di fenomeni esclusivamente polacchi (Ucraina e Lituania non furono da meno), e pur mantenendo aperto il computo comparativo di vittime, carnefici e Giusti (perché, sì, in mezzo a tanti obbrobri c’era anche chi aiutava gratuitamente gli ebrei a nascondersi), i Gross insistono sul carattere sistemico e culturalmente normato di queste pratiche, talmente radicate nella storia del paese – complice una Chiesa in larga parte accondiscendente – da impedire che oggi se ne possa discutere senza incorrere in sanzioni.
Già nel 2001, quando uscì I carnefici della porta accanto (Mondadori 2002) sul pogrom degli ebrei di Jedwabne nel 1941, Jan Gross si era trovato al centro di un tesissimo dibattito nazionale. Da una parte la discussione inaugurò un nuovo filone di ricerche, confluite nella creazione del Centro di Studi sull’Olocausto in Polonia. Ma dall’altra ravvivò antichi rancori, destinati a infoltire il fronte catto-nazionalista, ostile a qualsiasi indagine che mettesse in dubbio il racconto eroico di un paese resistente e vittimizzato. Gross fu accusato di tradimento e sottoposto a campagne d’odio (migliaia di lettere inviate al Presidente per chiedere che gli venisse tolta l’onorificenza di cui era stato insignito nel 1996 in virtù della sua passata militanza antisovietica). Di lì a poco Diritto e Giustizia, il partito dei gemelli Kaczynski nel frattempo salito al potere, varava nuove leggi della memoria a tutela della reputazione nazionale. I paragoni col negazionismo di Stato in Turchia non sono fuori luogo.
C’è una coda a questa vicenda. Nel settembre del 2015 Gross pubblicò un articolo sull’egoismo dell’Europa orientale nei confronti dei migranti. Tra i paesi refrattari all’accoglienza figurava la Polonia, inizialmente disposta a ricevere 2000 rifugiati, purché cristiani. Una parte consistente dell’opinione pubblica insorse con toni decisamente xenofobi. Da dove veniva quella nuova ondata di intolleranza? Secondo Gross essa era il sintomo di una mancata elaborazione del Trauma, lo strascico lungo di una colpa storica negata. E sebbene, a riprova della sua buona volontà europeista, la Polonia sia stata tra i primi paesi a istituire leggi anti-negazioniste simili a quelle che purtroppo stanno per essere approvate in Italia, c’è un nesso tra l’attuale populismo vittimistico e gli sfoghi razzisti di cui si legge in Un raccolto d’oro.
L’articolo venne ripreso da Die Welt che diede rilievo all’osservazione secondo cui «i polacchi, giustamente orgogliosi della loro resistenza anti-nazista, in effetti uccisero più ebrei che tedeschi durante la guerra». Per le autorità era davvero troppo. In base alle leggi vigenti, Gross fu accusato di lesa nazione, reato passibile di una condanna sino a tre anni di reclusione. Il monito che se ne ricava è chiaro: mai lasciare che lo stato decida cosa e come è giusto ricordare. La storia cura, la memoria ammala.

il manifesto 29.5.16
"Emergenza" di Maurizio Ferraris
Proprio ciò che in apparenza ci porta lontano da noi ci dice quel che siamo
Filosofia. Per emanciparci, anzitutto dalla nostra «servitù volontaria» non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, ma azioni esemplari
di Stefano Velotti

Nonostante siano passati quasi vent’anni dalla prima pubblicazione di Estetica razionale, il libro in cui Maurizio Ferraris fece confluire quello che era stato il suo maggior sforzo teorico, il nucleo filosofico allora esplorato fa emergere nuovi aspetti ancora sommersi in quelle magmatiche condizioni iniziali: non a caso si intitola Emergenza (Einaudi, pp. 127, euro 12,00) il suo ultimo libro, da intendersi non tanto nel senso di «pericolo» o «eccezione», ma anzitutto come quel che emerge dalla realtà al di fuori del nostro controllo intenzionale e consapevole.
Tra le due accezioni di «emergenza», però – nota Ferraris – «c’è una continuità di fondo: che cos’è un’emergenza se non un evento che accade rivelando la possibilità dell’impossibile? E che cosa è più emergente del reale, che rompe i giochi del possibile e si presenta con una nettezza imprevista, con minacce o con risorse immaginarie?». Solitamente, le proprietà emergenti vengono intese, grosso modo, come proprietà di certi sistemi (naturali o sociali) che emergono dall’interazione complessa di un numero enorme di elementi di base, ma che non sono riconducibili al loro comportamento. Se è così, un cambiamento negli elementi di base sarà correlato a un cambiamento nella proprietà emergente considerata (se altero significativamente i neuroni del cervello di una persona, ne altero verosimilmente anche la coscienza o la mente), senza che però si riesca a fornire una vera e propria spiegazione, secondo leggi note, di questa correlazione.
Ferraris ne è ben consapevole, e dichiara dunque fin da subito che questo libro è «speculativo», procede per barlumi, e se avessimo una mente infinitamente superiore a quella umana, allora succederebbe che, come nella poesia di Raboni, «Lentamente come/risucchiati all’indietro da un’immensa/moviola ogni cosa riavrà il suo nome,/ogni cibo apparirà sulla mensa».
Ferraris professa uno stretto nominalismo (gli universali – i concetti, i generi in cui raggruppiamo le cose – non hanno una loro realtà, sono semplici nomi: reali sono solo gli individui), e considera tutto il mondo (la totalità degli individui) come «il risultato di un’emergenza che non dipende dal pensiero né dagli schemi concettuali, sebbene questi possano ovviamente conoscerlo». È come se la teoria dell’evoluzione fosse estendibile a ogni produzione: dati un numero immenso di individui, certe forze, e un tempo sconfinato a disposizione, non c’è bisogno di postulare piani, disegni, intenzioni, decisioni perché l’iterazione di certe interazioni tra individui può far emergere di tutto.
Il libro è diviso in tre parti, secondo tre regioni di emergenza fondamentali, in cui la dimensione subordinata è condizione di possibilità di quella successiva: 1. l’ontologia (quello che c’è, e che è costituito dall’interazione degli individui); 2. l’epistemologia (quello che sappiamo, e che emerge, se emerge, dall’ontologia); 3. La politica (quello che facciamo «come agenti liberi o presunti tali»). Forse le novità più rilevanti, rispetto agli altri libri di Ferraris, si evidenziano nel terzo campo di emergenza, la politica. Sulle prime due, molte sarebbero le cose da discutere proficuamente. Faccio un solo esempio, riguardo all’ontologia: Ferraris ha sempre insistito sulla «inemendabilità del reale»: «il fatto che (…) il pensiero non sia in grado di emendare le illusioni percettive significa che il sapere non riesce a intervenire sul piano dell’essere, e che dunque quest’ultimo è indipendente dal primo».
Mentre condivido l’idea che si possa parlare legittimamente di contenuti percettivi non concettuali e che ci siano molti sensi in cui l’essere non dipende dal pensiero, confesso che non ho mai capito bene la forza di questa argomentazione in favore della inemendabilità del reale. Prendiamo l’illusione della cascata: sappiamo che se guardiamo a lungo una cascata e poi spostiamo lo sguardo sulle pareti di roccia tra cui l’acqua precipita, queste pareti sembrano salire verso l’alto. A me sembra che ciò dimostri certamente «l’inemendabilità» di certi nostri meccanismi neuronali, ma non quella della realtà: semmai, per essere colta come tale (una roccia reale, su questa terra, non ascende autonomamente al cielo), ha bisogno di una «correzione» concettuale. Continuerò a vederla salire, ma riconoscendola come roccia non la userò come un ascensore. In questo caso, non è forse necessario l’intervento di un concetto («l’epistemologia») per dirmi che sono davanti a una roccia e non a un ascensore naturale?
Veniamo alla politica, intesa comunemente come l’arena delle intenzioni comuni o conflittuali, dei piani e delle decisioni, del tentativo di controllare e dirigere la nostra convivenza. È vero che oggi ne vediamo tutta la debolezza, e sono sempre più convinto che il controllo e l’autocontrollo ossessivi (sorveglianze, tracciabilità, automonitoraggi) siano solo l’altra faccia di una perdita di controllo percepito come irrimediabile (automatismi, dipendenze, attacchi di panico): in mezzo, niente, o quasi.
Se ciò è vero, forse la proposta teorica di Ferraris può essere letta come un tentativo di incunearsi tra quei due estremi: se i concetti e le norme sembrano emergere da una «dialettica dell’esempio» (una parte molto interessante dell’epistemologia, che andrebbe discussa a lungo, secondo cui esiste una tensione e una circolazione che lega l’esempio come caso ordinario a quel che è esemplare in quanto straordinario), anche dal punto di vista politico «l’esempio viene prima della norma e la costituisce». Se vogliamo emanciparci – innanzitutto dalla nostra «servitù volontaria» – non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, sostiene Ferraris, ma azioni esemplari, come quella del politico bulgaro Pesev, che, nel 1943, con una semplice lettera evitò la deportazione di decine di migliaia di ebrei. La conclusione che Ferraris trae da questo e altri esempi è che «le reazioni esemplari sono reazioni, non potrebbero esercitarsi se non di fronte a una certa resistenza», sono «generalmente agite prima che capite, e il loro significato si presenta post factum».
Credo che qui Ferraris tocchi un punto nevralgico dell’azione etica e politica, che riguarda il meccanismo in cui si produce qualcosa che avrà, a lungo termine, conseguenze che non possono derivare dalle intenzioni dell’agente, e che tuttavia potrebbero essere altamente desiderabili. Come se si trattasse, paradossalmente, di voler produrre intenzionalmente una «eterogenesi dei fini», vale a dire ciò che sfugge per definizione a ogni intenzione, senza chiamare in cause «mani invisibili» o «provvidenze» di qualche genere.
Resta il dubbio che la facoltà di giudicare, di riflettere, giochi una sua parte essenziale nel momento della decisione – e proprio l’esempio di Pesev sembra richiederla – pur nell’incertezza delle conseguenze. Una «dialettica dell’esempio» sembra richiedere allora di essere inserita in una «dialettica del controllo»: tra i due estremi complementari degli automatismi ciechi e incontrollati, e l’illusione di pianificare e padroneggiare autonomamente ogni azione, le «emergenze» esemplari occuperebbero così un posto imprescindibile, ma non esclusivo.