sabato 23 gennaio 2016

il manifesto 23.1.16
Il comune destino degli ungheresi Istvan Toth e Geza Kertesz
Sport e Shoah. Costruirono una rete clandestina per salvare gli ebrei, diventarono allenatori in Italia, tornati in patria furono fucilati nel '45
di Pasquale Coccia

Gottfried Fuchs e Jiulius Hirsch furono gli unici calciatori ebrei a vestire la maglia della nazionale tedesca, primato che detengono ancor oggi. Amici per la pelle in campo e fuori, furono segnati da un diverso destino. Il primo, una mezzala in grado di trasformarsi in un veloce attaccante e mettere la palla in rete, passò alla storia del calcio alle olimpiadi di Stoccolma del 1912, quando con la nazionale tedesca in una sola partita realizzò dieci dei sedici gol che la Germania inflisse alla Russia. Prima che la furia hitleriana si abbattesse sugli ebrei Gottfried Fuchs fuggì in Canada, dove visse fino al 1972. Diversa fu la sorte dell’ala sinistra Julius Hirsc. Convinto che la persecuzione degli ebrei fosse passeggera rimase in Germania, ma per lui non ci fu scampo, fu deportato ad Auschwitz dove morì nel maggio del 1945.
Ebbero destini comuni fino alla morte Istvan Toth e Geza Kertesz, due calciatori ungheresi, poi allenatori in Italia, che aiutarono gli ebrei e mettersi in salvo attraverso una rete clandestina cui avevano dato vita. Come facevano ad aiutare centinaia di ebrei al giorno? Forti del loro perfetto accento tedesco, vestiti da ufficiali delle SS li prelevavano direttamente dal ghetto di Budapest. Toth e Kertesz furono due calciatori che da giovanissimi giocarono nel Btc Budapesti, una delle più forti compagini del campionato magiaro. Toth, il più forte tra i due esordì in nazionale a soli 18 anni in, Ungheria-Inghilterra, 4 a 2 a favore degli inglesi. Toth e Kertesz, giocarono insieme per tre anni, poi Toth passò nelle file del Ferencvaros. Facevano parte di quella scuola danubiana che si affermò rapidamente e dominò il calcio europeo dagli anni Trenta fino al dopoguerra. Finita la carriera calcistica, Istvan Toth e Geza Kertesz restarono entrambi nel mondo del calcio, intraprendendo la carriera di allenatori, seppero applicare moduli innovativi e vincenti.
Toth al suo primo anno da allenatore alla guida della Ferencvaros, conquistò lo scudetto, un trofeo che mancava da ben tredici anni, e l’anno successivo la Coppa dell’Europa centrale, rispondente all’attuale Champions. A 40 anni Istvan Toth era sul tetto d’Europa, l’allenatore più conosciuto per gli allenamenti e i moduli tattici rivoluzionari che aveva saputo introdurre nel calcio, non solo era un grande motivatore, contava sulla forza del gruppo, ma per la prima volta ogni calciatore aveva una sua scheda di allenamento con i punti forti e deboli da curare. Nell’estate del 1931 per Istvan Toth arrivò la chiamata dall’Inter. I nerazzurri l’anno precedente avevano vinto lo scudetto sotto la guida di un altro grande allenatore ungherese, Arpad Weisz, che aveva lasciato i campioni d’Italia per passare al Bologna di Leadro Arpinati, fascista della prima ora e ras della città emiliana, il quale voleva i felsinei scudettati a tutti i costi. I nerazzurri avevano nelle proprie file Giuseppe Meazza, che appena ventenne era stato lanciato nella massima serie proprio da Arpad Weisz.
Quell’anno l’Inter concluse il campionato al sesto posto, una delusione per le aspettative dei nerazzurri, a Toth non restò altro che raggiungere l’Ungheria per allenare altre squadre. Diverso il percorso da allenatore di Geza Kertesz, che fece una carriera tutta italiana. Alla guida dello Spezia portò la squadra ligure al passaggio di categoria, passò alla Carrarese che condusse in serie B, fu allenatore del Viareggio e della Salernitana. A fargli una corte spietata e a non badare a spese fu il barone Enrico Talamo, proprietario del Catanzaro, Geza Keretsz al termine del campionato 1932–33, portò la squadra calabrese in serie B, dopo aver vinto gli spareggi contro il Napoli e il Perugia, mai una squadra calabrese aveva conquistato un risultato del genere. Keretzs divenne un eroe popolare, ma l’affetto della gente di Catanzaro non lo trattenne. L’allenatore magiaro era un animo irrequieto e dopo il successo calabrese, passò in Sicilia dove prese ad allenare il Catania, anche qui Keretsz replicò il successo ottenuto l’anno prima a Catanzaro.
La squadra etnea non aveva mai raggiunto la serie B, dopo il successo la piazza si riscaldò e voleva la serie A, la squadra siciliana acquistò Biavati, futuro campione del mondo nel ’34, ma concluse il campionato di B al terzo posto. A reclamare l’allenatore magiaro fu il Taranto, Keretsz alla guida della squadra pugliese conquistò per l’ennesimo anno la serie B, ormai era considerato un esperto di promozioni. Intanto aveva rifatto capolino in Italia il suo amico Toth, il quale allenò la Triestina, dove lanciò Gino Colaussi, che vinse i mondiali di Francia nel 1938, ma i risultati furono deludenti, mentre Keretsz approdò in serie A alla Lazio, piazzandosi al quarto posto nel campionato 1939–40. L’anno successivo all’euforia seguirono risultati deludenti, alla sesta giornata di campionato Keretsz fu esonerato, allenò anche la Roma l’anno dopo quello dello scudetto del 1939–40. L’aria si era fatta pesante, l‘Italia era in guerra, Keretsz tornò a Budapest. Dopo l’invasione di Hitler, organizzò con Toth una rete per salvare ebrei e oppositori politici, Keretsz parlava perfettamente il tedesco e vestito da ufficiale SS andava nel ghetto a prelevarli per metterli in salvo. La rete di resistenza durò un anno, fino a quando una spia denunciò i due allenatori, la Gestapo li fucilò il 6 febbraio del 1945, il 13 febbraio Budapest fu liberata.

il manifesto 23.1.16
Addio Memoriale degli italiani
Giornata della Memoria. Il direttore del museo di Auschwitz dopo un preciso ultimatum ha dato l'ordine di smantellare l'opera d'arte del Blocco 21 inaugurata nel 1980 dedicata agli italiani deportati e morti
di Beatrice Andreose

Quando Luigi Nono compose la sua opera per il Memoriale italiano che nel 1980 venne inaugurato ad Auschwitz, la commentò in questo modo «Non è una musica facile. È una musica dolorosa. L’unico consiglio che mi sento di darvi prima dell’ascolto: spegnete la luce, massimo silenzio, chiudete gli occhi». Un silenzio accorato, certo non quello dell’abbandono in cui versano le stanze che ospitavano l’opera e che da qualche mese si presentano ormai desolatamente vuote. Cancello sbarrato e memoria calpestata, dunque, per i nostri connazionali deportati e morti ad Auschwitz. Sino al 2011 i visitatori potevano visitare l’opera realizzata da alcuni tra i più importanti nomi della cultura italiana del Novecento tra cui gli architetti dello studio milanese BBPR (Lodovico Belgiojoso, Ernesto Rogers, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi) che avevano lavorato assieme a Primo Levi per i testi, Pupino Samonà per i dipinti, Nelo Risi per la regia e Luigi Nono per le musiche. Una morte lungamente annunciata, quella del Memoriale italiano. L’ultimo capitolo è dell’aprile 2014 quando il direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau Dr Piotr M.A.Cywinski nella sua missiva all’Aned (l’Associazione degli ex deportati nei campi nazisti che del memoriale è titolare) e all’Ambasciatore d’Italia a Varsavia Riccardo Guariglia intimava un vero e proprio ultimatum per lo smontaggio del Memoriale dal Blocco 21. Chiedeva in modo perentorio una nuova installazione più conforme alle disposizioni definite dal Consiglio internazionale di Auschwitz. In sostanza il revisionismo polacco chiedeva che la Shoah oscurasse l’antifascismo esigendo che venissero rimossi i simboli comunisti e quella falce e martello che il Parlamento dal 2009 aveva messo fuori legge. L’accusa era che si trattava di «un’opera d’arte fine a se stessa, priva di valore educativo». Poco graditi soprattutto il racconto dell’ascesa del nazi– fascismo, del collaborazionismo, del razzismo di Stato, del ruolo delle multinazionali tedesche (soprattutto la Bayer). Per la Polonia era inopportuno ricordare oltre all’olocausto ebreo anche quello dei prigionieri politici comunisti, degli omosessuali, dei rom e dei disabili che trovarono la morte ad Auschwitz. E così, tra il silenzio ed il disinteresse assordanti dei governi italiani che si sono succeduti dal 2007 ad oggi e dopo anni di resistenze solitarie prima dell’Aned, poi del mondo accademico e artistico italiano capeggiato dall’Accademia di Belle Arti di Brera, nel maggio di quest’anno i tecnici e i restauratori dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure hanno smontato l’opera per trasferirla nello spazio Ex3 del quartiere Gavinana a Firenze, destinato a diventare Polo della memoria e centro di un museo diffuso sulla deportazione.
«Mai avrei voluto vedere le immagini dei restauratori che smontano pezzo per pezzo il Memoriale italiano – commenta Dario Venegoni, presidente ANED — Ricordo ancora lo sforzo immane da noi sostenuto quasi 40 anni fa per progettare, finanziare e allestire quell’opera nel Blocco 21 del campo; ricordo la generale commozione il giorno dell’inaugurazione, a cui io ero presente con mia madre ed un centinaio di altri ex deportati e familiari giunti appositamente dall’Italia. Che l’opera alla quale hanno lavorato così illustri autori sia smontata fa male al cuore. Nonostante ciò nell’aprile 2005 abbiamo raggiunto un accordo per il suo spostamento a Firenze, il pericolo era che venisse chiuso e disperso» conclude rispondendo così ad alcune critiche di cedimento rivolte da più parti all’Aned. A battersi per la conservazione in loco del memoriale anche l’arch. Gregorio Carboni Maestri autore nel 2013, assieme all’arch. Emanuela Nolfo, del progetto Glossa che proponeva una nuova contestualizzazione del Memoriale». Auschwitz, svuotata di qualsiasi contenuto politico, secondo Primo Levi è un luogo tragicamente destinato a diventare inutile, perché non spiega alle nuove generazioni alcunché. Diventa solo «un tragico evento». Questo evento — spiega Carboni Maestri– è fatto invece da elementi precisi, che vanno analizzati e compresi, uscendo dalla balla dell’uomo malvagio che ha ipnotizzano una nazione e ucciso milioni di vittime per il semplice gusto di farlo. Ad Auschwitz va spiegato da dove veniamo e verso dove andremo, da cosa nasce la barbarie. E la barbarie nasce solo da un elemento: dalla sconfitta del mondo del lavoro, come intuì Rosa Luxembourg. Quella vicenda ne fu la prova, oggi ne vediamo la tragica conferma, giorno dopo giorno. La storiografia di regime odierna preferisce una narrativa di Auschwitz alla «Schindler List», manichea e ingenua, con un «cattivo» (Hitler) e delle «vittime inerti» (i soli ebrei, «apatici») in modo che nessuno capisca, in definitiva, alcunché uscendo da quel campo di sterminio. Solo scossi dall’orrore, per poi essere incapaci di vedere l’orrore odierno o i possibili Auschwitz futuri. In modo che nessuno capisca che il nazifascismo nacque (e rinascerà) dalla sconfitta del mondo operaio, che lo stesso fu sconfitto solo dalla lotta vittoriosa di milioni di sovietici, dalle lotte dei partigiani, degli operai in sciopero a Sesto, degli operai statunitensi e inglesi al di là e al di qua dell’oceano che, soli, hanno sopportato lo sforzo di guerra in Regno Unito e Stati Uniti». A battersi contro lo smantellamento anche l’associazione Gherush92 che in una nota commenta «Al pari delle azioni belliche che mirano alla demolizione di mausolei ed antichi monumenti, anche le manipolazioni storico-politiche come la deportazione del nostro Memoriale, possono disintegrare la memoria delle vittime del Nazifascismo e della Shoà e abbandonare — come anziani archeologi a difesa di antichi monumenti — i partigiani e i deportati e, con loro, la Resistenza Italiana». Per vedere la storia del memoriale, il suo smontaggio ed il trasferimento l’Aned da appuntamento il pomeriggio del 27 gennaio alla Casa della Memoria di Milano. Gherush92 invece propone il 27 gennaio alle 10 al Centro Russo di Scienza e Cultura di Roma la conferenza «Come l’Armata Rossa liberò Auschwitz». Sarà presentato il progetto «Auschwitz Liberation» e si analizzerà la liberazione del campo di sterminio da parte dell’Armata Rossa.
il manifesto
Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi
Giornata della Memoria. Intervista a Pietro Scarnera autore della graphic novel sulle tracce di vita e di pensiero di uno degli scrittori più amati
di Virginia Tonfoni

Sono passati quasi trent’anni dal giorno di aprile in cui Primo Levi si tolse la vita, gettando un’ombra tetra sulla propria opera e alimentando le letture che l’hanno considerata troppo a lungo come una profonda e lunga testimonianza del lager; un’ombra che spesso ha oscurato in parte il suo spessore di scrittore. È una fortuna che in questi ultimi anni siano fiorite riflessioni e approfondimenti sul suo operato letterario, e che si proceda da diverse parti al riscatto di uno più significativi autori italiani del secolo scorso. Lo fa Marco Belpoliti, con Primo Levi di fronte e di profilo, ma in questa linea si collocava già il graphic novel di Pietro Scarnera Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi (Comma22, 2013). Il libro è candidato quest’anno nella Selezione ufficiale del festival di Angoulème, che si celebrerà a fine mese. Scarnera, al suo secondo fumetto come autore unico e membro della redazione di graphic​-news​.com (primo portale italiano di informazione a fumetti), ha risposto alle nostre domande.
Cosa ti ha avvicinato, da lettore, a Primo Levi, uomo e autore?
La mia copia di Se questo è un uomo risale ai tempi della scuole medie, ma è stato proprio un fumetto — ovviamente Maus, di Art Spiegelman — a spingermi a riaprirla, molti anni dopo. In quell’edizione c’era anche La tregua, il secondo libro di Levi, ma soprattutto un’appendice in cui Levi rispondeva alle domande più comuni ricevute dagli studenti delle scuole. Mi colpì la chiarezza, la curiosità e a tratti l’ironia con cui affrontava argomenti terribili. Di seguito ho letto tutti gli altri libri, comprese le interviste, scoprendo uno scrittore molto più ricco di quello che avevo immaginato fino ad allora. Mi sono chiesto diverse volte il motivo di questa mia piccola ossessione per Levi. Da un lato penso che ci sia qualcosa di familiare nel suo modo di raccontare, mi ha sempre ricordato i racconti di mio nonno, anche lui prigioniero in Germania durante la guerra (ma come soldato italiano). In quel periodo mio padre si trovava in stato vegetativo (come ho raccontato nel mio primo fumetto, Diario di un addio)e forse mi attirava la capacità di Levi di testimoniare un’esperienza estrema.
Il sottotitolo del tuo romanzo grafico recita «ritratto sentimentale». Che tipo di sentimento verso la figura di Primo Levi ti ha convinto ad affrontare la sua biografia in forma fumetto?
L’aggettivo non si riferisce tanto a dei sentimenti verso la figura di Levi, quanto all’approccio che ho scelto per avvicinarmi a lui. L’idea era quella di porsi come un ideale nipote, che tenta di ricostruire la vita e soprattutto l’opera dello scrittore, come se sfogliasse un album di famiglia, immaginandosi com’era da giovane, com’erano andati alcuni episodi raccontati nei libri, etc. Una stella tranquilla può essere anche visto come una riflessione sulla memoria che conserviamo di Primo Levi, a tanti anni dalla sua morte. E del resto una domanda sembra emergere sempre dall’opera di Levi, soprattutto negli ultimi lavori: sono riuscito a testimoniare? Mi credete? Il fumetto era anche un modo per dire che sì, gli crediamo, che ha raggiunto il suo scopo: i suoi libri funzionano ancora oggi.
Il nome di Marco Belpoliti, uno dei massimi studiosi dell’opera di Primo Levi appare nel prologo-di cui è autore– e nei ringraziamenti. In che modo ti ha condizionato la lettura dei testi da lui curati?
Ho pensato che sarebbe stata una buona idea raccontare la storia di Primo Levi dopo aver letto da cima a fondo i due volumi delle Opere, curati appunto da Marco Belpoliti. Nelle note Marco ripercorreva la storia dietro ogni libro, praticamente dandomi una traccia da seguire per il mio lavoro. Avere una sua prefazione è stato per me molto rassicurante; evidentemente non avevo scritto cose assurde. Non aver ancora letto Primo Levi di fronte e profilo, ma sono molto curioso di vedere la mostra «I mondi di Primo Levi», che dopo una prima tappa torinese, inaugura a Ferrara il 24 gennaio.
Nel tuo libro due giovani personaggi portano avanti la ricostruzione della vita di Levi dopo la sua liberazione. Quanto vi è di autobiografico in questa cornice narrativa e perché hai scelto questa struttura?
Mi sono ispirato a Palacinche di Alessandro Tota, uno dei miei fumettisti preferiti. La cornice serve essenzialmente a far andare avanti la storia, tuttavia molte passeggiate per Torino sono autobiografiche; ho approfittato per raccontare come è cambiata negli anni la città dove sono nato, soprattutto in quartieri periferici come Lingotto e Mirafiori. La presenza dei due ragazzi si è rivelata importante: mi sono accorto che sia in Levi sia in diversi targhe e monumenti posti a memoria si rivolgevano ai «figli dei figli», cioè alla mia generazione, perché sapessero, perché non dimenticassero. Ora tocca a noi portare avanti quella testimonianza, divenire «testimoni mentali» come ha scritto la storica Anna Bravo in una bellissima recensione, necessari a fianco di quelli oculari: questo è quello che ho provato a fare.
Il tuo lavoro scaturisce anche dalla consultazione meticolosa di fonti scritte e visive. In quali direzioni di ricerca e utilizzo ti sei mosso? Che margine di rielaborazione ti sei concesso?
Ho usato solo materiali che tutti possono trovare in biblioteca o sul web, ed ho lavorato con quello che effettivamente rimane dell’opera di Levi. Ho fatto proprio un passo indietro sul testo, ho eliminato molte cose scritte da me e ho lasciato che fossero le parole di Levi a raccontare: tutti gli episodi che descrivo sono stati scritti o raccontati dallo scrittore, tutte le parole che pronuncia in questo fumetto sono sue. Il lavoro sulle immagini è stato più impegnativo: la storia che racconto è piuttosto astratta e povera di azione-la storia di uno scrittore che vive sempre nella stessa casa– e a un certo punto è sorto il problema di cosa disegnare. Ho risolto rubando immagini dappertutto: alcune provengono dall’opera di Levi, come il gufo in copertina (l’animale con cui si identificava) e gli uomini senza volto (i «sommersi» del lager). Spesso ho usato le fotografie, le copertine dei libri, le sculture fatte con il filo di rame, vecchi documentari su Torino, foto scattate da me o dai miei genitori negli anni ’70… spesso le tavole sono state costruite attorno a queste immagini, le ho usate come ancoraggio sulla realtà. Il problema più delicato è stato disegnare il lager. Dopo averlo inizialmente escluso (non riesco neanche a immaginarlo, figuriamoci disegnarlo), un’amica mi ha fatto scoprire le opere di Zoran Music, un pittore sloveno internato a Dachau. Come Levi, Music, preso dalla necessità di raccontare, nel lager aveva disegnato diversi schizzi, ripresi poi anni dopo nella serie di pitture «Non siamo gli ultimi». Questo parallelo mi ha colpito e ho deciso di «rubare» copiando i disegni di Music nelle parti del libro in cui si parla del lager: mi sembravano le uniche immagini che potessero avvicinarsi a quelle che Levi doveva avere in testa.
Nel raccontare la complessità dell’uomo e dello scrittore, qual è stata la sfida più grande?
In realtà le difficoltà più grandi le ho avute sul disegno, nel senso che volevo trovare uno stile che in qualche modo corrispondesse a Primo Levi. La chiarezza, la precisione e la necessità di parlare a tutti, come «un telefono che funziona», sono elementi che caratterizzano la scrittura di Levi: volevo che anche il disegno seguisse questi principi.
In generale, nella grande varietà di composizione delle tavole ci sono elementi e scelte ricorrenti. A cosa sono riconducibili?
Tornano gli elementi frequenti nell’opera di Levi. Il gufo, ad esempio, praticamente l’unico disegno fatto da Levi (anche se è fatto al computer), torna in alcune interviste e nelle sculture di filo di rame. Tornano anche i prigionieri senza volto e la foto di una recinzione di filo spinato di un lager: torna nei diversi momenti della storia in cui Levi pensa ad Auschwitz.
Con un atto di estremo rispetto, il tuo libro non indaga sul suicidio dello scrittore e sulle ragioni che lo hanno determinato, quasi come se fosse la complessità dell’uomo stessa a giustificarlo. Esiste secondo te una relazione tra la pubblicazione del suo ultimo libro «I sommersi e i salvati| e il suo gesto suicida?
Davvero non saprei dire se esista un legame tra il ritorno alla riflessione sul lager e il suicidio di Levi. Posso dire che le tavole sulla sua morte sono le prime che ho pensato e disegnato, proprio per risolvere subito la questione più delicata: un argomento al quale non mi sento in diritto di cercare un perché. Mi interessa di più il modo in cui abbiamo reagito alla notizia che il fatto in sé. Quando dicevo a qualcuno che stavo lavorando a un libro su Primo Levi, il suicidio era il primo argomento che veniva fuori: c’era chi aveva una propria idea, chi chiedeva a me una spiegazione, chi mi raccontava delle storie. Tutte ruotano attorno a una presunta lettera, foriera di notizie sconvolgenti, che Levi avrebbe ricevuto la mattina dell’11 aprile 1987. Le ho riportate in Una stella tranquilla perché per me sono vere e proprie leggende urbane, che dimostrano come ci sia qualcosa di irrisolto nella memoria che abbiamo di Primo Levi. Credo che tutto il dibattito nasca dalla confusione che si è generata tra la persona e il personaggio pubblico. In realtà basta studiare un po’ la sua opera, e soprattutto le interviste, per accorgersi che il suicidio non era così totalmente inaspettato. In ogni caso questa distinzione tra Levi uomo e Levi scrittore ha guidato tutto il mio lavoro, fino al titolo e alla copertina, dove Levi indossa appunto una maschera.
Il Sole 23.1.16
La rivolta in Tunisia a 5 anni dalle «primavere»
di Ugo Tramballi

Il datore di lavoro giovanile di maggior successo in Medio Oriente di questi tempi è l’Isis: assorbimento illimitato di mano d’opera locale ed estera, uno stipendio che nessun ingegnere arabo al primo impiego potrebbe sognare. Kalashnikov gratis, matrimonio e alloggio assicurati. E in caso di morte sul lavoro, garanzia del paradiso. Non è chiaro se quella di Naguib Sawiris ai Dialoghi mediterranei di Roma, a dicembre, fosse una battuta o solo la parabola del più grave problema della regione, a parte le guerre.
Cinque anni dopo le Primavere arabe, più di metà della popolazione – 380 milioni che nel 1990 erano 247 – ha meno di 25 anni. Secondo il Fondo monetario internazionale, in un decennio la regione deve creare 75 milioni di nuovi posti di lavoro: il 40% più di quelli già esistenti, in molti casi precari.
Nel 2010, prima delle grandi rivolte, la disoccupazione tunisina era al 12%. Oggi è al 15,3. Così anche nel solo Paese arabo dove continua a non essere blasfemo parlare di Primavere, quelle Primavere che lì erano incominciate, lì ritornano: al punto di partenza esattamente cinque anni dopo. Un altro giovane diplomato ma disoccupato che si suicida, manifestazioni spontanee che si diffondono nel Paese, scontri con la polizia, feriti, arresti. Il governo che offre 6mila posti di lavoro nel settore pubblico: i giovani che gridano «Lavoro, libertà, dignità». Tutto come allora, quando c’era il vecchio regime. Beji Caid Essesbi, il presidente di oggi, apparteneva al potere di prima. È un felul, come dicono gli arabi, un sopravvissuto. Ma è innegabile che oggi in Tunisia ci sia una nuova Costituzione, che il compromesso fra laici e islamisti funzioni, che ci siano state elezioni libere e trasparenti.
Ma i giovani si rivoltano come quando non c’era nulla di tutto questo. Una generazione intera di diplomati e laureati che dovrebbe già essere classe media, sono invece i morti di fame del loro Paese. In qualche modo la democrazia, la mancanza di quella repressione che era il dato più caratteristico dei regimi spazzati via o indeboliti dalle Primavere, rende più evidente il fallimento economico tunisino. E i terroristi ne accentuano la gravità colpendo ripetutamente il turismo, la fonte più importante di reddito e occupazione nel Paese.
Come già accade in Libia ripensando a Gheddafi, in Iraq con Saddam e in Siria con Assad (lì il dittatore resiste nonostante sia uno dei principali responsabili del massacro), i nostalgici del vecchio Medio Oriente autoritario ma più sicuro, penseranno che anche in Tunisia si stava meglio quando si stava peggio. È una forma contemporanea di quell’orientalismo pieno di stereotipi che aveva messo a nudo Edward Said, arabo e filosofo alla Columbia University di New York.
Democrazia impossibile, dunque, o solo rimandata, considerando le Primavere come un processo di lunga durata e non un fatto di cronaca del Medio Oriente? Cinque anni dopo, l’outloock regionale della Banca mondiale (“Inequality, Uprising and Conflict in the Arab World”) ha cercato di dare una spiegazione socio-economica a ciò che è accaduto. Nel 2010 il quadro non era disastroso per la regione. Nel mondo arabo diminuiva la povertà assoluta e il potere d’acquisto del 40% più povero della popolazione era il più alto di tutte le altre regioni del mondo, ad eccezione dell’America Latina.
La Banca mondiale identifica la causa dell’esplosione nella classe media. Alla vigilia delle rivolte il suo “indice di soddisfazione” era bassissimo. Percepiva un peggioramento degli standard di vita, dell’occupazione, della burocrazia, dell’opacità e della corruzione del potere. I sistemi educativi erano mediocri e i governi non facevano riforme. Il sistema delle sovvenzioni che impegnava una parte importante dei Pil – nel 2012 il 22% delle risorse pubbliche del mondo arabo era drenato solo dai sussidi all'energia – avvantaggiava momentaneamente le categorie più povere. Ma scoraggiava l’iniziativa privata della classe media. In molti Paesi è venuto meno quel contratto sociale del mondo arabo, nel quale lo Stato garantiva il benessere e la gente sosteneva lo Stato, rinunciando a partecipazione e rappresentatività politica.
È la spiegazione del grande disordine? Nel 2011, prima che forme malate di Islam e di geopolitica giocassero la loro occasione, in tutto il Medio Oriente arabo erano state finanziate 65 startup: in Israele 546. L’interscambio regionale era l’8’7% del totale dei commerci: in Europa era il 63,7 e nell’Asia-Pacifico il 66,8. Sono queste le radici del disastro.
Il Sole 23.1.16
Il liquidatore di Banca Etruria: «Cda inerte di fronte al dissesto»
L’inchiesta di Arezzo. Il curatore Santoni: in 9 mesi calo del patrimonio netto di oltre il 65% - L’8 febbraio udienza del Tribunale sull’insolvenza
di Sara Monaci

MILANO Il ricorso per la richiesta di insolvenza della “vecchia” Banca Etruria, firmata dal liquidatore Giuseppe Santoni e depositata al tribunale di Arezzo lo scorso 28 dicembre, prende in esame il calo del patrimonio netto dell’istituto di oltre il 65% nel giro di 9 mesi. Calo che non permetterebbe dunque, per Santoni, la prosecuzione di alcuna attività.
I motivi di questa situazione vengono ricostruiti facendo riferimento più volte al verbale della terza ispezione di Bankitalia, quella che ha portato nel febbraio 2015 al commissariamento di Banca Etruria: sofferenze e crediti deteriorati, i fidi concessi dal cda agli stessi amministratori e compensi straordinari immotivati.
Santoni riprende appunto il verbale ispettivo: «La pessima qualità del comparto creditizio è la risultante delle marcate anomalie del processo di gestione del credito già rilevate dalla vigilanza a luglio 2012 e di nuovo stigmatizzate nell’ispezione terminata il 6-9-2013».
Nella richiesta di insolvenza si ricorda che «durante il 2014 ci furono rettifiche sui crediti complessive per circa 622 milioni... e gli organi aziendali hanno affrontato con grave ritardo le principali criticità rilevate nel corso delle precedenti ispezioni». La richiesta di Santoni punta dunque sul fatto che il progressivo aggravarsi della situazione di Banca Etruria sia stato affrontato con «l’inerzia degli organi di governo della banca».
Il tribunale aretino deciderà a breve se seguire l’indicazione del liquidatore o meno. La prima udienza per decidere dell’insolvenza è fissata per l’8 febbraio. Decisione non senza conseguenze: lo stato di insolvenza dovrà essere esaminato anche dalla procura di Arezzo, che potrebbe decidere di passare all’accusa di bancarotta fraudolenta (tecnicamente possibile solo, appunto, con un decreto di insolvenza). L’inchiesta dunque potrebbe allargarsi e aggravarsi notevolmente.
Il liquidatore ricorda anche un altro elemento evidenziato dagli ispettori della Banca d’Italia, ovvero «il grado di irrecuperabilità dei crediti deteriorati per 2,9 miliardi, pari a circa il 40% del totale erogato, di cui sofferenze per 2 miliardi», a cui si aggiungono «ulteriori esigenze di accantonamento per circa 200 milioni», che aggravano la situazione.
La richiesta riporta il prospetto relativo al patrimonio netto al 30-9-2015, mettendo in evidenza il calo dai quasi 66 milioni del 31 dicembre 2014 ai 22,5 milioni di fine settembre 2015 (-65,8%). Si spiega dunque che dalla «valutazione emergono perdite complessive per 579,6 milioni».
Quindi il liquidatore arriva alla conclusione che l’istituto di credito aretino vada sottoposto a procedura d’insolvenza per «la riduzione integrale delle riserve e delle azioni, tenendo conto delle perdite accertate nel corso della gestione commissariale», considerando «la cessione di azienda a un ente ponte e la successiva cessione dei crediti in sofferenza dall’ente ponte ad una società veicolo per la gestione delle attività».
Intanto ad Arezzo la procura ha dato alla Guardia di finanza provinciale le deleghe per le indagini sul presunto reato di truffa, relativamente alla vendita delle obbligazioni. Non ci sono ancora indagati, ma da ieri si è cominciato a fare accertamenti sulle prime filiali del territorio aretino. Gli inquirenti dovranno ora capire se le vendite dei famigerati bond avvenivano per iniziative dei singoli funzionari o dirigenti o per ordine aziendale.
Il Sole 23.1.16
La ridotta di Schengen
di Adriana Cerretelli

«Non è Schengen ma l’Europa che può morire se passa l’idea che è incapace di proteggere le sue frontiere esterne. D’altra parte l’Europa non può accogliere tutti i rifugiati, altrimenti le sue società ne sarebbero totalmente destabilizzate».
 A dirlo ieri non sono stati né il presidente ungherese Victor Orban né il nuovo dominus della Polonia nazionalista, Jaroslav Kaczynski, le due bestie nere dell’Unione.
Quelle frasi sono state pronunciate nientemeno che da un primo ministro socialista, il francese Manuel Valls. Effetto Marine Le Pen? Anche. Ma non solo. Ormai l’emergenza rifugiati è arrivata a mordere ovunque i nervi scoperti della politica incalzata da opinioni pubbliche stressate e disorientate. Apparentemente c’è solo Angela Merkel in Germania a tentare di resistere agli istinti nazionalisti e isolazionisti che dilagano da Nord a Est. Fino a quando?
Secondo Frontex l’anno scorso hanno varcato la frontiera europea 1,83 milioni di rifugiati, contro i 238.500 del 2014, anche se «il numero non è del tutto esatto perché alcuni sono stati contati due volte»: in Grecia ne sono comunque entrati 880mila, in Italia 157mila, in Germania oltre 1,1 milioni.
Ancora più allarmanti le cifre fatte dal premier olandese Mark Rutte: nelle prime tre settimane di gennaio sono già arrivati in 35mila quando nel 2015 in tutto il mese erano stati 1.600. L’inverno non ferma più i disperati. I quali, per sfuggire ai crescenti blocchi europei, ora tentano anche la rotta polare, puntando alla Russia per raggiungere Norvegia o Finlandia: ci sono riusciti in 900 l’anno scorso.
I flussi non si fermano. L’Europa non riesce a fare quadrato per gestirli, quindi li subisce disordinatamente. I Paesi più esposti, allora, corrono ai ripari in proprio. La Svezia, il Paese più aperto della Ue, è stata la prima ad alzare il ponte levatoio. Ora l’Austria, 8,5 milioni di abitanti, non si limita a sospendere Schengen, come Francia, Germania, Svezia Danimarca e Norvegia, ma ha deciso di imporre un tetto agli arrivi, più che dimezzati rispetto al 2015: 37.500 persone contro 90mila.
La Danimarca spinge ben oltre le misure restrittive già adottate: il Parlamento l’altro ieri ha approvato la legge che prevede di confiscare ai rifugiati qualsiasi bene di valore superiore ai 1.340 euro, contanti compresi, per finanziarne le spese di mantenimento. Baviera, Baden-Württemberg e Svizzera si preparano a fare lo stesso. La Francia ha prolungato ieri lo stato di emergenza (frontiere chiuse comprese) fino a quando… l’Isis non sarà stata sconfitta.
Dopo i fatti di Colonia, gli umori in Germania si sono irrigiditi: si vogliono prolungare a tempo indeterminato i controlli alle frontiere. Del resto a Bruxelles, in attesa della creazione nel 2018 (ammesso che venga approvata) di una guardia di frontiera europea dotata di 1.500 uomini da affiancare alle strutture nazionali, si ipotizza il congelamento dell’area Schengen per due anni: ne discuteranno i 28 ministri dell’Interno Ue lunedì ad Amsterdam.
Il provvedimento sembra inevitabile. Nonostante il “tradimento” dell’Austria la metta in difficoltà con il partito in Baviera, che vorrebbe bloccare a 200mila all’anno il numero dei rifugiati da accogliere in Germania, la Merkel continua a rifiutare l’idea del tetto, pur ribadendo l’impegno a ridurre «sensibilmente» i flussi. Per evitare la tagliola, il cancelliere scommette tutto sulla Turchia: con un pacchetto di aiuti Ue da 3 miliardi spera di convincerla a cogestire l’emergenza disincentivando le partenze verso l’Europa degli oltre 2,2 milioni di profughi siriani e irakeni che ospita.
Scommessa dall’esito incerto: non tanto perchè l’Italia per ora non dà il necessario via libera all’accordo, quanto perché proprio ieri in visita a Berlino, dopo l’incontro con Merkel, il premier turco Ahmet Davutoglu ha chiarito che «3 miliardi sono un gesto di buona volontà europea ma sono insufficienti a condividere l’onere di una crisi che non si sa quanto durerà, che alla Turchia è già costata 9 miliardi, che la Turchia non ha esportato ma che è stata esportata in Turchia».
Si sussurra che Ankara pretenda in realtà 3 miliardi all’anno per collaborare seriamente. Ed è forse anche per questo che Wolfgang Schaüble, il ministro delle Finanze tedesco, dopo aver ventilato la possibilità di un’euro- tassa sulla benzina per finanziare l’alleanza con il Paese di Erdogan, ora lancia l’idea di un piano Marshall plurimiliardario per risolvere il problema rifugiati “in loco”. Con i soldi di chi?
Se continuerà a essere del tutto sgovernata, come è stato finora, questa crisi finirà per sfasciare l’Europa. Già la sospensione di Schengen per due anni e il ripristino dei controlli in dogana avrebbero costi proibitivi per una ripresa anemica: nell’area circolano 60 milioni di Tir all’anno, 1,7 milioni di lavoratori transfrontalieri e oltre 200 milioni di viaggiatori. Costerebbe di sicuro molto meno soddisfare tutte le più esose richieste turche.
Per evitare il peggio bisognerebbe riuscire in due mesi a fare quello che non è riuscito negli ultimi sei: intesa sulle quote di riallocazione intra-Ue dei rifugiati, sulla riforma di Dublino, su hotspot e guardia di frontiera europea. Realistico?
Il Sole 23.1.16
Renzi: «Referendum decisivo» E snobba la minoranza del Pd
La direzione del partito. Il premier parla di Europa ed evita la replica finale eludendo i temi posti dalla minoranza su rischio «plebiscito» e Verdini
Cuperlo: sono interdetto
di Emilia Patta

ROMA «Sono interdetto». Così l’ex competitor di Matteo Renzi alle primarie del Pd Gianni Cuperlo commenta il fatto, inusuale, che il premier e segretario del partito - dopo un’ampia relazione iniziale in cui sono toccati un po’ tutti i tempi sul tappeto, dalla sfida all’Unione europea alle amministrative di giugno fino alle unioni civili - sceglie di non replicare alle osservazioni emerse durante un dibattito di due ore. Convinto che la battaglia urgente delle prossime settimane sia quella da condurre a Bruxelles (si vada pagina 6), il premier è per così dire un po’ stufo di dover ripetere sempre le stesse cose in un dialogo che appare tra sordi con la minoranza del Pd.
Che Denis Verdini, nonostante il suo appoggio alla riforma costituzionale appena varata dal Senato, non fa e non farà parte della maggioranza Renzi lo ha detto e ripetuto più volte. «Il Pd dovrebbe discutere di un nuovo ideale europeo - ribadisce - anziché occuparsi di partito della Nazione. È sull’Europa che vorrei sfidarvi ed essere sfidato». E i motivi che lo spingono a puntare tutto sul referendum confermativo di ottobre sulle riforme li ripete nuovamente dal palco della direzione: «Una sconfitta al referendum non si può affrontare dicendo “ho non vinto” - e qui il riferimento è alla “non vittoria” dell’ex leader Pier Luigi Bersani alle politiche del 2013 -. Una sconfitta al referendum segnerebbe fatalmente la mia esperienza. Il mio non è un tentativo di plebiscito ma etica della responsabilità». E resta fermo pure il rifiuto di Renzi di fare delle amministrative di giugno un passaggio politico per il governo. Il 6 marzo si terranno le primarie del Pd («a regole invariate, perché le regole non si cambiano a ridosso del voto») e chi vincerà se la batterà con gli avversari in ciascun comune. Si eleggono i sindaci, insomma non il capo del governo o il leader del partito. Quanto a Sel, sono loro che hanno deciso di rompere in molte città nel «tentativo di politicizzare il voto» contrapponendosi al Pd. «Noi - è la sfida di Renzi - dove abbiamo lavorato bene insieme confermiamo i sindaci uscenti anche se non sono del Pd, come nel caso di Zedda a Cagliari». Punto.
Eppure gli argomenti posti da Cuperlo nel suo intervento, insolitamente polemico anche nei toni, non sono di poco conto. No al plebiscito, perché il referendum non deve essere come dice Angelino Alfano la palestra per la futura alleanza di governo, con Ncd assieme al Pd e la sinistra di Sel dall’altra parte («nessuno pensi al referendum come base di future alleanza», «il compito del premier è unire e non fare plebiscito»). E poi l’affondo sul doppio ruolo di premier e segretario previsto dallo statuto veltroniano e da sempre nel mirino della minoranza: «Caro Matteo, sei in grado di fare il segretario?», è il j’accuse di Cuperlo che sottintende un Pd abbandonato a se stesso. La risposta è appunto nel vento. Della questione del doppio ruolo se ne occuperà, se la minoranza lo vorrà, il prossimo congresso previsto per la fine del 2017. E forse una prima risposta alla Renzi è l’illustrazione da parte di Andrea De Maria - uno della minoranza “dialogante”, ex sottosegretario ai rapporti con il Parlamento nel governo Letta e ora responsabile Pd della formazione - di “Classe democratica”, la nuova iniziativa di formazione del partito per 300 giovani under 35. Anche così si rinnova la classe politica, locale e nazionale.
Priorità Europa, dunque. Ma nei prossimi giorni Renzi dovrà anche chiudere il capitolo governo mettendo mano a quel “rimpastino” fin qui evitato. Ci sono da sostituire 3 viceministri (uno agli Esteri, probabilmente Enzo Amendola, e due allo Sviluppo economico, caselle per la quali si fanno i nomi di Teresa Bellanova e Luigi Casero, che verrebbe sostituito all’Economica da Enrico Zanetti di Sc). Intanto è lo stesso Renzi ad annunciare, o meglio confermare, un’importante novità: la nascita a Palazzo Chigi di una sorta di cabina di regia sui dossier economici guidata da Tommaso Nannicini, che diventerà sottosegretario alla Presidenza. Tra i primi dossier, il lavoro (non a caso della squadra farà parte tra gli altri Maurizio Del Conte, “estensore” del Jobs act). «L’obiettivo è arrivare a un Jobs act dei nuovi lavori», ha spiegato il premier.
Repubblica 23.1.16
Mozart Salieri
Quando per amore della stessa donna i grandi nemici divennero complici
Ritrovato il frammento di un’opera scritta insieme. Crolla la leggenda dell’eterna rivalità
di Leonetta Bentivoglio

Si intitola “Per la ricuperata salute di Ofelia”: un pastiche dedicato alla soprano Nancy Storace, pupilla dell’imperatore Giuseppe II La scoperta è del compositore Timo Jouko Hermann che ha ritrovato il frammento al Museo di Praga
A sinistra, la partitura di Mozart scoperta a Praga; al centro della pagina Mozart in un disegno di Tullio Pericoli In basso, un ritratto di Antonio Salieri ( 1750- 1825)

Mozart e Salieri erano rivali o complici? Possiamo immaginare una coppia di duellanti scatenati fino alla morte del primo, il più bravo, che ci si è spinti a supporre (ma non c’è certezza) avvelenato dal secondo, geloso del suo talento fino al livore omicida? O erano colleghi capaci all’occorrenza di un’intesa? Si saprà mai la verità sull’antagonismo più favoleggiato della storia della musica, riflesso nel contrasto fra lo splendore di un’ispirazione immensa, quella mozartiana, e una scrittura definita da molti “di maniera”, quella di Salieri, che ha consegnato ai posteri un autore poco eseguito, benché giustamente rivalutato negli ultimi tempi? Nulla potrà essere dimostrato in
modo definitivo. Ma il ritrovamento a Praga di un esemplare di una cantata commemorativa composta da Mozart insieme a Salieri getta una luce nuova su una vicenda di potenza metaforica così straordinaria (genio e sregolatezza contro il rigore delle convenzioni) da aver stimolato la fantasia di uno scrittore come Aleksandr Puskin, con la sua piccola tragedia Mozart e Salieri (1830), poi messa in musica da Rimskij-Korsakov. E a tal punto, nel periodo romantico, si dilatò la parabola del conflitto fra i due musicisti, da approdare sia al teatro che al cinema nel Novecento, grazie al dramma di Peter Shaffer Amadeus (1978) e al film che ne trasse Milos Forman (1984), premiato da ben otto Oscar. Un successo che ha rilanciato il mito e la popolarità del musicista austriaco. E anche un inopportuno e falsante B Movie, secondo musicologi esperti, pieno di aberrazioni e inesattezze storiche, oltre che offensivo verso entrambi i compositori. In particolare nei confronti di Mozart, ritratto come un fricchettone settecentesco rozzo e inconsapevole: tutto all’opposto di ciò che in realtà fu Wolfgang, secondo la parte più consistente e accreditata della musicologia contemporanea. Vedi Robbins Landon, il quale ha aperto la strada alla visione di un Mozart illuminato e profondo nella sua fisionomia decisiva di esponente dell’evolutissima e democratica massoneria viennese.
Il documento giunto a incrinare la leggenda dello scontro Mozart-Salieri nasce da quest’episodio: nel giugno del 1785 Nancy Storace, soprano inglese destinata a divenire la prima Susanna delle Nozze di Figaro, nonché pupilla di Giuseppe II, perse la voce cantando a Vienna Gli sposi malcontenti, opera composta da suo fratello Stephen Storace. Molta attesa era la sua interpretazione di Ofelia nell’opera di Salieri La grotta di Trofonio, e sarebbe passato qualche mese prima che la diva potesse tornare in forma. La notizia della sua guarigione fu celebrata in ottobre da una cantata chiamata (in italiano)
Per la ricuperata salute di Ofelia, pastiche firmato da Mozart, Salieri e un tale “Cornetti”, scritto in corsivo: forse pseudonimo di un mecenate della Storace o forse del tenore e maestro di canto Alessandro Cornet. La stampa dell’epoca annunciò con esultanza il debutto della composizione, di cui però non fu mai reperito un esemplare.
Di recente il compositore e musicologo Timo Jouko Herrmann, specialista in Salieri, s’è imbattuto per caso, durante i suoi studi presso la biblioteca del Museo nazionale di Praga, nel titolo della cantata, i cui versi furono scritti da Lorenzo Da Ponte, abile librettista della trilogia “italiana” di Mozart formata dalle Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. Aperto il file del catalogo e vedendo citato il pezzo, Hermann ne ha chiesto una copia digitale al Museo, restando sconvolto dalla loro gentile replica: vuole visionare anche lo spartito? Dunque la musica era lì, acclusa al testo, che appare scandito in trenta strofe di spirito bucolico. Il documento consta di una riduzione per voce e accompagnamento di basso continuo (“Generalbass”), ma sembra che in origine fossero previsti vari strumenti. La parte che sarebbe creata da Mozart è un Andante di 36 battute che comincia con il verso “Quell’agnelletto candido”. Ora ci sta lavorando sopra la Fondazione Mozarteum di Salisburgo, che tra breve ne presenterà la ricostruzione.
Dal ritrovamento risulterebbe che tra Mozart e Salieri non ci fu alcun odio? La risposta è delicata almeno quanto il mistero che avvolge le cause della morte precoce di Wolfgang, a 35 anni. Circolarono a lungo ipotesi di un avvelenamento (avvallata dallo stesso Mozart agonizzante, secondo una testimonianza indiretta), e la diceria che il veleno arrivasse da Salieri invase per molti anni l’Europa, malgrado le continue autodifese dell’italiano, che si dichiarò sempre calunniato. Visitato nel 1823 da un allievo di Beethoven, Salieri, ormai vecchio e malatissimo, lamentava la “pura malvagità” di quella supposizione. Poco dopo tentò invano di suicidarsi, e Schindler, segretario di Beethoven, annotò sui suoi diari lo sconvolgimento della sua mente e il “vaneggiare di essere responsabile della morte di Mozart”. Gli studi medici, però, tendono a escludere l’avvelenamento e parlano di decesso di Mozart per infezione da streptococco o per febbre reumatica.
Resta il fatto che, tra scambi e collaborazioni, Salieri e Mozart ebbero spesso rapporti anche sostanziali, pur se talvolta normalmente complicati dalle tresche di “palazzo”. Figura interessante nelle sue sfaccettature (fra l’altro ebbe fra i suoi allievi Beethoven, Schubert e Liszt, che ne lodarono le virtù di pedagogo), Antonio Salieri lavorò per mezzo secolo alla corte degli Asburgo, conquistando così un record senza paragoni, e negli anni Ottanta del Settecento Salieri e Mozart sono i due principali compositori di corte, in un’oscillazione tra complicità e screzi. Sono comunque numerose le testimonianze della loro stima reciproca. Il sedicenne di Salisburgo, nel 1773, dedica una serie di variazioni su un tema dell’opera La fiera di Venezia al ventitreenne operista di Legnago. Infine Salieri era in platea, fra gli spettatori entusiasti, alla prima del “Flauto Magico”. E mai sarebbe potuto accadere che uno dei figli di Mozart, il suo omonimo Wolfgang, che adorava il padre, studiasse proprio con un persecutore di Amadeus, cosa che fece.
Corriere The Daily Teleraph 23.1.16
Ma siamo sicuri di voler ricordare 4,7 miliardi di libri?

«La notizia che il nostro cervello ha la capacità di immagazzinare 4,7 miliardi di libri è più una maledizione che una benedizione» scrive Hannah Betts sul The Daily Telegraph . Secondo i neuroscienziati, l’ippocampo, l’area del cervello incaricata della memoria, ha uno spazio dieci volte più grande di quanto si stimava prima. «Una cattiva notizia perché le nostre vite sono costruite sopra un catalogo di errori e mortificazioni che hanno bisogno di oblio». Se così non fosse, prevede Betts, «vivremmo in uno stato permanente di stress».
Corriere 23.1.16
Nazismo e Bolscevismo nelle tesi di Ernst Nolte
risponde Sergio Romano

Vorrei conoscere la sua opinione su Ernst Nolte. Egli afferma che il nazionalsocialismo sia stato una reazione al bolscevismo che nel 1917, con la Rivoluzione d’Ottobre, provocò la nascita dell’Unione Sovietica. Naturalmente nessuno lo potrà mai provare perché la storia controfattuale lascia spazio alle più svariate ipotesi. Mi chiedo però se chi era convinto della superiorità razziale degli ariani possa essere stato condizionato o meno da quello che avveniva nell’Urss. Qualcuno lo ha definito più pericoloso dei revisionisti, egli che non lo era.
Giovanni Allegri

Caro Allegri,
Ernst Nolte, nato nel 1923, è uno degli storici più discussi e contestati degli ultimi decenni. Ma non è necessario essere sempre interamente d’accordo con le sue tesi per riconoscere l’interesse e l’originalità delle sue intuizioni storiografiche. Capì che tra il successo della rivoluzione bolscevica in Russia e l’affermazione del nazismo vi era un legame e che meritava di essere studiato.
Le somiglianze erano evidenti. Il lager e il gulag erano frutti di una stessa strategia. La creazione dell’«homo sovieticus», ideologicamente puro, ricordava per molti aspetti la creazione in Germania del popolo ariano. L’accanimento sovietico contro il nemico di classe ricordava l‘accanimento nazista contro gli ebrei.
La somiglianza fra i due regimi creava antagonismo e competizione, ma anche, in alcuni momenti, manifestazioni di reciproca simpatia e ammirazione. Dopo la firma degli accordi dell’agosto 1938 (fra cui il protocollo segreto per la spartizione dell’Europa centro-orientale), Stalin restituì alla Germania i tedeschi che erano fuggiti in Urss dopo l’avvento di Hitler al potere e languivano nei gulag sovietici. Nolte si spinse anche sino ad affermare l’esistenza di un nesso fra il viscerale anti-semitismo di Hitler e la straordinaria presenza degli ebrei nei quadri dirigenti della rivoluzione bolscevica, ma forse non tenne sufficientemente conto del fatto che l’odio risaliva ai suoi anni viennesi, prima della Grande guerra.
Quando il suo articolo sul «Passato che non passa» apparve sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 3 giugno 1986, le reazioni di alcuni studiosi furono molto severe e Nolte venne accusato di avere relativizzato, se non addirittura giustificato, il fenomeno nazista. Credo che le reazioni riflettessero le condizioni morali e intellettuali della Germania in quegli anni. A quarant’anni dalla fine della guerra molti pensavano che non fosse ancora giunto il momento in cui il nazismo sarebbe stato studiato come un fenomeno storico. Per il momento era più opportuno condannarlo, punto e basta. Oggi, dopo l’edizione critica di Mein Kampf , il clima culturale tedesco è probabilmente alquanto diverso.
Corriere 23.1.16
The Eichmann Show
Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah
di Aldo Grasso

Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.
Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.
Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina…) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.
I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.
Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento — reale, simbolico o meramente retorico — dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza. La tv diventa «agente di storia».
The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita… Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».
Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.
Corriere 23.1.16
Victor Séjour
L’afroamericano che fece vacillare Pio IX

Per quanto oggi quasi sconosciuto nel nostro Paese, lo scrittore Victor Séjour (1817-1874) non era un personaggio irrilevante. Fu il primo afroamericano a firmare con il suo nome un’opera di narrativa: il racconto antischiavista intitolato Il mulatto, uscito a Parigi nel 1837. E più tardi ebbe un ruolo anche nel Risorgimento italiano.
A rievocare la vicenda, inserendola nel quadro delle lotte per la libertà di metà Ottocento, è Elèna Mortara, docente di Letteratura americana all’Università di Roma Tor Vergata, nel saggio Writing for Justice («Scrivere per la giustizia»), edito negli Stati Uniti da Dartmouth College Press. Un libro che merita di essere presto tradotto in Italia, anche perché direttamente collegato a un episodio avvenuto a Bologna.
Si tratta del caso di Edgardo Mortara (fratello di una bisnonna dell’autrice), il bambino ebreo che nel 1858 venne strappato alla famiglia dalle autorità dello Stato pontificio: una domestica cattolica aveva dichiarato di averlo battezzato e quindi per le leggi in vigore andava educato nella fede cristiana. Il rapimento suscitò un enorme scalpore e tra coloro che s’indignarono c’era anche Séjour.
Nato a New Orleans da genitori liberi di colore, poi giunto al successo come drammaturgo a Parigi, Séjour era un cattolico devoto, ma giudicava inaccettabile una simile ferita inferta al valore della famiglia. Scrisse così il lavoro teatrale La tireuse de cartes (in italiano L’indovina), in cui la storia di Edgardo veniva riadattata al femminile: ad essere rapita era una bambina, poi la madre faceva di tutto per recuperarla. L’opera fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel dicembre 1859, poi in gennaio a Torino. E contribuì a indebolire la posizione del papa Pio IX, che si era impuntato sul caso Mortara e voleva conservare a tutti i costi il potere temporale.
Mulatto, americano e francofono, Séjour aveva la vocazione di oltrepassare i confini tra le culture: sposando la causa degli ebrei discriminati, nota Elèna Mortara, seppe conferire una dimensione universale al suo impegno, in sintonia con il moto di emancipazione, contro la schiavitù e il pregiudizio, che andava allora imponendosi sulle due sponde dell’Atlantico.
Corriere 23.1.16
La tesi del sociologo Alain  Turaine
Soltanto la coscienza collettiva può salvare gli individui (e l’arte)
di Vittorio Gregotti

Nelle ultime settimane dello scorso anno sono stati pubblicati due importanti libri: uno a firma del celebre sociologo francese Alain Touraine; l’altro del bravissimo giornalista Federico Rampini che scrivono, ambedue, da due punti di vista opposti, sulle contraddizioni della (quasi globale) società contemporanea. Il titolo del primo è Nous sujets humaines (Seuil, pp. 416, e 24), mentre quello del secondo è L’età del caos (Mondadori , pp. 328, e 18,50), quest’ultimo sorretto dalla celebre idea schumpeteriana (ma anche molto americana) di un’età della «distruzione creatrice», del procedere per discontinuità, come carattere strutturale del futuro. Anche per l’arte. Tutte condizioni che devono anche interrogarsi su come salvare il posto di lavoro dall’automazione globale e (al tempo stesso) la propria cultura dal bombardamento visuale e dalle sollecitazioni al consumo. E, anche, su cosa possa sostituire ogni perduta organizzazione sociale.
L’opinione espressa da Alain Touraine su quelle che possiamo definire le condizioni del futuro si fonda invece sulla possibilità di uscire dal caos del presente in cui la scala dei valori oggi praticati sembra voler sommergere ogni possibilità futura. Ed è offerta da quello che egli definisce «il ritorno al soggetto» inteso come unica risposta che può proporre una restituzione dei rapporti umani quale fondamento di una nuova società. Opponendosi alla «distruzione della modernità» (che ha avuto il merito di farci passare dal sacro al soggetto ) da parte dei modernizzatori che vogliono invece utilizzare i suoi principi a loro profitto esclusivo.
Chi sono tali modernizzatori? È il capitalismo finanziario globale «che divora la modernità per facilitare il suo appetito di dominio», mentre è proprio la modernità della coscienza collettiva che è in grado di salvare il soggetto.
Quale è il significato di questo dibattito per l’architettura? Sappiamo bene che l’architettura dell’edificio, della città e del territorio quale pratica artistica sembra nei nostri anni aver rapidamente perduto ogni interesse collettivo. In particolare da quando essa è divenuta parte di una scienza della comunicazione visuale: sia per i suoi interessi mercantili, sia per l’esibizione concreta dei suoi poteri. Un interesse, voglio sottolinearlo, diffuso e distribuito a tutti i livelli della società con diverse (e sovente del tutto inadeguate e provvisorie) compensazioni. In tutto questo, i valori oggi più perseguiti e incoraggiati hanno le loro responsabilità negative, enormemente ingrandite dal valore esibitorio assunto dalle comunicazioni di massa e dalle loro straordinarie possibilità di articolazioni.
La «sharing economy» è, o meglio dovrebbe essere quella che, nel suo libro, Rampini definisce economia della condivisione, come risultato dell’accelerazione robotica come «economia della condivisione delle briciole» (come scrive Robert Raich). Mentre i veri profitti vanno ai padroni dei software . O a chi con esse lavora con i suoi strumenti come contenuti di un unico futuro.
Ma ciò che conta per l’architettura è oggi solo la sua trasformazione in immagini extra-ordinarie ed indipendenti da ogni sua organicità rispetto al costruito (e al suo uso) e del tutto separate dalla intenzionalità propria di ogni pratica artistica. Un nuovo ruolo per l’architetto divenuto illustratore degli obiettivi temporanei del caos globale.
«Chiunque creda — scrive Rampini — di appartenere ad una professione protetta è un presuntuoso, o un illuso», artisti compresi. Ma in particolare questo vale per l’architettura, che è costruita dai contrasti e dai diversi ma indispensabili materiali della dialettica tra autonomia del progettista ed eteronomia dei materiali e delle tecniche con sui essa opera. A meno di pensare, come oggi molti sembrano credere, ad un compito in cui l’autonomia sia volta solo all’immagine del progetto: pur con un’intenzionalità del tutto separata da ciò che attualmente domina di fatto il costruito.
Tutte contraddizioni che oggi definiscono l’attività di ogni archistar: in cui contenuto funzionale e forma cercano di essere (anche fisicamente) separati. Nonché appartenenti a due linguaggi completamente diversi negli obbiettivi. Anche quando si tratta di grandi spazi interni i cui elementi abitabili sembrano del tutto separati da quelli sovrapposti dell’immagine esterna del manufatto. Nel tentativo di proporre così una grande opera plastico-visuale indipendente, il cui significato esibisce solo la constatazione della fine di ogni intenzionalità specifica del fare architettura.
Repubblica 23.1.16
La memoria necessaria
di Salvatore Settis

PERCHÉ la Germania ha tanto successo nel mondo? Perché sa fare i conti con il proprio passato, anzi assorbe la storia come ingrediente essenziale del futuro. La diagnosi è di Neil MacGregor, il brillante direttore del British Museum ora passato alla testa del nuovo Humboldt Forum di Berlino, nel suo ultimo libro (Germany. Memories of a Nation, Knopf). In un Paese come l’Italia, che coltiva la smemoratezza, la distrazione e la superficialità come altrettante virtù, può sembrare una provocazione. Ma proviamo a guardarci intorno. «L’America è famosa per essere a-storica », ha dichiarato Obama, aggiungendo «dimenticare è uno dei nostri punti di forza». Lo conferma il discorso d’insediamento di Bush II, che invitava gli americani a dimenticare il Vietnam, perché «una grande nazione non può permettersi memorie che fomentano discordia». Ma è meglio promuovere l’amnesia di marca americana o la memoria storica “alla tedesca”? La scuola italiana, riducendo di riforma in riforma lo spazio della storia (e della storia dell’arte) propende per l’arte della dimenticanza, forse più per sciatteria che per progetto.
Sul ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson (premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books. Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una visione falsamente pacificata. E la memoria del passato (anche recente) mostra che la competizione senza contenuti annienta la democrazia. «Se potessi cancellare una parola dal vocabolario americano, sarebbe “competizione”» (Robinson), anche se «storicamente, l’America ha voluto “competere” creando un sistema scolastico migliore di altri, accrescendo gli investimenti in ricerca, credendo profondamente nella scienza e nei fatti, accogliendo talenti da tutto il mondo, promuovendo sistemi di sicurezza sociale » (Obama).
Quel che la scuola americana fa ora è l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività. La retorica della competitività spinge a diminuire la protezione dei lavoratori, a devastare l’ambiente, a delocalizzare la produzione, a inseguire la logica della crisi, augurandosi che colpisca altri Paesi: ma è davvero questa, si chiede Robinson, la missione americana, avere la meglio sulla Cina o sull’Europa? Per uscire da questa logica miope, è necessaria la memoria e la conoscenza storica. Prendere coscienza della storia vuol dire (come in Germania) scegliere di ricordare quel che si è tentati di dimenticare. Accettare le proprie responsabilità rispetto al passato vuol dire allenarsi a costruire il futuro con piena responsabilità (fattore essenziale della democrazia).
Questa conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze” la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no), dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.
Ma qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo, abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria» (Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un «mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?
Corriere 23.1.16
Mezzo mondo è fra l’India e la Cina. Come vive (e che problemi affronta)
Lo studio della Nasa. Dai figli alle megalopoli, i temi demografici decisivi
di Guido Santevecchi

PECHINO Il mondo diviso in quadrati di cinque chilometri per cinque: quelli gialli sulla mappa rappresentano le aree dove vivono più di 8 mila persone, le zone nere riflettono quelle meno abitate. Lo studio si basa su rilevazioni satellitari della Nasa elaborate dal blog Metrocosm ed evidenzia quello che già tutti sappiamo: l’Asia è il continente più popoloso, la regione del Gange indiano e la Cina, soprattutto con le sue città costiere, brulicano di esseri umani. America, Africa ed Europa al confronto sono scure.
Ma che cosa significa vivere in un Paese come la Cina che ha il record di popolazione con 1.374.220.000 anime? Già per pronunciare la cifra bisogna prendere fiato: un miliardo trecentosettantaquattromilioni e duecentoventimila. L’India segue con 1,252 miliardi di abitanti. Pechino, preoccupata dalla bomba demografica, nel 1979 aveva imposto alle famiglie la politica del figlio unico. Dopo 35 anni le autorità dirigiste si sono rese conto dei danni materiali (non di quelli umani) di quella scelta. La popolazione attiva sta invecchiando, gli ultra 65enni che oggi sono 131 milioni, nel 2030 saranno 243 milioni, un incremento dell’85%, mentre i cinesi in età lavorativa nel 2050 potrebbero essere tra i 100 e i 200 milioni in meno. La Banca mondiale avverte che «la Cina rischia di diventare vecchia prima di raggiungere il benessere». Quindi, contrordine: meglio avere un secondo figlio, perché le autorità della pianificazione hanno calcolato che un bambino in più per famiglia aggiungerà uno 0,5% all’anno di crescita del Pil .
Si discute se sia meglio concentrare i cinesi in nuove megalopoli o farli confluire in città più piccole (per i criteri della Repubblica popolare), tra i 500 mila e il milione di abitanti. Tutti calcoli fatti a tavolino, senza interrogare i futuri (presunti) genitori che nel frattempo, come noi italiani, hanno deciso che un secondo figlio è un lusso difficile da permettersi: anche i cinesi fanno i conti con case piccole e molto costose, istruzione onerosa, discriminazione per le madri che lavorano e anche egoismo, naturalmente.
La stampa cinese ha appena scoperto un altro fattore, sorprendente. Nella città di Qingdao un gruppo di bambini di quarta elementare aveva costituito un’associazione segreta per convincere i genitori a non avere il secondo figlio. L’ha denunciata un insegnante che si era accorto di strane riunioni di otto dei suoi scolari. Il maestro ha detto che i bambini temevano che la nascita di un fratellino o una sorellina avrebbe sottratto l’amore esclusivo dei genitori. Sui social network qualcuno ha ricordato che i «piccoli imperatori» non avrebbero tanta paura di non essere più i soli cocchi di mamma e papà se i genitori cinesi non avessero preso la brutta abitudine di minacciarli, quando si comportano male: «Guarda che se non fai il bravo facciamo un altro figlio».
Abbiamo parlato di Asia. Ma secondo uno studio Onu, nel 2100 la popolazione mondiale toccherà gli 11 miliardi e metà della crescita sarà in Africa. La mappa cambierà.
Repubblica 23.1.16
La grande scommessa del gigante indiano
Ha i numeri per superare Cina e Usa ma le caste rischiano di rallentarlo
Ci sono ancora problemi di sanità e istruzione. E il divario fra ricchi e poveri è sempre maggiore
di Thomas Piketty

MENTRE crescono i dubbi sulla Cina e sul suo sistema finanziario, sempre più persone guardano all’India come alla possibile locomotiva dell’economia mondiale negli anni e nei decenni a venire. La crescita di Delhi nel 2016-2017 dovrebbe sfiorare l’8%, come nel 2015, contro il 6% della Cina. Certo, l’India parte da un livello più basso, con un potere d’acquisto medio di circa 300 euro al mese per abitante (contro i 700 della Cina e i 2mila dell’Unione Europea), ma a questo ritmo potrebbe colmare il distacco dall’Europa in meno di 30 anni (15 per la Cina).
Aggiungiamo che la demografia gioca a favore dell’India: secondo l’Onu, la popolazione indiana entro il 2025 dovrebbe superare nettamente quella cinese (che sta già invecchiando e diminuendo).
Nel XXI secolo, l’India diventerà la prima potenza mondiale per popolazione, e forse anche la prima potenza mondiale in assoluto. Tanto più che può contare su solide istituzioni democratiche ed elettorali, libertà di stampa e Stato di diritto.
IL CONTRASTO con la Cina, che ha appena espulso una giornalista francese (senza che Francia ed Europa trovassero nulla da ridire) e il cui modello politico autoritario appare tanto indecifrabile quanto imprevedibile nella sua evoluzione a lungo termine, è stridente.
Le sfide che deve affrontare l’India restano però colossali, a cominciare dal problema delle disuguaglianze. Si fa molta fatica a ritrovare le cifre della crescita nelle inchieste sui consumi tra le famiglie indiane, probabilmente perché una parte sproporzionata dell’arricchimento è intercettata da una ristrettissima élite non adeguatamente coperta dalle inchieste. Dal momento che il governo indiano ha interdetto l’accesso ai dati delle imposte sul reddito all’inizio degli anni 2000 (la Cina non li ha mai pubblicati, però gli introiti fiscali che raccoglie sono superiori), è difficile dire qualcosa di preciso.
Quel che è certo è che gli investimenti pubblici in scuola e sanità rimangono nettamente insufficienti, e questo è un elemento che mina alla base il suo modello di sviluppo. Un esempio emblematico è il sistema sanitario pubblico, che può contare appena sullo 0,5% del Pil contro il 3% della Cina. La verità è che il partito comunista cinese è riuscito, meglio delle élite democratiche e parlamentari indiane, a mobilitare risorse significative per finanziare una strategia di investimenti sociali e servizi pubblici.
Ma solo una politica di questo tipo potrà permettere all’insieme della popolazione di beneficiare della crescita e potrà assicurare uno sviluppo duraturo del paese. La mancanza di trasparenza e l’autoritarismo del modello cinese lo condannano al fallimento, se non ci sarà un’apertura. Ma il modello democratico indiano deve ancora dimostrare la sua efficacia, possibilmente senza passare per le crisi e gli scontri che sono stati necessari, nel XX secolo, per imporre alle élite occidentali le riforme sociali e fiscali indispensabili.
La sfida più importante, spesso trascurata in Occidente, è legata al lascito del sistema delle caste, a cui si aggiunge il rischio di scontri identitari fra la maggioranza induista e la minoranza musulmana (il 14 % della popolazione, 180 milioni di persone su 1,2 miliardi di abitanti), attualmente rinfocolati dal partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp, al potere dal 1998 al 2004 e poi di nuovo dal 2014).
Riassumiamo. Nel 1947, l’India abolisce ufficialmente il sistema delle caste, e in particolare mette fine ai censimenti per casta condotti dai colonialisti britannici, accusati di aver cercato di dividere l’India e irrigidire le sue classi sociali per meglio dominare e controllare il paese. Il governo sviluppa tuttavia un sistema di discriminazione positiva, nelle università e nel pubblico impiego, per i ragazzi provenienti dalle caste più basse (gli Sc/St, che sta per Scheduled Castes/
Scheduled Tribes, ex intoccabili discriminati, quasi il 30% della popolazione). Ma queste misure suscitano crescente frustrazione tra i ragazzi provenienti dalle caste intermedie (gli Obc, Other Backward Classes, circa il 40% della popolazione), schiacciati tra i gruppi più sfavoriti e le caste più alte. A partire dagli anni Ottanta, diversi Stati indiani estendono le politiche di discriminazione positiva a questi nuovi gruppi (a cui possono unirsi i musulmani, esclusi dal sistema iniziale).
I conflitti intorno a questi meccanismi sono tanto più vivi in quanto i vecchi confini tra le caste non sono così netti, e non sempre (anzi) corrispondono alle gerarchie di reddito e patrimonio. Il Governo federale alla fine decide di fare chiarezza su queste complesse relazioni organizzando, nel 2011, un censimento socioeconomico delle caste (il primo dal 1931).
Il tema è incendiario e si attende ancora la pubblicazione completa dei risultati. L’obbiettivo è di trasformare gradualmente queste politiche di discriminazione positiva in regole fondate su criteri sociali universali quali il reddito familiare o il territorio di provenienza, come i software di accesso ai licei o alle università (o per certi aiuti alle imprese) che in Francia cominciano timidamente ad accordare punti supplementari agli studenti borsisti o a quelli provenienti da istituti o territori sfavoriti.
In un certo senso, l’India sta tentando semplicemente di far fronte, con i mezzi dello Stato di diritto, al problema dell’uguaglianza reale, in una situazione in cui la disuguaglianza di status ereditata dalla vecchia società e dalle discriminazioni passate è estrema e minaccia di degenerare in tensioni violente. Sbaglieremmo enormemente se pensassimo che queste sfide non ci riguardano.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Corriere 23.1.16
Al Sisi e la paura di piazza Tahrir L’Egitto vieta ogni protesta
di Viviana Mazza

Cinquemila abitazioni perquisite negli ultimi dieci giorni, soprattutto nel centro del Cairo, come «misura preventiva». Attivisti fermati e interrogati sulle opinioni politiche per aver creato pagine Facebook che invitavano a tornare in piazza Tahrir questo lunedì. La casa editrice Merit perquisita nel giorno in cui era previsto l’incontro con l’autore di un libro sulla corruzione. Una popolare galleria d’arte del centro, la Town House, chiusa con un raid di una ventina di poliziotti, per presunte violazioni amministrative. E da due venerdì a questa parte ai predicatori in moschea sono stati dettati sermoni che avvertono i fedeli che scendere in piazza è peccato.
In vista dell’anniversario della rivoluzione egiziana del 2011, questo 25 gennaio, il governo di Abdel Fattah al Sisi ha lanciato una massiccia operazione di sicurezza per impedire ogni manifestazione. «Non consentiremo le proteste. Sono organizzate da movimenti che mirano a dividere la società e mobilitare le masse contro il governo», ha detto all’agenzia Ap un funzionario della sicurezza, confermando anche che giovani attivisti pro democrazia, inclusi alcuni stranieri, sono stati messi sotto sorveglianza. Il fatto che migliaia di oppositori della Fratellanza musulmana e anche molti laici sono già da tempo dietro le sbarre rende improbabili le manifestazioni. Ma le nuove misure del governo sono lo specchio di una insicurezza crescente dello stesso Al Sisi. Rispetto alla riverenza che il generale suscitava dopo aver rovesciato Mohammed Morsi nel 2013 e anche quando è stato eletto presidente nel luglio 2014, molto è cambiato, dicono gli osservatori. La ripresa economica promessa non si è ancora materializzata. I miliziani del Sinai affiliati allo Stato Islamico hanno colpito sempre più spesso obiettivi militari e non solo. L’ultimo attentato, giovedì notte, ha ucciso almeno sei persone, inclusi tre poliziotti, a Giza. E con un occhio alla vicina Tunisia in subbuglio, il presidente risponde reprimendo sempre di più il dissenso.
Corriere 23.1.16
Abderrahman Hedhili
«Ma il mio Paese non è l’Algeria, un golpe dei militari non ci sarà»
intervista di Francesco Battistini

TUNISI È l’ennesimo funerale della rivoluzione tunisina?
« Non credo. E questa legge marziale non è neanche la fine della democrazia, come dice qualcuno. Perché la vera rivoluzione in Tunisia non c’è mai stata. E la democrazia non ha molto significato, se non ci sono lavoro e sviluppo».
Abderrahman Hedhili lo denunciava in pubblico almeno da ottobre: «Da quando è caduto Ben Ali, ci sono stati 42 casi di suicidio. Tutti giovani senza speranza, fra i 26 e i 35 anni. Non ne ha parlato nessuno. E quattro governi in cinque anni non se ne sono nemmeno resi conto». Ora che la situazione s’aggiorna — i governi nel frattempo sono diventati cinque, i suicidi sono diventati 43 —, ora che la Tunisia torna a incendiarsi nelle proteste, è una corsa a telefonare a Hedhili «il profeta inascoltato» (come l’ha definito un giornale), il presidente del Forum tunisino per i diritti economici e sociali: «Non sono contento d’avere avuto ragione. Ma mi stupisco che il mondo si stupisca ».
Questa protesta era prevedibile?
«Direi che era inevitabile. Nelle regioni più povere, nelle fasce marginalizzate l’hanno covata a lungo. Per 5 anni a Tunisi s’è parlato di riforme istituzionali, di riconoscimento dei diritti, d’equilibri fra laicità e islamismo. Certo, sono tutti temi fondamentali, ma…».
Ma non è con quelli che si mangia…
«Nel profondo Sud o nelle periferie, dove ci sono le classi popolari, questi temi interessano poco. Non c’è mai stato un governo che abbia presentato un programma economico e sociale credibile su scuola, sanità, carovita, tasse, giovani. Con una visione chiara. Gli obbiettivi della Rivoluzione sono stati mancati. Hanno continuato come prima, con lo stesso modello politico ed economico di dieci anni fa. Alle ultime elezioni, sa quanti ragazzi fra 18 e i 25 anni sono andati a votare? Il sei per cento».
Sta dicendo che governa ancora Ben Ali?
«No. Però dico che governa ancora il vecchio sistema.E che alla fine si sia creata la stessa spaccatura di molti altri Paesi: di qui i cittadini, di là una classe politica sorda».
Il governo parla di partiti che fomentano la protesta.
«Lo sanno tutti che i Fratelli musulmani di Ennahda sono il partito meglio organizzato. E che si va verso il voto amministrativo. Ma questo non è un alibi per dire che c’è chi strumentalizza. La protesta è nata spontaneamente».
I jihadisti si infiltreranno?
«I salafiti possono approfittare della situazione e far crescere la violenza. Per questo è importante fare appello perché tutto resti pacifico».
L’Europa ha dormito?
«Hollande ha promesso un miliardo in cinque anni. Ma la Tunisia ha un debito enorme. Un primo passo, se davvero l’Ue volesse aiutare questa giovane democrazia araba, sarebbe tagliarne un bel po’».
Ma il governo Essid deve dimettersi?
«Non credo che lo farà. La responsabilità non può essere solo di chi ha governato l’ultimo anno. Ci sono anche gl’imprenditori privati, gl’investitori stranieri che hanno avuto un ruolo. Però questa è una chiamata urgente: non si può più far finta di nulla».
Ma se il coprifuoco e le leggi marziali non bastassero? Si muoverà l’esercito?
«No. Qui, l’esercito è vicino alla gente, s’è visto anche nella rivoluzione del 2011. Non ci saranno golpe. I militari tunisini sono molto diversi da quelli dell’Egitto o dell’Algeria» .
Repubblica 23.1.16
Brexit o Bremain, il dilemma inglese
In ogni caso prevarrà una paura, quella di essere tagliati fuori o di perdere sovranità
di Timothy Garton Ash

USCIRE dall’Ue o rimanere, Brexit or Bremain? È il quesito che probabilmente verrà posto ai britannici tra cinque mesi, il 23 giugno prossimo, se al vertice Ue a metà febbraio la rinegoziazione di David Cameron andrà in porto.
L’ESITO è al contempo sostanzialmente irrilevante rispetto alla questione su cui gli elettori dovranno esprimersi e importantissimo per la risposta che daranno.
Irrilevante perché le argomentazioni strategiche a sostegno della permanenza nell’Ue, tirando in campo il vitale interesse nazionale già sostenuto dai due ex leader conservatori, John Major e William Hague, restano valide, quale che sia la portata di una rinegoziazione comunque modesta. Il ruolo che la Gran Bretagna avrà nel mondo nei prossimi vent’anni non può essere deciso dal successo o meno della richiesta di Cameron di esimersi per quattro anni dal pagare i sussidi ai lavoratori polacchi.
D’altro canto l’esito della rinegoziazione è cruciale perché molti britannici non sanno ancora che pesci prendere. Nei sondaggi gli indecisi danno risposte molto diverse a seconda che, nelle ipotesi prospettate, Cameron torni da Bruxelles con un pacchetto di riforme definibili come sostanziose, oppure con un pugno di mosche. Nel primo caso la maggioranza degli intervistati si esprime a favore della permanenza nell’Ue, nel secondo opta per l’uscita. Dato che gli elettori già decisi sono più o meno metà per la Brexit e metà per la Bremain, sarà questo centro permeabile a determinare l’esito del referendum.
In ogni caso è probabile che il risultato veda il trionfo di una paura sull’altra. Si tratta di capire quale paura prevarrà, se il timore di essere ulteriormente fagocitati da un super stato europeo nascente, con conseguente perdita di sovranità, democrazia, identità e controllo dei confini nazionali, o quello di essere lasciati fuori al gelo, come la Norvegia o la Svizzera, di fronte a regole stabilite da una Ue in cui non si ha alcuna voce in capitolo.
Personalmente resto dell’opinione che la maggioranza dei britannici sceglierà di non correre i rischi di un’uscita dall’Ue, un po’ come la maggioranza degli scozzesi nel referendum per l’indipendenza ha scelto di non correre i rischi di un’uscita dal Regno Unito. Se la ragione ha prevalso sul sentimento nel Midlothian sarà così anche nel Middle England.
Ma i referendum sono insidiosi. Spesso i votanti non rispondono ai quesiti sulla scheda. La maggior parte dell’imprenditoria britannica per ora resta a guardare, anche se, stando a un’inchiesta del Financial Times, solo l’un per cento degli imprenditori britannici è favorevole all’uscita dall’Ue. I capitani d’industria sostengono di aver ricevuto dal governo il chiaro invito ad attendere la rinegoziazione prima di muoversi. Mercoledì Cameron ha di fatto invertito la rotta, esortando così gli imprenditori a Davos: «Se siete convinti, come me, che la Gran Bretagna stia meglio in un’Unione europea riformata, allora … aiutatemi a perorare la causa della permanenza ». Questo pur senza conoscere l’esito della rinegoziazione. Ma ci sono anche grandi imprese che temono la reazione negativa dei consumatori euroscettici. Se gli imprenditori attenderanno il panico dell’ultimo momento, come hanno fatto in occasione del referendum scozzese, potrebbe essere troppo tardi.
Il maggior pericolo per la campagna pro permanenza nella Ue è dato dall’eventualità che una nuova crisi dei profughi colpisca il continente nei mesi precedenti il referendum e forse, Dio non voglia, si verifichi un altro attentato terroristico come quelli di Parigi. In un sondaggio You-Gov, tra gli obiettivi della rinegoziazione di Cameron gli intervistati hanno privilegiato «il controllo delle frontiere e dell’immigrazione dall’Ue» (52% ), e i «sussidi erogabili ai migranti UE» (46%). Ora tra la migrazione interna Ue e i profughi dal Medio Oriente il rapporto logico è scarso, come è tenue il legame tra i profughi dal Medio Oriente e gli attacchi terroristici in Europa occidentale. Ma se in estate ogni giorno arriverà notizia di profughi siriani in attesa a Calais, sarà forte la tentazione di tirar su il ponte levatoio a Dover.
Un’analisi approfondita individua due principali gruppi di elettori indecisi, 7,5 milioni che, per dirla in maniera figurata, non riescono a mettere d’accordo il cuore con la testa e altri 9,5 milioni cui si applica la bella definizione di «giovane centro qualunquista». I primi saranno dominati dal timore razionale. Il ragionamento economico chiaramente porta a preferire la pemanenza. Non è bello essere come la Norvegia: per dirla con Cameron, stai zitto e paghi. Un grande esperto di negoziati commerciali con cui ho parlato si è detto dubbioso che la Gran Bretagna riesca anche solo a garantirsi un buon accordo per l’accesso al mercato unico. L’Ue ha usato il colossale peso del suo mercato per negoziare accordi di libero scambio favorevoli con circa 200 paesi. La Gran Bretagna, da sola, non riuscirebbe a ottenere condizioni così favorevoli e vivrebbe anni di incertezza impegnata a rimaneggiare accordi accumulati nell’arco di quarant’anni.
Le imprese straniere e gli opinion leader propensi alla permanenza della Gran Bretagna nella Ue non dovrebbero perder tempo a minacciare o fare allarmismo, ma spiegare con calma come si comporterebbero nelle due diverse ipotesi, Brexit o Bremain. Lo ha fatto il gestore di energia francese Edf in una lettera al personale britannico all’epoca del referendum scozzese. Dai colloqui con fonti francesi, tedesche e americane emerge che se i britannici sceglieranno la Brexit, Germania e Francia si coalizzeranno immediatamente nel tentativo di sviluppare l’Eurozona come nucleo centrale dell’Ue, mentre gli Usa presterebbero minore attenzione alla Gran Bretagna per concentrarsi sull’Europa dell’Eurozona. Se Barack Obama verrà in Gran Bretagna in primavera per una visita di commiato non dovrebbe farne mistero. Ma non ci si può limitare a “spaventare”. Studi dettagliati dimostrano che i più giovani tra i votanti indecisi associano all’adesione della Gran Bretagna all’Ue anche fattori positivi, tra cui «prosperità », «opportunità per la nuova generazione » e «più forza», non meglio specificata. La campagna per il sì deve fare appello alla speranza quanto al timore razionale.
Bisogna che i nostri partner continentali ci dicano quale ruolo positivo individuano per la Gran Bretagna in Europa. Perché l’Ue abbia un senso nel ventunesimo secolo l’Europa deve tenere il passo in un mondo di giganti, quindi poter contare su una politica estera e di sicurezza efficace.
Come è possibile tutto ciò senza il pieno impegno di uno dei due stati europei che vanta esperienza di potenza mondiale, un seggio permanente in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu e, come la Francia, è ancora pronto ad usare il potere militare? Per riuscire nel ventunesimo secolo l’Europa deve avere due nuclei, uno economico e monetario, costruito attorno alla Germania e all’Eurozona, e un nucleo diplomatico e di sicurezza che includa la Gran Bretagna. Se in Europa continentale o in Nord America qualcuno è d’accordo, è ora che lo dica forte e chiaro.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Repubblica 23.1.16
 Il politologo Pablo Simón
“Ora tutta la pressione ricade sul Psoe”
La mossa di Pablo è strategica: o si forma un esecutivo o va al voto con la campagna già pronta
intervista di A. O.

MADRID. «Ora tutta la pressione ricade sui socialisti ». Pablo Simón, politologo esperto di sistemi elettorali, professore dell’Università Carlos III di Madrid, è convinto che la mossa di Rajoy possa creare difficoltà a Pedro Sánchez.
Il rifiuto di Rajoy di accettare l’investitura può essere una strategia azzeccata?
«Rajoy sapeva di non avere il sostegno parlamentare necessario per essere eletto. La sua scelta incrementa la pressione sul Psoe, a cui spetterà decidere se prende l’iniziativa per cercare di formare un governo».
Sánchez voleva aspettare il fallimento di Rajoy per avere poi più tempo per trattare.
«Effettivamente. La decisione di Rajoy stravolge il calendario. La Costituzione dice che, fallita l’elezione al primo voto d’investitura, ci sono poi due mesi di tempo prima di dover convocare nuove elezioni. Dopo il nuovo giro di consultazioni, il re potrebbe dare l’incarico a Sánchez, che a quel punto dev’essere già in grado di dire se ha i numeri per tentare di formare un governo. Altrimenti potrebbe forse riprovarci Rajoy ».
Come giudica la mossa di Iglesias, che si è presentato dal re per dire di essere pronto a entrare in un governo a guida socialista?
«La giocata è fantastica in qualunque scenario. Facendo questa offerta, prima di tutto genera tensione all’interno del Psoe, perché non tutti sono d’accordo su una formula di questo tipo, totalmente innovatrice nel panorama spagnolo: finora Podemos, ma anche Ciudadanos, avevano sempre detto che non sarebbero mai entrati in un governo del quale non avessero la presidenza. In questo modo, non si parla più solo di programma, ma anche del tipo di governo che si dovrebbe formare».
Questo se sono davvero interessati a entrare nel governo.
«Certo, questo vale se l’offerta è sincera. Se non lo è, Podemos potrà dire: o si forma un governo di sinistra in Spagna o, se il Psoe non vuole, la colpa è sua. E si va alle elezioni con la campagna già impostata dal punto di vista strategico ».
Corriere La Razon 23.1.16
L’aiuto avvelenato che farà esplodere dall’interno il Psoe

Una delle più probabili conseguenze della volontà del segretario del Psoe, Pedro Sánchez, di ottenere la presidenza del governo attraverso un patto con forze politiche unite dal solo interesse di far fuori il Partito Popolare — come già avvenuto a livello locale — sarà di aprire la strada alle pretese dei nazionalisti» si legge nell’editoriale del quotidiano spagnolo di destra La Razón. Un sostegno «avvelenato» che farà esplodere le divisioni interne che scuotono il Psoe e accelererà «il declino della socialdemocrazia spagnola».
La Stampa 23.1.16
Il viaggio al termine della notte è una nuova vita in Europa
Dove comincia l’inferno dei migranti
Lo scrittore turco più amato dai giovani e più iconoclasta racconta l’inferno dei migranti e dei trafficanti di clandestini
di Domenico Quirico

Una volta in una stradina di un villaggio nigeriano, Paese dell’Africa da cui partono a migliaia i migranti, ho visto fabbricare una cassa da morto. Un vecchio e un ragazzo ci lavoravano attorno, alacremente, squadrando con cura le assi, inchiodando, dando forma. Come fosse un mobile qualsiasi, un tavolo o una credenza. La scena mi torna in mente ogni qualvolta sento parlare dei «passeur», dei mercanti che trasportano uomini da una terra ad un’altra terra in cambio di denaro e di violenza. E mi è venuta in mente quando ho chiuso l’ultima pagina di Ancòra, il nuovo duro, vibrante romanzo dello scrittore turco Hakan Günday (in libreria dalla prossima settimana). Giovane talento che usa, santamente, la letteratura come esplosivo, per mettere a nudo le viscere marce del mondo: in particolare della sua Turchia a cui dedica nel libro una definizione fulminante: «la differenza tra l’oriente e l’occidente è la Turchia…»
Il protagonista Ahad, un bambino, è appunto un passeur in erba: con il padre trasporta i migranti in un camion dalle frontiere del dolore e della guerra fino agli imbarchi sulle rive dell’Egeo, verso quella che chiamiamo la «rotta balcanica».
Ho pensato a quella scena perché trasportare l’umanità della Migrazione, farne un «lavoro» redditizio, è in fondo come fabbricare casse da morto. Davanti a una simile scena e a simili storie puoi avere due atteggiamenti: uno alla Amleto di considerazioni sulla vita e la fugacità di essa. L’altro di interesse per quel lavoro, i suoi riflessi economici e sociali, il guadagno che se ne trae, le possibilità di impiego (poiché i migranti sono molti, milioni, quasi quanto sono i morti rispetto ai vivi).
Ho conosciuto i migranti. E ho conosciuto i «passeur», a decine : tunisini e maliani, nigeriani e libici, siriani e turchi. Sono loro e soprattutto i loro inermi, fragili «clienti» che stanno riscrivendo la storia del terzo millennio, dal suo inizio. Gli uni e gli altri potrebbero essere la parabola di come nell’uomo si celino insieme il Bene e il Male, e una sola parabola così sarebbe sufficiente. Ma né Ahad ne le sue vittime sono esempi unici del nostro tempo. Non sappiamo quanti migranti siano morti e quanti torturatori continuino a lavorare proficuamente a quella bara. Scrivere della Migrazione come della guerra è una iniziazione alla vertigine.
Dopo averli incontrati (e di alcuni sono stato anche ospite e cliente) con sincerità devo dire che non comprendo questi uomini. A punzecchiarli con uno spillo, sanguinano? E’ la stessa domanda di chi alla fine ripensa a questo libro, un Viaggio al termine della notte del nostro presente, anche se di Céline in fondo manca la maggiore magia, che sono la lingua e lo stile.
Dunque il piccolo Ahad porta uomini: afgani e pachistani, siriani e iracheni, folla indifferenziata che conosce una sola parola di turco «daha», «ancòra»: ancòra acqua cibo aria, che chiede per non morire. Lui li chiude nel camion o in una cisterna-prigione, alcuni per indifferenza o malvagità li lascia anche morire. Già, perché mentre il padre è un vero passeur, un professionista, in fondo Ahad è una creatura vigorosamente romanzesca, totalmente romanzesca. Personaggio, non persona. Di fatto non esiste, non può esistere. Il padre infatti considera i migranti oggetti: gli sono affidati , viene pagato per spostarli intatti, vivi. Non sono per lui esseri umani con sentimenti dolori speranze: sacchi di farina, bidoni di benzina, cose come scrive sui falsi documenti del suo camion a cui il capo dei gendarmi turchi finge di credere in cambio di denaro.
Ma l’economia non è tutto e la tragedia di molti profughi e fuggiaschi non è fare la fame nei loro paesi di origine: è il fatto che le loro menti e i loro cuori fanno la fame. Durante il viaggio e quando, e se, arrivano. Sono degli alieni.
Ahad i profughi li usa: per una sorta di educazione al Male e per scoprire se stesso e il mondo, violenta le ragazze in cambio di un pezzo di pane, costringe gli uomini a battersi tra loro come animali, costruisce all’interno dell’infernale cisterna un mondo di potere in miniatura che attraverso telecamere osserva come un entomologo osserverebbe un formicaio.
Questo un passeur non lo farebbe mai. Perché in realtà, terribile verità, non è un aguzzino che cerca vittime. è un capitalista ligio alle regole del profitto e della organizzazione.
I passeur che ho conosciuti trasferiti in qualsiasi Borsa del mondo si farebbero largo senza problemi, non dovrebbero imparare nulla: conoscono a menadito le regole per fare denaro. E forse un giorno dietro fortune molto rapide e misteriose scopriremo un’ attività di «trasporti», nel Sahel o nel Mediterraneo, o tra le montagne del Kurdistan… Non è a caso se Robinson, esempio dell’uomo bianco e della sua capacità di modificare il mondo anche il più vuoto e ostile, era un... mercante di schiavi!
Scrivere un libro sulla Migrazione è impresa ardua, fatale. Forse basterebbe pubblicare i verbali polizieschi, gli interrogatori dei passeur arrestati, pochi, molto pochi. Eppure i reportage, i saggi, la realtà non bastano. Ci annoia sentirci ricordare l’agonia di un popolo, e i migranti sono il popolo nuovo di questo tempo. La morte della immaginazione, la morte del cuore sono malattie fatali. O forse temiamo di sapere perché temiamo di dover esaminare le nostre coscienze, prendere atto delle nostre responsabilità e del nostro immenso egoismo. Sì, la morte e il dolore di uomini innocenti appartengono al nostro tempo.
Dobbiamo sapere tutto, dobbiamo riconoscere ogni sintomo, ogni segnale. Ancòra appartiene a quel piccolo numero di libri in cui, superata la linea di una scrittura estrema, al limite del brutale, finite le forti impressioni, si comincia a soffrire e a capire.