giovedì 22 settembre 2016

Corriere 22.9.11
Ruini: «L’aldilà c’è e io mi preparo Pregai tanto per Welby»
intervista di Aldo Cazzullo

Il cardinale Camillo Ruini, già presidente della Cei, nel suo libro «C’è un dopo?» esplora fede e scienza. Con una certezza: «L’aldilà esiste».
Cardinale Ruini, il suo nuovo libro si intitola «C’è un dopo?», con il punto interrogativo. Questo significa che neppure lei è assolutamente certo che «un dopo» ci sia?
«Personalmente sono certo. Ma mi rendo conto che questa certezza è un dono di Dio, e che nel contesto culturale di oggi può essere difficile raggiungerla».
Lei cita gli studi di Moody e van Lommel sulle esperienze tra la vita e la morte. Le considera la conferma empirica che dopo c’è davvero qualcosa?
«Si tratta di esperienze ben documentate. Dimostrano che in qualche caso, molto raro, si può tornare in vita dopo la “morte clinica”, cioè dopo che, per pochi istanti, l’encefalogramma era diventato piatto. La morte è però un processo, che raggiunge il suo stadio definitivo solo quando il cervello ha perduto irrimediabilmente le proprie funzioni: a quel punto nessuno ritorna indietro. Non ci sono quindi conferme empiriche di un “dopo”. Quelle esperienze ci dicono comunque che è sbagliato ridurre l’autocoscienza ai neuroni e alla loro attività».
Poi il libro ricostruisce la discussione sull’anima, da Tommaso alle neuroscienze. È possibile secondo lei accertarne razionalmente l’immortalità?
«Non penso che sia possibile accertare con la sola ragione l’immortalità dell’anima. A mio parere si può accertare però che l’uomo ha un’anima non materiale: altrimenti non si spiegherebbero la nostra capacità di conoscere ciò che è universale e necessario, e la nostra libertà».
Il cristianesimo però parla non solo di immortalità dell’anima, ma di risurrezione della carne. Lei come la concepisce?
«Direi di più: il cristianesimo parla anzitutto della risurrezione. Solo nella risurrezione il soggetto umano trova il suo pieno compimento. L’immortalità dell’anima è però indispensabile perché la risurrezione abbia un senso: se qualcosa di me non rimanesse dopo la morte, la risurrezione sarebbe una nuova creazione, che non avrebbe con me alcun rapporto. Riguardo al modo di esistere dei risorti, possiamo dire due cose: la risurrezione è qualcosa di reale, non solo una nostra idea; ma non è qualcosa di fisico, non è un ritorno alla vita di questo mondo».
In attesa dell’ultimo giorno, dove andiamo? Lei evoca san Paolo, secondo cui saremo «con Cristo» subito dopo la morte. Ma come?
«Saremo con Cristo, e con Dio Padre, in quanto parteciperemo alla loro vita, saremo conosciuti e amati da loro e a nostra volta li conosceremo e ameremo: non come adesso nel chiaroscuro della fede, ma direttamente nella loro sublime realtà».
Che cosa sappiamo davvero dell’aldilà?
«Nella sostanza l’aldilà è Dio stesso: il mistero che ci supera infinitamente. Sarebbe una grossa ingenuità pretendere di poter fare una descrizione anticipata del futuro che ci attende, come se ne avessimo già avuto esperienza. Dell’aldilà possiamo parlare, in qualche modo, solo a partire dal presente, da ciò che portiamo dentro di noi e viviamo in questo mondo: soprattutto a partire da Gesù Cristo, vissuto, morto e risorto per noi. È lui la via di accesso al mistero di Dio e della nostra sorte eterna».
Lei ha assistito molte persone giunte al passo d’addio. Come si muore?
«Si muore in tanti modi, che dipendono da quello che siamo nel profondo e dal genere di persone che ci sono vicine; oltre che, naturalmente, dalla nostra maggiore o minore solidità psichica e dal tipo di infermità che ci conduce alla morte. Mescolata a tutti questi fattori gioca però un grande ruolo anche la fede in Dio e nella vita eterna. Rimane vera cioè la parola di san Paolo: i cristiani sono coloro che hanno speranza. L’ho verificato tante volte negli altri, e incomincio a verificarlo dentro di me».
Lei definisce l’inferno «una possibilità concreta e tragica». Non è vero quindi che l’inferno è vuoto, come si augurava von Balthasar?
«Von Balthasar se lo augurava, non pretendeva di saperlo. Che l’inferno sia una possibilità concreta ce lo ha detto anzitutto Gesù Cristo: non possiamo pensare che Gesù scherzasse quando ammoniva che la via verso la perdizione è spaziosa, mentre è angusta quella verso la vita. Non è detto però che degli esseri umani siano effettivamente dannati: possiamo e dobbiamo sperare di salvarci tutti; ma deve essere una speranza umile, che non presume di noi stessi e si affida alla misericordia di Dio».
Il paradiso lei come se lo immagina?
«In estrema sintesi, il paradiso è l’essere per sempre con Dio in Gesù Cristo, e secondariamente con i nostri fratelli in umanità».
L’inferno?
«L’inferno, al contrario, è solitudine assoluta, chiusura definitiva a Dio e al prossimo».
E il purgatorio?
«Il purgatorio è gioia grandissima di essere amati da Dio, e al tempo stesso è sofferenza che, nell’incontro con Cristo, ci purifica dalle nostre colpe».
Qual è la sorte dei bambini morti senza battesimo?
«La Sacra Scrittura non si pone questa domanda. Nel medioevo si affermò la dottrina del limbo, secondo la quale i bambini morti senza battesimo restano privi dell’unione immediata con Dio ma godono di quell’unione con lui che ci appartiene per natura. Oggi però, quando speriamo la piena salvezza anche per i peggiori peccatori, diventa insostenibile escluderne i bambini che sono morti senza colpe personali, non avendo ancora l’uso della ragione. Oggi è questo l’insegnamento della Chiesa».
Come si immagina, tra molto tempo s’intende, la sua vita dopo la morte?
«Alla morte e al dopo penso spesso, se non altro perché il mio declino fisico si incarica di ricordarmeli. Cerco di prepararmi pregando di più ed essendo un po’ più buono e più generoso. Soprattutto mi affido alla misericordia di Dio. Per il “dopo” spero di essere accolto nel mistero di amore di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e di ritrovare tutte le persone che mi hanno amato in questo mondo — a cominciare dai miei genitori — ma anche tutti coloro che ho conosciuto, vivi per sempre nella grande famiglia di Dio. Dato che la curiosità intellettuale non mi ha ancora abbandonato, confido inoltre di scoprire in Dio il senso di tutta la realtà».
E come vorrebbe essere ricordato?
«Come una persona semplice, con un forte e forse eccessivo senso del dovere, che ha cercato di servire il Signore e che non ha odiato nessuno».
C’è qualche errore, almeno uno, che ritiene di aver commesso?
«Di errori ne ho fatti molti, a cominciare dai miei tanti peccati, e chiedo di cuore perdono a Dio e al mio prossimo. Nelle responsabilità che ho avuto un errore è stato il fidarmi troppo di me stesso».
Spesso le viene rimproverato il caso Welby, il rifiuto del funerale.
«Negare a Piergiorgio Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, che ho preso perché ritenevo contraddittoria una scelta diversa. Su questo non ho cambiato parere. Ho comunque pregato parecchio perché il Signore lo accolga nella pienezza della vita».
Quale immagine porterà con sé dei Papi che ha conosciuto da vicino? Wojtyła, Ratzinger, Bergoglio?
«Karol Wojtyła è il grande santo che ha cambiato in profondità la mia vita: l’immagine che ne ho è quella di un’umanità straordinariamente cresciuta nella luce di Dio. Anche a Joseph Ratzinger devo tanto: vedo in lui un grande maestro, non solo del pensiero ma del rapporto con Dio, e una persona estremamente gentile che mi onora della sua amicizia. Con Jorge Mario Bergoglio ho, logicamente, un rapporto minore perché è diventato Papa quando ero già emerito: è un uomo di profonda fede, che spende tutto se stesso».
Ma questo Papa sta facendo il bene della Chiesa?
«Il bene che fa alla Chiesa, e all’umanità, è sotto gli occhi di tutti: non vederlo significa essere prigionieri delle proprie idee e anche dei propri pregiudizi. Personalmente prego il Signore perché l’indispensabile ricerca delle pecore smarrite non metta in difficoltà le coscienze delle pecore fedeli».