sabato 16 gennaio 2016

il manifesto 16.1.16
Sean Penn, «volevo parlare della guerra alla droga, ho fallito lo scopo»
Usa. L'attore rompe il silenzio in tv dopo lo «scandalo» dell’intervista a «El Chapo»
di Cristina Piccino

Ho fallito. Lo ha ripetuto spesso Sean Penn nel corso di 60 Minutes al conduttore del programma, Charlie Rose. Sono le prime parole pubbliche dell’attore dopo l’intervista, uscita la scorsa settimana su Rolling Stones  a Joaquín «El Chapo» Guzmán, il boss del narcotraffico messicano arrestato giorni fa, al momento del loro incontro ancora latitante.
La fotografia scelta per illustrarla mostrava lui, Penn, la star americana stringere la mano a «El Chapo» dopo una lunga conversazione: diecimila battute circa di parole scambiate con l’uomo più ricercato del mondo. Reazioni indignate, critiche feroci, l’immediata azione (Penn è stato messo sotto inchiesta) delle autorità messicane che certo non ne uscivano benissimo dalla vicenda.
Ma come, mentre loro lo cercavano da mesi con imponente caccia all’uomo, Penn riusciva ad arrivare indisturbato al suo nascondiglio? Inoltre l’intervista era il risultato di un incontro di sette ore seguito da scambi via e mail criptata e ponti telefonici. Tono molto personale, digressioni con cui a un certo punto paragona El Chapo a Tony Montana/Al Pacino in Scarface di Brian De Palma), il testo di Penn rimanda abbastanza esplicitamente alla tradizione di gonzo giornalismo e ha molte più sfaccettature di quello che è stato sottolineato.
Strumentalizzazione mediatica? Certamente ma non solo. «L’intervista non è riuscita a centrare l’obbiettivo per cui era stata pensata, ovvero produrre una riflessione sulla guerra alla droga» ha detto Penn. E ha aggiunto: «Il clamore che si è scatenato intorno a questo articolo ha completamente rimosso il suo scopo originario. Quello che mi interessava veramente era parlare della guerra alla droga, di cosa significa, della sua importanza. Invece non se ne è fatto neppure un accenno, l’incontro con Guzman è diventato il centro di ogni discussione. Questo vuol dire che l’articolo era sbagliato».
Alla domanda di Rose, se pensa di essere stato strumentalizzato dalle autorità messicane, Penn ha risposto seccamente: «Sì» . I messicani infatti hanno lasciato intendere che Penn è stato di grande aiuto per arrivare al «Chapo». Replica dell’attore: «Sulla visita che io e i miei colleghi abbiamo fatto a Guzman è stata costruita una mitologia. Dire che sono stato essenziale per la sua cattura è assurdo. Noi lo abbiamo visto molte settimane prima, il 2 ottobre e in un posto lontano da dove poi lo hanno arrestato».
Non è questione di paura, perché lui non ne ha — «non temo per la mia vita» ha detto. Ma, appunto, di priorità. «Il governo messicano ha cavalcato la cosa per coprire la sua umiliazione Come giustificare infatti agli occhi del mondo il fatto che mentre loro continuavano a cercarlo invano persino io sono riuscito a trovare Guzman?».
Il vero rimpianto di Penn però è che alla fine tutto questo non è servito a nulla. L’effetto provocato dall’intervista ha completamente oscurato il cuore della questione: la guerra alla droga.
«Mettiamo tutta la nostra energia, la nostra concentrazione, i nostri bilioni di dollari su un’cattivo ragazo’, e che cosa accade? Il giorno dopo ci sarà un altro morto e un altro ancora nello stesso modo».
«Proviamo a guardare il problema da una prospettiva più ampia. Tutti noi vogliamo la stessa cosa, che il dramma della droga finisca. Siamo consumatori, che siate d’accordo o no con Sean Penn questo significa una forma di complicità. E invece quanto tempo abbiamo dedicato dalla scorsa settimana a parlare di questo? A essere generosi forse l’%»
Il Sole 16.1.16
La «Banca mondiale» che parla cinese
di Rita Fatiguso

Prende il via l’istituto per le infrastrutture e gli investimenti che sarà guidato da Jin Liqun
«Le cose che non ci piacciono possono essere utili». Questa è la filosofia di vita del presidente designato dell’Asian infrastructural investment bank, il cinese Jin Liqun. Ex allievo della prestigiosa università di lingue Beiwai, appena un mese fa ha rivelato durante un discorso in Ateneo che avrebbe preferito rimanere per insegnare l’inglese ma fu spedito, invece, negli Stati Uniti, proprio dal Rettore dell’università.
Dando prova di una grande capacità di adattamento Liqun se ne fece una ragione, cambiò mestiere e dopo l’investitura ufficiale oggi è atteso alla sua prova più grande, quella di guidare la Banca multilaterale per gli investimenti infrastrutturali in Asia che, a differenza di quelle esistenti, è stata creata a Pechino su impulso di Paesi in via di sviluppo, ai quali la Cina continua a sentirsi più affine. La domanda di infrastrutture in Asia è stata stimata, in uno studio dell’Asian development bank, la banca concorrente, in circa 800 miliardi di dollari l’anno. Le banche multilaterali di sviluppo (Mdb), tutte insieme, finanziano oggi poco più del 5% del fabbisogno.
Per questo le potenzialità dell’Aiib sono molto consistenti. Sul piano finanziario, nonostante il salasso di questi giorni, disponibilità di risorse da parte della Cina e le contemporanee difficoltà attraversate da molti paesi sviluppati giocano a favore della nuova iniziativa.
La banca asiatica delle infrastrutture da 100 miliardi di dollari prenderà forma nel weekend, eleggerà il presidente (il pragmatico Jin Liqun, che finora è solo designato) e i componenti del board, e inizierà così a parlare e ad agire in nome proprio.
Il 50.1% del capitale sottoscritto è imputabile a 17 Paesi, la nascita vera e propria è stata resa possibile grazie all’approvazione dei Parlamenti di almeno 10 Paesi, tra cui Australia, Regno Unito, Corea del Sud, Germania. C’è chi come Brasile, Russia e India ancora non ha approvato l’articles of agreement. Saranno quindi eletti oltre al presidente ben 12 direttori per ogni area elettorale regionale. L’operatività vera e propria è già in arrivo a metà anno.
Tutto è pronto per la kermesse inaugurale, lo stesso Xi Jinping che lanciò l’idea della banca con la frase “se vuoi diventare ricco comincia a costruire le strade” questa volta scenderà in campo personalmente per quella che si annuncia una grande operazione di immagine dopo un inizio d’anno difficile, con la borsa che ha perso già il 17%, quindi tutto in salita.
Ma, si sa. Board of directors e board of governors si riuniranno sancendo la vera e propria nascita della Banca. La tempistica è stata davvero “cinese”, l’Aiib è stata creata a tempo di record, in modo tale da poter effettuare il primo prestito già a metà anno. Appena sei mesi fa l’articles of agreement siglato nella Great Hall of People, soltanto 26 mesi dopo il lancio della Banca da parte di Xi.
Chi tra i 57 fondatori non ha ottenuto l’approvazione delle autorità del proprio Paese, non potrà aver accesso agli organismi di gestione. Ci sarà però un periodo di grazia fino a fine anno entro il quale, eventualmente, rimettersi in carreggiata.
L’Aiib è davvero una babele di lingue e di culture, anche se la Cina vanta, da sola, il 26.1% dei diritti di voto e un potere di veto su un certo numero di decisioni. Una trentina di Paesi è ancora in coda per entrare in quello che sia annuncia come un nuovo protagonista della scena mondiale.
La nascita della Banca ha chiare motivazioni economico-finanziarie, ma è opinione diffusa che la sua ragione prevalente vada cercata nella dimensione politica, che vede la Cina premere per un riconoscimento del suo maggiore peso politico ed economico (l’inserimento dello yuan nel paniere delle valute del Fondo monetario sta lì a dimostrarlo ulteriormente).
La Banca è nata nonostante l’opposizione di Usa e Giappone, adesso la governance dell’istituzione sarà abbastanza simile a quella delle altre multilateral development bank, ma la novità sta nell’assenza di un Board of Directors residente, il che potrebbe dare più spazio al presidente come temono alcuni.
Un elemento concreto da gestire sarà l’effettivo rispetto da parte dell’Aiib degli standard internazionali in merito a procurement salvaguardie, controlli. La competizione apportata dalla nuova banca potrà avere un effetto positivo sulle altre Mdb, in particolare sull’Adb; nel breve termine si farà sentire soprattutto nel campo del reclutamento delle risorse più specializzate.
L’iniziativa ha un evidente fondamento sul piano economico, finanziario e politico.
Da parte cinese, va detto che la Cina ha un’ampia capacità di finanziamento attraverso le proprie banche di sviluppo. La nuova banca avrà il vantaggio, rispetto alle attuali banche “solo cinesi”, come la China Development Bank, la Export-Import Bank of China e la China Agriculture Development Bank, di contrastare le critiche sempre più forti alle sue modalità di assistenza allo sviluppo.
Un supporto cinese in collaborazione con i partner internazionali può apparire infatti meno “minaccioso” e migliorare l’immagine del Paese, oltre a beneficiare probabilmente quei settori in overcapacity.
Ma se l’attivazione ha comportato pochi mesi, rodaggio non sarà breve. Il Silk road fund, ad esempio, ha già effettuato la prima operazione in Pakistan. Si dice, però, che ci vorranno almeno cinque anni perché possa davvero far sentire gli effetti.
Il Sole 16.1.16
Tutte le altre iniziative. Dall’Europa all’Africa al Medio Oriente
La rete della diplomazia economica di Pechino
di R.F.

Una pioggia di iniziative (e di miliardi) delle quali è difficile ricostruire la reale ricaduta ma che rappresentano compiutamente la strategia di Pechino, tutta orientata alla diplomazia economica per gestire le relazioni con il resto del mondo. L’Aiib non è l’unica realtà alla quale i cinesi affidano il compito di aprire una finestra sul mondo ma anche di movimentare i flussi di valuta estera e di smaltire l’eccesso di produzione, grazie al finanziamento di una fitta trama di infrastrutture. C’è un po’ di tutto, nell’elenco, dai Paesi europei all’Africa, dal Medio oriente ai Paesi che parlano portoghese. A chi ventila l’ipotesi di un neocolonialismo camuffato dalla finanza, i cinesi fanno capire che i tempi sono cambiati e che non è più il caso di rimanere arroccati oltre la muraglia. La Cina non ha lesinato i finanziamenti; i fondi esistenti oppure freschi di cantiere hanno per la maggior parte la caratteristica di essere intergovernamentali con l’obiettivo di realizzare investimenti bilaterali e di favorire la collaborazione del commercio internazionale. Sullo sfondo, come istituto operativo c’è sempre la China development bank, che continua a svolgere il suo ruolo di finanziatore principale. Nelle varie situazioni Cdb è titolare di una quota che va dal 5 al 30 o addirittura al 100%, come nel caso del fondo per l’Africa. Raramente si fa da parte, ad esempio nel China-Asean Fund che sancisce l’alleanza operativa dei 10 Paesi Asean la leadership è dell’Export import bank of China.
La Cina ha iniziato le grandi manovre con il fondo di parternariato italo svizzero, oltre 15 anni fa, un fondo permanente da 65.5 milioni di franchi svizzeri gestito da Sinoswiss venture capital co. Nel maggio del 2003 è nato l’Asean investment fund da 70 milioni di dollari registrato alle isole Cayman, della durata di 8 anni, gestito da Uob Capital partners. Anche il Belgio ha creato con la Cina un fondo per gli investimenti da 100 milioni di euro della durata di 12 anni, Haitong Fortis Private equity fund management co. Israele non è stata da meno e nel 2007 ha creato il fondo Infinity gestito da Suzhou ventures group, anche questo registrato alle isole Caiman e a tempo determinato: 8 anni.
Il China Africa development fund ha una durata di addirittura 50 anni mentre quello China-Asean fund on investment cooperation da 10 miliardi di dollari è gestito da una società, la China-Asean Capital advisory, ed è un fondo permanente insediato a Hong Kong. Non poteva mancare anche un fondo con la Francia da 150 milioni di euro creato da Cathay capital private equity di cui China development possiede il 50 per cento. Più di recente ne è stato creato un altro per le società di media grandezza da 500 milioni di euro. Un altro fondo lega la Cina con i Paesi che parlano portoghese, un tesoretto da 1 miliardo di dollari gestito dalla stessa entità, la Cao, del centro africano e un altro creato con la Uae l’unione dei Paesi arabi, il cui fondo è Ningxia China Uae investment fund da 20 miliardi di yuan. È tra il 2014 e il 2015 che la strategia mette il turbo. Oltre all’Aiib si è creato un insieme di grandi fondi come il Silk road da 40 miliardi partecipato da Cdb per il 5% e il China Abu Dhabi investment oltre al Sino-mexico investment fund da 4 miliardi di dollari. Come si ricorderà, proprio l’anno scorso la Cina rimase spiazzata dalla cancellazione improvvisa di un megacontratto siglato dal Governo Messicano; ebbene, ciò non ha impedito a Pechino di intrecciare nuove alleanze strategiche anche nel tentativo di gestire le infrastrutture in maniera sempre più organica con i Paesi meno controllabili dal punto di vista politico. Questi fondi, in certe aree, in pratica svolgono un ruolo da ammortizzatore. Discorso a parte spetta alla Banca dei Brics. C’è chi ha sottolineato la pericolosità che si sovrappongano gli ambiti di azione con l’Aiib. La Banca dei Brics ormai operativa a Shanghai dopo due anni di preparazione è stata creata da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica in occasione del sesto meeting in Brasile due anni fa, poi Cina e India hanno firmato il memorandum of understanding dell’Aiib alla quale la Russia a sua volta ha aderito. I Brics, tuttavia, hanno l’obbligo di contribuire a un goal di 100 miliardi di yuan in base a quote proporzionali al Pil, un elemento innovativo rispetto ad altri organismi multilaterali di sviluppo.
Il Sole 16.1.16
Se la Cina si scopre grande mediatrice
Medio Oriente. Il presidente Xi Jinping in partenza per Arabia Saudita, Egitto e Iran tra affari e invito alle parti alla moderazione
di Ugo Tramballi

La Cina grande mediatrice del caos mediorientale fra sauditi e iraniani, siriani del regime e dell’opposizione? All’apparenza è inverosimile. Ma non è casuale né solo una questione d’affari, se in un momento come questo Xi Jimping, il presidente cinese, fra il 19 e il 23 gennaio sarà in Arabia Saudita, Egitto e Iran. Come principale acquirente del petrolio mediorientale, il leader cinese ha l’obbligo di aver cura delle sue fonti energetiche. Ma è degno di nota ciò che scrive Xinhua, l’agenzia stampa ufficiale: «Sebbene la Cina non prenda mai le parti di qualcuno, sarà una rara opportunità per invocare calma e cautela alle due parti», cioè Iran e Arabia Saudita. È un’interessante evoluzione dei “Cinque principi della coesistenza pacifica”, la formula che guida la politica estera della Repubblica popolare dal 1954.
Coreani del Sud, indiani, sovietici e vietnamiti che in questi ultimi sessanta e passa anni hanno combattuto contro la Cina avrebbero qualcosa da ridire. Ma certamente in Medio Oriente né americani né ormai i russi saprebbero esercitare credibilmente «mutuo rispetto della sovranità e integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza e cooperazione per un vantaggio comune, coesistenza pacifica». Anche se gli egiziani sanno di non poter contare sulla Cina per sradicare i Fratelli musulmani, i sauditi per sconfiggere gli sciiti e gli iraniani per salvare Assad, mai un cinese si è calato nel caos mediorientale come Xi d’Arabia. La Cina ha una qualità che manca a americani e russi e ancor più a inglesi e francesi che si portano dietro anche il fardello coloniale: comprano molta energia, investono in grandi progetti infrastrutturali, ma non hanno secondi fini politici. Non vogliono che Assad vada via né che rimanga: un mese fa hanno invitato a Pechino sia il regime che l’opposizione moderata; il loro laicismo militante impedisce di comprendere lo scisma fra sciiti e sunniti, e dunque di schierarsi; non intendono avere basi militari nella regione (almeno per ora) e non hanno arsenali da vendere. Sono come gli americani 70 anni fa, quando Abdulaziz, il fondatore dell’Arabia Saudita, scelse loro anziché gli inglesi per sfruttare il petrolio. Sono soprattutto le imprese cinesi che in Egitto hanno scavato il nuovo Canale di Suez; partecipano alla costruzione delle nuove città saudite; e in Iran contano di avere un importante ritorno economico dopo l’accordo sul nucleare a cui hanno contribuito.
Il Sole 16.1.16
Caccia italiani in copertura sulla Libia
Dislocati nella base di Trapani Birgi quattro cacciabombardieri Amx
Mediterraneo. La decisione per aumentare la capacità di sorveglianza in vista della prossima intesa sul governo
di Gerardo Pelosi

ROMA L’Italia non sembra affatto disposta a cedere ad altri Paesi come Francia o Regno Unito la leadership della crisi libica. Sia sul fronte diplomatico che su quello strettamente militare il Governo ritiene di avere tutte le carte in regola per governare il processo di stabilizzazione del Paese e guidare la futura missione internazionale. Sta di fatto che la nostra Aeronautica ha dislocato ieri nella base di Trapani Birgi quattro cacciabombardieri Amx di stanza ad Istrana per incrementare, nell’ambito dell’operazione “Mare sicuro”, la capacità di sorveglianza e l’acquisizione di informazioni nell’area del Mediterraneo centrale. La decisione è maturata «in seguito ai recenti sviluppi nell’area dei Paesi del Nord Africa e del conseguente deterioramento delle condizioni di sicurezza» anche dopo le ultime minacce di Al Qaeda contro l’Italia accusata di avere «occupato» militarmente Tripoli.
La mossa italiana arriva dopo alcuni giorni in cui numerosi aerei francesi, inglesi ed egiziani da giorni stanno perlustrando lo spazio aereo libico. In alcuni casi Rafale egiziani, riforniti da aerei cisterna francesi partiti dalla base di Istres , hanno neutralizzato alcuni obiettivi Isis. I “caccia” italiani sono pronti a partire anche solo per illuminare i bersagli da colpire come stanno facendo da mesi i quattro Tornado di stanza nel Kuwait che operano in Iraq. Ma non si tratta di azioni imminenti come ha tenuto a precisare il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni in un’intervista al giornale francese Le Figaro. Secondo il capo della nostra diplomazia nessuna azione militare «è all’ordine del giorno nè oggi nè domani perché farlo equivarrebbe ad ammettere che gli sforzi dei libici sono falliti». Se dovessimo intervenire contro il terrorismo, ha spiegato il capo della Farnesina, «vorremmo farlo su richiesta di un governo libico, per sostenerlo». Ma la creazione di una coalizione contro l’Isis in Libia, sul modello di quella che opera in Iraq e Siria, sarebbe inevitabile, secondo Gentiloni, se dovesse fallire l’intesa promossa dall’Onu per un governo di unità nazionale. Ma per l’inviato Onu Martin Kobler ci sono 8 possibilità su 10 che il governo veda la luce.
Martedì prossimo la Farnesina ospiterà una riunione di funzionari ad alto livello sulla Libia che già si prefigura come un embrione di “gruppo di contatto”. All’incontro parteciperanno due vicepremier del Consiglio presidenziale, il generale Abdul Rahman Al Taweel che guiderà il nuovo Comitato transitorio per la sicurezza composto da 18 membri e che avrà come interlocutore il generale italiano Paolo Serra, consigliere militare dell’inviato Onu Martin Kobler, e i rappresentanti di ventuno tra organizzazioni internazionali (Onu, Ued, Unione africana) e Paesi come Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Qatar, Emirati, ossia tutti quelli che hanno preso parte al vertice di Roma del 13 dicembre che ha aperto la strada all’accordo poi raggiunto a Skhirat.
Il lavoro diplomatico per la formazione del nuovo governo di unità nazionale prosegue a Tunisi nella missione Onu. Non mancano difficoltà emerse anche ieri quando due vicepremier del Consiglio presidenziale hanno contestato la decisione del premier designato Fayez al-Sarraj di nominare ben 22 ministri e in particolare tutti quelli con portafoglio economico. Un compromesso sembra si sia trovato, alla fine, con la possibilità di nominare direttamente non più di due, tre ministri.
il manifesto 16.1.16
Cgil: i salari pubblici hanno perso 500 euro
La denuncia. Studio della Funzione Pubblica sull'ultimo Conto annuale: colpevole soprattutto il blocco della contrattazione accessoria
di bAntonio Sciotto

I dipendenti degli enti locali hanno perso in un anno circa 450 euro di salario, poco meno di 120 euro quelli impiegati nel servizio sanitario nazionale e quasi 600 euro i cosiddetti «ministeriali». Tutti accomunati dalla scure che si è abbattuta sul salario accessorio. È quanto emerge da una prima lettura, condotta dalla Fp Cgil, dei dati dell’ultimo Conto annuale.
Il dato medio degli stipendi nel pubblico impiego nel 2014, infatti, seppure in calo dello 0,5% rispetto al 2013, «non racconta la verità della variazione in negativo per la gran parte dei dipendenti pubblici». Guardando infatti alcune delle voci contenute nel Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato, raffrontando i dati tra lo scorso anno e quello precedente, così come tra il 2014 e il 2010, anno del blocco della contrattazione decentrata, emerge dall’analisi della FP Cgil che «per quanto riguarda Regioni e autonomie locali il salario medio, secondo l’ultimo dato disponibile, ovvero il 2014, è stato pari a 29.109 euro, in calo rispetto all’anno precedente, con il salario medio a 29.552, di meno 443 euro di cui 407 euro di salario accessorio».
Nella Sanità, il salario medio registrato nel 2014, “viziato” da diverse alte professionalità, è stato pari a 38.573 euro, ovvero 117 euro in meno rispetto al dato del 2013 per una retribuzione media di 38.690. Nel 2010 la retribuzione media nel settore è stata paria 38.813: nel raffronto con il dato del 2014 emerge una flessione di 240 euro».
Nei ministeri «il salario medio nel 2014 si è attestato a 29.299 euro mentre l’anno precedente era pari a 29.898 per un meno 599, di cui di salario accessorio –474 euro». E infine il dato sugli enti pubblici non economici dove «la retribuzione media nel 2014 è stata di 41.122 euro rispetto al 2013 quando si attestava a 41.635 euro, per una differenza di –513, per un –480 di salario accessorio».
Alla ministra Marianna Madia (nella foto) e al governo i sindacati chiedono di «tornare subito a trattare per il contratto».
Il Sole 16.1.16
Unioni civili. Sulla stepchild adoption maggioranza a rischio
Scendono a 84 i senatori Pd favorevoli
Dodici i voti dal gruppo Autonomie. Il sì di Verdini
Renzi ammette: a decidere sarà il voto segreto
di Mariolina Sesto

ROMA Sulla stepchild adoption rispunta il pallottoliere al Senato. Di certo al momento c’è che a favore dell’adozione del figlio del partner all’interno della coppia gay non c’è il quorum che determina la maggioranza assoluta dell’aula, cioè 161 sì. E alla fine, come ha ricordato lo stesso Matteo Renzi ieri nella sua e-news, sarà probabilmente il voto segreto a decidere: «Mentre su molti punti l’accordo mi sembra solido, ci sono questioni su cui ancora le distanze sono ampie. E forse lo resteranno al punto che sarà il voto segreto, tipico in discussioni sui diritti e sui valori, a definire le scelte».
Ma stiamo ai numeri sulla carta al momento. Dopo la sottoscrizione dell’emendamento sull’affido rafforzato (come alternativa alla stepchild adoption) da parte di 28 senatori Pd, i voti democratici favorevoli alla stepchild adoption si sono ridotti a 84. E i due fronti opposti all’interno del gruppo dem sono del tutto trasversali agli orientamenti religiosi. Tra gli oppositori ci sono parlamentari laici come Rosa Di Giorgi, Linda Lanzillotta, Vannino Chiti e Pezzopane, così come tra i sostenitori della stepchild ci sono cattolici come Giuseppe Lumia. L’emendamento sull’affido rafforzato non è stato ancora depositato ma lo sarà da qui al 22 gennaio, giorno in cui scade il termine per la presentazione delle modifiche al Ddl Cirinnà in commissione. A dare man forte agli 84 senatori Pd che difendono la stepchild adoption ci sono poi 12 colleghi del gruppo Per le Autonomie e 14 del Misto comprendenti Sel, Con Tsipras, Idv, ex M5S e Della Vedova; infine due senatori a vita. A questo punto, il blocco di maggioranza che voterà con certezza per la stepchild adoption conta su 112 senatori: 39 in meno rispetto all’asticella della maggioranza assoluta. Vero è che nell’Aula del Senato ci sono altri senatori che in cuor loro nutrono simpatie per questo provvedimento, ma non essendo organici alla maggioranza potrebbero alla fine far prevalere lo schieramento politico sulla scelta di coscienza. In questo gruppo ci sono sicuramente i 35 senatori del Movimento 5 Stelle (che però per il momento non hanno confermato il sì al Ddl Cirinnà, già votato in commissione), così come almeno cinque senatori di Forza Italia e 4 di Gal. A rimpinguare le truppe potrebbe arrivare qualche sostegno dal gruppo Ala di Denis Verdini che conta su 17 senatori. Lo stesso Verdini si è schierato pubblicamente in favore della stepchild adoption ma alcuni senatori del gruppo, tra i quali D’Anna e Langella, sono scesi pubblicamente allo scoperto schierandosi sì in favore delle unioni civili ma rigorosamente senza stepchild adoption. Ad oggi, il fonte pro-adozioni potrebbe arrivare ad un massimo di 122 sostenitori. Il voto segreto tuttavia potrebbe cambiare anche sensibilmente questa previsione sia in positivo che in negativo.
il manifesto 16.1.16
Visco: “Con l’Europa Renzi sbaglia, basta con le richieste di flessibilità”
Serve una strategia: non rivendicazioni spicciole, ma puntare agli investimenti
L’ex ministro delle Finanze: per creare lavoro non bastano incentivi al Jobs Act, bisogna rilanciare la crescita. E non vedo misure anti-evasione
intervista di Antonio Sciotto

«Lo scontro tra il governo italiano e Bruxelles va avanti da tempo, ma ora sta prendendo una piega pericolosa. Secondo me Renzi può aver ragione sulla questione dell’oleodotto e delle banche, ma sbaglia sulla flessibilità: in questo caso mi pare più corretta la posizione di Junker». Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e presidente del Nens, ritiene che il nostro esecutivo abbia sbagliato a impostare i rapporti con la Ue «fin dal semestre italiano». E oggi, nonostante quello che ci avrebbe potuto insegnare il caso Tsipras, e dopo numerosi tira e molla sulla flessibilità, siamo arrivati al conflitto aperto.
Insomma lo scontro con Junker non era inaspettato.
È una situazione che va avanti da un po’. Va detto che Renzi ha anche il suo carattere, ma a Bruxelles, dove i rapporti sono almeno in apparenza più felpati e politically correct, le sue uscite vengono percepite come atteggiamenti di prepotenza. A parte la forma, comunque, direi che ci dovremmo muovere in altro modo anche nella sostanza, nella gestione dei nostri contenuti. Servirebbe un dibattito più pacato, le rivendicazioni spicciole non sono utili, ci vuole una strategia.
Che tipo di strategia? Il governo in cosa sbaglierebbe?
Renzi ha delle ragioni, non tanto sulla flessibilità, di cui abbiamo usufruito, ma su altro: la questione dell’oleodotto nel Mare del Nord, la vicenda delle banche. Quando era cominciato il semestre italiano, non bisognava andare a Bruxelles a chiedere flessibilità, ma porre in modo pacato una discussione su tutta la politica economica della Ue: contestare l’atteggiamento con cui è stata trattata la Grecia, o, come fa oggi lo stesso Renzi, ispirarsi all’esempio degli Usa, che hanno fronteggiato efficacemente la crisi. Al contrario, abbiamo subito quanto deciso dalla Germania, e questo ha portato tutto il continente a una doppia recessione. Il ministro Padoan andò a fare il suo giro nelle cancellerie, come avviene a chi guida il semestre, ma dopo l’incontro con Schauble disse che c’era «piena identità di vedute tra Italia e Germania». Sappiamo che non è mai stato così: le linee equivoche non ci giovano.
La flessibilità poi però è arrivata. Non è merito di Renzi?
È vero, l’abbiamo ottenuta, ma lì ha ragione Junker: perché è stata una scelta anche dovuta alla nuova maggioranza che si era creata in Europa, e noi ne abbiamo beneficiato. Il problema di fondo è che l’Italia deve sapersi creare delle alleanze, con una strategia: da soli non possiamo fare la voce grossa, in quanto non abbiamo mai risolto i nostri problemi di finanza pubblica. Dobbiamo proseguire nel risanamento, serve più crescita, produttività, riforme strutturali. Poi nel Nord Europa e a Bruxelles ci sono pregiudizi radicati nei nostri confronti, e spesso non sono del tutto ingiustificati: siamo visti come bugiardi, inaffidabili, spendaccioni. Mentre i nostri funzionari quasi si vergognano a difendere gli interessi nazionali. Perciò serve, da parte del nostro premier, risolutezza, ma anche prudenza e consapevolezza.
Sulla vicenda delle banche ce la siamo cavata meglio?
In questo caso ha maggiori responsabilità il governo precedente, che non avrebbe dovuto accettare la retroattività del bail in. Adesso si sta tentando quel che si può, ma ricordiamo che il nostro sistema bancario ha dimostrato grande stabilità quando, nel pieno della crisi finanziaria, crollavano gli istituti tedeschi, francesi, olandesi. Le banche coinvolte oggi rappresentano soltanto l’1% dei depositi, e hanno avuto difficoltà non perché piene di titoli tossici, ma perché erano in rapporto con le imprese più coinvolte dalla crisi economica, quelle di provincia, più periferiche. Quando perdi 10 punti di Pil in pochi anni, può accadere che alcune banche vadano in sofferenza: il problema è che poi sono state colpite famiglie di piccoli risparmiatori, e c’è stato il suicidio, il quadro si è drammatizzato con ricadute sociali.
Banca d’Italia e Consob hanno agito bene?
Hanno responsabilità diverse: la Banca d’Italia sovrintende alla stabilità del sistema, e mi sembra che l’abbia saputa garantire. Diverso per chi dovrebbe controllare la trasparenza, che qui mi pare sia mancata.
Come giudica la legge di Stabilità?
Vedo una miriade di microinterventi, che servono più che altro a creare consenso presso alcuni settori elettorali. La manovra non è espansiva: sono tagli di spese e di tasse il cui saldo va quasi a zero. Io avrei concentrato le risorse sugli investimenti: se riduci le tasse, come moltiplicatore hai tra lo 0,8 e l’1, mentre se fai gli investimenti giusti, puoi andare dall’1,5 al 3.
Potrebbe servire firmare i contratti pubblici?
I prezzi non sono aumentati negli ultimi anni, e siamo stati in regime di stretta di bilancio: che senso avrebbe dare aumenti salariali ai dipendenti pubblici? Le priorità sono dove c’è più bisogno: la povertà, e prima di tutto chi ha perso il lavoro. Ci sono ampi spazi di miglioramento per gli ammortizzatori sociali.
Gli incentivi alle assunzioni, al Jobs Act, non bastano?
Sono costati molto, e hanno aiutato a stabilizzare alcuni contratti: ma per creare nuova occupazione serve la crescita dell’economia. Servono investimenti.
E la lotta all’evasione? Secondo Renzi funziona.
Io non vedo nuove misure anti evasione. Nella legge di Stabilità di fine 2014 avevano applicato due sistemi suggeriti dal Rapporto Nens: il reverse charge e lo split payment, che a detto dello stesso Renzi hanno funzionato. Noi però avevamo suggerito anche la comunicazione telematica in automatico, al cliente e all’amministrazione finanziaria, dei dati contenuti nelle fatture: frutterebbe 40 miliardi in tre anni, agendo direttamente nella catena dell’Iva. Ma non si è fatto. Per la lotta all’evasione, ci deve essere una seria volontà politica.
il manifesto 16.1.16
La cultura è trasformazione
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos

In un editoriale recente, Ernesto Galli della Loggia, prende spunto dai fatti di Colonia (le molestie subite da molte donne nella notte dell’ultimo dell’anno), per esporre una teoria dell’integrazione culturale forte e mistificante. Due sono i punti essenziali del suo discorso. La civiltà occidentale deve liberarsi dei sensi di colpa nati dal pregiudizio che le attribuisce misfatti peggiori rispetto ad altre civiltà. In ogni società esiste una cultura dominante e l’integrazione è assoggettamento delle altre culture al quadro delle regole generali che essa determina.
L’ostinazione con cui in Occidente si rimuove il peggior misfatto di tutte le civiltà, lo sterminio degli ebrei, è pari al suo rifiuto di assumere una vera responsabilità nei confronti di secoli di colonialismo, di schiavismo, di saccheggio delle risorse degli altri, di scambio sempre più ineguale. Dei sensi di colpa non possiamo liberarci se ce li siamo meritati: questo è una bella complicazione, perché, se non sono legati al senso di responsabilità, la loro presenza è controproducente. Il senso di responsabilità deriva dalla consapevolezza che la mortificazione del desiderio dell’altro come nostra controparte nelle relazioni di scambio, ci danneggia entrambi come soggetti desideranti. Il senso di colpa misura il danno che abbiamo causato all’altro, a causa dell’allontanamento dal senso di responsabilità, e produce, come atto di riparazione, il ritorno ad esso, cioè a un rapporto paritario, reciprocamente rispettoso. Quando la tentazione del dominio prevale sulla responsabilità e la percezione oscura del misfatto (ineliminabile, finché sopravvive il senso di umanità) gira a vuoto, il senso di colpa alimenta una falsa riparazione: la beneficenza come atto di generosità, il mantenimento della propria posizione di superiorità in condizioni di sollievo morale. Il danno è in minima parte alleviato, ma il meccanismo che lo produce ne esce rinforzato.
La falsa riparazione non è sufficiente per una pacificazione interiore altrettanto falsa: il danno deve essere, in una sua parte variabile, negato.
Il modo migliore è sfruttare l’ostilità e la rabbia dell’altro danneggiato (un essere umano non reso migliore, innocente, nei suoi sentimenti dal torto subito) per colpevolizzarlo. Il pretendere di educare l’altro ai propri valori, per accoglierlo una volta «civilizzato» (il punto centrale della proposta di Galli della Loggia) è una pia illusione, perché presume che costui accetti di sentirsi colpevole del danno subito. La condizione per essere ripagato con la benevolenza; di trovarsi, in altre parole, «cornuto e mazziato».
La pretesa educativa sull’altro, sfocia nella disgregazione culturale delle relazioni sociali, nella costituzione di scompartimenti stagni, che convivono ignorandosi.
L’integrazione culturale è nel segno della reciprocità dell’apertura tra le culture che si incontrano, fondata sulla disponibilità unilaterale di mettersi in gioco della cultura che le circostanze hanno reso egemone. Tocca soprattutto alla cultura che accoglie di affermare i propri valori, mettendoli alla prova della trasformazione che l’impatto con le culture accolte determina. Una cultura è tanto più assimilata, accettata da ciò che la trascende, quanto più lo assimila, lo elabora e se ne arricchisce. La cultura «dominante», è strumento di potere, dogmatismo che sostituisce l’esperienza con la regola.
L’«egemonia» culturale è, invece esposizione, possibilità di sperimentazione, gioco erotico con l’inconsueto, capacità di trasformare e di essere trasformati, turbati ma non perturbati, da ciò che appare estraneo.
Il Sole 16.1.16
Domani la visita
Con Francesco in Sinagoga parte la stagione della conoscenza
di Carlo Marroni

C’è una storia che nasce dentro le stanze dei Sacri Palazzi. A metà degli anni ’80 alla Santa Sede arrivavano pressioni diplomatiche internazionali per un riconoscimento reciproco con lo Stato di Israele (a cui si giungerà nel 1993), e di questo gli alti prelati di Curia ne parlavano con Giovanni Paolo II. L’allora “ministro degli esteri” vaticano, monsignor Achille Silvestrini, fine diplomatico, disse a Wojtyla: «Non si può fare un accordo con Israele senza prima aver fatto visita alla Sinagoga di Roma».
E così si arrivò a quel 13 aprile 1986 quando il papa polacco abbracciò rav Elio Toaff, entrambi testimoni degli orrori del nazismo, e parlò al popolo ebraico come i «fratelli maggiori». I Papi in Sinagoga. Domani alle 16 Francesco varcherà la soglia del Tempio Maggiore di Roma, terzo pontefice della storia ad entrare nel cuore religioso della più antica comunità della diaspora giudaica. Un gesuita figlio dell’America latina con alle spalle una storia di consuetudine e di amicizia con molti esponenti dell’ebraismo. Bergoglio è il Papa che meno di due anni fa al memoriale di Yad Vashem ha baciato la mano ai sopravvissuti ai campi di sterminio, che non esita a far sentire la propria voce in difesa degli oppressi in Terra Santa, senza per questo indugiare nel tacciare di antisemitismo ogni attacco al diritto di Israele di vivere in pace. Una visita che si mette in continuità con quelle dei due predecessori: quella di Benedetto XVI fu esattamente cinque anni fa. Dice il Rabbino Capo, Riccardo Di Segni: «Ognuno di tre papi una la sua personalità e si colloca in un momento storico diverso. La prima visita di Giovanni Paolo II è stato un evento epocale, rivoluzionario. La seconda visita ha voluto segnalare un desiderio di continuità nello stile suo proprio di Benedetto, di rapportarsi con l’ebraismo. E questa terza rappresenta in qualche modo lo stile di questo Papa: la sua storia e il suo carattere». L’arrivo di Francesco al Tempio Maggiore - dove oltre rabbino capo ci saranno ad accoglierlo il presidente della Comunità, Ruth Dureghello, e il presidente dell’Ucei, Renzo Gattegna - si colloca in fase storica molto precisa e significativa. Infatti nelle scorse settimane sono stati varati due documenti considerati molto importanti: una dichiarazione di venticinque rabbini ortodossi, in gran parte israeliani e statunitensi, sul significato e sul valore del cristianesimo, mentre da parte cattolica è stato pubblicato un lungo documento della commissione della Santa Sede per i rapporti con l’ebraismo sulla irrevocabilità dei doni di Dio al popolo della prima alleanza. Soprattutto quest’ultimo testo, molto complesso e profondo, è giudicato di fondamentale importanza, perché è in qualche modo una “messa a punto” dei rapporti con l’ebraismo dopo 50 anni dalla dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, che segna una spartiacque storico tra le due religioni. Progressi enormi, quindi, da quell’epoca. Ieri l’«Osservatore Romano» ha pubblicato un articolo di Guido Vitale, direttore di “Pagine Ebraiche”, l’autorevole mensile dell’ebraismo italiano: «Sgombrato il campo dai detriti della diffidenza e del sospetto – scrive Vitale, che racconta del percorso delle visite di due papi precedenti - sarebbe forse azzardato sostenere che la strada del dialogo appare ora tutta in discesa, ma certamente siamo autorizzati a sperare che della nostra amicizia ci attendano i frutti più dolci. Conquistata la stagione dell’accettazione, possiamo aprirci alla gioia della autentica conoscenza reciproca. E credo che il mondo ebraico nella sua estrema complessità e diversificazione interna faccia bene a chiedere ora di essere non solo accettato, ma anche compreso per quello che effettivamente è».
Il 27 gennaio si celebrerà la Giornata della Memoria, occasione ormai irrinunciabile anche per il mondo cattolico per una riflessione profonda.
E infatti la prima sosta di Bergoglio prima di entrare nel Tempio sarà davanti alla lapide che ricorda il 16 ottobre 1943, giorno della deportazione nazista degli ebrei romani, e a seguire un omaggio alla lapide che ricorda l’attentato alla Sinagoga nel 9 ottobre 1982, dove perse la vita il piccolo Stefano Gaj Tachè, di due anni, e 37 persone rimasero ferite. Ancora non è ufficiale, ma quando Francesco si recherà il prossimo luglio a Cracovia per la giornata dei giovani, quasi certamente andrà anche in visita alla vicina Auschwitz, anche questa volta sulle orme dei suoi due predecessori.
Repubblica 16.1.16
Quando i buddisti eravamo noi
La scoperta dell’immagine del Gesù-Siddharta venerato per secoli da una comunità manichea nel sud della Cina apre nuovi studi e riflessioni sul rapporto tra filosofia orientale e occidentale
di Silvia Ronchey

La figura solitaria dal viso assorto, i capelli neri raccolti sulla nuca, siede su un alto trono esagonale. La testa è circondata da un’aureola di luce inscritta nel contorno di una più ampia mandorla che si intravede sullo sfondo brunito del lungo rotolo di seta dipinta. Uno sfolgorio di rosso e oro accomuna i petali dell’immenso fiore di loto dischiuso sotto le sue gambe incrociate e il simbolo della croce che regge tra le dita sottili della mano sinistra, all’altezza del cuore, mentre le dita della destra compongono un esoterico gesto. È il Buddha, ed è insieme il Cristo, e in entrambe le vesti è stato venerato per secoli dagli adepti della comunità manichea del sud della Cina per cui la sua immagine, conservata dall’inizio del Seicento nel tempio zen di Seiun-ji in Giappone, fu prodotta fra il XII e il XIII secolo.
«O vasto e gentile Gesù Buddha, ascolta le mie parole di dolore. Modesto e sempre desto Re della Mente, Anticipatore del Pensiero, guidami fuori da questo mare avvelenato, verso l’acqua fragrante dell’Emancipazione», si legge nel Rotolo innologico manicheo della British Library, la più antica attestazione liturgica del culto di Gesù in quanto Buddha tra i seguaci di Mani della Cina medievale.
Quest’immagine e queste parole provengono dalle pagine di un articolo pubblicato su una rivista scientifica svizzera da una studiosa ugroamericana di arte religiosa dell’Asia Centrale, Zsuzsanna Gulacsi, grande esperta di manicheismo. La sua argomentazione e la sua tesi finale – nella raffigurazione del “profeta” Gesù Buddha è in realtà esplicitata la dottrina della religione dualistica e connaturatamente sincretistica di Mani, cui vanno attribuiti sia il simbolo della Croce di Luce, materializzato nella statuetta, sia il principio della separazione tra luce e tenebra, simboleggiato dal gesto della mano destra – danno nuovo senso a dati già acquisiti ma non ancora elaborati dagli eruditi. Al di là dello specialismo, l’emergere dal passato orientale del Gesù-Buddha- Mani di Seiun-ji, i suoi epiteti, la forza delle invocazioni parlano in modo immediato al presente occidentale, dove sempre di più il buddismo si radica nella prassi di una crescente élite di figli dell’esistenzialismo, nell’utopia di una non-religione dall’etica resistente alla secolarizzazione ma compatibile con gli approdi della filosofia e con le conquiste della psicologia. A metà del Novecento il Siddharta di Hesse aveva spontaneamente orientato il suo revival nella cultura pop. Anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza del buddismo in occidente aveva prodotto un’ibridazione confessionale in cui lo yoga e le tecniche ancestrali di meditazione proprie dell’esicasmo cristiano e del sufismo islamico, come già prima delle scuole platoniche e pitagoriche, erano sostanzialmente tollerate se non promosse dai residui esponenti delle religioni ufficiali.
«Perché non possiamo non dirci cristiani», si domandava Benedetto Croce all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta onestà dovremmo oggi riflettere sul perché non possiamo non dirci buddisti. Più di una filosofia, meno di una religione, mai una dogmatica, il buddismo è oggi la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna. In genere si fa risalire il suo influsso nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire occidentali allo slancio degli studi di orientalistica che influenzarono il giovane Schopenhauer. Ma quella conoscenza era già ben diffusa tra gli illuministi, per il tramite privilegiato delle missioni in Cina e in Giappone, ma anche in Tibet e Sri Lanka, degli avventurosi gesuiti che tra Cinque e Settecento avevano trasmesso accurati resoconti, in particolare, sul buddismo tibetano. Di recente una studiosa americana, Alison Gopnik, ha cercato di dimostrare l’influenza diretta delle Notizie istoriche del Tibet del padre Desideri sulla composizione del Trattato sulla natura umana di Hume, avvenuta a stretto contatto con l’ambiente gesuita del Collège de La Flèche, nel nord della Francia. Ma già il Seicento spagnolo era impregnato di buddismo. Il suo riflesso più occidentale è ne
La vida es sueño di Calderón de la Barca, attraverso cui la trama della vita del Tathagata si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca.
Ancora molto prima il buddismo era penetrato in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva, si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta che non possiamo non considerare oggi compiuta. La Controriforma aveva dovuto prendere atto che a Bisanzio fin dall’XI secolo il Buddha era venerato dalla chiesa e nonostante lo scetticismo di Bellarmino nel 1583 il cardinal Baronio lo aveva incluso nel Martirologio Romano come santo «apud Indos Persis finitimos. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura.
Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro, aveva trasformato la vita del Buddha in libro: la cosiddetta Storia di Barlaam e Ioasaf, composta nell’età di sincretismo e cosmopolitismo immediatamente successiva all’espansione militare e culturale araba e al cosiddetto iconoclasmo. È a partire da questo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo greco per il tramite dell’islam che quel Siddharta ante litteram si riprodurrà in progressione geometrica nella letteratura globale e Buddha estenderà la sua predicazione nell’occidente ancora del tutto cristiano.
Detti e fatti dell’interpretazione cristiana del principe Siddharta risuoneranno in ogni lingua europea con una diffusione non raggiunta da nessun’altra leggenda agiografica. Sedurrà l’Italia più mistica, si trasfonderà nel Trecento senese di Caterina, attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio e di qui al teatro di Shakespeare. Aveva raggiunto, prima, la Provenza dei catari e degli albigesi, attraverso il latino ma con l’influenza del manicheismo orientale. È in effetti la pista manichea, desunta dai frammenti in turco uiguro e in neo-persiano portati alla luce dalle spedizioni archeologiche di inizio Novecento, quella che con più forza è emersa nel rompicapo degli eruditi sull’origine del Buddha cristiano. Ed ecco, il cerchio si chiude, riportandoci al rotolo di Seiun-ji.
Quest’immagine di perfetto sincretismo a sua volta permette un ulteriore passo indietro. Dal bacino del manicheismo emergeva, tra il IV e il V secolo, il massimo cervello cristiano di tutti i tempi, Agostino. Quella che aveva conosciuto in Mani era una dottrina gnostica già impregnata di un’idea di salvezza propriamente religiosa. Ma in realtà, nel seno della filosofia ellenistica in cui il flusso oriente-occidente era continuo, lungo la rotta della conquista di Alessandro, nello splendore dei regni indogreci, nelle predicazioni dei monaci greci buddisti che re Ashoka inviò ai monarchi affacciati sul Mediterraneo, o degli asceti erranti che giunsero fino alla corte di Augusto, lo stesso germoglio di ciò che chiamiamo buddhismo dovette essere rinvigorito dallo scambio, prima che con lagnosi, con il pensiero delle scuole elleniche. Anche se la prima menzione del Buddha nella storia della letteratura europea si trova solo alla fine del II secolo, negli Stromata, i “Tappeti” letterari di Clemente di Alessandria, è congetturabile una coabitazione e contaminazione tra le dottrine del Gautama Sakyamuni e quelle, ancora recentemente evocate da Christopher Beckwith, dei filosofi scettici, o dello stoicismo antico.
Se non possiamo non dirci buddisti, cos’è allora che veramente noi occidentali chiamiamo buddismo? Non una dottrina, non una religione, non una filosofia, piuttosto la prensile erba di una conoscenza capace di allacciarsi e adattarsi e dare linfa a diverse religioni, dottrine, filosofie.
Il germe radicato nel nostro passato, ciclicamente reinterrato e rifiorito, di una verità universalmente diffusa perché straordinariamente persuasiva, indiscutibile e intuibile, in certi folgoranti attimi, anche a livello prerazionale: la percezione, continuamente rimossa, delle “cose come sono”, per usare l’espressione di Hervé Clerc; la stupefazione che sta all’origine di ogni visione filosofica; dove il riconoscimento dell’illusorietà dell’esistenza e dell’impermanenza dell’essere è in realtà il nucleo stesso di ciò che gli antichi greci, poco dopo la morte del Gautama storico, chiamarono per la prima volta filosofia.
Corriere 16.1.16
Fascismo e comunismo sindrome dei nemici immaginari
risponde Sergio Romano

Pur condividendo quanto ha scritto su Pietro Nenni, ho notato che lei ha usato nei suoi confronti una certa indulgenza, forse una velata simpatia. Perché, allora, la stessa indulgenza non l’ha riservata anche per Togliatti che, nel bene e nel male, ha avuto per tanti anni un percorso simile? È vero che Nenni nel 1956 prese le distanze da Pcus, ma è anche vero che nel
1944 Togliatti, appena ritornato da Mosca, fu protagonista del congresso di Salerno del Pci «La via italiana al socialismo nella democrazia e nella libertà». Insomma, due grandi leader della sinistra italiana, con le loro luci e le loro ombre. Mentre oggi, come scrive lei, Nenni è finito ingiustamente nel dimenticatoio ( con i socialisti fagocitati da Berlusconi), Togliatti vive ancora, ma in senso negativo. «Siete figli di Stalin e
di Togliatti», questo slogan è ancora molto popolare
in Italia. Nonostante il comunismo sia morto e sepolto, perché l’anticomunismo è ancora carne viva per tanti italiani? Non crede che sia nocivo alla nostra democrazia far rivivere surrettiziamente un fantasma del passato di cui nessuno ha più nostalgia? E non pensa che questa sia una sconfitta culturale di tutto
il Paese?
Silvio Giovannetti

Caro Giovannetti,
Fra la linea di Nenni nel 1956 e quella di Togliatti nel 1944 esiste una importante differenza. Nel 1956, condannando la repressione sovietica della insurrezione ungherese e restituendo il premio Lenin, Nenni prese le distanze dall’Unione Sovietica. Nel 1944, con la «svolta di Salerno», Togliatti fece esattamente ciò che Stalin gli aveva chiesto di fare durante un incontro notturno al Cremlino prima della partenza da Mosca. È certamente vero, tuttavia, che l’anticomunismo è ormai una linea logora e anacronistica che non riflette la reale situazione del Paese. La responsabilità è in buona parte di Silvio Berlusconi che di quello slogan si è servito per legittimare il suo intervento nella vita politica italiana.
Eppure si trattò di «legge del taglione». Anche i comunisti, dopo la fine delle guerra, avevano cercato di accreditare se stessi nella politica italiana, come la forza politica che avrebbe meglio garantito il Paese contro l’incombente minaccia di un fascismo perenne, eterno virus di un Paese particolarmente esposto ai rischi di una ricaduta. Non era vero. Il fascismo aveva avuto indubbiamente i suoi fedeli e li conservò anche durante la Repubblica di Salò, ma il regime era stato gestito da una costellazione trasformista che si era rapidamente dissolta come neve al sole dopo le dimissioni di Mussolini il 25 luglio 1943. Come spiegare altrimenti il fatto che la Milizia fascista, nelle giornate successive non abbia avuto alcun ruolo nelle vicende nazionali? È questa probabilmente la ragione per cui fu così difficile fare del 25 aprile una festa veramente nazionale. La leadership comunista invitava gli italiani a mobilitarsi contro un nemico di cui il buon senso negava l’esistenza.
Naturalmente né i comunisti né Berlusconi avrebbero fatto uso dei loro slogan se non vi fosse nella società italiana una certa predisposizione a credere nell’esistenza di nemici immaginari.
Corriere 16.1.16
Le ragazze del parco
Un telo per dormire sull’erba da New Delhi a Mumbai La protesta delle giovani indiane che reclamano gli spazi pubblici Per rispondere agli stupri
di Alessandra Muglia

L’ appuntamento è per questo pomeriggio. In diverse città indiane, da New Delhi a Mumbai, le donne si ritrovano al parco con materassino e coperta. Tutte a terra per un pisolino di gruppo. Una scena decisamente insolita: si dorme per svegliare gli altri. Per combattere paura e pregiudizi. La prima volta, a Bangalore poco più di un anno fa, un vigile aveva provato a far sloggiare Lijya e altre 14 ragazze in dormiveglia al Cubbon Park: «Non potete dormire qui», aveva intimato. Ma loro serafiche: «Questo è un parco pubblico. Chiunque può fermarsi a dormire. Perché non sveglia anche quell’uomo là?». Domanda che costringe il gendarme ad arrivare al punto: «Questo non è un posto sicuro per voi». Replica pacata: «Non si preoccupi per noi».
Fiduciose, indifese, rilassate: così Lijya e le altre hanno inaugurato Meet to sleep (incontrarsi per dormire), iniziativa lanciata da Blank Noise , gruppo di attiviste indiane nel Paese degli stupri, dei delitti d’onore, delle spose bambine e dei matrimoni combinati. «Siamo partite nel 2003 come spazio per poter parlare di abusi e molestie sessuali — racconta al Corriere Jasmeen Patheja, fondatrice del gruppo — io stessa ne avevo subite in strada, e tutti mi dicevano di passarci sopra, che erano cose all’ordine del giorno, che capitavano a tutte. Ho pensato che la città poteva diventare sicura se fosse cambiato l’atteggiamento di chi la frequenta».
Così ha iniziato a mobilitare sul web i cittadini coinvolgendoli in una serie di iniziative per appropriarsi degli spazi pubblici. Meet to sleep rientra nella campagna #INeverAskForIt («non me la sono andata a cercare»), contraltare di quello che spesso si sente dire una donna quando viene molestata: se l’è cercata (uscendo fuori la sera, vestendosi in quel modo e via accusando).
Con Talk To Me (parlami), nel noto «vicolo dello stupro» di Bangalore i volontari invitavano i passanti a sedersi a un paio di tavoli, per parlare. «Alla fine l’abbiamo ribattezzato “vicolo sicuro”: la percezione del posto e la sua reputazione erano cambiati» spiega Jasmeen. Dopo il brutale stupro di una studentessa su un bus di New Delhi nel 2012 è partita l’iniziativa #SafeCityPledge , con i passanti invitati a prendersi un piccolo impegno (messo nero su bianco su un cartello). Nella stessa direzione si è mosso un altro movimento, #WhyLoiter (Perché gironzolare), anche titolo di un libro-inno al vagare senza meta. Invece le donne si ritrovano sempre a dover dimostrare di avere un motivo per trovarsi in un certo luogo, soprattutto la sera. Per creare un cortocircuito, #WhyLoiter organizza camminate notturne a Mumbai.
Molto è cambiato in India dopo dicembre 2012: la violenza sessuale non è più un tabù, le donne denunciano, i media ne parlano. «Ma che tipo di discorso si sta facendo? — polemizza Jasmeen, attivista e artista, chiamata anche a guidare workshop a Los Angeles, Londra e Germania — Si è discusso tanto di pena capitale per gli stupratori, ma i mostri vivono nella nostra società, che è parte del problema». E se dopo la notte nera di Colonia le donne europee, per non tornare indietro, si ispirassero alla fantasia e al coraggio di chi combatte nell’India sfregiata dalle molestie e dagli stupri?
Repubblica 16.1.16
Elif Shafak.
La scrittrice: “Chiunque critica il governo viene trattato come un nemico Lo Stato è sempre più intollerante e autoritario”
“Retate di professori la mia Turchia infelice perde la democrazia”
di Marco Ansaldo

ISTANBUL. Accademici arrestati, scrittori minacciati, giornalisti licenziati. Solo ieri 27 professori universitari sono stati fermati e 41 puniti per avere siglato l’appello di 1.128 docenti (fra cui Noam Chomsky e Slavoj Zizek) per una soluzione pacifica della guerra nella regione curda. In una nazione che chiede l’ingresso in Europa, dov’è la libertà di espressione? Cosa succede in Turchia? Lo chiediamo a Elif Shafak, la scrittrice più venduta nel paese. «Sono molto triste e sono rimasta scioccata nel vedere gli accademici arrestati solo per aver firmato una petizione. Questo è inaccettabile in una democrazia. Una vera democrazia prospera sulla libertà di parola, sulla separazione dei poteri, il rispetto della legge e la diversità delle opinioni. Nessuna di queste cose, però, è più permessa in Turchia».
E che cosa c’è invece?
«Il crollo della libertà di espressione. Chiunque osi criticare lo Stato o il governo viene trattato come “un nemico interno”. Se critichi il governo, automaticamente sei accusato di “tradire la tua nazione”. Intellettuali e accademici sono demonizzati e offesi. Alcuni di loro minacciati apertamente».
Come?
«Gruppi ultranazionalisti imbrattano le porte dei loro uffici scrivendo ‘qui non vogliamo nemici della nazione. Vattene’. Per chi ha un’opinione diversa c’è una crescita allarmante di intolleranza”.
Come la definirebbe: una situazione fosca, deprimente?
«Molti sono depressi e demoralizzati. Vediamo che il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, è ancora in prigione, e così il suo capo redattore Erdem Gul. L’ultranazionalismo è in ascesa. Il fondamentalismo religioso in crescita. E lo Stato è diventato più autoritario e intollerante. C’è una tensione perenne. Siamo diventati una nazione infelice».
Però Erdogan è stato votato liberamente, no? Ha vinto le elezioni ed è stato scelto da metà dei turchi.
«In questo momento la Turchia è un paese diviso. Lo scorso novembre metà della società ha votato per il suo partito (conservatore di ispirazione religiosa, ndr), ma non l’altra parte. Ci sono molte ragioni per questo e vanno analizzate con calma».
Facciamolo.
«Alcuni hanno votato Erdogan perché, temendo il caos, volevano la stabilità politica o economica. Nella psiche dei turchi, infatti, le coalizioni hanno un significato negativo. Non dimentichiamoci che tra il 1971 e il 1980 (le date di due colpi di Stato, ndr) ci sono state 10 coalizioni di governo, e molta violenza».
C’era la paura di tornare a quei tempi?
«Per molti. Altri hanno votato per il suo partito perché volevano “una leadership forte”. E l’altra metà della società ha agito in modo del tutto diverso. Il gap tra i due campi ora non è più colmabile».
E per lei non è triste che la libertà di espressione e la democrazia non siano una priorità per alcuni?
«Quello che per loro conta è la stabilità economica. Ma la democrazia non è qualcosa che può essere posposto o cui rinunciare. Non possiamo abbandonarla».
Il kamikaze che ha ucciso 10 turisti tedeschi a Istanbul, è un messaggio dell’Is a Erdogan, accusato da molti osservatori di avere dato corda per anni ai jihadisti? Come risponderà ora la Turchia?
«I politici sono stati troppo lenti nel comprendere quale grave pericolo costituisse il cosiddetto Stato Islamico. Per un po’ la gente ha pensato che fosse un problema in un posto lontano. Poi hanno visto che cominciavano a reclutare giovani in Turchia. Oggi è una situazione allarmante. Nella città di Suruc, poi ad Ankara, ora a Sultanahmet… Gente innocente è stata macellata. E i media non possono scriverne ampiamente, perché per lo più vengono silenziati».
La sua opinione sulla questione curda? Un problema di terrorismo, come dice il governo, o di democrazia?
«Quella che chiamiamo “questione curda” è un problema importante, che non può essere risolto con le armi. È una questione storica, politica, sociale e culturale, prima di tutto. Ha lasciato sul campo 40.000 morti. Dopo tutte queste vittime e questi anni, abbiamo imparato qualcosa?».
Per lei?
«Temo di no. E ho paura che stiamo andando indietro. Facciamo ancora vecchi errori. Quello di cui abbiamo urgente bisogno, invece, è la pace. Quello che ci vuole è la coesistenza e la democrazia. Ma chi la chiede viene punito o linciato. La violenza deve finire».
Repubblica 16.1.16
E ora scricchiola la ripresa europea
Sui mercati vendite da panico, ma la crisi della Cina può creare un’ondata di sfiducia
Ferdinando Giugliano

L’ANALISI
Dopo due settimane di forti vendite sui mercati azionari mondiali, si avverte un’aria di cupo pessimismo sulle sorti dell’economia mondiale. Ma per quanto il rischio di essere all’inizio di una nuova crisi resti concreto, è troppo presto per convincersi che la catastrofe sia ineluttabile.
Pur riflettendo in teoria le prospettive delle aziende quotate, le Borse possono essere dominate da umori ben lontani dall’andamento dell’economia. Gli investitori si fiutano a vicenda e vendono in momenti di panico anche quando non c’è una ragione reale per farlo. Queste turbolenze sono diventate ancora maggiori da quando le Banche centrali hanno immesso nel mercato centinaia di miliardi di liquidità. Per anni le Borse sono salite a dispetto di dati di crescita mediocri. Non è da escludere che oggi stia accadendo il contrario.
Un problema di fondo però c’è: l’economia mondiale resta fragile. La debolezza riguarda principalmente i mercati emergenti, che dopo una lunga fase di espansione riscoprono gli spettri della recessione e delle crisi valutarie. Al centro di questo terremoto vi sono il Brasile e la Russia, ma anche la situazione del Sud Africa va progressivamente peggiorando, mentre l’India resta per ora al riparo dalle scosse più forti.
Le previsioni di crescita dei Paesi emergenti – tagliate piuttosto nettamente dalla Banca Mondiale solo poche settimane fa – scontano il crollo del prezzo delle materie prime, di cui sono spesso produttori, nonché il rialzo dei tassi d’interesse della Federal Reserve, che ha riportato molti capitali da Asia, Sud America e Africa verso gli Stati Uniti.
Il nodo centrale di questa fase di incertezza rimane la Cina, un Paese impegnato in una difficilissima transizione da un’economia dominata dagli investimenti e dall’industria pesante, a una più orientata verso i consumi e i servizi. A far paura non è soltanto l’incertezza sulle statistiche ufficiali, spesso in distonia con altri indicatori quali i consumi di elettricità, ma anche i tanti errori recenti delle autorità di Pechino. Per anni, la classe politica occidentale ha guardato ai colleghi cinesi con un misto di stupore e invidia per tassi di crescita intorno al 10 per cento annuo. Negli ultimi mesi, decisioni confuse e contraddittorie su come regolare le Borse hanno scalfito questa fiducia, causando diffuso pessimismo anche sulla gestione dell’economia.
Attribuire le perdite dei mercati a questi fattori si scontra però con un problema. Le difficoltà dei mercati emergenti e le paure su un possibile crollo improvviso della Cina erano ben note negli scorsi mesi. Il primo rialzo dei tassi della Fed, poi, accuratamente telegrafato dal presidente Janet Yellen, non aveva inizialmente causato particolari scossoni. Da inizio anno i dati economici dei Paesi in via di sviluppo sono continuati a peggiorare, ma non abbastanza da giustificare il crollo dei mercati di questi giorni.
I due veri punti interrogativi riguardano dunque la crescita negli Stati Uniti e in Europa che, in quanto Paesi prevalentemente consumatori di materie prime, dovrebbero beneficiare dell’abbassamento del loro prezzo. In particolare, la caduta verticale del prezzo del petrolio, che è andato sotto i 30 dollari al barile dagli oltre 100 di metà 2014, dovrebbe abbassare i costi di produzione della maggioranza delle aziende, oltre a rendere i consumatori un po’ più ricchi.
In Europa, questi benefici si sono visti per la maggior parte del 2015, con una ripresa che è stata in larga parte trainata proprio dalle spese delle famiglie. Ancora oggi, gli indici di fiducia sono molto alti, grazie anche a un’occupazione in ripresa e a un potere d’acquisto che aumenta. Nelle ultime settimane, però, dati negativi sulla produzione industriale fanno temere che il contraccolpo del rallentamento dei mercati emergenti possa essere più forte del previsto. Il consiglio direttivo della Banca centrale europea, che si riunisce questa settimana per decidere sulla politica monetaria dell’area euro, potrebbe vedersi obbligato già nei prossimi mesi a rafforzare il suo programma di quantitative easing per riportare l’inflazione verso il livello obbiettivo, appena sotto il 2 per cento.
Negli Stati Uniti la situazione è ancora meno chiara. Se è vero che l’industria sembra un po’ in affanno, anche a causa del rafforzamento del dollaro che ha accompagnato il rialzo dei tassi della Fed penalizzando le esportazioni, l’occupazione continua a crescere a ritmi sostenuti. Un pericolo ancora difficile da stimare è legato all’effetto che il crollo del prezzo del greggio possa avere sulle banche che hanno finanziato l’industria petrolifera. La crescita repentina del cosiddetto shale oil potrebbe aver creato una bolla che rischia di scoppiare in faccia ai creditori.
Per l’Italia, il rallentamento dei mercati emergenti costituisce un rischio ma anche una piccola opportunità. Molte nostre aziende, soprattutto nel settore del lusso o dell’alimentare, potrebbero perdere quella spinta che gli veniva dall’export verso paesi come Russia, Brasile e Cina. Un improvviso arresto della crescita globale, legato a una perdita di fiducia generalizzata, avrebbe poi effetti molto gravi sulla nostra timida ripresa.
Allo stesso tempo, la sfida per il nostro governo sta nel cercare di intercettare quei flussi di capitale che oggi lasciano i mercati emergenti. Per farlo, però, serve un’economia che dia agli investitori la sicurezza di mettere i loro soldi in un Paese dalla burocrazia leggera e dove la giustizia è amministrata in tempi rapidi. Un obbiettivo che, al di là dei piccoli passi avanti di questi mesi, resta ancora molto lontano.
Corriere 16.1.16
Recessione nel 2016, la grande paura Usa
L’industria americana è in affanno: i consumi interni sono risaliti poco, anche l’export segna il passo E gli scenari segnano una svolta da quel sentiero di ripresa lenta (ma solida) disegnato dalla Fed
di Giuseppe Sarcina

NEW YORK Gennaio 2016: fuga da Wall Street. Il conto è pesante e non risparmia nessuno sui mercati finanziari. L’indice principale della Borsa americana, il Dow Jones, recupera qualcosa nelle battute finali, ma chiude con una perdita di 392 punti, il 2,4%. Dall’inizio del 2016 la flessione è pari all’8%. Per trovare un livello più basso bisogna risalire al 25 agosto 2015. Il Nasdaq, il listino dei titoli tecnologici, lascia sul campo il 2,4% e ritorna alla soglia dell’ottobre 2014. Le parole di ottimismo pronunciate il 13 gennaio scorso dal presidente Barack Obama sono ancora sospese nell’aria. Ma in America torna quella sgradevole sensazione di incertezza, di insicurezza che sembrava archiviata con la decisione assunta dalla Federal Reserve il 16 dicembre 2015: rialzo dei tassi di interesse, +0,25%/0,50%, dopo sette anni di denaro a costo zero.
Le quotazioni di Wall Street sono turbate dal ribasso del petrolio e da correnti che sembrano arrivare da lontano. Tutti guardano al rallentamento della Cina alle difficoltà del Brasile e in parte dell’India. Gli analisti scrutano gli indicatori dell’economia mondiale e distillano preoccupate previsioni. Ma gli investitori e i piccoli risparmiatori hanno già deciso: con la consueta rapidità stanno liquidando gli stock. In ciascuno dei primi giorni del 2016 è passata di mano una media di 8,8 miliardi di azioni, quando nel 2015 era stata pari a 6,8 miliardi. I capitali in uscita cercano riparo nei titoli del Tesoro a 10 anni, nonostante il tasso di interesse non arrivi al 2%. In forte rialzo anche l’oro, ieri +1,2%, l’altro bene rifugio per eccellenza.
Sono numeri inquietanti. Certo, ancora lontani da quelli della grande paura che abbiamo conosciuto con la crisi finanziaria nel settembre del 2008. Ma segnano una brusca deviazione da quel sentiero di ripresa lenta, ma solida disegnato dalla presidente della Fed, Janet Yellen.
Sono all’opera fattori fisiologici. L’economista Martin Feldestein, già consigliere di Ronald Reagan, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal Wall Street Journal , sostiene che i prezzi di Borsa siano sopravvalutati del 30% rispetto alla media storica: «Altre correzioni saranno inevitabili». Il mercato è gonfio di liquidità. Le banche si sono finanziate praticamente a costo zero, attingendo al programma di «quantitative easing» della Banca centrale. Il denaro è stato investito soprattutto nel settore energetico, nella green economy, nelle start-up di Internet, ma anche nelle società più tradizionali. Le bolle non possono gonfiarsi in eterno.
Adesso il problema, economico per la Fed, politico per Obama, è evitare che la deriva della Borsa si trasformi in un rovescio dell’economia reale.
Il settore manifatturiero americano è in affanno, soprattutto perché i consumi interni non hanno ripreso continuità. Poi ci sono le crescenti difficoltà nelle esportazioni verso il resto del mondo, penalizzate dal rafforzamento del dollaro. Quelle indirizzate verso la Cina valgono solo l’1% del totale. Tuttavia il grande Paese asiatico, osservano gli analisti, resta un fattore importante anche per il mercato finanziario Usa. Se rallenta il motore di Pechino, come si vede da mesi, all’istante frena anche il resto del mondo.
Esiste il rischio concreto di una recessione negli Stati Uniti? Per il 2016 è prevista una crescita del prodotto interno lordo superiore al 2%. Quella sarà la soglia decisiva secondo alcuni esperti, come Carey Leahey, del centro studi Decision Economics di New York, diretto da Allen Sinai. «I fondamentali dell’economia indicano che al momento non esiste un vero pericolo di recessione. Ma se quest’anno il Pil cresce meno del 2%, allora sì, l’economia comincerebbe ad avvitarsi e le cose si potrebbero davvero complicare».
Repubblica 16.1.16
Libia, 4 caccia italiani spostati a Trapani “Pronti a difendere i pozzi di petrolio dall’Is”
di Vincenzo Nigro

L’Italia è un po’ più vicina alla possibilità di nuovi attacchi militari in Libia. L’Aeronautica militare ha trasferito ieri a Trapani, in Sicilia, 4 cacciabombardieri Amx dalla base di Istrana, in provincia di Treviso. La decisione è stata presa martedì, in una riunione del gabinetto di crisi a Palazzo Chigi. Il premier Renzi con Minniti, Gentiloni, la Pinotti e Alfano ha incrociato le sue valutazioni con le ultime informazioni portate dal capo di Stato maggiore Claudio Graziano e dal direttore dei servizi di intelligence, l’ambasciatore Giampiero Massolo.
Le ragioni di questa scelta sono da giorni sui giornali e sui siti di informazione di tutto il Mediterraneo: da settimane in Libia il Daesh sta progredendo. Come diceva l’inviato Onu Martin Kobler, «la vera novità è che lo Stato Islamico sta dimostrando una notevole capacità militare: avanza contemporaneamente verso Sud e verso Est». Le truppe del Califfo Al Baghdadi dimostrano la propria forza, e adesso starebbero preparando un’avanzata anche verso Sebha, un’oasi strategica nel Sud della Libia.
Ma allora perché l’Europa, la Nato, l’Italia stessa rimangono a guardare? Perché non hanno ancora attaccato il Daesh in Libia? Lo ha ripetuto ieri ancora una volta Paolo Gentiloni: per il ministro degli Esteri (come per tutto il governo italiano, a partire dal premier Renzi) «è sbagliato attaccare in Libia senza un governo di unità nazionale libico insediato, che eventualmente chieda un aiuto della comunità internazionale». In un’intervista a
Le Figaro di Parigi, Gentiloni dice che l’Italia è pronta a una «coalizione internazionale» per lottare contro il Daesh in Libia, simile a quella che agisce in Iraq e Siria: «Se occorrerà, tra qualche mese, prendere amaramente atto che i libici hanno rinunciato alla prospettiva di un accordo di unità, allora certamente dovrà vedere la luce una coalizione anti-Daesh, dice il ministro. «Ma ribadisco — aggiunge — non è all’ordine del giorno: farlo equivarrebbe ad ammettere che gli sforzi dei libici sono falliti».
Gentiloni conferma una linea che, elaborata con Renzi e con il sottosegretario a Palazzo Chigi con delega ai servizi Minniti, è condivisa in maniera convinta da tutti i ministri: se si attacca in Libia senza un governo libico, sarà una nuova “invasione” occidentale, e il Daesh ne godrà dei frutti, in termini di propaganda e di nuove reclute. L’Italia, dunque, ha scommesso di attendere il nuovo governo Libico, che il premier designato Al Serraj dovrebbe portare a termine proprio domani.
Ma se si è deciso di attendere, perché allora trasferire gli aerei a Trapani? Per due ragioni: per poter contenere “colpi di testa” degli alleati della regione (innanzitutto di Francia ed Egitto che hanno fatto esercitare i loro aerei sul Mediterraneo). E poi perché, come spiega una fonte del governo, «potrebbe essere comunque necessario rispondere ad un attacco straordinario del Califfato islamico su Tripoli», sui pozzi petroliferi, sulle stazioni di pompaggio del gas, su altre installazioni strategiche. Da Trapani l’Italia potrebbe far ripartire più facilmente la guerra che ancora non vuole fare.
Corriere 16.1.16
Eventi teatrali, filosofia e rock: la notte bianca dei licei classici
Ieri porte aperte nei 237 istituti d’Italia: «Non siamo polverosi, la formazione umanistica serve»
di Claudia Voltattorni

ROMA Si va da Eschilo ad Erasmo da Rotterdam. Da Leopardi ad Aristofane. Da Shakespeare a Pirandello. E poi Pasolini e Yourcenar. Ma anche le «archeodegustazioni», i cosmetici e la sfilata di abiti: «Come si vestivano?». E intanto si filosofeggia nei corridoi fino a tarda sera, si ascoltano Chopin, Bach e i Coldplay, e si leggono Dante e Ovidio. «Il liceo classico non è né polveroso né fuori moda».
È il messaggio che 237 licei classici d’Italia hanno voluto dare ieri per la seconda edizione della «Notte nazionale del liceo classico». Un’iniziativa lanciata un anno fa dal liceo Gulli e Pennisi di Acireale per «far conoscere al grande pubblico cosa è e a cosa serve il liceo classico».
Negli ultimi anni il ginnasio ha visto un calo delle iscrizioni che ha toccato il 50 per cento, sorpassato dallo scientifico e tallonato da nuovi indirizzi, più specialistici, ma forse, anche più «di moda». E invece «c’è bisogno di riscattare la cultura classica, presentata come vecchia e sorpassata». Rocco Schembra insegna latino e greco al liceo Gulli e Pennisi: è lui l’ideatore della «Notte», dopo averne fatta una solo nella sua scuola. «Ma il successo è stato tale — racconta — da aver pensato di estendere l’idea a tutta Italia, c’è gran voglia di scoprire il classico».
E così dal Massimo D’Azeglio di Torino, al Tito Livio e le Marcelline di Milano, al Kant, il Manara, il Socrate e il Lucrezio di Roma, il Michelangiolo di Firenze, lo Zucchi di Monza, il Tasso di Salerno e via in tutta Italia, ieri notte è stata una lunga celebrazione dell’orgoglio del classico. Letture, rappresentazioni teatrali, cineforum, dibattiti, e anche partite di ping pong, perché «mens sana in corpore sano». A dimostrazione «che il classico è tutt’altro che in crisi — sorride Antonietta Porro, direttore del Dipartimento di Filologia classica alla Cattolica di Milano —: serve però la consapevolezza di chi insegna, a volte i professori per primi si sentono un po’ fuori tempo». E invece, «la formazione umanistica non solo è interessante quando si studia ma è importante anche dopo: il mercato del lavoro la richiede, cerca persone capaci di riflettere, prendere decisioni». Certo, ammette la preside del Tito Livio di Milano Amanda Ferrario: «Studiare latino e greco è faticoso, ma è una fatica che ripaga da subito».
Corriere 16.1.16
Bronzi d’Italia
Il museo di Reggio perde visitatori. Ecco come si spreca un’occasione
In controtendenza rispetto al resto del Paese, nel 2015 le presenze sono calate di oltre il 16 per cento, nonostante le due famose statue e altri reperti di grande pregio. E il sito internet lascia allibiti per la sua clamorosa inadeguatezza
di Pierluigi Battista

E chi va male? I Bronzi di Riace. Tra i numeri trionfali (evviva!) dati dal ministro Dario Franceschini sull’aumento dei visitatori nei musei c’è un buco fastidioso. L’ha scovato, scrivendone sul sito quellochenonho.net, Antonietta Catanese. La quale ha segnalato una curiosa sfasatura nella notizia data dal ministero: ci sono l’aumento del 40 per cento delle visite al «Vito Capialbi» di Vibo Valentia e quello del 12 per cento all’archeologico di Crotone e il boom negli incassi del 49 per cento al «Parco» di Locri. Ma manca il confronto col 2014 del museo di Reggio Calabria che ospita le celeberrime statue, oltre ad altri pezzi che farebbero la fortuna di ogni esposizione mondiale.
Da piangere: nell’anno migliore dei musei italiani, quelli calabresi e perfino quello dei Bronzi perdono colpi. Nonostante il rifacimento dello storico edificio reggino firmato da Piacentini, restauro costato 33 milioni di euro, cioè il triplo degli undici previsti. Nonostante gli anni impiegati per i lavori, non ancora finiti a dispetto del limite fissato nel marzo 2011 per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nonostante il boom turistico mondiale e l’Expo 2015…
Tutto inutile: i visitatori di tutti i musei, i palazzi storici, i siti archeologici della regione sono scesi l’anno scorso, rispetto al 2014, da 401.634 a 357.212, con una perdita di 44.422 utenti. Perdita dovuta per due terzi al museo reggino che ospita i guerrieri: da 195.998 visite, forse dovute anche all’emozione per il ritorno delle statue dopo anni di esilio nell’androne della Regione, a 164.076. Un calo di oltre il 16 per cento. Con un parallelo calo negli incassi, da 433.548 a 375.019 euro. La metà di quanto incassano le Grotte di Catullo e il Museo Archeologico di Sirmione.
Colpa dei treni al Sud, troppo pochi e troppo lenti? Dei pochi voli aerei? Dei cantieri sull’autostrada Salerno-Reggio? Dei tour operator internazionali? Per carità, tutto vero. Ma che sia solo colpa degli altri… Come chiamerebbero gli stranieri il museo dei Bronzi? «Museo dei Bronzi». Il nostro si chiama «Manrc»: Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Acronimo scelto dal Mibact, il Ministero beni e attività culturali e turismo. A sua volta così definito dall’Ubcsd, Ufficio burocratico creatori sigle demenziali.
Per non dire del sito Internet. Dove nella homepage, tutta in italiano tranne una colonnina in inglese, non solo non ci sono la Testa del filosofo, il Kouros, la testa di Apollo Aleo o i Pinakes, ma sono quasi assenti, salvo una fotina, i Bronzi. Clicchiamo «Buy ticket»: «La pagina web non è disponibile». Quella «Informazioni e guide» avverte oggi, a metà gennaio 2016, che il museo «a partire dal 27 Giugno e fino al 19 Dicembre 2015 sarà aperto» ogni sabato fino a mezzanotte o che si può arrivare a Reggio con un volo Alitalia in offerta: offerta scaduta. Quanto al «nuovo» museo da 33 milioni, nessun cenno. Anzi, il sito ti prende pure per i fondelli col link «allestimento (prima del restauro)». Cialtronerie da licenziamento istantaneo. Con gogna.
Quelle meravigliose statue, che hanno avuto la sventura di naufragare davanti a Riace e poi nel mare di chiacchiere d’insulsa vanità, sono sempre state trattate, del resto, come peggio non si poteva. Lo ricorda il libro Sul buono e sul cattivo uso dei bronzi di Riace (Donzelli) a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis, con saggi di Simonetta Bonomi, Gregorio Botta, Pier Giovanni Guzzo, Carmelo G. Malacrino, Giuseppe Pucci, Mario Torelli.
Un testo qua e là agghiacciante. Che dimostra come perfino una botta di fortuna quale il ritrovamento di due capolavori immensi sia stata sostanzialmente sprecata. Prima da archeologi saccenti che ripiegati sul proprio ombelico, accusa Salvatore Settis, rimasero «sbigottiti e increduli (…) giungendo perfino a incolpare (!) i mass media di un successo che non riuscivano a capire perché sfuggiva alla loro routine accademica». Poi dall’abuso dei Bronzi, denuncia Maurizio Paoletti, trattati troppe volte come «semplici feticci del nostro “marketing culturale”».
E così, in «un’assurda sagra del kitsch», ecco che «copie dei guerrieri si vendono come immaginette religiose vicino ai santuari» e ambulanti smerciano «riproduzioni in miniatura, ma anche foulard, portachiavi, cavatappi, portacenere, fermalibri, penne a sfera»… Il tutto in versione anche deluxe con copie dei guerrieri in oro «in vendita a partire da quasi 40 milioni di lire» e perfino, come denunciò Luigi Lombardi Satriani, «bambole gonfiabili, quelle erotiche di tipo “giapponese”, con le sembianze dei Bronzi».
Per non dire dei Bronzi usati per vendere le automobili Renault o l’acqua di Colonia «Possanza», per raccomandare la prevenzione del tumore alla prostata, per invitare alle stagioni teatrali (il guerriero con la mascherina!), per esaltare la calabresità della liquirizia, per presentare la nuova maglietta della Reggina calcio, per sostenere la tesi che la cultura (oddio, il bronzo benzinaio!) è «il petrolio d’Italia» e perfino per spacciare («uova grandissime!») l’uovo reggino.
Fino ai capolavori del «pornokitsch»: gli «Sbronzi di Riace» coi boccali di birra e poi in uno spot della Regione, che fanno «pari montagna, dispari mare», o addirittura superdotati nel porno-fumetto «Sukia», dove soddisfano ogni sogno pecoreccio. Una carrellata da incubo. Che fa a pezzi tutte le vanterie di chi tuona «Noi! Noi, gelosi custodi di una civiltà millenaria!». E obbliga tutti noi a chiederci: ma ce li meritiamo?
Repubblica 16.1.16
Alessandro Rosina, demografo dell’università Cattolica
“Stop all’esodo dei giovani o il Paese non ha futuro”
Il demografo Rosina: “Chi resta rinuncia ad avere figli Il welfare va potenziato”
intervista di M. N. D. L.

ROMA. «I giovani non hanno scampo: chi resta e non fugge corre il serio rischio di diventare un neet, e ingrossare l’esercito degli “scoraggiati”, che non studiano né lavorano». Alessandro Rosina, demografo dell’università Cattolica, è lapidario: «O diamo una speranza ai ragazzi, o l’Italia non avrà futuro.
Professor Rosina, il nostro Paese si spopola?
«Così dicono i numeri. Meno nascite, più morti, meno immigrati e più giovani in fuga. E non sembrano esserci movimenti al contrario».
Un esodo endemico?
«Nel rapporto giovani che facciamo ogni anno abbiamo visto crescere, in modo esponenziale, il numero di ragazzi che già al primo anno di università pensano all’espatrio».
Ma qualcuno torna?
«Pochissimi per adesso. E i loro bambini nascono altrove».
E quelli che restano?
«Fanno una così grande fatica a garantirsi la sopravvivenza e un lavoro dignitoso che rinunciano ai figli. Siamo scesi sotto le cinquecentomila culle. È un dato drammatico.
Se ne parla ormai da vent’anni. È stato fatto qualcosa?
«Nulla. Anzi il welfare peggiora di anno in anno. Con il serio pericolo di ipotecare il futuro. Mantenere così a lungo una natalità bassa vuol dire statisticamente ridurre il numero di madri di domani. E dunque di figli.
Qualche anno fa c’era stata una ripresa della fecondità.
«Sì, grazie agli immigrati. Poi però è arrivata la crisi e ha congelato quella ripresa. Gli italiani si sono scoraggiati ancora di più, ma anche le coppie di immigrati. Il dramma della mancanza di lavoro ha colpito tutti.
Infatti sono sempre meno gli stranieri iscritti nelle nostre anagrafi.
«Non siamo più un Paese attrattivo. Del resto i nostri giovani se ne vanno. Dal mezzogiorno salgono al nord e dal nord vanno all’estero».
Uno scenario da Grande Guerra?
«Difficile fare similitudini storiche così lontane. Però è vero che mai in Italia il numero dei morti aveva superato così tanto le nascite».
Misure di sostegno alla famiglia potrebbero invertire questa tendenza?
«Senza dubbio, ma dovrebbero essere veramente efficaci. Non c’è ricerca in cui i giovani adulti non dichiarino la loro voglia di avere dei figli. Poi accade che quando va bene ne fanno uno soltanto, o, purtroppo, nessuno.
Repubblica 16.1.16
Culle vuote e cervelli in fuga l’Italia perde 150mila persone
Nel 2015 residenti in calo per la prima volta dai tempi della Grande guerra Nascite sotto quota 500mila e morti record. E anche l’immigrazione frena
Blangiardo: “Si calcola che ogni anno oltre 130mila abitanti si cancellino dalle anagrafi”
di Maria Novella De Luca

ROMA. All’appello ne mancano centocinquantamila. Scomparsi dalle anagrafi, dalle statistiche, e dunque dalla nostra vita. Nel 2015 l’Italia ha perso centocinquantamila abitanti, numero (enorme) che si ottiene sommando il crollo delle nascite, l’aumento della mortalità, il calo dell’immigrazione, ma anche la fuga degli italiani stessi, giovani e non solo, che scelgono altre nazioni e altre realtà come dimore di vita.
Non accadeva dal 1917, dalla Grande Guerra e dall’epidemia di Spagnola, quando il nostro Paese e il resto d’Europa si trasformarono in un unico grande cimitero, con assai più tombe che culle. Nel 2015, secondo una ricostruzione del demografo dell’università Bicocca, Gian Carlo Blangiardo, il nostro “saldo naturale”, cioè la differenza tra le nascite e le morti, è stato così negativo da riportarci a uno scenario simile a quello della prima guerra mondiale, dove la morte di centinaia di migliaia di uomini fece crollare la demografia spopolando l’Italia. Proiettando i dati dei primi otto mesi del 2015 sull’intero anno, Blangiardo dimostra che facendo la differenza tra i bambini nati, 490mila, e le persone morte, 660mila, i decessi superano le culle di 170mila unità. È quello che si chiama “saldo naturale negativo”, ossia più morti che nati. «Uno scenario drammatico — spiega Blangiardo — non soltanto perché per la prima volta le nascite sono state meno di cinquecentomila, ma abbiamo avuto un’impennata di decessi di cui ancora non sappiamo spiegarci le cause, e questi numeri sono stati soltanto in parte mitigati dagli arrivi degli immigrati, il cui flusso però ha avuto un crollo drastico nel 2015». Alla fine infatti il nostro “saldo naturale” non è di 170mila italiani in meno, ma di 150mila, grazie a un residuale gruppo di 20mila immigrati che si è iscritto alle anagrafi italiane nel 2015. Potrebbe sembrare, quasi, un gioco statistico, ma in realtà lo studio di Blangiardo pubblicato sul sito di “Neodemos” (rivista online di demografia) è la fotografia di un malessere profondo. Una crisi dove la rinuncia endemica alla maternità di moltissime coppie giovani, che ripiegano, spesso tardivamente, sul figlio unico, si somma a una nuova dinamica dei flussi migratori.
«Da una parte ci sono i mancati arrivi degli immigrati, che arricchivano il nostro tasso di fecondità. Dall’altro la fuga degli italiani stessi. Si calcola che ogni anno oltre 130mila abitanti si cancellino dalle anagrafi italiane per mettere la propria residenza altrove». E gran parte di questi nuovi migranti sono giovani laureati, aggiunge Blangiardo, « altrove metteranno radici, formeranno famiglie, contribuendo a migliorare la demografia di quei Paesi….
Insomma l’anticamera di una “desertificazione” soprattutto giovanile che in molte zone del Mezzogiorno è già una realtà. «Dieci anni fa avevamo flussi migratori di 200mila persone all’anno — ricorda Blangiardo — Oggi siamo soltanto un Paese di transito, visto che nel 2015 gli iscritti stranieri alle nostre anagrafi non sono stati più di 30mila». Resta il mistero dei tanti decessi in più del 2015, mai così numerosi, appunto, in un anno non caratterizzato da eventi bellici. «Soltanto a distanza capiremo se tutto questo è dovuto a un collasso del sistema sanitario, ormai incapace di dare cure adeguate a una popolazione sempre più anziana».
Corriere 16.1.16
Il sacerdote dei due ragazzi «Non c’è ancora tutta la verità»
di A. Ga.

Brebbia (Varese) Don Fabio Baroncini è un sacerdote anziano e malato. Oggi è a Milano, in una parrocchia di periferia, quartiere Niguarda: nel 2013, quando Adam Mada Kabobo uccise a picconate tre persone, svolse un ruolo fondamentale per la comunità, e non soltanto in chiave religiosa. Ma don Fabio è stato uno dei preti di queste terre. Il prete, trent’anni fa, di Lidia e di Stefano, suoi studenti, e degli altri giovani del gruppo di Comunione e liberazione. Lo scorso 12 ottobre, agli investigatori il sacerdote 73enne aveva confidato d’essersi fatto l’idea che l’autore dell’omicidio fosse «un ragazzo», proprio uno dei ragazzi, perché soltanto uno di loro «poteva sapere degli spostamenti di Lidia» e che la stessa Lidia «non si sarebbe mai fatta mettere le mani addosso da qualcuno a meno che non avesse affetto per lui». E di «affetto», Binda ne aveva, ricambiato se non da Lidia di sicuro dalla sua famiglia. Ancora ieri i Macchi (difesi dall’instancabile avvocato Daniele Pizzi) hanno ricordato le visite a casa, dove si fermava per cena; ancora ieri la madre di Lidia ha detto che «se davvero è stato lui», questo sarebbe una «fonte ulteriore di strazio». Dubbi, non certezze sulle novità dell’inchiesta. Ma del resto anche don Baroncini, di rientro dalla messa del pomeriggio, al Corriere ha detto: «Non sono convinto che l’intera verità sia emersa. Forse gli investigatori non hanno terminato il proprio lavoro». Altro non ha aggiunto. Ma che cosa eventualmente sa? E per quale motivo un altro sacerdote come don Giuseppe Sotgiu ha coperto l’alibi di Binda mentre ha con insistenza consigliato a quella Patrizia Bianchi, già amica del cuore di Lidia e innamorata di Stefano, di stargli alla larga? Ancora don Baroncini, ripensando a quei tempi, ha spiegato ai poliziotti che pur essendo stato un punto di riferimento per i ragazzi, «ha sempre tenuto distinto il proprio ruolo di guida da quello di confessore». Si è emozionato, il vecchio sacerdote, a ricordare quelli di Cl, così pieni di entusiasmo, così in fiduciosa attesa del futuro per andare all’università, crescere figli. Quelli di Cl. Non si sono mai persi di vista. Anche uno che si era allontanato come Stefano Binda, dopo le prime perquisizioni, ha voluto riallacciare i contatti. Telefonate, proposte di incontri, ripetute domande.
Corriere 16.1.16
Quella vita da fantasma tra eroina e Sacre scritture dell’ex primo della classe
di Andrea Galli

Brebbia (Varese) Con le tapparelle abbassate anche nelle mattine d’estate, la villetta sembrava disabitata ancor prima delle perquisizioni degli ultimi mesi e dell’arresto di ieri. Quasi che mamma Maria, vedova da giovane del marito artigiano dei camini, più che per la vergogna del divorzio della figlia Patrizia, tornata ad abitare da lei al piano terra, volesse proteggere la famiglia dalle malelingue per l’altro figlio, chiuso nell’appartamento al primo piano. L’adorato Stefano per cui immaginava un futuro (bravo chierichetto alle elementari) da sacerdote come l’amico fraterno don Giuseppe Sotgiu, l’unico che gli ha coperto l’alibi per i giorni dell’assassinio, oppure (primo della classe alle superiori) un futuro da professore universitario e che invece, arrivato a 48 anni senza un’ora di lavoro, continuava a drogarsi. Eroina. Le siringhe gli avevano provocato un’infezione che gli aveva mangiato il braccio destro, rimasto ritratto. I boschi di Sass Pinin, dove Lidia fu uccisa, erano il covo dei tossici.
Via Cadorna è stretta e termina in una corte ristrutturata con un ampio cortile che ospita gli aperitivi e le serate di chiacchiere dei pochi residenti, orgogliosi di «questa piccola comunità» ma che, dietro un muro, al riparo dagli altri, si dicono contenti che finalmente abbiano portato via quell’uomo. Del resto «non aveva voglia di fare un c...»; campava «sulla pensione della madre e della sorella sgobbona»; bighellonava come «l’altro lì», il trentenne Jonathan, il figlio di Patrizia, che «passa il tempo a guardare lo sport su Sky». Naturalmente qui, «da decenni», girava voce insistente che l’avesse uccisa lui, però lui non compariva tra i «colpevoli» indicati dalle decine di lettere anonime di calunnia per ventinove anni circolate in provincia di Varese; e naturalmente nessuno aveva prove e s’era preso il rischio di condividere le «informazioni» con gli investigatori.
Via Cadorna in passato era chiamata la «brughera», distesa di terra incolta utile per allevare i bachi da seta. Binda non ha legato con nessuno dei vicini. Usciva per andare in due bar a comprare le amate sigarette e farsi il cicchetto: il «Relax bar» e l’«Albergo»; si muoveva la domenica per la messa nella chiesa priva di parroco fisso, a causa della crisi delle vocazioni; e quando capitava partecipava agli incontri dell’associazione culturale «Magre sponde» il cui presidente difende Stefano, «uomo buono e mite», lontanissimo dalle cattiverie di Brebbia, tremila abitanti tra i laghi di Varese e quello Maggiore, e soprattutto lontanissimo dal ritratto dell’ordinanza di custodia cautelare. Quand’era giovane, forte dell’aria da «intellettuale dannato» come scritto dal giudice, piaceva alle ragazze. E se mai già allora veniva escluso, o comunque non accolto totalmente nel gruppo di Comunione e liberazione, era in conseguenza della sua «arroganza», convinto d’essere sprecato, con le conoscenze di storia, filosofia e cinema, in questa provincia allevata per faticare in fabbrica. Manca una prova «definitiva», nell’impianto accusatorio, ad esempio la prova del Dna. Però, sì, hanno confermato più testimoni, Binda ha mentito perché quel gennaio non partecipò a una vacanza in montagna. Però sì, hanno appurato gli esperti, scrisse la missiva indirizzata ai genitori di Lidia il giorno dei funerali. Però, sì, hanno certificato gli psichiatri, nel testo era raccontato l’omicidio, e forse solo uno come Stefano, studioso omnivoro ed esperto di Sacre scritture, avrebbe potuto fare quei rimandi, la morte violenta («Lo strazio delle carni»), la verginità violata («Il velo strappato»), le pulsioni e il peccato originale («Lo scotto dell’antichissimo errore»), e la violenza brutale divenuta «atto liberatorio, un tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie personalità... il delitto di una personalità paranoide, altamente narcisista, divisa tra regole e pulsioni».
Delirio, follia, orrore: dov’è dunque l’«uomo buono e mite»? Se Stefano Binda ha stuprato e ha ucciso e per una vita l’ha nascosto, nell’isolamento del primo piano, gelosissimo custode di una fotografia di Lidia e dei vecchi diari riempiti con la foga degli adolescenti, era convinto che tanto l’avrebbero scoperto oppure che si sarebbe salvato. Poteva scappare e non l’ha fatto. Se si assentava, era per disintossicarsi in comunità e per andare a trovare conoscenti del vecchio giro di Comunione e liberazione, e sacerdoti che forse hanno condiviso i suoi segreti. Poi, tornava puntuale. Nella villetta al civico 5. Un cancello basso, una palma, un nano da giardino, la cassetta delle lettere con le targhette dei quattro nomi, da una parte le donne e dall’altra gli uomini: Maria, Patrizia, Stefano, Jonathan.
La Stampa 16.1.16
Delirio religioso e sessuofobia
quei tarli del “poeta maledetto”
I pm: uccisa perché aveva ceduto a un rapporto con lui L’amico chierichetto aveva avallato il suo finto alibi
di Paolo Colonnello

Sapere che uccise Lidia Macchi «per motivi abietti e futili, consistiti nell’intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso», non basta.

Ci sono in questa storia furibonda di Stefano Binda, alcune cose che non tornano e che sono appena accennate nell’ordinanza che ieri mattina lo ha portato in carcere, dove a un certo punto si parla esplicitamente della possibile esistenza «di un complice o di un favoreggiatore». E dove su tutto aleggia una religiosità malata, figlia di un mondo chiuso, omertoso.
L’omertà
Perché se è pur vero che vi sono delitti che rimangono irrisolti, il segreto del “poeta maledetto”, del ciellino diventato eroinomane che aveva affascinato l’ex compagna di liceo desiderosa di “salvarlo”, è difficile che abbia retto 29 anni senza l’omertà di qualcuno che pure un’idea doveva essersela fatta su questo filosofo “misogino”, tanto brillante quanto inconcludente nella vita. Come don Giuseppe Sotgiu, forse il miglior amico dell’epoca, ex chierichetto come lui nella parrocchia di Varese, che quando testimonia nelle prime fasi delle indagini, rilevano gli inquirenti, racconta subito una bugia. E cioè che Binda la sera in cui venne uccisa Lidia Macchi, era con lui e un altro amico a vedere un film. Un alibi di ferro. Peccato che lo stesso Binda, ascoltato poche ore dopo di lui, dichiari di essere tornato dalle vacanze in montagna con altri giovani ciellini, proprio il giorno dopo l’omicidio. Così Sotgiu, torna alla polizia e rettifica: la sera dell’omicidio, spiega. ero in casa di amici a guardare un film in televisione e Binda non era con noi. Gli amici confermeranno. Perché questo cambio repentino di versione non viene notato dagli investigatori di allora? Mistero. Binda racconterà anche di conoscere a malapena Lidia, mentre i due proprio in quel periodo si frequentavano assiduamente. E nella comunità era cosa risaputa. Nessuno però rilevò l’incongruenza.
Di fatto, sarebbe bastato controllare se davvero Binda era andato in montagna per capire che, se l’amico aveva cercato di fornirgli un alibi, qualcosa non andava. Invece niente e piano piano l’omicidio di quella ragazza, scomparsa in una «notte di gelo», finì tra i casi irrisolti. Lasciando, come nota nella sua richiesta di arresto il pg Carmen Manfredda, che «un vento di calunnie e sospetti» soffiasse forte nella stessa comunità ciellina di Varese, travolgendo inizialmente un sacerdote per poi trasferirsi su Giuseppe Piccolomo, il “killer delle mani mozzate”, accusato dalle figlie di essersi vantato di aver ucciso Lidia Macchi.
La svolta
Appena le indagini riprendono nel 2014, avocate dalla procura Generale di Milano, sebbene siano passati quasi 30 anni, arrivano velocemente a una conclusione. Per ora, quella più plausibile. Così, quando il 7 agosto scorso a Binda viene ufficialmente comunicato di essere il sospettato numero 1, lui, nota il gip nel provvedimento di arresto, «riprende i contatti con le figure del suo passato»: il nunzio apostolico Piergiorgio Bertoldo, missionario in Africa e poi Marco Pippione, oggi come allora «uno dei responsabili varesini del movimento di Cielle». «In altre parole Binda ha cercato di riprendere contatto con quel passato per prepararsi a un possibile sviluppo delle indagini». E forse ad una fuga, visto che tra i motivi dell’arresto il gip mette questa eventualità oltre alla reiterazione del reato. E’ ancora una volta una poesia a far riaprire il caso, una delle più celebri di Pavese: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Binda la regalava alle giovani cielline affascinate dalla sua prosa. Una sera del 2014, Patrizia Bianchi, l’unica donna che Stefano abbia mai baciato, guardando la trasmissione “Quarto Grado”, scopre che nella borsa di Lidia, dettaglio finora inedito, era stata trovata proprio una copia di quella poesia che solo Binda poteva aver regalato alla giovane. Patrizia decide di farsi avanti con gli inquirenti. Eppure, dell’omicidio di Lidia e dei sospetti sul suo vecchio amore di gioventù, ne aveva già parlato a un altro fidanzato, addirittura tra il ’90 e il ’93. Comportamenti forse non penalmente rilevanti, ma ipocritamente imbattibili.