sabato 6 febbraio 2016

il manifesto Alias 6.2.16
Il saluto militare
Ultraoltre. La luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli, la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto
statuette votive (Museo di Heraklion, Creta)
Raffaele K. Salinari
Edizione del
06.02.2016
Pubblicato
6.2.2016, 0:34
Aggiornato
5.2.2016, 18:03
Chi visitasse il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa: rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare», portando la mano di taglio sulla fronte. Il gesto si ripete identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro, quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio, come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.
La prima riflessione che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto. In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani usavano salutare i superiori in questo modo. Il sostanziale isolamento del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre «istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.
Dalle forti analogie tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato. D’altronde, come dice giustamente Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini, ogni volta che una grande cultura riesce ad emergere, nel nostro caso quella Greca, patriarcale, imperialista e guerriera, nel suo soppiantare l’antica civiltà minoica, si riscontra una sensibile regressione delle forme della religiosità estatica: esse vengono svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti, se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate nell’ambito limitato e regolato dei giochi.
Qui scorgiamo un aspetto centrale del passaggio storico dalla civiltà minoica, che poggiava le sue basi su un matriarcato «più che di autorità, di comprensione e di prestigio muliebri», a quello «brusco e buio» di tipo patriarcale dominato dai Dori – «barbari senza remissione» – come li definiva Momolina Marconi. Per l’evoluzione storico-mitologica di queste diverse fasi, dal neolitico sino all’invasione achea del XIII secolo a.C., rinviamo all’introduzione a I miti greci del «bardo» Robert Graves, cantore della Dea Bianca, che disegna mirabilmente il passaggio da un mondo ed una religiosità matrilineare, ad una patriarcale – dalla Grande Dea a Zeus – per poi arrivare alle religioni monoteiste attuali. Ma è proprio in questo particolare tipo di religiosità, e della visione che da essa scaturiva, che dobbiamo ricercare le origini sacre del gesto di portare la mano di taglio alla fronte.
La visione della Dea
Per ricostruirne la scaturigine, dunque, dobbiamo necessariamente partire dal momento cultuale in cui queste statuette sono state forgiate: era il tempo in cui nell’area del Mediterraneo dominava il culto della Grande Dea che, al tempo stesso, emanava e raccoglieva in sé, componeva e ricombinava dentro una figura unificante, tutti gli aspetti della creazione, delle cose visibili così come di quelle invisibili: la pánton genéthla della religiosità arcaica. Nella Creta minoica il numinoso, cioè la percezione del Principio generatore universale, non era separato e neppure separabile dalla vita di ogni giorno: le sue manifestazioni, a partire da quelle che nella cultura greca verranno poi attribuite a Dioniso, il dio-archetipo della «vita indistruttibile», erano immediate, in altre parole visionarie e mistiche. Kerényi riporta nel capitolo Gestualità minoica del suo Dioniso, un giudizio di H. A. Groenewegen-Frankfort che, per così dire, illumina, attraverso un’analisi delle forme d’arte, la concezione religiosa da cui sarebbero poi nati i gesti originati da queste visioni e che ritroveremo, «civilizzati», in quelli profani odierni, «saluto militare» compreso. L’arte cretese, dice lo studioso, non conosceva quella tremenda distanza fra l’essere umano e il trascendente, che poteva indurre nell’uomo la tentazione di cercare una via d’uscita dallo spazio e dal tempo.
Altrettanto poco conosceva la magnificenza e la vanità delle semplici azioni umane che sono legate al tempo e allo spazio. A Creta gli artisti non hanno conferito consistenza al mondo dei morti facendone un’ombra del mondo dei vivi, non hanno eternato gesta superbe, e neppure hanno elevato attraverso i loro templi una modesta pretesa ad essere presi in considerazione dagli dei. Questa concezione dell’esistenza che include la morte impediva, come vedremo più avanti, l’emergere di quella forma di malessere diffuso nelle nostra civiltà di aspiranti immortali che Freud denominò Das Unheimliche, il «perturbante».
Là, e là soltanto – contrariamente a quanto accadde in Egitto e nell’Asia Minore – la pretesa umana di svincolarsi dal tempo fu disprezzata, dando luogo alla più totale adesione alla leggiadria della vita che il mondo abbia mai conosciuto. Poiché vita significa movimento, la bellezza del movimento era intessuta in quella trama di forme viventi che si definiscono «scene naturalistiche»; questa bellezza si mostrava nei corpi umani occupati nei loro giochi severi e ispirati da una presenza trascendentale, giochi liberi e insieme conformi alle regole, senza alcuno scopo, proprio come senza scopo è il tempo ciclico. Tra questi giochi spiccano l’altalena e le acrobazie con i tori, ma soprattutto il dondolamento su se stessi o appesi ad un albero sacro: la forma più semplice di produrre una condizione estatica. Roberto Calasso, nelle Nozze di Cadmo ed Armonia, sottolinea come il «mistero a Creta, era palese, e nessuno tentava di nasconderlo». Le «cose innominabili» erano spalancate dinanzi agli occhi di tutti. E così, se continuiamo a risalire verso la fonte della gestualità legata al culto della Grande Dea, troviamo che il gesto su cui stiamo indagando è esattamente uno di quelli determinato dalla sua visione estatica, per cui si potrebbe dire che un tale movimento – contemporaneamente spontaneo e limitato – sia ispirato dalla sua presenza trascendente, anzi, sia in qualche modo questa stessa presenza.
La visione smeraldina
E infatti, come dice Pavel Florenskij nel suo saggio sulle icone, Le Porte regali, tradotto in italiano da Elémire Zolla, l’immagine iconica è quella che permette a chi la guarda di riconnettersi con l’invisibile luce che permea tutte le cose: la luce del sacro, per lo studioso russo segnatamente quello «incarnato» della tradizione cristiana. È dunque nello sguardo dell’Icona che si concentra la sua capacità simbolica, quella cioè di costituirsi come vera e propria «soglia» ontologica che l’osservatore può traguardare per accedere all’essenza immutabile dell’Anima Mundi.
Un esempio, nell’arte cristiana, è certamente quello della Madonna con Bambino e Santa Margherita del Parmigianino (1530), attualmente presso la Pinacoteca di Bologna. Qui l’intensità dello sguardo che si scambiano il piccolo Gesù e la Santa restituisce la possibilità stessa della Visione ma, forse, la chiave di volta del dipinto è quella dell’Angelo che guarda lo spettatore come ad attirare il suo sguardo. Chi sia questa figura angelica è ancora oggetto di controversia; noi azzardiamo una ipotesi seguendo le connessioni cabalistiche proposte da Giulio Camillo che, nel suo Theatro, stabilisce una corrispondenza tra le Sefiroth e le schiere angeliche, in particolare tra la terza detta Bina, e Metatron, il «principe del volto divino». Chi meglio di lui potrebbe, in effetto, sostenere nei confronti della nostra visione il ruolo di messaggero, di anghelos, mediatore tra l’attuale e l’eterno?
Egli ci guarda come attraverso la sua aura, e dunque ci ri-guarda, così come la Santa attira verso di sé il volto del piccolo Gesù sostenendone il mento con la mano affusolatissima e sensuale per essere tutta nel fuoco dei suoi occhi. Per restituire la carica simbolica di questi gesti Francesco Giorgio Veneto, nel suo In Scripturam sacram problemata, trattando della visione immediata di Dio, usa l’espressione «visio facie ad faciem». Il altre parole se ci identifichiamo con questi sguardi ne veniamo illuminati noi stessi: lo sguardo «è» la visione. Ma, non essendo noi dei Santi, anzi, come diceva Melisso seguace di Parmenide, «noi essendo anime volgari che non sopportano i raggi della divinità», lo sguardo a tutti possibile è invece quello «ermetico», da Ermes dio del mutamento e degli scambi, che permette di trasmutare la realtà fenomenica nel suo ris/volto, individuare quei nessi, la «trama nascosta» eraclitea, che unisce tra loro tutte le cose, trovare la correspondance di cui parla Baudelaire.
Come annuncia Florenskij qui, come in altre questioni metafisiche, il punto di partenza e ciò che già sappiamo dentro di noi: infatti anche in noi la vita nel visibile si alterna a quella nell’invisibile, come nel sogno, anche se questa percezione può essere totalmente e lucidamente vissuta solo «nell’attimo del tempo». E non è forse questo «attimo» che l’artista coglie e riverbera nei momenti di ispirazione, come nelle figurine votive di Candia? E, come nello sguardo di Santa Margherita, non è forse la significanza del gesto stesso a dirci che la Dea esiste? E non è allora il nostro modo trasmutante e trasmutato di guardare le cose che può restituircene il volto nascosto, cioè quella sostanziale unità che le unisce e che ci unisce ad esse?
Di sguardo ermetico parla in termini felicemente «sovversivi» Paolo Mottana, Direttore del Master in Culture simboliche della Bicocca che, nel suo La visione smeraldina, delinea le coordinate per una vera e propria «pedagogia dell’Immaginale», come ad indicare una pratica per la quale Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l’ópsis ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, che così diventa reale e visibile ci fa tornare in noi: «ritorna in te stesso e guarda», dice Plotino (Enneadi I,6,9,4-8).
È dunque la luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli. È stata la l’oscillazione, documentata dalla postura delle statuette votive di Candia, a farlo entrare in contatto con l’epifania; ma la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto. Nel caso della Grande Dea della Zoé, e qui sta l’arcano, è questa unità tra umano e divino che viene simboleggiata dall’atto di schermarsi gli occhi al cospetto della sua luce incommensurabile: il gesto stesso diviene così una sua ipostasi. È dunque la sua essenza simbolica a presuppore la possibilità di epifanie: tutti i gesti che si compiono nell’esperienza visionaria di una epifania sono autentici, non ripetitivi, genuinamente simbolici, diversamente da quelli stereotipati del culto, che non possiede più il carattere originario della visione, anche se cerca di suscitarla. Da qui l’attuale meccanicità del «saluto militare», che riprende solo l’aspetto secolarizzato della sottomissione gerarchica al superiore e la necessità che questi, per mantenere il suo carisma, sia visto, ma da lontano.
Il tramonto del gesto sacro
Ma essere immersi nel ciclo della Vita, essere esposti all’estatica visione della Dea, intesa come prismatica ipostasi della Zoé, porta certamente a confrontarsi con l’irrazionale che vi regna, con l’angoscia dell’imponderabile. Torna qui la riflessione di Valéry quando diceva che ogni vera metafisica esige che l’uomo sia partecipe di uno spettacolo che in qualche modo lo esclude. La ricerca della trance visionaria, dice ancora Caillois, assoggetta nell’uomo discernimento e volontà, ne fa il prigioniero di estasi esaltanti, di rapimenti mistici che lo dispensano dall’essere «solo un uomo» ma, proprio per questo, rischiano di annientarlo. Basterebbero, a questo proposito, le parole di Maria Maddalena de’Pazzi, la mistica visionaria che, alla fine del ‘500, colloquiava con Dio, quando descrive, con le sue parole trasgressive, lo stato d’animo dell’estasi come: «una quiete crudele e furiosa». Non a caso i mistici sono sempre stati tendenzialmente emarginati, se non chiaramente perseguitati, in ogni religione; specie in quelle dove il clero ha voluto amministrare la spiritualità, essi rappresentano infatti un pericolo potenziale proprio per la loro immediatezza.
Che siano i Sufi islamici o i mistici cristiani, essi sono invisi alla gerarchie ecclesiali, esattamente come un soldato che discute gli ordini lo sarebbe ai ranghi dell’esercito. Dalla volontà di sottrarsi al potenziale pericolo dell’immediatezza sarebbe dunque nata la nostra civilizzazione, figlia del pensiero Greco con la sua razionalità, per quanto sempre intrisa di ascendenze irrazionali, come ci fa notare Dodds nel suo I Greci e l’irrazionale. Da questa progressiva razionalizzazione, e gerarchizzazione, del pensiero occidentale sul Mondo, arriviamo alla sfida che segna la nostra modernità tecnologicamente orientata, il grande esperimento che ora si rivela un inganno tragico: la sostituzione del divino con l’umano, il superamento del limite della vita, il diniego della morte come parte costitutiva della vita.
E così che si edifica la «grande rimozione» che oggi alimenta l’enorme macchina edonistico-consumogena con la conseguente trasformazione della natura in un insieme di materie prime inanimate, da utilizzare per il nostro crescente controllo sulla biosfera, e non certo come un insieme animato col quale vivere in con/senso, e dal quale trarre suggerimenti per orientare il nostro stesso modello di civiltà. Giorgio De Santillana, nel suo saggio sul Fato antico, sintetizza che la gravità di questo percorso non risiede tanto nel distacco dalla Natura, per certi versi consustanziale all’intelligenza umana ed alla sua volontà di comprensione, quanto nell’aver cancellato dalla nostra visione il Cosmo che ci contiene ed esprime – il Fato degli antichi appunto – nel quale le leggi di natura erano da conoscere perché immutabili nella loro perfetta interazione. In questa visione delle relazioni uomo mondo non c’è posto per il numinoso, certamente non per la sua visione diretta, immediata, e dunque, non avendo luogo, questa visione semplicemente «non ha luogo»: non c’è allora nessuna necessità di «schermare lo sguardo dell’anima».
Ma questa assenza del numinoso dalla nostra percezione diretta, estatica, se ci mette al riparo dall’esposizione alla sua terribilità, ogni Angelo è tremendo ci ricorda Rilke, produce a sua volta altre perturbazioni. In definitiva il decadimento del sacro dal nostro orizzonte visuale, ed il conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti ricongiungenti, genera a sua volta una visione «perturbata» delle relazioni natura-cultura, che mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all’ordine superiore delle cose. Freud, nel suo saggio sul «Perturbante» (1919), cita a proposito una definizione di Schelling secondo cui questo sentimento sarebbe legato a qualcosa di segreto che torna a galla, rimarcando, da padre della psicanalisi, come nulla di più segreto permane nell’anima dell’uomo della paura della morte e dunque sia proprio questa rimozione, che continuamente riaffiora, a perturbare tutta la nostra psicosfera.
E allora, se il «progresso» è questo passaggio da una visione, ed organizzazione, della società governata dall’estasi e dalla consapevolezza di una comune appartenenza alla Zoé, ad una in cui ci si affida alle scienze esatte ed al pensiero raziocinate – per sua natura incapace a comprendere l’Ombra e dunque tutto ciò che si muove seguendo ragioni diverse da quelle della pura razionalità economica – ebbene non possiamo meravigliarci che il Mondo dentro e fuori di noi sia ridotto a ciò che nella Cabbala viene definito in termini spirituali klippoth, guscio, una pseudorealtà privata della comunione tra le sue molteplici anime, un insieme di Idoli, di Loghi, che giocano con la nostra percezione a sembrare Simboli.
Apollineo e dionisiaco
«L’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell’invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile – i volti delle cose, le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale». Cosi ci dice Florenskij e sembra che solo le droghe, oggi, possano ricondurci verso quella strada: una scorciatoia in realtà impervia e molto pericolosa, dato che sul cammino psichedelico sono molte le Maschere che si spacciano per Volti. Anche in questo caso ci vuole una robusta disciplina immaginale, in altre parola un intento di visione, una fede cioè, come dice ancora Florenskij: una «certa convinzione di cose invisibili», che riesca a combinare apollineo e dionisiaco, per sollevare la mente dalle immagini agli archetipi.
Ora, le droghe, quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti importanti per la comprensione umana del mondo; hanno contribuito a tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono: conscio/inconscio, persona/cosmo. Le droghe psicotrope e psichedeliche agiscono come un processo alchemico interiore, immaginale: fluidificano le concrezioni della mente mentre fissano in immagini i pensieri volatili, «poste all’incrocio tra senziente e sensibile», come scriveva Merleau-Ponty. Nulla a che vedere con i composti chimici «da sballo» che servono l’effetto opposto.
Nietzsche, nella Gaia scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire; ogni periodo dell’umanità ha avuto le sue droghe, i suoi stupefacenti di riferimento, spesso identificati con le divinità del ciclo vita/morte. Coleridge, un frequentatore del laudano, così poetizza il ruolo ricongiungente degli stupefacenti, nel suo L’arpa eolia: «E che dir poi se tutte le cose della natura animata, non fossero che arpe vere e proprie di diversa foggia, il cui brivido si traducesse in pensiero mentre sovra esse passasse, plastico e immenso lo stesso soffio intelligibile, anima di ciascuno ed al contempo Dio di tutti?». Questa sinestesia aiuta il transito della soglia, il ricongiungimento, la visione del sacro.
Anche le luci psichedeliche che emanano dalle vetrate colorate delle cattedrali, unite al salmodiare ininterrotto dei fedeli ed ai loro digiuni, sono ancora oggi i residuali strumenti della stessa visionarietà sacramentale. Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni contemporanee da questi cammini, ma possiamo dire che l’uso odierno degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo secolarizzato che ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da questi operatori non può che essere degenerato, come tutto ciò che oramai afferisce al «Regno della quantità», secondo la celebre definizione dell’Occidente desacralizzato coniata da René Guènon. Ecco perché, già nel passaggio epocale, paradigmatico, da una visione immediata della Zoé, ad una mediata dalla presenza della soggettività umana nel mondo, vediamo emergere l’emblematica figura di Dioniso, il dio dell’ebbrezza, con la sua droga, il vino.
«Cosa è Dioniso», cosa simboleggia a quel punto della storia del sacro nel Mediterraneo? A quale esigenza culturale e cultuale risponde il dio della Zoé? Una risposta possibile nasce non solo dall’ipotesi accademica che egli rappresenti il punto intermedio nel processo di progressiva soggettivazione della bios umana che, lentamente, smette di essere solo spettatrice estatica della visione divina – di «giocare per la Dea» – per prendere posto da protagonista sulla scena del mondo, ma dalla necessità attuale di avere una divinità alla nostra portata per sperimentare ancora la via dell’ebbrezza, della visione estatica. Non a caso il cristianissimo Padre Florenskij lo inserisce tra le sue figure di riferimento insieme al «gemello» Apollo.
Se la danza minoica sul toro, la «vertigine» del dondolio, portavano l’uomo più vicino alla divinità anche a prezzo del rischio mortale, adesso la bios umana, nel suo processo di soggettivazione, ha bisogno di una divinità «umana» che combini estasi ed archetipo della «vita indistruttibile» con la presenza dell’uomo nella storia; che faccia da specchio, con il suo ciclo, non solo a quello della Natura, ma della vita umana caratterizzata, che vuole essere anch’essa celebrata. Così nasce Dioniso e si afferma il suo avvento: nelle celebrazioni, nel culto del dio che nasce, muore e rinasce, si rispecchia finalmente l’umanità.
Ognuno di noi allora può sempre cercare e vivere momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta. A questa dimensione, seppure per un solo momento, si accede però solo attraverso quella che Florenskij chiama la «visione apollinea del mondo spirituale», in altre parole l’intento deliberato e la consapevole disciplina immaginale del ricercare il ricongiungimento con l’Anima Mundi. Evidentemente nulla a che fare con lo sbattere dei tacchi degli scarponi mentre si porta la mano alla fronte salutando un qualsiasi Generale.
Il Sole 6.2.16
Scelte non rinviabili
La grande fuga dalla Cina che zoppica
di Kenneth Rogoff

Da inizio 2016, la prospettiva di una maggiore svalutazione del renminbi pende sui mercati come la spada di Damocle. Nessun altra fonte di incertezza politica è stata così destabilizzante. Pochi osservatori dubitano che la Cina dovrà lasciare che il tasso di cambio luttui liberamente nel prossimo decennio.
Potrebbe sembrare strano che un Paese con un surplus commerciale di 600 miliardi di dollari nel 2015 dovrebbe essere preoccupato per la debolezza della valuta. Ma una combinazione di fattori (rallentamento della crescita e allentamento delle restrizioni sugli investimenti all’estero) ha scatenato un fiume di uscite di capitale.
I cittadini sono autorizzati a portare fino a 50mila dollari all’anno fuori dal Paese. Se solo un cinese su 20 esercitasse questa opzione, le riserve cinesi in valuta estera si prosciugherebbero. Allo stesso tempo, le aziende piene di liquidità si stanno avvalendo di tutti i dispositivi per liberarsi del denaro. Un approccio legale è prestare in renminbi e rimborsare in valuta estera.
Un approccio non così legale è quello di emettere fatture false - essenzialmente una forma di riciclaggio di denaro. Un esportatore cinese potrebbe segnalare un prezzo di vendita più basso a un importatore Usa di quello che riceve, depositando la differenza in dollari su un conto bancario Usa.
Ora che le imprese cinesi hanno comprato molte aziende Usa ed europee, il riciclaggio può anche essere fatto in casa. Dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Europa affogava nei controlli sui cambi, i flussi di capitale illegale fuori dal continente raggiungevano in media il 10% del valore degli scambi o più. È impossibile per la Cina controllare i flussi di capitale in uscita quando gli incentivi da lasciare diventano abbastanza grandi.
Nonostante l’enorme surplus commerciale, la Banca popolare di Cina è stata costretta ad intervenire per sostenere il tasso di cambio (le riserve in valuta estera sono scese di 500 miliardi di dollari nel 2015). Con tali controlli sui capitali, la guerra della Cina da 3.000 miliardi di dollari non sarà sufficiente a tenere chiusa la fortezza a tempo indeterminato. Più le persone si preoccupano che il tasso di cambio sta scendendo, più vogliono far uscire i soldi dal Paese immediatamente. Quella paura, a sua volta, è stato un fattore importante che ha portato giù il mercato azionario cinese.
Ci sono molte speculazioni secondo cui i cinesi intraprenderanno una considerevole svalutazione, circa il 10%, per indebolire il renminbi e allentare la pressione sul tasso di cambio. Sarebbe una scelta strategica molto pericolosa per un governo di cui i mercati finanziari non si fidano. Il rischio è che una svalutazione sarebbe interpretata come un’indicazione che il rallentamento della Cina è più grave di quanto pensa la gente, nel qual caso il denaro continuerebbe a fuggire.
Non vi è modo per migliorare la comunicazione con i mercati fino a quando la Cina impara a produrre dati credibili. È stata un grande notizia quando la crescita del Pil della Cina nel 2015 è stata pari al 6,9%. Questa differenza dovrebbe essere irrilevante, ma i mercati l’hanno trattata con importanza, perché gli investitori ritengono che le cose devono andare male se il governo non può alterare i numeri per raggiungere il suo obiettivo.
Un buon punto di partenza per le autorità potrebbe essere quello di istituire una commissione di economisti per produrre una serie più realistica e credibile di dati storici Pnl, aprendo la strada a dati Pnl più credibili. Invece, un’idea immediata del governo per alleviare la pressione dei tassi è di agganciare il renminbi a un paniere di 13 valute, invece che solo al dollaro Usa. Questa è una buona idea, in teoria; in pratica, si possono verificare problemi di trasparenza cronici.
La vita sarebbe molto più facile oggi se la Cina si fosse spostata verso una maggiore flessibilità dei tassi quando i tempi erano buoni. Forse le autorità saranno in grado di resistere nel 2016; ma è più probabile che il renminbi continuerà la sua corsa – portando con sé i mercati globali.
Il Sole 6.2.16
Hillary, la progressista pragmatica
Il 9 febbraio le primarie in New Hampshire
Il voto in casa del rivale Sanders imposterà il resto della campagna
di Mario Platero

La coreografia è perfetta. Lo spettacolo elettorale al comizio di Hillary Clinton a Derry, nel grande day center dove ci saranno 300 persone, è strutturato come una piece teatrale in quattro atti. Con una ouverture: Eileen McKay, una ragazzina di una quindicina d’anni canta l’inno americano. Infila alcune stecche, ma aggiungono autenticità senza togliere solennità al momento. Organizzazione e coordinamento una spanna sopra rispetto a quelle degli altri comizi che ho visto fra Iowa e New Hampshire: Donald Trump è un “one man show”, Rubio dialoga bene con il pubblico ma tutto è molto normale, Cruz è oleoso, troppo predicatore. Sanders porta qualche giovane attore sconosciuto che lo introduce, ma regna il caos. Da Hillary tutto funziona come un orologio svizzero. Un’anteprima di come potrà funzionare la sua Casa Bianca. Eppure durante il suo intervento c’è una cosa che non funziona: appare sulla difensiva. Lo era stata già in Iowa, quando nel discorso della vittoria a Des Moines ha detto di aver «tirato un sospiro di sollievo» per la vittoria strettissima contro Bernie Sanders.
Ora qui a Derry lo è su un altro tema: Bernie Sanders l’ha appena accusata: «Non puoi essere moderata un giorno e progressista il giorno dopo. Non sei progressista. Punto». Il tema è diventato dominante nel dibattito politico democratico. Perché dopo molto fair play, per primo Sanders si è tolto i guanti. Eppoi perché, soprattutto perché la base, gli attivisti che partecipano alle primarie e che votano qui in New Hampshire sono quasi tutti progressisti. E Hillary invece di contrattaccare, spiega perché è progressista. E quando in politica ti giustifichi davanti all’attacco del tuo avversario, perdi subito punti. Hillary lo ha capito. E ieri notte nel dibattito organizzato dalla NBC a Durham i guanti se li è tolti lei: ha finalmente contrattaccato, ha messo Bernie, che non se l’aspettava nell’angolo. Ma anche lui ha risposto a tono e di nuovo attacca: «Una che prende 650mila dollari per vari discorsi a Goldman Sachs, che ha un Superac (fondo elettorale) da 15 milioni di dollari finanziato da Wall Street, che ha votato per la Guerra del Golfo non è un progressista» dice Bernie nel dibattito. E Hillary di rimando: «Cosa vuoi insinuare Bernie, che sono venduta? Dillo apertamente allora. Ma vai a controllare il mio voto e vedrai che non troverai mai collusione. Anzi ero sotto attacco delle lobby forti delle case farmaceutiche ad esempio e delle banche. Smettiamola con questa storia». Una conferma di quanto questo voto del New Hampshire sia un voto di svincolo, importante per impostare il resto della campagna.
Ma cominciamo dall’inizio, dal primo atto del comizio di Hillary a Derry: si presenta Chris Carathey, un ragazzo di 26 anni volontario della campagna Clinton. Racconta perché ha lasciato la California per fare politica in New Hampshire, tutto per Hillary. Poi la sorpresa: «Sapete qual è la persona più importante della mia vita?», tutti ci aspettiamo che dica Hillary, invece rivela: «Mia madre... Mi ha cresciuto da sola...»; racconta delle mille difficoltà, sacrifici, studi, debiti e chiude: «È giunto il momento per l’America di avere una donna, una madre e una nonna alla Casa Bianca». Il pubblico, fatto soprattutto di donne, esplode. Secondo atto. Entra Gaby Gifford, la ricordate? La giovane deputata democratica che fu colpita davanti a un supermercato Safeway in un sobborgo di Tucson in Arizona. Rimase in coma e poi paralizzata per alcuni anni. Entra camminando da sola, un po’ incerta. Il pubblico adesso è muto. Con lei ci sono Hillary e il marito, l’astronauta Mark Kelly. Mark racconta la sua storia: un pilota navale, un veterano della Guerra del Golfo, poi un astronauta con sei missioni Shuttle, tre da comandante dell’Endevour. Racconta l’incontro con Gaby e l’amore. Poi ricorda quella giornata terribile, i sei morti, i 19 feriti, sua moglie ferita grave, paralizzata: «C’era anche Christina Taylor-Green, nove anni nata l’11 settembre del 2001, il giorno dell’attacco all'America - dice Mark - Bellissima, intelligente, da grande voleva fare politica. Era il suo turno per una stretta di mano con Gaby invece fu uccisa sul colpo». Il pubblico è ipnotizzato. Anche perché si alza Gaby che parlando con difficoltà chiede il voto per Hillary. L’emozione in sala è forte. L’applauso è liberatorio. Sta per partire il terzo atto: il discorso della futura Madam President. Poi il quarto, il town hall meeting con le domande del pubblico. La parte dedicate a domande e risposte funziona Hillary è spontanea, diverte, racconta aneddoti. Il discorso invece è l’atto in cui Hillary appare sulla difensiva. Ci sono sbalzi di tono, a volte la sua voce è troppo forte, un po’ stridula. Bob Woodward del Washington Post dice che è una voce costruita, poco naturale, per dimostrare energia. Poi parte con la difesa del suo passato progressista: «Non sono progressista? Io che ho garantito l’accesso alle medicine per 8 milioni di bambini, che ho bocciato la privatizzazione delle pensioni che voleva Bush, che ho difeso i diritti dei gay e delle lesbiche, che ho combattuto per i diritti civili...».
L’insulto sul progressismo è gravissimo per Hillary. Non solo per le implicazioni politiche, ma perché il progressismo è stata la sua bandiera. Quando il marito Bill, iscritto al Democratic Leadership Council, un movimento di centro destra all’interno del partito democratico fondato alla fine degli anni Ottanta da influenti politici del sud, come Sam Nunn, allora potentissimo senatore della Georgia per rispondere alla rivolzuione reaganiana, Hillary si era tenuta a sinistra. Il suo passato, dai tempi di Chicago e dell’università era più radicale di quello del marito maturato politicamente in Arkansas e più in generale nella “Fascia del Sole”. E nei primissimi giorni alla Casa Bianca, Hillary impose a Bill una scelta superprogressista, chiese e ottenne la gestione per la riforma sanitaria spostando a sinistra il baricentro politico dell’amministrazione. Una scelta che costò carissima al Presidente: la riforma non andò da nessuna parte e i democratici furono puniti duramente dagli elettori alle elezioni di metà mandato del 1994. Hillary tornò a fare la mamma e fu lì che imparò la lezione e capì che il pragmatismo deve prevalere sull’idealismo se si vogliono raggiungere dei risultati. E questo lo ha detto chiaramente a Sanders al comizio di Derry e ieri notte al dibattito: «Le idee devono poi trovare un’applicazione, altrimenti servono a poco». Anche per questo, per la sua esperienza, si dice che nel gruppo sia democratico che repubblicano sia lei oggi la persona più qualificata per fare il Presidente e guidare il paese in un momento difficile sia sul piano interno che su quello internazionale: «Sono una progressista che fa le cose» dice ancora Hillary. Manon contrattacca, Hillary non ha ancora accusato Sanders di essere un “socialista” come lui stesso si definisce. Non ha elencato gli insuccessi parlamentari di Bernie, né le difficoltà a tradurre in azione le sue promesse. Lo fa solo in modo indiretto. Jen Palmieri, il capo delle comunicazioni mi dice che non si risponde alle provocazioni. Che la strada è lunga e che Hillary ce la farà, a partire dei prossimi stati.
In New Hampshire in effetti, nel cortile di casa sua, visto che è Senatore del Vermont, Bernie ha un vantaggio di quasi 20 punti, è al 56,7 delle preferenze contro il 37,2 di Hillary. Ha anche raccolto più fondi di Hillary in gennaio, 20 milioni di dollari in donazioni mediamente di 27 dollari, con tre milioni di dollari solo negli ultimi tre giorni. Hillary ne ha raccolti 15. «Siamo più poveri», dice ancora Hillary con insistente modestia. C’è dunque una doppia strategia, linea difensiva in pubblico a distanza ravvicinata per smentire chi la definisce arrogante, dinastica, troppo sicura di se. Hillary sotto attacco può cogliere l’opportunità per smarcarsi dall’immagine di “potere forte”, come ha fatto ieri mattina. Ma in diretta televisiva come ieri sera, parte l’urlo quando si ripropone la questione del progressismo a due velocità. Comunque sia le basta serenamente guardare in avanti: in Carolina del Sud il vantaggio di 20 punti è per lei, come su base nazionale. Ma se il New Hampshire andrà malissimo le cose potrebbero cambiare. Per questo Hillary si fermerà qui fino al voto del 9 febbraio. E per questo non mollerà, la doppia strategia che abbiamo visto in azione nello stesso giorno è accompagnata da centinaia di email che chiedono un dollaro. Ci vuole qualche voto in più, deve ridurre la differenza con Sanders partendo da posizioni di svantaggio, da “underdog”. Anche perché sa che il vento cambierà e il bello deve ancora venire. Basta avere pazienza, dote, questa sì, centrale, per uno statista.
Il Sole 6.2.16
Il vero potere dietro i raìs, un’ombra che si perpetua
La repressione in Medio Oriente. Una macchina infernale di polizia, paramilitari e servizi
di Alberto Negri

Un cadavere trovato in un fosso, un’altra vita spezzata, un’altra storia sbagliata e ora scriveranno fiumi d’inchiostro facendo domande a un generale che non può rispondere. Il sistema di potere egiziano, e quelli del Medio Oriente in generale, sono brutali, qui la tortura non è l’eccezione ma la regola. Lo abbiamo sperimentato il 17 gennaio 1991 in un caserma giordana, con Eric Salerno del Messaggero, una ventina di militari in divisa prima ci massacrarono metodicamente di botte usando il calcio del fucile, poi tentarono di buttarci da una finestra dove sotto aspettava una folla urlante ed eccitata. Fummo fortunati a cavarcela.
La realtà di solito è un’altra. Il generale Abdel Fattah al-Sisi, e come lui tutti gli autocrati e i regimi mediorientali, esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno: 12 se ne contavano nella Siria di Assad alla vigilia della rivolta, sei nella macchina infernale dell’Iraq di Saddam Hussein, tre in Egitto dove il Mukhabarat è andato a scuola dal Mossad. I veri capi dell’Algeria negli anni ’90 e Duemila, durante i massacri islamici, erano i generali della polizia, non i governi. I ministri di solito qui contano poco. In Turchia quando non si capisce chi fa le stragi si parla dello Stato Profondo, il “Derin Devlet”: l’intreccio tra militari, polizia, servizi, criminalità e terrorismo che sopravvive in tutte le stagioni politiche compresa questa di Erdogan. Ovunque c’è un ministro dell’Informazione per filtrare, censurare e controllare giornalisti locali e stranieri: è la stessa esistenza di questo ministero a dirci che l’informazione non è gradita, se non quando è propaganda.
Le istituzioni repressive si perpetuano nel tempo: cambiano i capi e i torturati di prima diventano dopo i torturatori. Lo Shah, all’inizio degli anni 60, sembrava in pieno controllo. Aveva creato la polizia politica Savak con 60mila agenti ma si calcola che negli anni ’70 circa un terzo degli iraniani avesse lavorato come informatore o fosse entrato in contatto con i servizi. Questi numeri possono apparire esagerati,forse lo sono. Ma lo stesso fenomeno si riscontra in molte dittature. In Iran oggi i servizi della Vevak, acronimo che ricorda sinistramente la Savak imperiale, lavorano in modo capillare e con tecnologie moderne. Una macchina formidabile ma anche semplice: per ogni due rappresentanti di un’istituzione c’è un terzo, di solito un pasdaran, che fa rapporto sull’attività interna o esterna. Hussein Shariatmadari, attuale direttore di Keyhan, un giorno mi mostrò un braccio mutilato dalla Savak dello Shah ma negli anni ’80 era lui a torturare i prigionieri nel carcere di Evin. A volte ci tengono a dirtelo per fare capire che contano davvero. L’Iran è un Paese dove la repressione è un meccanismo oliato come dimostra la fine dell’Onda Verde nel 2009 che a Teheran fallì ma anticipò il crollo dei regimi arabi.
È questo il potere che invece di sfaldarsi rinasce negli apparati. Le rivoluzioni da questo punto di vista possono sembrare illusioni ottiche. I miliziani di Mubarak sono stati riciclati da al-Sisi dopo il colpo di Stato contro i Fratelli Musulmani. In Egitto i militari come Nasser, Sadat, Mubarak, Sisi, svestono l’uniforme e mettono giacca e cravatta, ma continuano a gestire da 60 anni un lato oscuro dello Stato che è il vero potere. È questa la macchina infernale che stritola i popoli mediorientali: cambiano i manovratori non i metodi. Non c’è neppure bisogno di impartire ordini: gli apparati polizieschi che sostengono i raìs sono zelanti, anche troppo. Per questo il generale egiziano non può dirci tutta la verità su Giulio Regeni e le ombre del potere.
Il Sole 6.2.16
Milano, Pd alla prova primarie Si punta a 60mila votanti
Centrosinistra. Con Pisapia nel 2010 raggiunti i 67mila
di Sara Monaci

MILANO Il centrosinistra di Milano si prepara alle primarie in vista delle amministrative di giugno: si voterà oggi in nove seggi dalle 8 alle 18 e domani dalle 8 alle 20 in 150 seggi. Si potrà scegliere tra il commissario Expo Giuseppe Sala, la vicesindaca Francesca Balzani, l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino e il direttore generale della Uisp Antonio Iannetta. L’obiettivo sperato sarebbe quello di raggiungere i 67mila votanti, gli stessi delle primarie del 2010, in cui vinse l’attuale sindaco Giuliano Pisapia. Tuttavia non sono pochi a ritenere che quest’anno l’affluenza sarà tra i 50 e i 60mila (su 800mila elettori circa).
La ragione di questa attesa al ribasso è il fatto che il centrosinistra ha amministrato la città negli ultimi cinque anni e quindi non ci sarà un sentimento di “chiamata alle armi” contro l’avversario del centrodestra.
Avversario che in questo momento fa peraltro poca paura. La coalizione deve ancora scegliere il suo candidato. Pochi giorni fa le indiscrezioni hanno indicato Stefano Parisi, ex city manager ai tempi di Gabriele Albertini sindaco ed ex direttore generale di Confindustria. Lui ancora non ha dato il suo ok ma ci starebbe pensando.
La sensazione è che il centrodestra in realtà stia attendendo gli esiti delle primarie del centrosinistra, non avendo chiaro chi sarà l’avversario. Di fronte ad una (possibile) vittoria di Sala, il centrodestra avrà armi molto più deboli, visto che il manager attira le simpatie meneghine in modo abbastanza trasversale. La situazione milanese è stata presa in mano direttamente dal presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, che la considera una partita nazionale.
E in effetti quella di Milano ha una valenza politica più ampia per tutti. Certamente per il Partito democratico Milano è una città fondamentale, dove è necessario assicurarsi la vittoria di fronte ad una campagna elettorale a Roma dagli esiti incerti. Ma è soprattutto l’area che va indicativamente da Sel a Rifondazione comunista a rischiare di più. La parte più a sinistra della coalizione ha infatti usato le primarie per mettersi in contrapposizione al cosiddetto “partito della Nazione” e al premier Matteo Renzi. Se a vincere fosse Sala, visto come il rappresentante di questa politica da contrastare, la loro battaglia risulterebbe poco efficace e minoritaria.
Al momento i sondaggi assegnerebbero la vittoria al commissario Expo. Ma si tratta ovviamente di proiezioni e non di certezze. A suo favore Sala ha il successo dell’Expo, che gli ha regalato notorietà sul piano nazionale, e l’immagine dell’“uomo del fare”. Inoltre la sua campagna elettorale si è basata su toni rassicuranti e pragmatici, oltre alla sottolineatura di una conoscenza profonda di Milano.
Diversa l’identità di Francesca Balzani, la cui candidatura è arrivata lo scorso novembre col sostegno di Pisapia, che pochi giorni fa ha dichiarato che la voterà. Un endorsement importante, visto che il sindaco gode a Milano di grande notorietà; tuttavia non è passata del tutto l’idea di continuità con la giunta precedente, visto che tutti gli assessori si sono schierati con Sala (anche quelli più di sinistra, e non solo del Pd). Balzani ha giocato la campagna su toni più vivaci e aggressivi, rivendicando la coerenza della sua storia politica e rimproverando a Sala scarsa trasparenza sui conti dell’Expo. A proposito di coerenza, ne ha dimostrata sicuramente molta Majorino, primo candidato alle primarie (da quasi un anno), sempre attento ai contenuti più riconoscibili della sinistra, dal supporto dei più deboli al reddito di cittadinanza all’aiuto ai giovani. E sicuramente, in caso di vittoria di Sala, potrebbe avere un ruolo fondamentale per tenere insieme le varie anime della coalizione.
Il Sole 6.2.16
Da Milano a Roma e Napoli, la sfida è anche tra i big del Pd
di Lina Palmerini

Non c’è dubbio che le prossime primarie saranno come un’analisi del sangue per il Pd. Dalle vittorie e sconfitte ai gazebo si vedrà se prende consistenza un profilo moderato e liberal più vicino alle candidature di Sala o Giachetti oppure se l’asse a sinistra con la Balzani, Majorino ma anche Bassolino o Morassut manterrà il suo appeal tra gli elettori.
Al netto delle polemiche sulla purezza del Pd e sui pericoli di “infiltrazioni” di verdiniani – e ieri anche di ex fedelissimi di Cuffaro – c’è un tema politico da approfondire che è appunto quello di capire di che sostanza è fatto il Pd dopo due anni di governo (nel partito e a Palazzo Chigi) di Renzi. Se cioè i tratti sono davvero cambiati e hanno preso la stessa inclinazione verso il centro del leader o se al contrario c’è una reazione di rigetto al renzismo. Non solo degli elettori ma soprattutto degli apparati del partito. Perché quello a cui si è assistito nelle seconde primarie – la sfida tra Renzi e Cuperlo – è stata una corsa a salire nel carro vincente ma dopo due anni si potrebbero essere sommate molte aspettative mancate e disillusioni.
Si dirà – ed è vero – che la scelta andrà su quei candidati che più esprimono una competenza nell’amministrazione ma non si può far finta che in ogni città Renzi e la sua minoranza hanno espresso candidature alternative e che queste sfide sono un antipasto della grande contesa che ci sarà nel 2017 con le primarie nazionali. Quello che infatti si comincia a vedere bene, soprattutto a Roma e a Napoli, è che oltre a un match tra ricette politiche diverse c’è proprio una battaglia tra rispettive forze in campo sul territorio. Questa è la sensazione che danno le primarie a Roma, per esempio, ma anche a Napoli. Una piccola-grande conta su chi comanda. Questo rischio è forte nella Capitale dove da una parte c’è il candidato renziano, ex radicale, Roberto Giachetti, e dall’altra sono scesi in campo contro di lui i due ex segretari del Pd – Veltroni e Bersani – sponsor della candidatura di Roberto Morassut. È vero che l’avversario di Giachetti può essere riuscito nell’impresa di mettere d’accordo personalità politiche molto diverse, come sono Bersani e Veltroni, ma il pericolo che tutto venga tradotto in uno scontro tra leadership è reale. Molto dipenderà da come verranno gestite le primarie e se prenderanno quella stessa piega che hanno preso a Milano dove si è rimasti dentro il ring della lotta politica quando Renzi e Pisapia – sponsor rispettivamente di Sala e Balzani – hanno promesso di sostenere chiunque vincerà la sfida di oggi e domani.
Naturalmente il primo test di quest’analisi del sangue al Pd riguarderà l’affluenza alle primarie. La fila ai gazebo farà la differenza e soprattutto mostrerà quanto grandi sono le differenze tra una città come Milano e una come Roma dove il partito ha lasciato una pessima idea di sé dopo le inchieste giudiziarie e la vicenda di Marino. E interessante sarà pure Napoli, con il gran ritorno di Bassolino che dovrebbe riportare in fila un pacchetto di voti e una tradizione ex Pci. Con una sorpresa. Che potrebbe essere quella del governatore De Luca, proprio ieri assolto in appello e sicuramente interessato e attivo sulla partita di Napoli. Insomma, saranno anche amministrative ma ai gazebo la sfida coinvolge i principali esponenti del Pd di oggi, nella veste di alleati o avversari di Renzi. Per questo gli esiti supereranno i confini politici delle città.
Il Sole 6.2.16
Pd tra tessere e urne. Sinistra dem all’attacco del «partito della nazione»
Speranza: «Se non si dà un segnale fermissimo il Pd è morto»
Scontro sul «caso Cuffaro», Bersani evoca l’addio
di Emilia Patta

ROMA Dopo Verdini, Cuffaro. Ossia l’ex governatore della Sicilia che ha appena finito di scontare quasi 5 anni di carcere per associazione mafiosa. La nuova miccia che fa deflagrare lo scontro nel Pd viene innescata in Sicilia dal presunto travaso di «voti» e «classe dirigente» cuffariana nel partito. Sembrerebbe l’ennesima polemica sul fantasma del Partito della nazione, mentre il premier e segretario Matteo Renzi è impegnato nella difficile battaglia per la flessibilità in Europa ed evita di esprimersi a riguardo. Ma a differenza delle altre volte ora sono i toni dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, punto di riferimento della sinistra interna, a preoccupare. Bersani sembra evocare la propria uscita dal partito che ha contribuito a fondare, e quindi di fatto una possibile pesante scissione. Proprio alla vigilia delle primarie di Milano, con la sfida a quattro che apre di fatto la stagione elettorale del Pd (nelle altre città chiamate al voto a giugno le primarie ci saranno il 6 marzo), il modo in cui Bersani descrive il cambiamento della “Ditta” è infatti particolarmente pessimista. «Il Pd non è un partito di potere buono per tutti gli usi. Non siamo un porto dove può sbarcare chiunque. Renzi non ci porterà dove non vogliamo andare». Per la prima volta c’è l’allusione all’impossibilità di restare in un Pd che “cambia pelle”: «Se nel Pd entra certa gente io non so più se ci voglio stare». E a rimarcare che quella di Bersani non è una posizione personale arriva il sostegno di Roberto Speranza: «Se non si dà un segnale fermissimo e rigorosissimo sulla vicenda Cuffaro il Pd è morto», dice il leader della sinistra dem. Che aggiunge, facendo intendere che questo del Partito della Nazione sarà il vero tema del congresso del partito previsto per il 2017: «Noi vogliamo un Pd diverso, un Pd perno del centrosinistra e mai partito della Nazione».
In Sicilia, il segretario regionale Fausto Raciti - “giovane turco” come Orfini e Orlando - ha deciso di congelare il tesseramento e ha convocato i garanti. «Il “travaso” di iscritti evocato dallo stesso Cuffaro in una recente intervista è un campanello d’allarme che non va preso sotto gamba, perché in Sicilia queste cose sono delicate - spiega -. Un conto è allargare il partito e conquistare la maggioranza degli elettori, un conto è riciclare il ceto dirigente di una stagione politica fallita e che ha fatto male alla Sicilia». Fermi tutti, in attesa di verifiche. «Io non mi voglio ritrovare con un caso Mafia Capitale cresciuto sopra la mia testa e senza che io ne sappia nulla...», confida Raciti. A gettare acqua sul fuoco ci pensa il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. «Al momento dalla Sicilia non si hanno notizie di fenomeni anomali. Se dovessero arrivare, si interverrà con rigore e intransigenza - dice Guerini -. Detto questo, ogni tre o quattro mesi c’è qualcuno che apre una polemica sui nostri tesserati: una volta sono pochi, una volta sono troppi, o ci si impegna intorno a indistinte e generiche disquisizioni. E alla fine si fa solo male ai nostri iscritti». Per Guerini, come per Renzi che non ne vuole neanche sentir parlare, le polemiche sul Partito della Nazione sono «indistinte e generiche disquisizioni». Ma c’è da scommettere che le sentiremo ancora.
Corriere 6.2.16
Scienziati, Filosofi, Teologi il grande dibattito sull’Anima
di S. Da.

Natura e città, iraniani e israeliani, le donne (molto diverse) dell’Islam, le anime della metropoli: il nuovo numero de «la Lettura», in edicola da domani per tutta la settimana, vuole omaggiare gli incontri insoliti del nostro tempo. Lo scrittore triestino Mauro Covacich, nel suo racconto scritto in esclusiva per il supplemento culturale del Corriere della Sera , descrive gli uomini-albero, quelli «vegetali per la loro fedeltà al posto». Clochard, zingari, uomini e donne soli che attraversano le giornate ai semafori oppure seduti sulle panchine, mentre osservano la città e i suoi abitanti che si muovono veloci.
Ai molteplici significati dell’anima è dedicata la storia di copertina de «la Lettura»: uno speciale di quattro pagine in cui gli studiosi Edoardo Boncinelli, Mauro Bonazzi, Adriano Favole, Marco Rizzi e Piero Stefani analizzano caratteristiche e contraddizioni del rapporto tra corpo e spirito.
All’incontro tra il nostro punto di osservazione e quello di un pilota d’aereo — Mark Vanhoenacker della British Airways, autore di Skyfaring — è dedicata la visualizzazione dati, che illustra le «autostrade del cielo» costellate di nomi, oggetti e aneddoti bizzarri, dimostrando come la geografia del cielo sia molto diversa da quella terrena.
La relazione tra natura e città è invece alla base di molti dei progetti urbani più interessanti del momento. Federica Colonna ne racconta alcuni, da Copenaghen a Rotterdam, fondati tutti sulla scommessa di preparare le città alla sfida del cambiamento climatico: nascono così le metropoli agri-urbane, in grado di accogliere la campagna e di ospitare attività di produzione di cibo, con piazze che diventano stagni quando piove e giardini che riproducono i processi biologici.
Se il dialogo con la natura presenta di certo ostacoli, quello tra popoli «nemici» può riservare delle felici sorprese: lo scrittore afghano Aziz Hakimi, cresciuto sotto Khomeini, e il narratore israeliano Etgar Keret raccontano come la letteratura, nel primo caso, e il cinema, nel secondo, li abbiano aiutati ad avvicinarsi a mondi opposti.
Nel graphic reportage, Cinzia Leone racconta le donne incontrate nella prima accademia per predicatori e predicatrici fondata a Rabat nel 2015 dal re del Marocco Mohammed VI per contrastare il terrorismo islamico in Africa. Degli 800 studenti, 175 sono donne provenienti da sei Paesi del Maghreb e subsahariani: diversissime tra loro ma unite dalla fede musulmana e dalla lotta contro Isis e Al Qaeda. Michele Emmer presenta ai lettori de «la Lettura» Antanas Mockus, eletto due volte sindaco di Bogotà: il «supereroe» che ha risanato la capitale colombiana, riducendo la violenza e migliorando la qualità della vita .
La Stampa TuttoLibri 6.2.16
La Rivoluzione francese? L’hanno fatta i Lumi
Dai diritti dell’uomo al Terrore, una storia “intellettuale” che riporta in primo piano il ruolo di filosofi e ideologi
di Massimiliano Panarari

Ci sono questioni che infiammano gli studiosi. Una di queste, ça va sans dire, riguarda la genesi e le «cause scatenanti» della Rivoluzione del 1789, il dibattito intorno alle quali è stato rilanciato da un monumentale volume ora pubblicato anche in Italia.
La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre
di Jonathan Israel ha fatto esplodere in vari ambienti intellettuali una discussione furibonda e accesissima. Lo storico dell’Institute for Advanced Studies di Princeton propone infatti quello che, per molti versi, rappresenta un cambio di paradigma interpretativo, con l’obiettivo di rimettere al centro, in materia, la storia intellettuale e delle idee rispetto alla lunga egemonia di quella sociale. Una via alternativa (quarta assai più che terza…) tanto rispetto al nutrito filone marxista del passato che al revisionismo neoliberale di François Furet, e che configura una linea storiografica per la quale gli eventi rivoluzionari discesero in linea retta dall’Illuminismo. E, così facendo, in buona sostanza Israel individua nell’eredità dei Lumi il cuore autentico (e il «nocciolo duro») dell’identità culturale dell’Occidente, quel complesso di valori da mesi sotto attacco ferocissimo, stretto nella morsa a tenaglia di un rifiuto che viene dall’interno dei confini della nazione che l’ha partorito (il populismo del Front national) e di un mostruoso rigetto omicida che arriva dall’esterno, targato Isis e islamismo armato.
Analizzando nel dettaglio (attraverso nuovi documenti e la disamina approfondita degli Archives parlamentaires), e per centinaia di pagine, la battaglia culturale tra le fazioni e le «correnti» della Rivoluzione, Israel individua una filiazione diretta del suo lascito a partire dalle elaborazioni del «partito» degli illuministi radicali (tesi che caratterizza fortemente il suo lavoro da vari anni a questa parte). Un’avanguardia autentica, secondo lo studioso (che colloca nelle élites il motore fondamentale dei fatti rivoluzionari da cui venne scalzato l’Antico regime), coincidente con la componente del «parti des philosophes» (assai più che con l’ampia pattuglia di avvocati che finì per detenere la leadership politica, ma non culturale) accomunata sotto il profilo ideologico dal repubblicanesimo, da un anticlericalismo inflessibile (fondato quasi sempre sull’adesione al materialismo), dalla fiducia nell’empirismo e nella scienza e dalla strenua opposizione alla ripartizione dell’Assemblea nazionale secondo i tre ordini o «stati».
Un’ala giustappunto radicaleggiante dell’Illuminismo nella quale si riconosceva un gruppo variegato di personalità che andava dal «caposcuola» marchese di Condorcet (teorico della valenza democratica dei sistemi elettorali, nonché alfiere dei diritti delle donne e dell’emancipazione dei neri) al leader girondino Brissot, dall’idéologue conte di Volney al deputato Kersaint, dal direttore del Mercure national Robert al medico Lanthenas, dal giornalista (e «ghostwriter» di Mirabeau) Chamfort fino all’americano Thomas Paine (anch’egli eletto alla Convenzione) – gran parte dei quali ghigliottinati o imprigionati dal Terrore.
Alla base della loro visione si trovava l’idea dell’uguaglianza quale fondamento di un rinnovamento della politica, delle istituzioni e delle relazioni tra gli individui che prendeva la forma della nozione originalissima dei diritti umani fondamentali. Nel libro di Israel siamo quindi marcatamente in presenza della concezione per cui sono le idee a muovere la storia, camminando sulle gambe degli uomini (e di varie donne che ebbero ruoli decisivi, dalle dame dei salotti anticamere della Rivoluzione sino a Olympe de Gouges), e circolando per mezzo del gran numero di pamphlet e giornali che, tra il 1787 e l’88, veicolarono una «nuova cultura politica».
Lo storico ritiene imprescindibile riconoscere l’esistenza di un dualismo costitutivo della Rivoluzione, in seno alla quale si confrontò sostanzialmente una coppia di prospettive antitetiche. L’una contro l’altra armate – la prima con le armi della critica e la seconda, invece, con una sanguinosissima critica delle armi – si fronteggiarono così la Rivoluzione della Ragione degli illuministi radicali e la Rivoluzione della Volontà dei robespierristi (incarnatasi nel russovismo giacobino istituzionalizzato nel dopo 1793 e di cui, insieme all’«Incorruttibile», erano capi Marat, Saint-Just e Hébert). Ambedue acerrime avversarie della terza anima – quella del moderatismo politico ispirato alle dottrine di Montesquieu e Voltaire, tra liberalismo monarchico e fascinazione per il «modello inglese» – ma orientate da visioni inconciliabili, che assumevano anche le forme del cosmopolitismo del parti de philosophie e del patriottismo xenofobo dei montagnardi. Insomma, secondo Israel, a dominare la scena rivoluzionaria fu il duello, mortale, tra l’Illuminismo radicale e il populismo dispotico. Echi di futuro…
Corriere 6.2.16
Adolescenti interrotti
Perché si chiudono in casa
In Giappone, dove sono stati «riconosciuti» si chiamano hikikomori. In Italia sono 80 mila
di Irene Soave

«È come avere in casa una torre, e tuo figlio è dentro. Tu ci giri intorno ma non puoi mai entrare». Marco, figlio unico di due professionisti, ora è all’università. Ma in quella che sua mamma chiama «la torre» e che per la psicologia è una nuova sfida chiamata «ritiro sociale», ha trascorso quasi tre anni. «Dormiva fino alle 15: giocava online con ragazzi in America e aveva quel fuso. Nelle settimane peggiori non si lavava nemmeno».
In Giappone quelli come Marco si chiamano «hikikomori» e psicologi e psichiatri se ne occupano da tempo. In Italia è una condizione «nuova»: il primo congresso sul ritiro sociale in adolescenza ha riunito a Milano, lo scorso weekend, un migliaio di addetti ai lavori. È «ritiro sociale», spiega lo psicoterapeuta Antonio Piotti, fra gli organizzatori del convegno e curatore del saggio sul tema Il corpo in una stanza (Franco Angeli, 2015), «se il ragazzo si chiude in casa per almeno sei mesi, rifiutando i contatti sociali e passando ore su Internet. Quasi sempre lascia la scuola». Una condizione estrema, ma non rara, se al congresso è emersa la stima di 80 mila casi in Italia. Alla milanese Fondazione Minotauro, che negli ultimi tre anni ha preso in carico un centinaio di «hikikomori», la metà dei 500 ragazzi che arrivano ogni anno ha già abbandonato la scuola.
Quasi mai per problemi di studio: Marco, ad esempio, autorecluso a 17 anni, «era sempre stato bravissimo». E proprio lì affioravano i primi segni di quello che negli anni si sarebbe rivelato un patologico senso di inadeguatezza. «A 9 anni, sulla pista di atletica — racconta il papà — un compagno lo sorpassò: lui finse di prendersi una storta e lasciò la gara. Era iper competitivo, un soldatino. In terza media tornò a casa in lacrime e raccontò che i compagni lo avevano picchiato. Ci preoccupammo molto, ma già il giorno dopo arrivò a casa minimizzando: “Tutto risolto papà”. Come volesse tranquillizzarci. E noi ci tranquillizzammo, anche se lui stava sempre più chiuso in camera».
È proprio il tentativo di non preoccupare i genitori l’allarme più rilevante; più della cosiddetta «dipendenza da internet», che con l’avvento degli smartphone è diventata una categoria, anche clinica, fumosa. «Il primo segno di disagio — spiega la psicoterapeuta del Minotauro Loredana Cirillo — è che va sempre tutto bene. Non esiste un adolescente che non ha problemi, che non litiga, che sta volentieri molto da solo». Il fatto di passare molto tempo online, invece, «è solo un sintomo. I genitori vengono quasi sempre da noi lamentando che il ragazzo vive incollato al monitor e che ogni limite o divieto non lo schioda di lì. Ma il computer aiuta solo ad “abitare” il ritiro, fornendo una socializzazione vicaria, da cui è assente il corpo “adulto” che il ragazzo sta sviluppando. Ed è questa la chiave: il “ritirato” si sente inadeguato a diventare un uomo».
«Facevamo contratti scritti — ricorda il papà —: Marco poteva entrare a scuola alle 10 se però si limitava a tre ore di videogiochi. Arrivava il mattino, e lui restava a letto. Io gli tiravo l’acqua in faccia, ma era inutile. Lo disprezzavo». Marco migliora con l’intervento dello psicologo. «Spesso — spiega Piotti — i ragazzi rifiutano di uscire per un consulto. Perciò possiamo anche intervenire a domicilio». E preparare la strada a una terapia vera, a cui si sottopongono anche i genitori. «Abbiamo capito che le nostre aspettative sul successo di Marco andavano ritirate — riprende il padre —. Non è stato un processo breve né facile. Ma ho capito che era quasi finita quando dopo mesi che non mi parlava ho visto il suo nome sul display del telefonino. “Vorrei provare la maturità”, mi ha detto. Ero in ufficio, sono andato a scuola a cercare i prof, a chiedere di riaccettarlo. È il ricordo più bello della mia vita. Come se Marco fosse nato di nuovo» .
Corriere 6.2.16
A Chicago la Borsa diventa cinese, prima volta negli Usa
di Ri. Fi.

L’annuncio del Chicago Stock Exchange, una delle Borse più anziane degli Stati Uniti, non lascia più dubbi. Diventerà di proprietà di un gruppo di investitori capeggiato dalla cinese Casin Enterprise Group. Le parti non hanno reso noti i termini della transazione, che nelle attese dovrebbe concludersi nella seconda parte del 2016. Se le autorità di regolazione dovessero dare il loro assenso sarebbe la prima volta che una Borsa a stelle e strisce diventa cinese (anche se non la prima volta che una Borsa Usa passa a un investitore straniero: nel 2007 Deutsche Börse acquistò l’International Securities Exchange). Sotto il controllo della società del Dragone la Borsa di Chicago (conosciuta come Chx) troverà la liquidità necessaria per investire e rinnovare i l suo programma per le quotazioni, ha sostenuto il Ceo John Kerin (foto) . Nelle intenzioni il listino di Chicago, che ha 134 anni di vita, vorrebbe farsi approvare il progetto di quotare aziende americane che vogliono accedere ai mercati dei capitali ma non soddisfano gli standard del Nasdaq o del Nyse. Un obiettivo a lungo termine del Casin Group (che è attivo nell’immobiliare e nelle holding finanziarie), sarebbe invece quello di portare alla quotazione società cinesi negli Stati Uniti. Casin punterebbe poi anche a dare vita a una Borsa sul modello di quella di Chicago a Chongqing, nel sudovest della Cina.
Corriere 6.2.16
Hillary costretta alla difensiva: «Non sono succube di Wall Street»
E accusa Sanders: «Proponi cose irrealizzabili»

In evidente difficoltà nel confronto con Bernie Sanders, che sta raccogliendo consensi molto superiori al previsto, Hillary Clinton tira fuori le unghie. Nell’ultimo dibattito prima del voto in New Hampshire abbandona la diplomazia e picchia duro l’avversario: «Io succube della finanza di Wall Street? Le tue sono calunnie, non ti puoi abbassare a tanto». Replica efficace, anche perché poi si passa a discutere di politica estera, terreno sul quale l’ex segretario di Sato prevale nettamente. Ma sui temi economici cruciali per gli elettori democratici — l’impoverimento del ceto medio e le misure contro la sperequazioni nella distribuzione dei redditi — la Clinton si è ritrovata sulla difensiva: costretta a difendere la sua patente di progressista con argomenti non sempre convincenti. Per lei, intanto, piove sul bagnato anche su altri fronti: i sondaggi continuano a indicare in New Hampshire, dove si voterà martedì, un vantaggio di Sanders di almeno 20 punti percentuali. L’ultimo, quello della University of Massachusetts, è ancora più drammatico: Hillary doppiata in New Hampshire dal senatore (61 per cento contro 30) che conquista addirittura il 90 per cento dei giovani (18-29 anni). Mentre un nuovo sondaggio nazionale della Quinnipac University offre l’immagine di un testa a testa tra i due candidati democratici (Hillary avanti di due punti, 44 a 42, il resto indecisi). Queste rilevazioni nazionali sono poco attendibili, ma quella realizzata in precedenza della stessa Quinnipac usando lo stesso metodo, aveva dato risultati molto più favorevoli alla Clinton che doppiava Sanders. Come se non bastasse, anche la vittoria per pochi voti di Hillary in Iowa torna in discussione. In un editoriale, il Des Moines Register, principale organo d’informazione dello Stato, dice che «si fiuta del marcio» nel partito democratico per quello che è avvenuto nella conta dei voti dei «caucus» e chiede un riesame: «Numeri troppo vicini, troppi conteggi sbagliati, troppi volontari impreparati ed elettori confusi che non hanno avuto indicazione sull’ubicazione dei seggi nè i moduli necessari per registrarsi. Il partito tiene segrete troppe informazioni su quanto accaduto lunedì. C’è bisogno di trasparenza». È l’ennesima tegola per la Clinton il cui principale problema, comunque, è quello dell’indebolimento della sua immagine di leader progressista: per i suoi rapporti con la finanza di Wall Street (Sanders continua ad attaccarla per i tanti soldi ricevuti dalle banche) ma anche perché il tema della lotta contro le diseguaglianze economiche, che doveva essere al centro della sua campagna, le è stato scippato dal senatore socialista. Sanders qui ha una posizione più nitida che a molti elettori appare credibile, anche se Hillary lo accusa: «Proponi cose irrealizzabili».
Repubblica 6.2.16
L’Iran e L’Europa
di Mohammad Javad Zarif
L’autore è ministro degli esteri dell’Iran

LA recente visita del presidente Rohani in Italia e Francia ha valenza storica in quanto inizio di una nuova fase della cooperazione economica, politica e culturale di mutuo vantaggio tra le parti interrottasi per un decennio circa.
L’Italia e la Francia, pilastri e paesi fondatori dell’Unione Europea, nonché tradizionali tramiti tra l’Occidente e il Medio Oriente, hanno spesso intrattenuto una relazione costruttiva con l’Iran, e benché il rapporto talvolta abbia visto alti e bassi e persino crisi momentanee, il comune desiderio di superare i problemi e risolvere le difficoltà è specchio dei profondi legami esistenti. Nonostante la cosiddetta immotivata “crisi” del nucleare e l’intromissione di determinate terze parti abbiano provocato qualche interruzione dei tradizionali rapporti tra Iran e Europa, la calorosa accoglienza tributata al presidente Rohani, i vari incontri di alto livello, nonché gli importanti accordi siglati, sono segno della ripresa dei rapporti economici e di cooperazione in tutti i settori, dall’energia alla tecnologia, alla politica, alla cultura, fino alla sicurezza. L’incontro del presidente Rohani con il pontefice, leader spirituale dei cattolici di tutto il mondo, ha inoltre evidenziato il mutuo impegno a collaborare alla creazione di un Mondo Contro la Violenza e l’Estremismo (Wave). Va ricordato che nel settembre 2013 il neoeletto presidente Rohani propose tale risoluzione all’Assemblea Generale dell’Onu come priorità del programma iraniano di politica estera; l’Assemblea Generale adottò la risoluzione all’unanimità, suscitando la speranza di dar vita a una oculata campagna globale per contrastare la minaccia del terrorismo e dell’estremismo. In una prospettiva più ampia, fin dall’antichità Europa e Iran sono state culle di civiltà vicine. Ora che l’accordo sul nucleare, ponendo fine a un decennio di immotivate tensioni, è in fase di attuazione, è giunto il momento di concentrarsi su questioni di maggiore importanza, in particolare sullo sforzo congiunto di individuare il sistema di consentire all’Iran e ad altri paesi influenti, di ampliare la mutua cooperazione, fondata sull’interesse comune e la necessità di affrontare le comuni minacce.
L’Europa e l’Iran hanno in effetti interessi comuni in svariati settori. A garantire la continuità della cooperazione reciproca sono le storiche e tradizionali relazioni bilaterali e altre realtà positive, come l’esistenza di complementarietà economiche, di una cooperazione di mutuo vantaggio in ambito energetico e tecnologico, di culture fondate su lingue indoeuropee e altri storici legami culturali. Inoltre, grazie a strumenti sia collettivi che bilaterali, è possibile contrastare attivamente gravi minacce quali terrorismo, violenza, estremismo, narcotraffico e similari. La cooperazione economica e tecnologica deve essere necessariamente affiancata da una più intensa cooperazione nella lotta contro la violenza e l’estremismo e per il ripristino della pace e della stabilità in Medio Oriente; la mancata attenzione a questi aspetti rappresenta un rischio, sia per l’Iran che per l’Europa. L’Iran, per la sua posizione nel cuore del Medio Oriente e l’Europa, a motivo della sua prossimità alla regione, nutrono entrambi legittime preoccupazioni per il protrarsi delle ostilità e delle carneficine nella regione, in particolare per la crisi dei profughi in tre paesi — Siria, Iraq, e Yemen.
Già da tempo l’Iran ha avanzato e aggiornato due proposte in quattro punti per risolvere le crisi in corso in Siria e Yemen, in larga misura recepite dalla risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza. Entrambe le proposte includono l’immediato cessate il fuoco, l’assistenza umanitaria ai non combattenti, azioni mirate a facilitare il dialogo tra i gruppi all’interno del paese, guidandoli a formare un governo di unità nazionale senza preclusioni, dotato del potenziale necessario a ristabilire pace e stabilità. Gli accordi di Vienna (1 e 2), i negoziati di New York sulla Siria e l’adozione della risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno dato il giusto slancio alla ricerca di una soluzione politica in Siria e i paesi europei possono avere un ruolo efficace di rafforzamento e sostegno di tale processo. Inoltre le azioni mirate ad affrontare le cause e le manifestazioni della violenza strutturale e gli effetti dell’estremismo, senza escludere la lotta alla povertà e all’ineguaglianza economica, a promuovere i meccanismi funzionali alla democrazia, a evitare i conflitti settari e violenti e a opporsi alle azioni militari unilaterali, rappresentano importanti priorità di politica estera, che possono restituire stabilità al Medio oriente e in tale contesto l’Unione europea può svolgere un ruolo decisamente positivo. La sicurezza non si ottiene mai a spese di quella altrui. Nessun paese può perseguire i propri reali interessi senza tener conto degli interessi altrui. Nessuno può combattere in Iraq Al Qaeda e i suoi fratelli di ideologia, come il cosiddetto Stato Islamico (che non è uno Stato e neppure islamico), sostenendone al contempo attivamente l’espansione in Yemen o in Siria. A tal proposito i Paesi europei giocano un ruolo positivo nella regione, incoraggiando altri paesi mediorientali ad accettare una soluzione politica a questa crisi.
In conclusione, la comunità mondiale che comprende Iran e Europa non può più permettersi di non affrontare le cause alla base dell’instabilità in Medio Oriente. Si apre così, al contempo, una straordinaria opportunità di interazione e cooperazione, che non va perduta. La pace e la stabilità sono la necessità fondamentale della civiltà in Medio Oriente, in Europa e in definitiva in tutto il mondo. Non si tratta di un’opzione, bensì di una necessità imprescindibile nell’odierno mercato mondiale, interconnesso e caratterizzato da una sempre maggior interdipendenza.
Traduzione di Emilia Benghi © Lena - Leading European Newspaper Alliance
La Stampa 6.2.16
Aleppo, la fuga dei 50 mila disperati
Ma Ankara sigilla la frontiera
La città del Nord circondata dall’esercito di Assad e dai suoi alleati sciiti Intanto nella zona di Idlib Hezbollah guadagna terreno grazie ai raid russi
di Giordano Stabile

Ci sono altri cinquantamila profughi che bussano alle porte della Turchia. Sono uomini, donne e bambini in fuga dai villaggi a nord di Aleppo, la metropoli siriana in mano alle forze ribelli ora circondata dall’esercito governativo e i suoi alleati sciiti. Sono in fuga dalla battaglia e dai raid russi che hanno spianato la strada all’avanzata delle forze di Damasco. La porta, ieri sera, era ancora chiusa. E i profughi si ammassavano sul valico più vicino, quello dal nome arabo di Bab al-Salama, ironicamente la «Porta della pace», a meno di cinquanta chilometri dalla città in fiamme.
Erdogan contro Mosca
I profughi hanno chiesto tutto il giorno alle guardie di frontiera di essere lasciati entrare: «Abbiamo lasciato le nostre case per le bombe russe, per gli sciiti che avanzano, per gli iraniani, Erdogan deve lasciarci entrare in Turchia». Il premier Ahmet Davutoglu ha promesso che «nessuno sarà lasciato senza riparo». Ma la questione è anche politica e il presidente Recep Tayyip Erdogan ha avvertito: «I nostri amici europei vogliono che noi fermiamo il flusso di rifugiati. Ma c’è un’altra scelta per i civili di Aleppo se non quella di scappare quando sono sotto i pesanti raid della Russia?».
L’avanzata di Hezbollah
Erdogan ha poi definito «ridicole» le accuse della Difesa russa di stare preparando un’operazione di terra nel Nord della Siria e accusato a sua volta Mosca di «aver già invaso» il Paese. La Ong turca Humanitarian Relief Foundation stima in cinquantamila le persone ammassate ai posti di frontiera e ha cominciato a costruire nuovi campi provvisori dal lato siriano. Più a sud, nel «rif», la campagna di Aleppo, l’iniziativa è ancora nelle mani dei governativi, nonostante un tentativo di controffensiva lanciato dagli uomini di Jabat al-Nusra, la branca siriana di Al Qaeda. È l’Hezbollah libanese ad andare all’attacco: dopo la riconquista dei villaggi sciiti di Al-Zahraa e Nubbol di martedì, ieri è toccato ad altre località a nord della metropoli di due milioni di abitanti. Ieri è stata la volta della riconquista di Ratyan, riportata dalla tv Al-Manar, vicina agli sciiti libanesi, come «l’ultima schiacciante vittoria».
«Accerchiati»
A opporsi a Hezbollah, oltre agli islamisti di Al-Nusra che compongono il grosso delle forze ribelli, ci sono gruppi islamici relativamente più moderati come Ahrar al-Sham e anche «laici» come la Liwa Suqur al-Jabal, parte del Free Syrian Army. Il suo comandante, Hassan Haj Ali, ha ammesso che per loro la situazione è disperata: «I raid continuano giorno e notte, ci sono stati oltre 250 bombardamenti in un giorno. Ora le forze del regime stanno cercando di allargare la zona sotto il loro controllo. Il rif è circondato. La situazione umanitaria terribile».
La fretta dei russi
Secondo i ribelli, gli Hezbollah sono aiutati da consiglieri militari dei Pasdaran iraniani e rivendicano l’uccisione di «un generale». Sul campo ci sarebbero anche sciiti iracheni, delle milizie che hanno combattuto l’Isis a Tikrit e Samarra in Iraq. Lo spiegamento di forze massiccio viene letto anche alla luce della «fretta» di Vladimir Putin di cogliere la vittoria ad Aleppo. Per negoziare poi da una posizione di forza e per placare i malumori nelle forze armate russe che giudicano «lenti» i progressi dell’esercito siriano, nonostante quattro mesi di bombardamenti che hanno sconvolto le linee di rifornimento dei ribelli, distrutto le loro postazioni fortificate e gran parte dell’artiglieria.
Prossimo obiettivo Idlib
Ma se la presa di Aleppo sarebbe un «trofeo» per Putin, e un rovescio senza precedenti per gli insorti, per Bashar al-Assad sarebbe ancora più importante quella di Idlib. In realtà la manovra a tenaglia attorno ad Aleppo ha anche tagliato la principale via di rifornimento dei ribelli nella provincia nord-occidentale, posta fra la roccaforte alawita di Latakia, dove c’è la principale base aerea russa, e la Turchia. Dallo scorso aprile Idlib è la capitale dell’emirato di Al-Nusra, l’Al Qaeda siriana.
Senza carburante
Secondo fonti vicine al governo di Damasco, come Risa al-Basha, analista di Al-Mayadeen News, lo scopo della «tenaglia» a Nord di Aleppo era anche quello di tagliare le vie di rifornimento verso Idlib: «È la priorità per l’esercito siriano: isolare Idlib e poi riprenderla». Secondo le fonti, fra le zone sotto il controllo di Al-Nusra a Idlib e quelle sotto il controllo dell’Isis nell’Est della Siria «c’era un intenso scambio: da Idlib fornivano cibo, da Raqqa e Deir ez-Zor petrolio» (i gruppi islamisti concorrenti di Al-Nusra e dell’Isis un po’ si combattono, un po’ sono alleati). Ora l’esercito punta allo snodo di Bab al-Hawa. Conquistarlo significherebbe il «game over» per le forze ribelli a Idlib. E la messa in sicurezza del regime, a meno di un intervento turco.
La Stampa 6.2.16
Pressing Ue sulla Turchia: “Basta assediare i curdi”
Nella provincia di Dyarbakir in migliaia vivono in condizioni “disumane” I ministri degli Esteri europei: Ankara usi subito e bene i 3 miliardi di aiuti
di Marco Zatterin

«La linea è di essere gentili, ma determinati», assicura un diplomatico olandese. Così è stato già ieri sera, quando è scattato il pressing dei ministri degli Esteri Ue sul collega turco, Mevlut Cavusoglu. Sui migranti e oltre. A margine della cena organizzata dalla presidenza di turno nella vecchia sede della Compagnia delle Indie occidentali, gli europei hanno cominciato col «sensibilizzare» il messo di Erdogan su quanto accade nella regione di Diyarbakir, dove migliaia di curdi sono sotto assedio in condizioni considerate «disumane». Poi si è passati ai rifugiati. Ora che l’Ue ha sbloccato i 3 miliardi per i progetti di accoglienza in Anatolia, i Ventotto chiedono ad Ankara di fare la sua parte, frenando i flussi e bloccando, possibilmente subito, i trafficanti.
La fase due
Si vuole passare alla fase due. Dal vertice novembrino di La Valletta, ci sono voluti quasi tre mesi perché i governi di casa Ue chiudessero l’intesa sui soldi per aiutare i turchi a tenere i rifugiati in casa. Il dossier è stato rallentato dalla riserva italiana sull’origine dei fondi, anche se 250 milioni erano già disponibili e la Commissione, che tiene il cordone della borsa, faticava a spenderli. Il denaro deve far sì che le genti in fuga dalla guerra in Siria si fermino prima di imbarcarsi alla volta della Grecia. L’esecutivo Ue ritiene che gli sforzi di Ankara «non siano sufficienti». Lo prova il fatto che, in gennaio, sono passate in Grecia, 45 mila persone.
«Noi siamo pronti», assicura Johannes Hahn, commissario Ue per l’Allargamento. L’austriaco spiega che «per metà mese» vorrebbe i piani di fattibilità, ma ammette che «la palla non è nostra». «Sono giorni che li invitiamo a muoversi», insiste una fonte olandese, che invoca un lavoro concreto sui campi e sulle condizioni di ospitalità. «Ho ripetuto il messaggio a Roma e a Londra», spiega il ministro Paolo Gentiloni: «Il punto, che non riguarda solo i turchi, è definire una politica comune delle migrazioni all’altezza della sfida».
Più fonti rivelano che stamane, nel dibattito allargato coi candidati all’adesione, continuerà il discorso della sera. «Devono definire i piani che l’Europa possa finanziare e mettere in atto efficaci controlli sui trafficanti», concede una fonte Ue, convinta che «il racket possa essere colpito in modo efficace e in tempi non lunghi se le autorità turche vorranno». Per i Ventotto è ineludibile. Solo fermando i flussi si può curare il male interno che la crisi ha provocato nell’Ue.
L’irritazione dei turchi
I turchi trovano tutto questo irritante. Anzitutto negano ogni comportamento illegittimo coi curdi di Diyarbakir, dicono di aver messo a disposizione dei feriti i mezzi necessari e rifiutano di accettare che ci sia stato un coprifuoco. Quanto ai migranti, una fonte diplomatica si difende ricordando che sono stati facilitati i permessi di lavoro per i siriani e reintrodotti i visti per chi arriva dal confine orientale in fuga da Isis e Assad: «Il numero degli ingressi è crollato». Questo è coerente con l’allarme sul numero di profughi schiacciati oltre frontiera. «Quarantamila in fuga dai raid russi», secondo Al Jazeera. Forse 50 mila.
Gli europei vogliono una verifica politica e fattuale. «Tutti devono rispettare gli impegni presi», sentenzia il ministro olandese Koenders. «Occorre determinazione e chiarezza», punta il dito un diplomatico tedesco. È il minimo, con l’aria che tira nel suo Paese. La frenata del flusso dei migranti serve a proteggere il governo a Berlino, come a cercare di evitare il prolungamento dei costosi controlli alle frontiere interne.
Serve anche a salvare Schengen. Non a caso la cancelliera Angela Merkel sarà ad Ankara lunedì. Visto il contesto, non sarà una visita di cortesia.
Repubblica 6.2.16
L’indulgenza dell’occidente
di Bernardo Valli

CINQUE anni fa piazza Tahrir, nel cuore del Cairo, a due passi dal Nilo, si riempiva di migliaia di egiziani inneggianti alla libertà e alla democrazia. Assistendo quel giorno di fine gennaio alla manifestazione improvvisa, impetuosa ma non violenta, in cui non risuonavano i soliti richiami religiosi, non mi sfiorò neppure l’idea che in diciotto giorni quella folla disarmata avrebbe scalzato dal potere Hosni Mubarak, presidente da trent’anni.
EQUANDO questo accadde, non fui il solo a sorprendermi del ruolo decisivo svolto dalla quasi onnipotente società militare. Sia pur riluttante essa sembrava aver interrotto la tradizione che riservava ai suoi rappresentanti sulle sponde del Nilo il posto di capo dello Stato. Dalla proclamazione della Repubblica, nel 1952, il rais era sempre stato un uomo in divisa: Naguib, Nasser, Sadat, Mubarak. Ed ecco che la società militare rinunciava alla vocazione bonapartista, coltivata dall’epoca ottomana. E lasciava al suffragio universale il democratico diritto di scegliere il primo cittadino della Repubblica.
In realtà era una concessione temporanea. Era un abbaglio credere che l’elezione dell’islamista Mohammed Morsi, oggi in galera, potesse essere rispettata fino alla legittima scadenza. I generali hanno lasciato alle avanguardie democratiche il tempo di sognare la vittoria e ai Fratelli musulmani, più popolari, di appropriarsene trionfando alle elezioni. E di dimostrare poi, molto presto, la loro incapacità a governare. Nei cinque anni ci sono stati referendum caotici, due parlamenti eletti, due presidenti e migliaia di morti. È stata una “ricreazione”, ricca di speranze, illusioni, inganni e sangue, alla quale la società militare ha messo fine con la forza. Ha riportato più che l’ordine la disciplina, uccidendo gli avversari e riempiendo le prigioni, e riassumendo tutti i poteri in realtà mai abbandonati.
I cicli rivoluzionari sono lunghi e imprevedibili. Le restaurazioni non riescono sempre a spegnere del tutto i fermenti della rivolta originaria. I quali possono riemergere a distanza. Ma per ora la saga dei generali ha ripreso al Cairo. Continua il racconto dei rais in uniforme. Il sessantenne Abdul-Fattah al-Sisi, autentico prodotto della società militare, è stato il regista dei cinque anni iniziati in piazza Tahrir. Non li ha sempre dominati, ha seguito gli avvenimenti con l’attenzione di una casta di ufficiali che insieme al nobile compito di difendere i confini della nazione, si riserva anche l’incombenza meno popolare ma più redditizia di vegliare all’ordine interno. Ed è quest’ultima missione che soprattutto l’impegna, attraverso un’attività spesso di intelligence. In cui è compresa l’azione psicologica. Quest’ultima favorita dal fatto che le forze armate, non particolarmente distintesi nei conflitti con Israele, sono invece versate a varie attività commerciali e industriali: pozzi di petrolio, alberghi, apparati turistici, tenute agricole, ospedali. Sono insomma proprietarie di larga parte delle attività economiche. E quindi sono dispensatrici di occupazioni a tutti i livelli.
Il presidente Sisi ha frequentato accademie in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Dove ha avuto la possibilità di fare un confronto tra una società occidentale liberale e la sua società musulmana. Questa esperienza non ha relativizzato la sua fede nell’Islam. Al contrario l’avrebbe rafforzata. Egli è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico, ma è anche un militare che non ha tollerato la concorrenza dei Fratelli Musulmani e la loro goffa inesperienza. Ha salutato l’elezione di Morsi ma ben presto l’ha messo in disparte, come un semplice politicante, intrigante e incapace. Pochi mesi dopo, repressi i Fratelli musulmani, e dichiaratili fuori legge, si è fatto eleggere alla presidenza con una valanga di voti in larga parte probabilmente autentici, poiché incarnava l’esercito e quindi l’ordine di cui il-Paese sentiva il bisogno. Il presidente Sisi è anche un moralista rigido per quanto riguarda i costumi della società. Quando in piazza Tahrir fu controllata all’improvviso la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di stupro. Gli oppositori e i gruppi interessati ai diritti dell’uomo stimano a quarantamila i detenuti nelle carceri egiziane. E denunciano torture sistematiche. Segnalano inoltre un importante numero di persone scomparse.
Prelevate dalla polizia senza alcun controllo giudiziario. Alcune ricompaiono dopo avere subito evidenti violenze. Le perquisizioni che appaiono arbitrarie, compiute da gruppi tollerati ma senza alcuna impronta ufficiale, nelle società editoriali, nei circoli culturali, negli ambienti artistici mobilitano gli avvocati che hanno tuttavia un’azione molto limitata. I metodi sbrigativi, giustificati con la sicurezza, non investono soltanto gli ambienti sospetti di salafismo radicale o di jihadismo ma anche liberali, ancora legati allo spirito di piazza Tahrir.
L’Egitto usufruisce di una vasta indulgenza: è alleato scomodo ed essenziale. Se il regime militare risultasse seriamente minacciato dai salafisti radicali e dai jihadisti l’intera regione ne risentirebbe. E nel caso di un probabile intervento in Libia, per snidare lo Stato islamico che si è installato lungo la costa mediterranea, l’Egitto sarebbe una base indispensabile. La necessità e la morale non vanno d’accordo.
La Stampa 6.2.16
Quella prigione segreta dentro Il Cairo
Il racconto di un amico egiziano: “Così hanno ammazzato Giulio”
“È successo anche a me, mi hanno portato in una cella e torturato con elettrodi Le ferite sul suo corpo sono come le mie”. Oggi la salma in Italia. Due arresti
di Francesca Paci

«Giulio è stato ucciso così»: a raccontare cosa potrebbe essere avvenuto all’italiano Regeni è uno dei suoi amici egiziani, originario di El Fayoun. Chiede l’anonimato, ci parla tradendo evidente tensione. Ci dice quanto è avvenuto a lui stesso per descrivere cosa è «probabilmente successo anche a Giulio»: «Sono venuti a prendermi a casa una sera verso le 19, hanno messo tutto sottosopra, hanno preso l’hard disk del pc, mi hanno bendato e legato le mani dietro la schiena e poi mi hanno caricato in macchina, un’auto grande, grigia. Non potevo guardare fuori dal finestrino ma ho riconosciuto la strada, stavamo andando alla borgata “6 Ottobre” e l’ho capito subito perché ho delle persone care che abitavano laggiù.
E so bene dove si trova la “prigione” in cui la “sicurezza dello stato” interroga e tortura la gente. Temo che sia lo stesso posto in cui, passando per qualche commissariato di Giza, è stato portato anche il mio amico, vostro connazionale, Giulio con esiti penosamente diversi dal mio, dai segni lasciati sul suo corpo riconosco una firma che mi è tristemente nota».
Il ragazzo che parla ha l’età di Giulio Regeni, ed è stato arrestato più volte, l’ultima pochi mesi fa. Nella cerchia di amici e conoscenti Omar non si rassegna per non aver iniziato subito la campagna sui social alla scomparsa di Giulio («Lo avremmo salvato come il comico Islam Gewish, invece tenendo il profilo basso abbiamo perso tempo, Giulio è morto poco prima che lo ritrovassero, il sangue era ancora fresco»), ma è il racconto di questo giovane medico di Fayoun a gettare la luce più sinistra sulla tragica vicenda.
Mentre i coniugi Regeni sono prossimi a tornare in Italia dove oggi arriverà la salma, l’amico di Giulio ci spiega cosa succede dentro quelle caserme: «I primi due giorni mi hanno tenuto in un bagno, per terra, un sandwich al giorno e acqua. Non mi picchiavano. Dicevano che sapevano dei miei contatti e io ripetevo che non sapevo nulla. Minacciavano di ammazzarmi, di violentare mia madre e le mie sorelle, la prima tortura è toglierti la dignità. Poi mi hanno portato in una cella sotterranea dove sono rimasto al buio per altri 8 giorni e lì si sono tolti i guanti. Hanno usato l’elettricità perché sotto gli 80 volt lascia meno segni e giacché io avevo contatti con i media sapevano che avrebbero dovuto ammazzarmi perché una volta libero non li mostrassi. Quando usano il taglierino vuole dire che hanno deciso che non esci vivo da lì. Le scariche duravano alcuni minuti, dopo perdevo i sensi. Ricordo che dormivo, sonni vuoti, non pensavo a nulla ma sebbene non sia credente per la prima volta mi sono ritrovato a pregare. Ero certo di morire. Le scosse elettriche me le mettevano sulla schiena, nella parte bassa, vicino ai reni, e sulle ginocchia: sentivo il corpo come “shakerato”, sarà stato per isteria ma ridevo e poi svenivo. Un giorno mi hanno bendato di nuovo e sotto casa mi hanno detto di scendere e non voltarmi indietro a guardarli o sarebbero tornati e non avrei più potuto parlare. Ho aspettato, sono risalito. Subito dopo sono andato al supermercato, avevo bisogno di toccare, letteralmente toccare, il formaggio, i succhi di frutta, le scatolette di fagioli, non credevo che avrei potuto farlo mai più». Tiene gli occhi bassi, parla mangiandosi le parole e le unghie: «Giulio non ha potuto farlo più. Io sono egiziano ok, ma lui no, non era nemmeno la sua causa, è morto per noi».
Poche ore prima la capitale egiziana aveva dato l’ultimo saluto al ricercatore italiano scomparso il 25 gennaio in un clima di paura diffusa, palpabile. Gli amici di Giulio sono sfingi, gli attivisti, anche i più loquaci, stanno in silenzio, i loro cellulari squillano a vuoto. I compagni del corso all’American University, quasi tutti stranieri sui 25 anni, sono stretti intorno alla migliore amica di Giulio, Noura Wahby, velo bianco sul capo, molto più magra delle foto in compagnia di lui che ha diffuso sui social quando ha dato l’allarme. Come mamma Regeni, piange senza freni e abbraccia a lungo il corpo del ragazzo coperto da un lenzuolo e da fiori rossi e bianchi: «Amava questa città, amava noi».
Sono stati i suoi studi sulle rivendicazioni operaie a ridurlo in quel modo, tagli di lama sotto gli occhi, le orecchie e il naso, bruciature e segni di elettrodi sul corpo? Amy Austin Holmes, docente all’American University Cairo, dove da settembre Giulio era di casa, ammette: «Insegno dal 2008 e devo ammettere che non mai stato cosi difficile e pericoloso condurre ricerche qui come ora. Conosco numerosi studenti che sono stati arrestati, detenuti o impediti dall’entrare in Egitto e molti di loro lavorano agli stessi temi di Giulio, il lavoro e la politica in Egitto». Eppure, ragiona in un caffè di Zamalek un altro amico, le domande sono più delle risposte: «Giulio sapeva quello che faceva, al suo compleanno gli abbiamo regalato una torta con sopra il disegno di quel Marx che apprezzava tanto ma lui non ha mai condiviso la foto sui social, conosceva la sicurezza egiziana, non si è mai messo a rischio».
Qualcuno fra gli amici azzarda delle ipotesi: l’hanno preso per caso, o un regolamento di conti. Oppure è un regolamento di conti interno, la frangia dei servizi che vuole fare fuori Sisi e che spera di farlo entro pochi mesi con l’aiuto di una parte dell’esercito ha tirato fuori il cadavere il giorno in cui il Presidente era a colloquio con gli imprenditori italiani. Intanto ci sono stati due arresti. Fonti della polizia fanno filtrare che siano due «criminali» comuni. E cominciano a circolare voci su una presunta omosessualità di Giulio lasciando intendere che l’omicidio potrebbe aver un movente sessuale. Ma non c’è alcuna conferma indipendente. Quello che sappiamo è che Giulio Regeni aveva una ragazza in Ucraina e che era andato a Kiev a trovarla da poco. E uno degli ultimi sms prima di sparire era stato inviato a lei.
Repubblica 6.2.16
Gli ex brigatisti, il pm e i parenti delle vittime “Noi qui tutti insieme per diradare le nuvole”
Dopo il no al seminario alla scuola delle toghe a Scandicci l’incontro tra Morucci, Bonisoli,
Agnese Moro e Gherardo Colombo a Brescia
di Piero Colaprico

CASTENEDOLO (BRESCIA) Agnese Moro, figlia del presidente Dc rapito e ucciso negli anni di piombo, è seduta sull’ultima sedia sotto un grande schermo, e accanto a lei c’è un signore dall’aria stanca, Valerio Morucci, ex terrorista rosso: «Guardo loro — dice Agnese — e non vedo i mostri che per tanti anni hanno popolato la mia vita».
Oggi, in un Paese smemorizzato, bisogna dire che quasi nessuno sa chi era Morucci. Era il telefonista delle Brigate Rosse, quello che con Franco Bonisoli, anche lui ieri sera presente a questo affollato dibattito pubblico aperto a Castenedolo, vicino a Brescia, dall’Associazione Aldo Moro, faceva parte del gruppo di fuoco: il 16 marzo 1978, dopo aver ammazzato a colpi di mitra i cinque componenti della sua scorta, sequestrarono l’onorevole Moro, il papà di Agnese, che allora era una ragazza di 25 anni, e che seppe da una telefonata di Morucci che suo padre era stato ucciso.
Accanto a loro, Manlio Milani, altra vittima: era a Brescia, in piazza della Loggia, quando una bomba messa dai fascisti protetti dai servizi segreti (28 maggio 1974) uccise otto persone, tra cui sua moglie, e ne ferì oltre cento. Vicino ai tre, spesso a capo chino, Guido Bertagna, un gesuita. Per otto anni, con i sociologi Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato, ha coordinato incontri segretissimi tra vittime e autori di reati. Hanno discusso del dolore e dei ricordi, del sangue versato e di come ritrovarsi: «Chiamano giustizia riparativa quello che è ascolto — dice Bertagna — e poi si esprimono i desideri comuni, e uno è che il dolore attraversato non resti congelato, ma torni ad essere vita». A metterci la faccia, c’è anche un ex magistrato, Gherardo Colombo. Ha indagato sulla Loggia P2, ha fatto parte del pool Mani Pulite, di questi incontri sotterranei è stato un garante: «Anche le vittime — ricorda — avevano bisogno di essere rassicurate su efficienza e sicurezza del percorso, per questo hanno chiamato me ed altri come garanti del percorso. Dopo aver creduto che la giustizia riparativa fosse una sciocchezza, adesso so che esiste una prospettiva in cui il male si può fermare, rompere. Dopo il male, ad Agnese Moro, è accaduto qualcosa di buono».
Lo schema di questa serata voluta dal sindaco Gianbattista Groli, molto vicino all’amico di Moro Mino Martinazzoli, è identico all’incontro che la scuola superiore della magistratura, tre giorni fa a Firenze, ha alla fine dovuto far saltare, tra polemiche durissime da parte di alcuni magistrati e parenti di vittime. E se altri magistrati si sono espressi contro «la censura a monte», ieri per entrare nella sala civica dei Disciplini si faticava.
«Il male — è così che Agnese Moro ha aperto la serata, a tratti commovente — è come una cisti. Un corpo estraneo, ma non è inerte, lavora, ti blocca. Una parte di me rimane ferma, bloccata, congelata. Qualunque cosa io faccia è come se fossi legata con un elastico. Il male lavora sulle persone che stanno vicino, che nemmeno erano nate, perciò penso che la giustizia riparativa possa essere una cosa buona, perché ha un pregio, rimette in moto le cose, le scongela, dirada il nuvolone. Attraverso cose piccole, come il volto dell’altro. Io so che la vicenda di mio padre è legata alla nostra vita democratica, un ruolo l’hanno avuto le Br, ma anche chi non l’ha aiutato. Perché mio padre è stato lasciato solo in quei 55 giorni? Poi, la nostra democrazia ha preso un’altra strada».
Il volto di Morucci è livido, scuro. Per la prima volta parla in pubblico. Prova a raccontare la lotta armata come «estremamente lineare nella sua drammaticità», per lui «le masse rappresentavano il bene», mentre Moro era il nemico disumanizzato. Eppure, una volta che «emerge l’uomo», grazie alle sue lettere, o alle lettere dei familiari, «cominci a capire», dice, che gli esseri umani non sono simboli, e si arriva alla «rottura », al cambiamento. Per Bonisoli il primo ricordo da citare è quello di un cappellano che, in carcere, li chiamò «pubblicamente fratelli, in un periodo in cui non era facile. Per me fu un gesto di grande rottura. Negli anni Ottanta misi per iscritto che non volevo cercare benefici penitenziari attraverso il rapporto con i parenti, ma il dialogo lo volevo, incontrare Agnese Moro è stato fondamentale per il mio percorso. Ci sono persone che non trovano pace, anche ex compagni che mantengono qualche schermo, vorrei che potessero liberarsi completamente».
Sono molti anni che ex della lotta armata e vittime si parlano, hanno incontrato anche il cardinal Carlo Maria Martini: «Che cosa posso fare per voi?», aveva detto. Le loro discussioni, le loro lacrime, i loro ricordi hanno dato vita a un libro molto tecnico, cauto, ricco, Il libro dell’incontro (Il Saggiatore). Eppure, come ricorda Manlio Milani, ognuno porta la sua storia, o la sua croce: «È facile dire “io sto con la vittima”, noi abbiamo bisogno di tradire questa nostra condizione, per chiudere, per ridiventare cittadini. La vittima è certamente tale, ma non deve perdere la sua dimensione di cittadino, di chi si mette in discussione ». Perché, come aggiunge Agnese Moro, «le cose possono cambiare»: e qui, a Castenedolo, dicono che è davvero possibile.