sabato 19 marzo 2016

il manifesto 19.3.16
Israele/Territori Occupati
Ora “Breaking the Silence” è accusata anche di «spionaggio»
Destra scatenata contro l'Ong che raccoglie le testimonianze di soldati che «rompono il silenzio» su crimini di guerra e abusi a danno dei palestinesi. Tutto è partito dalle registrazioni fatte in segreto da infiltrati del gruppo nazionalista Ad Kan. Yuli Novack, presidente di BtS: «assurdo accusarci di spionaggio, ogni nostra pubblicazione è autorizzata dalla censura militare»
di Michele Giorgio

GERUSALEMME «Il tentativo del primo ministro Netanyahu di chiudere la nostra organizzazione e di colpire soldati e combattenti che si oppongono all’occupazione (dei Territori palestinesi, ndr) deve preoccupare tutti coloro che guardano al futuro dello Stato di Israele». Non si è fatta attendere la replica di Breaking the Silence (BtS) all’avvertimento lanciato dal premier che, dopo un servizio televisivo trasmesso giovedì sera, aveva dichiarato che l’Ong che raccoglie le testimonianze di militari che «rompono il silenzio» su ciò che subiscono i palestinesi sotto occupazione, aveva passato un’altra «linea rossa». L’anno scorso BtS ha pubblicato un rapporto con decine di testimonianze sulle azioni delle forze armate israeliane durante l’offensiva “Margine Protettivo” del 2014 a Gaza, in cui sono rimasti uccisi oltre 2.200 palestinesi. «Le accuse di spionaggio che ci sono state rivolte sono assurde perchè tutte le nostre pubblicazioni sono sottoposte preventivamente alla censura militare», ha aggiunto Yuli Novack, presidente di BtS.
L’accusa di «spionaggio» nasce da un servizio mandato in onda da Canale 2 e costruito in gran parte con le immagini registrate in segreto da attivisti di Ad Kan, un gruppo nazionalista che si è dato il compito di «smascherare» presunte «attività illecite» della sinistra. Attività finalizzate, sostiene il gruppo, a passare informazioni all’estero poi utilizzate per mettere sotto accusa Israele. Il servizio mostra una infiltrata di Ad Kan che risponde a domande di un membro di Breaking the Silence che sembrano toccare aspetti operativi delle forze armate a ridosso di Gaza e in Cisgiordania. In un’altra registrazione, una attivista di BtS racconta di aver fatto il possibile per farsi assegnare, durante il servizio di leva, alla Amministrazione Civile (che per conto dell’Esercito “governa” i civili palestinesi nella zona C della Cisgiordania) in modo da conoscere meglio le politiche attuate dai comandi militari israeliani nei Territori occupati.
Per diversi esponenti del governo e della Knesset, quelle registrazioni dimostrerebbero il tentativo di ottenere informazioni riservate o segrete. E il ministro della difesa Moshe Yaalon ha ordinato l’avvio di indagini. «Coloro che raccolgono informazioni di questo tipo intendono danneggiare il proprio Stato con mezzi illegali, in un modo che ricorda lo spionaggio. L’affermazione secondo la quale quelle informazioni servirebbero a tutelare i diritti umani è una bugia», ha protestato la ministra della giustizia Ayelet Shaked, figura di spicco del partito ultranazionalista Casa Ebraica. Parole dure sono arrivate anche da Itzik Shmuli e Eitan Cabel, due deputati laburisti, mentre l’ex ministro Yair Lapid (centrista) ha accusato l’Ong «di provocare gravi danni al Paese, dentro e fuori». L’agenzia stampa dei coloni, Arutz 7, ha dato ampio risalto all’accaduto e ha colto l’occasione per attaccare il New Israel Fund – un fondo che assiste le Ong che operano nel campo dei diritti umani e del progresso sociale – “colpevole” di aver donato a Breaking the Silence tra il 2008 e il 2014, 699mila dollari.
Arutz 7 invece ha taciuto sui finanziamenti al gruppo di “intelligence” Ad Kan che, secondo l’inchiesta svolta nei mesi scorsi dal sito d’informazione Walla, sarebbe finanziato proprio dai coloni, forse con fondi pubblici. A inizio anno, sempre grazie ad infiltrati, Ad Kan aveva registrato le dichiarazioni fatte da un noto attivista della sinistra israeliana, Ezra Nawi, dell’associazione Tayyush che segue le attività di colonizzazione in particolare nel sud della Cisgiordania. Sulla base di quelle registrazioni, mandate in onda sempre da Canale 2, Ezra Nawi e un altro attivista di Tayyush furono arrestati con l’accusa di aver passato informazioni all’Autorità Nazionale di Abu Mazen sulla vendita di terreni arabi ai coloni, mettendo a rischio la vita dei palestinesi disposti a cedere le loro proprietà agli israeliani. La vicenda fece scalpore, per giorni i media israeliani non parlarono d’altro. I due arrestati però furono scarcerati poco dopo perchè non avevano commesso alcun reato.
il manifesto 19.3.16
Riforme e diritti, l’inevitabile unione
di Massimo Villone

Si è tenuta a Roma un’assemblea, affollata e partecipata, dei comitati referendari, per il lancio della campagna per la raccolta delle firme. Un passaggio importante, soprattutto per aver visto insieme i promotori dei referendum istituzionali e di quelli sociali. Perché un forte iniziativa referendaria? Rodotà ha scritto (su Repubblica) di come le nostre istituzioni siano diventate indisponibili all’ascolto, traendo anche da questo la spiegazione del drammatico calo di fiducia degli italiani. Ha ragione. Perché e come fidarsi di istituzioni indifferenti?
Il sostanziale dissolversi dei partiti, e l’emarginazione dei sindacati da parte del governo, unitamente alla caduta di rappresentatività delle assemblee elettive, hanno azzerato i sensori che rendevano le istituzioni aperte e percettive rispetto agli orientamenti del paese. Ed ecco l’indifferenza verso manifestazioni, scioperi, petizioni, leggi di iniziativa popolare, per quanto fortemente sostenute. Ecco l’illusione che l’arte del governare sia decisione e comando piuttosto che confronto e sintesi. Ecco la caricatura di una democrazia in cui i cittadini siano usi a obbedir tacendo. E dunque il referendum rimane l’unico strumento attraverso il quale il popolo sovrano possa riguadagnare il ruolo garantito dalla Costituzione.
Proprio per questo il governo teme i referendum. Ha lasciato in piedi solo uno dei referendum No-Triv delle regioni. Per questo ha scelto la data del 17 aprile, nella speranza di farlo fallire per mancato raggiungimento del quorum. Lo stato maggiore del Pd attacca con il trito argomento del costo, dimenticando che proprio il governo ha rifiutato l’accorpamento con le amministrative che avrebbe evitato la spesa. E altresì argomentando che con il Sì il popolo sovrano reca danno al paese. Ma come può dirlo chi va ad approvare una nuova Costituzione insieme al condannato Verdini, tassista di una nuova maggioranza?
Perché referendum istituzionali e sociali insieme? Non è una bulimia referendaria, né una sommatoria per fare numero. È invece importante far convergere nella battaglia referendaria mondi diversi, per dare il segnale che una parte importante del paese chiede con forza un cambio di rotta.
Per questo una stagione referendaria ad ampio spettro, che partirà con il voto del 17 aprile e la raccolta delle firme, passerà per il cruciale No alla riforma costituzionale in ottobre, e si concluderà nel giorno in cui la metà più uno degli aventi diritto – questo è l’auspicio – andrà a votare si ai referendum abrogativi delle leggi renziane.
D’altronde la connessione tra referendum istituzionali e sociali è nelle cose. L’attuale degrado politico-istituzionale avviene con la Costituzione vigente, prima della riforma. Questo dimostra che un No alla riforma può certo evitare maggiori guai, ma non basta a tirarci fuori dalla palude in cui siamo caduti.
Non si può non guardare anche alla legge elettorale. Se dovesse rimanere in piedi il modello Italicum, ne verrebbe un parlamento non migliore – anzi peggiore – di quello del Porcellum. Quanto resisterebbero i risultati conseguiti dai referendum sociali in un tale parlamento?
L’esperienza dell’acqua pubblica insegna che il referendum può abbattere una legge, ma non cancella l’indirizzo politico che la esprime, e che può ripristinarla tradendo la volontà popolare. Cosi domani un referendum vittorioso sulla cattiva scuola potrebbe essere azzerato da una scuola peggiore. Solo i referendum istituzionali possono creare condizioni in cui i risultati dei referendum sociali non siano fatalmente effimeri.
Dobbiamo anche considerare che se vincesse sulla riforma della Costituzione, Renzi vorrebbe probabilmente sfruttare il successo con uno scioglimento anticipato e nuove elezioni, che gli consegnerebbero istituzioni riformate e un parlamento addomesticato. Un potere consolidato per la legislatura.
Se ciò accadesse, i referendum abrogativi slitterebbero al 2018. E di per sé il passare del tempo non favorisce certo una battaglia referendaria.
Per questo bisogna impegnarsi, da subito. Per la raccolta delle firme sui quesiti referendari, e il voto del 17 aprile. Un voto che anche il governo ritiene importante. Non chiede agli italiani di andare al mare solo perché l’acqua è ancora troppo fredda.
il manifesto 19.3.16
Undici occasioni più una
L'assemlea. «Una primavera per la democrazia», dai temi istituzionali a quelli sociali. Legge elettorale, scuola, estrazioni, ambiente, lavoro. Parte la stagione referendaria. Da aprile a luglio, si aprono i banchetti per raccogliere le firme. Rodotà: democrazia da rivitalizzare, finalmente una chance
di Andrea Fabozzi

All’assemblea di Roma che riunisce il nuovo movimento referendario circolano già i moduli per i due quesiti abrogativi dell’Italicum – capilista bloccati e premio di maggioranza -, sono pronti ma non saranno portati nelle cancellerie dei tribunali prima dell’inizio di aprile. La «primavera per la democrazia», slogan che comprendere tutte le iniziative referendarie contro le principali «riforme» renziane, è così articolata da richiedere uno sforzo di coordinamento, ora che è giunta a un passo dalla partenza.
Tre mesi dal giorno in cui i moduli vengono «bollati» è il tempo che la legge del 1970 concede ai promotori per raccogliere le 500mila firme dei cittadini necessarie a chiedere i referendum abrogativi. L’idea è quella di partire nella prima settimana di aprile, possibilmente il 4, al più tardi il 9, per finire nei primi giorni di luglio. Ben nove referendum «sociali» dovrebbero aggiungersi ai due contro l’Italicum. Alcuni sono sicuri. Quattro quesiti contro la legge 107 sulla scuola: contro il preside manager, il bonus scuola, l’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro e il potere discrezionale del preside di premiare economicamente i docenti; sono stati messi a punto dal movimento per la scuola pubblica e già depositati in Cassazione (giovedì). Depositato anche un referendum per l’opzione «trivelle zero», studiato da un gruppo di attivisti per lo più proveniente dalle regioni adriatiche e riuniti nella campagna «stop devastazioni» con la consulenza dell’ex giudice costituzionale Paolo Maddalena, agirebbe sulla legge del 1991 attuativa del piano energetico nazionale. Più indietro gli altri. Un referendum contro gli inceneritori e più precisamente l’articolo del decreto sblocca Italia con il quale nel 2014 i termovalorizzatori sono stati definiti «insediamenti strategici» rendendone facile la costruzione e il funzionamento. E infine tre possibili referendum contro il jobs act che dovrebbero essere annunciati lunedì dalla Cgil al termine della consultazione con i lavoratori. Non è detto che tutte le raccolte di firme riusciranno a partire contemporaneamente, né che tutti i promotori si impegneranno ugualmente su tutti i quesiti. Per esempio tra i promotori dei referendum sulla scuola non tutte le organizzazioni sono disposte a impegnarsi per i referendum contro l’Italicum. La Cgil non darà un’indicazione nazionale in favore di tutti i quesiti, ma lascerà liberi dirigenti e iscritti sul territorio di aderire alle varie raccolte di firme. Un po’ come sta accadendo, su un altro piano, per il referendum contro le trivellazioni entro le 12 miglia, quello del 17 aprile. A proposito del quale non è mancata qualche discussione tra i promotori dei nuovi referendum e il comitato No Triv, la cui rappresentante ha chiesto di non far partire la raccolta di firme proprio nei giorni in cui più intenso dovrebbe essere l’impegno finale per portare gli elettori alle urne del 17 aprile.
Non è stata ascoltata, meglio partire subito per evitare il rischio di dover raccogliere le ultime firme in estate ormai inoltrata. E poi i banchetti possono essere anche un veicolo di informazione e mobilitazione, tant’è che dalla seconda metà di aprile si aggiungerà anche la raccolta delle firme per la richiesta di referendum sulla riforma costituzionale. Questo referendum «confermativo», il solo nel quale si chiederà di votare No e per il quale non è previsto quorum, è l’unico che si terrà certamente entro la fine di quest’anno (gli altri, c’è da augurarselo, nel 2017) perché sarà richiesto dai parlamentari sia di maggioranza che (più ragionevolmente) di opposizione non appena il parlamento approverà la riforma. Auspicabile, ma assai difficile come ha spiegato il presidente del comitato del No Alessandro Pace, il frazionamento dei quesiti. Bisognerà invece votare sul complesso della riforma costituzionale che riscrive più di un terzo della Costituzione: prendere o lasciare. «Non voglio dire che questa campagna referendaria è la nostra ultima occasione – ha detto Stefano Rodotà – ma di certo è la prima che ci si presenta per rivitalizzare la democrazia e tentare una ricomposizione sociale». E il segretario della Fiom Maurizio Landini ha sostenuto che «stiamo già pagando una restrizione degli spazi democratici, non si tratta di un rischio ma di una condizione attuale».
il manifesto 19.3.16
No Triv: «Si vuole impedire ai cittadini di esercitare un diritto»
Basilicata. Il coordinamento: cosa fa in concreto la minoranza Pd?
di Serena Giannico

«È stato deciso che questo referendum deve fallire!». Il coordinamento No triv della Basilicata risponde alla decisione del Pd, guidato dal premier Matteo Renzi, di boicottare il referendum, puntando ufficialmente sull’astensionismo. Dicendo, chiaramente agli italiani che non devono andare alle urne, il prossimo 17 aprile, perché inutile. I No triv non lesinano accuse. «La strategia imposta dal Governo centrale a un mese soltanto dal voto, – viene detto in una nota – si caratterizza come una squallida scelta dominante, volta a imporre l’ignoranza e dunque l’indifferenza dei cittadini sui problemi posti dai quesiti referendari e dunque ad impedire l’esercizio dei propri diritti».
Indice puntato, quindi, contro la segreteria Pd e i due vice-Renzi, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Questi ultimi, snobbando la verità, hanno affermato che se il referendum passa, nel settore del petrolio ci sarà un’emorragia di posti di lavoro. «Roboanti falsità – ribattono gli ambientalisti – ai quali fa da contrappasso l’assoluta assenza di contraddittorio riguardo ai posti di lavoro che, con le perforazioni in mare, si perderebbero nei settori della pesca e del turismo». I comitati denunciano il tentativo di oscurare la consultazione: «L’unico modo per far fallire il referendum del 17 aprile, dopo averle tentate tutte per impedirlo e metterlo in ombra, è quello di nasconderlo all’opinione pubblica. La parola d’ordine del partito della Nazione è… astensione. Astensione degli italiani dal voto e prima di questo astensione delle televisioni, delle radio, dei giornali, dalla discussione e dalla campagna referendaria. Astensione anche da ogni pratica democratica di discussione e consenso. A tanto si è ridotta la democrazia in Italia. Il tutto a discapito della salute, delle bellezze e della ricchezza dei nostri territori».
E tra le Regioni? Che succede? «La Puglia pare sia l’unica, al momento, – affermano i No triv – che con Emiliano ha iniziato, insieme alla campagna elettorale per il Sì, anche una campagna per stanare l’ipocrisia di un partito. Ma cosa sta facendo il “governatore” Pittella per questo referendum? Cosa stanno facendo i politici lucani?».
I No Triv della Basilicata si rivolgono anche alla minoranza dem, in particolare a Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza: «Cosa stanno facendo di concreto per il Sì? In che modo si stanno distinguendo da quanti stanno lavorando per il silenzio, per l’ignoranza, per la rassegnazione, per l’astensione di milioni di elettori?».
il manifesto 19.3.16
Uno scambio miserabile
Lo scambio. Niente di umanitario. Occhi chiusi sul destino dei profughi
di Alessandro Dal Lago

Sull’accordo di ieri tra Consiglio d’Europa e Turchia bisogna reprimere un senso opprimente di vergogna. I 28 statisti che governano questo continente di 506 milioni di abitanti hanno negoziato con Davutoglu (cioè con il suo padrone Erdogan) il seguente accordo: l’Europa accetterà 72.000 profughi e ne rimanderà altrettanti dalla Grecia in Turchia. In cambio Ankara ottiene per il momento 3 milioni di Euro per progetti sui migranti (i termini qui sono vaghi per occultare le promesse europee di altro denaro), l’avvio della procedura di ammissione della Turchia alla Ue e una facilitazione, anch’essa vaga, dei visti d’ingresso dei cittadini turchi in Europa.
Davotoglu ha avuto la faccia tosta di definire questo accordo non un mercanteggiamento ma una questione di «valori». Certo, basta dividere i 3 miliardi ottenuti dalla Turchia per 72.000 e otteniamo poco più di 40.000 euro a persona. Ecco il valore di migranti e profughi per Ankara. E che cosa ne faranno Erdogan e Davutoglu del gruzzoletto? Pasti caldi e comodi alloggi per tutti o magari, con i quattrini risparmiati sui rifugiati, un po’ di armi e di bombe? Bisognerà chiederlo ai curdi.
Ma accusare la sola Turchia di speculare sull’umanità alla deriva tra Egeo e Macedonia sarebbe ingiusto. Perché i veri mercanti di uomini sono gli stati europei. Come ha scritto ieri la Tageszeitung, 72.000 sono solo gli stranieri arrivati in un anno a Berlino. Una cifra irrisoria se proiettata sull’intero continente. Un numero che non risolve nulla, che lascia le cose come stanno e che serve solo ad alleggerire il peso dell’accoglienza che si è scaricato negli ultimi mesi sulla Grecia. Ora, orde di funzionari, poliziotti e guardie di confine europee invaderanno le isole dell’Egeo per “selezionare” gli stranieri buoni da quelli “illegali”. Per uno che entra, uno deve uscire. È la roulette russa del profugo.
L’ipocrisia europea ha toccato in questo caso cime abissali. Poiché una recente sentenza della Corte di giustizia prescrive che un profugo possa essere espulso in uno stato terzo solo se questo è “sicuro”.
Paese “sicuro”, cioè non specializzato in torture, ecco che alla Grecia basterà riconoscere alla Turchia questa qualifica e, voilà, i giochi sono fatti. La Turchia uno stato “sicuro”? Quella che rade al suolo le sue città abitate dai curdi? Quella che manganella manifestanti a tutto spiano? Quella che chiude i giornali non allineati al regime di Erdogan?
L’accordo di ieri non ha nulla a che fare con l’umanità, di cui ha parlato qualche tempo fa Frau Merkel. È la risposta miserabile della Ue alle paranoie di Hollande, all’eccezionalismo high brow di Cameron, alle pretese fascistizzanti di Orban, del governo ultra-reazionario di Varsavia, dell’estrema destra tedesca e di tutti gli altri cultori del filo spinato. E anche delle istituzioni finanziarie che ora, se l’emergenza di Idomeni finirà, potranno dedicarsi a spennare ancora un po’ Atene. E probabilmente della Nato, di cui la Turchia è membro irrinunciabile.
Che fine faranno i 72.000 rimandati in Turchia e tutti gli altri che dovevano essere ricollocati da mesi e vagano tra Sicilia, Calais e chissà dove? Che ne sarà di quelli che arriveranno ora, con la stagione calda, e che sicuramente la Turchia farà passare per spillare ancora quattrini agli europei? Renzi ha dichiarato che la questione dei migranti si risolve in Africa. Bisognerà dirlo agli afghani, agli iracheni e a tutti gli altri che non sono africani, non sono riconosciuti come profughi ed errano in quell’enorme campo minato che si stende tra Istanbul e Kabul, passando per Damasco e Baghdad. Con l’accordo di ieri l’Europa ha chiuso gli occhi sul loro destino.
Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea.
il manifesto 19.3.16
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
La normalità riflessa nella morte
di Sarantis Thanopulos

Il padre di uno dei due assassini romani, che hanno ucciso per vedere la morte impossessarsi della vita di un loro coetaneo, ha reagito alla catastrofe avvenuta scartando il silenzio, l’opzione migliore, per affidarsi al suo blog. Ha scritto, citando la lettera di incoraggiamento di un suo amico, di confidare nella propria capacità, più volte collaudata nella vita, di riparare le cose negative, trasformandole in cose positive.
Questo padre non è sfiorato dal dubbio che il danno avvenuto sia irreparabile e senza possibilità di ritorno alla buona sorte. Lasciare fluire il dolore e far sedimentare la disperazione, in lunghi anni di smarrimento delle proprie certezze sociali e di ritrovamento delle ragioni più private e personali di sé, non curerà mai del tutto la ferita, ma serve per mantenersi vivi, per restituire al mondo, attraverso se stessi, qualcosa della sua umanità.
Non si può, tuttavia, scaricare su un genitore, come colpa personale, il difetto collettivo di una mancanza crescente di responsabilità. La refrattarietà a riconoscere le impasse e i fallimenti, di fare i conti con le rinunce e le perdite, distinguendo tra inibizione e necessità, crea una nuova cultura della normalità.
Non è normale che la vita sia fatta ugualmente di felicità e di infelicità, che la buona e la cattiva sorte confliggano e dialoghino. È normale essere «normali»: privi di problemi particolari e del tutto isomorfi agli altri, senza un’esistenza singolare che causi allarme a se stessi e al prossimo.
Non è un fatto casuale che la cocaina avvolga il delitto di Roma nelle sue nebbie. È uno strumento molto efficace di anestesia performativa: l’agire senza essere davvero presenti in sé. Con il suo effetto anestetico sorregge la «normalità» del non voler sentire e sentirsi. Con il suo effetto performante eccitante dà un’illusione di vitalità che bilancia la morte dei sentimenti a cui conduce la negazione, sotto forma di oblio, della sofferenza.
La presenza della cocaina nella nostra vita è una realtà molto diffusa perché non sia riconosciuta, eppure non lo è. La sua percezione richiede la messa in discussione della cultura omologante che si appropria del suo uso.
Lo stato alterato di coscienza, che la cocaina induce, non è la causa dell’assassinio commesso dai due automi, anche se è stato usato per sciogliere i loro freni inibitori. La causa vera è la morte psichica dalla quale sono invasi, che la cocaina chiamata a contrastarla, non ha fatto che promuovere.
Vedere un coetaneo, stordito anche lui da una sostanza somministratagli appositamente, morire nella più atroce delle agonie, ha avuto il significato di estroflettere lo stato agonizzante della vita dentro di loro, proiettandolo sulla vittima. Non per liberarsi della morte che incombe nel loro mondo interno, ma per riflettersi in essa, sfidandola.
Il sadismo terrificante che domina la scena di questo crimine, deriva da una passione fredda, invertita nella sua ragione d’essere.
La messa al bando della sofferenza, il regno di una normalità che si riflette nel nulla, rende l’amore insensato, un guscio vuoto.
L’odio orfano dell’amore, di cui è espressione in condizioni di lutto e di dolore, diventa una forza impersonale che, slegata dalla relazione con l’altro, assume un enorme potenziale distruttivo che, incistato nello psichismo, è in attesa di esplodere. Cerca nell’altro il volto della madre sfinge (metafora di un mondo che ha perso il suo senso), la maschera di morte con cui può competere: «Non ti temo, sono della stessa sostanza che cancella la vita di cui sei fatta tu».
Corriere 19.3.16
L’enigma semantico della lingua ritrovata
di Cristiana Barandoni

L’ etrusco è a oggi una delle lingue morte più difficili da analizzare: dal punto vista morfosintattico è genealogicamente isolata. Ciò non significa che sia una lingua priva di elementi lessicali simili o presenti in altre lingue, ma che la complessità e le vicende dei suoi testi ne rendono ardua l’interpretazione. Uno dei suoi aspetti peculiari è la mancanza di distinzione di genere grammaticale: i lemmi sono distribuiti in classi semantiche «motivate», ossia in nomi animati e inanimati; a questo si aggiunga la brevità dei testi a disposizione, insufficienti per comprenderne la morfologia. Nonostante ciò, possiamo contare più di dodicimila iscrizioni. La stragrande maggioranza dei testi, però, è andata perduta per sempre, poiché come supporto venivano utilizzati non solo materiali deperibili quali papiri, pergamene e tavolette cerate, ma anche il bronzo, spesso rifuso per nuovi scopi. Gli Etruschi ci hanno comunque lasciato documenti di rara bellezza e importanza come il liber linteu, il cosiddetto Manoscritto di Zagabria. Un calendario rituale, il cui testo è il più lungo mai ritrovato, 1350 parole per 400 unità lessicali diverse, e la cui sopravvivenza si deve a un reimpiego: giunto in Egitto non si sa come, venne tagliato in tante strisce orizzontali, destinate al bendaggio di una mummia. I calendari rituali stabilivano in quale giorno, in che occasione e verso chi si dovevano compiere certi riti religiosi. Il testo, sebbene in parte lacunoso, è riconducibile a un periodo tra il III e il II secolo a. C. e venne redatto in una lingua in uso nell’Etruria settentrionale. Ci sono poi testi di carattere sacro, come la lamina di Santa Marinella, la cui iscrizione parrebbe essere il responso di un oracolo. C’è poi un documento giuridico di notevole importanza, la Tabula Cortonensis, una lastra di bronzo sulla quale, tra la fine del III e gli inizi del II secolo a. C., fu inciso un testo di 32 righe relativo alla suddivisione amministrativa di un latifondo.
Cristiana Barandoni, archeologa, ha scritto I misteri dell’archeologia uscito da poco per Newton Compton (pagine 384, € 12)
Corriere 19.3.16
Quel ponte mobile da cui transitò la cultura per Roma
di Francesca Bonazzoli

La superiorità dell’Etruria in commercio e arte. Ma la repubblica chiuse i battenti al popolo italico
È stato un ponte a legare il destino degli Etruschi a quello dei Romani: il ponte Sublicio. In latino sublicius significa «che si sostiene su pali di legno (sublica), una struttura facile da distruggere nel caso coloro che abitavano al di là del Tevere avessero avuto brutte intenzioni. I trasteverini dell’epoca erano la più evoluta delle popolazioni italiche: i Greci li chiamavano Tyrrhenoi perché erano insediati nella costa del mare a ponente, il Tirreno. A Nord arrivavano fino all’Arno, a sud fino all’odierno quartiere di Trastevere, nella riva destra che ancora al tempo di Orazio era detta litus tuscus, litorale etrusco, o ripa veiente, cioè territorio degli Etruschi di Veio, la città stato più vicina a Roma.
Quel ponte di legno era dunque gettato dall’isola Tiberina, il vero luogo di nascita di Roma perché le prime capanne sul Palatino, secondo Bianchi Bandinelli, sarebbero rimaste un villaggio se non ci fosse stata quell’isola a consentire a Roma di diventare un centro di traffico e commercio. E infatti, ancora in età imperiale, allo sbocco del ponte sorgevano il foro Boario e il foro Olitorio, rispettivamente il mercato del bestiame e delle verdure.
Ogni anno, il 14 maggio, dal ponte si gettavano dei fantocci di paglia, simulacro di antichissimi sacrifici umani per placare il fiume. Vietatissimo, poi, era l’uso del ferro per la costruzione e, proprio grazie a questo divieto, la leggenda vuole che Orazio Coclite riuscì a trattenere gli Etruschi di Chiusi mentre i suoi commilitoni spezzavano le assi di legno. Tanta paura veniva anche dal fatto che gli ultimi re leggendari di Roma, i Tarquini, artefici dello sviluppo della città nel corso del VI secolo, erano etruschi. Un popolo che non si era mai costituito in uno stato unitario, limitandosi a creare alcune confederazioni di città indipendenti l’una dall’altra, governate prima dai lucumoni e poi da oligarchie. La loro ricchezza economica derivava soprattutto dalle miniere di rame della costa toscana, ma per i traffici con l’Oriente mediterraneo che facevano capo attorno al golfo di Napoli, avevano bisogno di passare da Roma. Il confine della loro espansione in Campania era segnato dal fiume Silaris , il Sele, e l’inizio del loro declino fu sancito proprio quando Ierone di Siracusa, sconfiggendo gli Etruschi sul mare davanti a Cuma nel 474 a.C., li tagliò fuori dagli scambi diretti con i Greci. Da potenza commerciale ed economica, gli Etruschi tornarono così ad essere una federazione di centri agricoli, sempre più simili agli altri della penisola italica.
La loro arte, però, non subì lo stesso destino. Dal VII secolo agli inizi del V a.C. era stata in contatto continuo con quella greca grazie all’importazione, non solo di una grande quantità di ceramiche, ma addirittura di artigiani e anche dopo che il commercio etrusco sul mare venne sostituito da quello greco e cartaginese, la superiorità culturale sulle altre popolazioni dell’Italia centrale non venne mai meno. Quando nel 363 a.C. Roma volle organizzare i suoi primi spettacoli teatrali, chiamò gli attori dall’Etruria e ancora due secoli dopo, prima che diventasse di moda mandare i figli ad Atene, i patrizi romani li facevano studiare in Etruria. Sul finire del V secolo, il tempio sul Campidoglio dedicato alla triade Giove, Giunone, Minerva fu decorato con statue in terracotta dipinta da artisti chiamati da Veio.
Alla fine, la fondazione della repubblica grazie alla cacciata dei Tarquini, i re etruschi stranieri, avvenuta quasi in coincidenza con la sconfitta degli Etruschi a Cuma, fu pagata da Roma con un periodo di decadenza e ancora per tutto il IV e il III secolo a.C. la pittura e la scultura a Roma parlavano etrusco e greco.
Corriere 19.3.16
Oltre a stele e cippi, i bronzetti piccoli tesori del ceto medio
In rassegna gli oggetti dai siti di Artimino e Gonfienti
di M. Ga.

Davanti alla stele dei due guerrieri che s’incontrano con le lance rivolte verso l’alto (dunque inoffensive) e si stringono la mano salutandosi, in una rappresentazione che a noi posteri appare un miracolo di pace, si ha la sensazione d’entrare in quella scena, fin dentro la pietra, tra le figure finemente stilizzate, i movimenti fieri di quegli etruschi che da 2500 anni ci raccontano una scheggia di storia. E subito dopo, da quell’improbabile prospettiva, ci sembra di poter spiare il paesaggio a nord dell’Arno, lungo la direttrice della piana che, da Firenze, ci conduce a Prato e poi a Pistoia e che poi si allarga verso le colline sino al Mugello, alla Val di Sieve e al Montalbano.
Sono i sentieri degli Etruschi, vie di terra e fluviali, protagoniste di viaggi, profani e sacri, che questo popolo ancor oggi da noi definito misterioso, ci ha svelato disseminandole di «pietre miliari», tumuli sacri, soste di preghiere, contraddistinti da steli finemente rappresentate, tramandate nei millenni e conosciute come Pietre fiesolane. Ci sono i Guerrieri e c’è la stele di Londa, con quell’enigmatico personaggio seduto su un trono che con la mano destra sembra indicare qualcosa o comandare un evento, mentre il Cippo di San Tommaso (si chiama così perché murato nella chiesa di San Tommaso a Firenze, oggi distrutta) ci affascina con le figure, distinte in due lati, di un «pastore» e un leone. E ancora, ecco altre rappresentazioni, storie indecifrabili e per questo ancora più affascinanti.
Sono lì, le pietre arcaiche, 24 (la metà di quelle note sino ad oggi) in tutto tra cippi e stele, decorate a rilievo, monumenti funebri di famiglie gentilizie, certamente, ma anche «post» arcaici con i quali si comunicava la propria immagine, la propria esistenza. E qui ci resteranno sino al 30 giugno, protagoniste, insieme ad altri capolavori, della mostra «L’ombra degli Etruschi. Simboli di un popolo fra pianura e collina», un evento, perché mai si era riuscito ad allestire una rassegna così.
La mostra, promossa dal Comune di Prato, Mibac, Soprintendenza archeologica della Toscana, in collaborazione con il Polo museale della Toscana, ci svela un vero tesoro (per i più sconosciuto) custodito in quella parte dell’Etruria che da Fiesole ad Artimino (comune di Carmignano), passando per Gonfienti (comuni di Prato e Campi Bisenzio), ha disegnato una sorta di triangolo d’oro di questa civiltà.
Il percorso espositivo è diviso in due sezioni. Quella delle «Figure di pietra», con le stele e i cippi, e quella delle «Figure di bronzo». «La maggior parte del bronzetti votivi proviene da collezione privata, oltre a un inedito che arriva dagli scavi di Gonfienti e mai esposto finora — spiega Gabriella Poggesi, curatrice della mostra insieme a Carlotta Cianferoni, Paola Perazzi e Susanna Sarti, in collaborazione con Rita Iacopino —. Questi manufatti, destinati a un ceto medio “allargato” piuttosto che all’aristocrazia etrusca, venivano prodotti in loco e rappresentavano la dedica dell’offerente alla divinità».
C’è anche una curiosità. Una copia, anch’essa un piccolo capolavoro se pur della modernità. È l’«Offerente di Pizzidimonte», riproduzione tridimensionale del bronzetto rinvenuto nel Settecento ai piedi del monte Calvana (Prato) e conservato al British Museum. L’hanno riprodotta nel laboratorio Vast-Lab del polo universitario, utilizzando sofisticate tecnologie di scansione computerizzata. Un capolavoro che, se pur in riproduzione, è tornato a casa.
Corriere 19.3.16
Prato
A Palazzo Pretorio un lungo romanzo di bronzi, cippi e stele

Da oggi al 30 giugno il Museo di Palazzo Pretorio di Prato ospita L’ombra degli Etruschi. Simboli di un popolo fra pianura e collina, mostra dedicata ai popoli anticamente stanziati a Nord dell’Arno, lungo la direttrice della piana di Firenze-Prato-Pistoia, del Mugello/Val di Sieve e del Montalbano. Una presenza che viene ricostruita attraverso dieci bronzetti votivi
e le «pietre fiesolane», 24 monumenti in pietra (cippi e stele) decorati a rilievo, appartenenti a famiglie gentilizie che ponevano sulle proprie tombe l’immagine che volevano trasmettere. La mostra è curata da Giuseppina Carlotta Cianferoni (Polo Museale della Toscana), Paola Perazzi, Gabriella Poggesi e Susanna Sarti (Soprintendenza Archeologia della Toscana), in collaborazione con Rita Iacopino, ed è promossa dal Comune di Prato, Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, Soprint. Archeologia della Toscana in collaborazione con Il Polo Museale Regionale della Toscana. Info: tel. 0574/19349961, www.palazzopretorio.prato.it .
Corriere 19.3.16
L’identità da scavare
Pietre , memoria, tratti somatici così gli etruschi continuano a scrivere l’alfabeto dei toscani
di Marco Gasperetti

Una mostra a Prato racconta quella parte dell’antica civiltà che si insediò tra Firenze e Pistoia. E in tutta la regione continuano le campagne di ricerca, finanziate non solo dalle istituzioni, ma anche da cittadini a caccia delle loro radici

S i scava. Nella terra e nel fango, nella storia e nel Dna, nella mente, persino. Quella più profonda, atavica, misteriosa. In Toscana c’è una civiltà sepolta, quella degli Etruschi, che non è solo oggetto di desiderio di archeologi e storici, ma metafora dell’essenza di un popolo: quello toscano, appunto. È una cultura, altra, eppure genitrice, capace di raccontare, dopo millenni, l’identità del singolo e della comunità. Così, la metafora della regione come Grande Sito, reale e virtuale, alla scoperta di radici ancora in parte da decifrare, pare essere qualcosa di tangibile.
Più della metà delle sessanta concessioni di scavo aperte dalla sovrintendenza archeologica sono dedicate a ritrovamenti etruschi e non esiste giorno che da quei tumuli non escano testimonianze. Le mostre-evento, come L’ombra degli Etruschi . Simboli di un popolo fra pianura e collina di Prato e Gli Etruschi maestri di scrittura di Cortona, non sono mai finalizzate a se stesse. «Qui in Toscana sono anche identificazione culturale e persino scoperta d’identità diverse generate millenni orsono — spiega Gabriella Poggesi, una delle curatrici della mostra di Prato — perché gli etruschi a nord dell’Arno, rappresentati nella mostra di Prato, sono diversi da quelli di Volterra, dell’Aretino o della Maremma. E noi contemporanei ci identifichiamo anche in queste diversità». Atavici campanilismi? Chissà.
Se le «Pietre fiesolane» e i bronzi ci raccontano un’età arcaica «fiorentina», basta muoversi da nord a sud, da est a ovest, per continuare questo cammino in differenti scenari. Le Vie Cave, il canyon scavato nella roccia dagli Etruschi tra Pitigliano, Sorano e Sovana, sono un dedalo di strade misteriose con pareti di roccia di venti metri di altezza. Ci accompagnano in un cammino attraverso segni esoterici e monumenti funerari come la «Tomba dei demoni alati» con il suo inquietante frontone (uno dei più belli al mondo), decorato con la figura di un demone alato, forse Scilla, antica medusa, mostro spietato che simboleggia il passaggio agli inferi. Non lontano dal canyon, a Roselle, c’è un altro sito-laboratorio. Quello delle mura ciclopiche, 8 metri di altezza, 3,2 chilometri d’estensione. Anche qui si continua a scavare e a pensare al futuro. «Il ministero ha chiesto il diritto di prelazione per acquisire una parte dell’area archeologica — annuncia il sovrintendente ai beni archeologici della Toscana, Andrea Pessina — e si sta lavorando a una serie di itinerari per creare una via Francigena degli Etruschi».
A Chiusi è stata appena scoperta l’«Innominata», una tomba dipinta e ancora senza nome. L’ha trovata un gruppo di volontari e non è un caso, perché sono molti gli esempi di uomini e donne innamorati dell’antica gente d’Etruria. Lorenzo Benini, un industriale fiorentino, dedica parte delle sue ferie per cercare tesori etruschi e finanzia campagne di scavi. Agli amici racconta che quella passione faticosissima gli regala la sensazione di conoscere se stesso. Paolo Panerai, giornalista e imprenditore, finanzia scavi e organizza con la sovrintendenza mostre dei reperti trovati nei terreni della splendida cantina d’autore firmata da Renzo Piano sulle colline di Gavorrano, in provincia di Grosseto.
Gonfienti, la «Prato etrusca» dalla quale la mostra di Palazzo Pretorio trae ispirazione, è una miniera di sorprese. Che si vuole trasformare in eccellenza. La Regione Toscana ha stanziato tre milioni di euro e tra poco nascerà un parco archeologico unico al mondo. Poi c’è il laboratorio-Volterra, gli scavi perpetui e l’«Ombra della Sera», la statuetta più famosa e oscura.
Dove non arrivano scienza e storia, c’è il maltempo ad allearsi e diventare strumento del Grande Sito. A Baratti, sul lungomare della provincia di Livorno, un’alluvione seguita da una devastante erosione ha portato alla luce una necropoli sconosciuta e poco distante sono affiorate le mura poligonali dell’antica Populonia, una delle roccaforti etrusche. Qui sembra quasi di vederli gli etruschi. Come accade a Murlo, borgo senese, dove l’esame del Dna ha dimostrato che i paesani sono i più diretti discendenti di questo popolo. Guardateli negli occhi, se vi capita di andare in quel paese: potreste parlare con il pronipote di un lucumone.
Repubblica 19.3.16
Elogio del mondo invisibile ma vero
Nel suo ultimo saggio lo scienziato e grande divulgatore Philip Ball racconta le infinite realtà che non vediamo: dai batteri al magnetismo, fino alle tecnologie
di Franco Marcoaldi

Senza dover neppure scomodare Dio, e anzi tralasciando per un momento l’infinitamente grande a vantaggio dell’infinitamente piccolo, risulta subito chiaro quanti, e quanto potenti, siano gli agenti celati alla vista che condizionano le nostre esistenze. Basti pensare alla lunga lista di micro-organismi che ci circondano: batteri, muffe, virus. È vero: a partire dal secolo XVII è venuta
in nostro soccorso la tecnologia, con microscopi via via sempre più sofisticati che ci hanno consentito di vedere quel che sfuggiva ad occhio nudo. Ma per un problema che si chiudeva, subito un altro se ne apriva, nel gioco di rimbalzi ininterrotto tra visibile e invisibile. Al punto che oggi, quando indaghiamo questa mobilissima frontiera, non dobbiamo più fare ricorso all’infinita schiera di spiritelli, demoni, fate, elfi e fantasmi, visto che è la stessa scienza a parlarci di “materia oscura”, sfuggente e misteriosa, che pure gioca un ruolo centralissimo nelle più avanzate teorie fisiche e cosmologiche.
Non c’è verso: l’invisibile, che da sempre accompagna la storia umana, continua nella sua marcia trionfale. E il suo potere seduttivo, lungi dal calare, cresce. Sia nella capacità di influenzare da un indistinto altrove quanto avviene sotto i nostri occhi, sia nel sempiterno desiderio umano di nascondersi, scomparire, volatilizzarsi. Con tutti i rischi che ne conseguono, esplicitati in primis dal solito Platone. Il quale, nella Repubblica, racconta la storia del pastore Gige, che, una volta entrato in possesso dell’anello di invisibilità, ammazza il re, seduce la regina e si impadronisce della corona.
Gira che ti rigira, sarebbero proprie queste le costanti tentazioni degli uomini, quando, indossato il famoso mantello, hanno la ventura di oltrepassare tale magica soglia: sesso, ricchezza e potere. Almeno secondo Platone, per il quale l’uomo che agisce nell’ombra abbassa pericolosamente il tasso della propria moralità ed è spinto a rubare, gozzovigliare, uccidere.
Ma allora come la mettiamo con lo scenario odierno, dove sono quelle stesse tentazioni plurisecolari a essersi, in qualche modo, volatilizzate? Non è forse vero che si fa sempre più fatica a visualizzare e dunque a incarnare le nuove forme del potere e della finanza? Perfino il sesso, grazie ad internet, sembra essere entrato in una dimensione immateriale. Forse non c’è più bisogno di indossare alcun mantello: nell’invisibile ci siamo dentro mani e piedi.
Questi e tanti altri pensieri solleva la lunga e fascinosa cavalcata tra mito e scienza, fiaba e tecnologia, letteratura e psicologia del profondo, cinema e occultismo, che al tema dedica Philip Ball, uno dei più abili divulgatori scientifici (e non solo) di area anglosassone.
L’invisibile (Einaudi) lascia storditi per la sbalorditiva messe di storie e scoperte che si succedono nell’accurata ricostruzione di una vicenda ultramillenaria. Nell’antichità nascondersi e occultarsi era, in teoria, un buon modo per sfuggire ai mille pericoli quotidiani. Ma nella pratica affidarsi a dei poteri magici che potevano implicare terribili condanne per stregoneria, era ancor più pericoloso.
Magia, peraltro, è una parola ambigua: «Cortina di fumo per i ciarlatani» e, a partire dal Rinascimento, cuore segreto della natura stessa — come indicano gli itinerari di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Dunque il volano di un’indagine su quelle forze occulte che animano il mondo, tra le quali troneggia il magnetismo che forse, suggerisce Bell, si lega etimologicamente alla parola “magia”.
Siamo agli albori di quello spirito scientifico moderno che, facendo leva proprio sulla tradizione della “magia naturale”, ritiene che «molte delle cose che avvengono nel mondo, e forse addirittura la maggior parte, hanno cause invisibili». D’altronde, Isaac Newton cercherà di spiegare la gravità come “forza occulta” e Adam Smith, nella sua teoria economica, parlerà di “mano invisibile”.
Nel contempo, la propensione magica fa anche fiorire un esercito di imbroglioni: superstizione e credulità popolare sono sempre presenti sulla piazza. D’altronde, tra gli apparenti paradossi della modernità, c’è l’idea che l’affermarsi progressivo della scienza «coincida con un rinnovato interesse per le questioni spirituali, il misticismo, la magia».
Basti, per tutti, l’esempio del famoso medico tedesco Mesmer, con la sua teoria del fluido magnetico. Ormai, comunque, siamo prossimi all’ulteriore e definitivo salto, con la tecnologia che penetra baldanzosa «in campi fino allora occupati dal mito». Ci penserà lei, d’ora in avanti, a offrire l’invisibile. Senza bisogno di maghi e illusionisti.
Così la scoperta di molti e diversi tipi di raggi spinge radicalmente verso l’immateriale. Nell’ambito delle telecomunicazioni si inviano messaggi «attraverso il nulla». Fotografia e fonografo, riproducendo volto e voce all’infinito, diventano straordinari moltiplicatori di fantasmi. E non per caso il filosofo Jacques Derrida definirà il cinema «una battaglia di spettri ».
Non c’è dunque da sorprendersi se, tra gli stessi scienziati a cavallo tra Otto e Novecento, vi sia chi comincia a sospettare che la realtà visibile sia soltanto un’illusione. Per certo, annota Ball, «non siamo mai tornati indietro da questa smaterializzazione del mondo che iniziò un secolo e mezzo fa». Affermazione difficile da contestare e facile da comprendere anche per chi mastica poca scienza, ma si guarda intorno e vorrebbe darsi ragione delle cose.
Quanto al rapporto tra scienza e mito, esso in effetti resta aperto e problematico, specie rispetto al tema dell’invisibile. I piani, lo abbiamo visto, si incrociano in modo sempre più marcato. Eppure è indispensabile tenerli concettualmente separati. Ce lo ricorda Ball, invitando a distinguere tra “tecnica” e “metafora”. E ce lo ricorda Carlo Rovelli nelle Sette brevi lezioni di fisica: un conto è «inventare racconti», un altro «inseguire tracce». Gli esseri umani, evidentemente, sono soggetti a entrambe queste spinte. E desideri.
IL LIBRO L’invisibile di Philip Ball (Einaudi, traduzione di D. A. Gewurz, pagg. 352, euro 32)
Corriere 19.3.16
Neruda , le donne, gli amori Il timido con il sogno di reinventare la lirica
di Gabriella saba

M olti sapevano che non l’avrebbero più rivisto dopo la festa a cui li aveva invitati nella sua nuova casa in Normandia per festeggiare il sessantottesimo compleanno, il 12 luglio 1972, nove mesi dopo l’assegnazione del Nobel e dove si presentò vestito da chansonnier e tenne banco tra le risate dei presenti tra cui Cortázar e Vargas Llosa. Aveva un cancro alla prostata ed era reduce da un’operazione che gli aveva allungato di qualche tempo la vita lasciandogli però una debolezza lugubre dietro l’allegria di facciata. Qualche mese dopo avrebbe lasciato l’incarico di ambasciatore per tornare in Cile ed è probabile che il golpe abbia accelerato la malattia: Pablo Neruda morì dodici giorni dopo il colpo di Stato nella clinica di Santa Maria a Santiago, dove era stato trasportato d’urgenza in seguito all’ennesima crisi.
Otto persone, tra cui la moglie Matilde, lo vegliarono nella casa detta La Chascona dal soprannome di Matilde e che i simpatizzanti del regime avevano sfregiato nei giorni successivi al golpe, poi ci fu il funerale grandioso e commovente: tributo a uno dei più grandi poeti dello scorso secolo ma anche il primo gesto di dissidenza collettiva a Pinochet.
Per capirne l’importanza occorre riannodare il filo della vita di Neruda, percorrerla a ritroso fino al punto in cui l’allora diciannovenne Neftalí Ricardo Reyes arriva a Santiago dalla natale Parral, sperduto e timido e con il sogno di reinventare la poesia. A vent’anni scrive la sua prima opera importante, Veinte poemas de amor y una canción desesperada, ispirata ad amori autobiografici che gli guadagna l’entusiasmo dei critici e introduce alcuni temi del suo universo poetico come il paesaggio protettivo dell’infanzia e la ricerca di autenticità nella propria storia. Ma è troppo agli esordi per mantenersi con la poesia e deve accettare un lavoro di console ad honorem a Rangoon, dove la relazione con la birmana Josie Bliss gli ispira la raccolta di poesie erotiche Residencia en la tierra. La gelosia della donna che cerca addirittura di ucciderlo lo spinge a cercare rifugio nel matrimonio con l’olandese María Antonieta Hagenaar che si rivela da subito uno sbaglio .
Incaricato come console a Buenos Aires e a Madrid, è soprattutto l’epoca spagnola a cambiare la sua storia, merito in parte della nuova compagna Delia Del Carril, un’argentina raffinata di vent’anni più grande che lo contagia con la passione comunista (prima era anarchico). La Spagna sconvolta dalla guerra civile infiamma la sua passione poetica, al centro delle sue poesie c’è adesso un uomo sociale che combatte per un ordine giusto tant’è che quando torna in Cile si candida a senatore (verrà eletto nel 1945) e lavora per la campagna del radicale Gabriel González Videla il cui voltafaccia da presidente costringe però Neruda alla clandestinità e poi all’esilio in Europa con la parentesi di un anno in Messico: dove dà seguito al suo Canto General (opera epica e ambiziosa sull’America Latina) e allaccia una relazione con la cilena Matilde Urrutia, con cui trascorrerà per quattro mesi una memorabile luna di miele a Capri il cui risultato poetico sono le bellissime poesie d’amore Los Versos del Capitán . Certo, una volta in Cile Delia viene a sapere di Matilde e lascia Pablo, ma lui è comunque un uomo felice quando va a vivere con la Chascona nella sua villa a Isla Negra, a un’ora e mezza da Santiago e affacciata sull’oceano. Dalle finestre a tutta parete si vedono le onde che si infrangono sulle rocce, per il resto la casa somiglia a una nave, stipata di oggetti che Neruda accumulava nei suoi viaggi in tutto il mondo. È poco dopo il suo rientro in patria che lo studente di letteratura Hernán Loyola va a trovarlo e da quel momento la vita del poeta, ormai celebre, e quella di colui che sarebbe diventato il suo studioso più autorevole si intrecciano.
Comunista espatriato dopo il golpe, Loyola ha scritto su Neruda libri importanti per Penguin Random House, Planeta e Galaxia Gutenberg. Descrive Pablo al «Corriere» come generoso e ironico e con un senso della dignità che gli impediva di mostrarsi sofferente, perfino nella fase più critica della malattia. Non solo difende l’ortodossia comunista del poeta, che arrivò a scrivere un’ode a Stalin dopo la sua morte ma la considera un punto di forza. «La naturale onestà di Pablo gli impedì di schierarsi contro il partito anche dopo il Congresso del Pcus del 1956 e l’occupazione di Budapest. Piuttosto ammise l’errore di aver subordinato la propria identità poetica a un progetto storico-politico che immaginava prossimo. A partire da quella data cambiò infatti la sua poesia, che passò dalla sfera pubblica a quella privata e diventò più ludica».
Ci sarebbero molte altre cose da raccontare, per esempio quando imbarcò sul Winnipeg duemila repubblicani spagnoli dalla Francia al Cile nel 1939. O la passione per la nipote di Matilde: la crisi coniugale fu scongiurata dal trasferimento a Parigi, dove Allende mandò Neruda come ambasciatore. Era il 1971, aveva 67 anni.
Corriere 19.3.16
Intelligentissimi. Si fa (forse) così
di Maria Egizia Fiaschetti

Sono animali notturni. Secondo diversi studi, i gufi hanno un QI superiore alla media, sono più forti (alle 9 di sera i tiratardi mostrano un picco di eccitabilità della corteccia motoria e del midollo spinale) e sviluppano una maggiore attitudine a trovare risposte originali e creative ai problemi. Non solo: dormire poco sarebbe da persone smart , brillanti. Altre ricerche, però, dicono il contrario: la carenza di sonno potrebbe causare un calo delle capacità cognitive (per ogni quattro ore di mancato riposo quotidiano si perderebbe un punto di QI).
Altra caratteristica degli intelligentoni? A differenza di quanto si potrebbe immaginare, sono bevitori abituali. È quanto sostiene la Review of General Psychology che, dopo aver esaminato 1.500 volontari, è arrivata alla conclusione che chi fa uso di alcol è più perspicace degli astemi. Se non fosse che un’indagine svedese del Karolinska Institutet asserisce l’opposto: dai test somministrati a un campione di 49.321 uomini nati tra il 1949 e il 1951 risulterebbe che «un elevato QI induce a comportamenti più salutari per l’organismo». La casistica sul web è, a dir poco, variegata. Basta digitare l’incipit «le persone intelligenti...» ed ecco che, a completare la frase, ne spuntano di ogni: sono più ansiose e meno inclini al sesso occasionale. E ancora: mangiano cioccolato, sono più distratte al lavoro, salgono le scale (uno studio della Concordia University, in Canada, dimostra che salire due piani di fila al giorno ridurrebbe l’invecchiamento cerebrale di 0.58 anni nell’arco dei 12 mesi). Dalla scienza alla Rete dilaga l’ossessione, ai limiti dell’idolatria, per l’intelligenza. Dopo il culto dell’estetica, tra il narcisismo e la ricerca compulsiva della perfezione (poco importa se mediata dal fotoritocco), è la materia grigia il nuovo metro di giudizio? L’ultima frontiera della performance?
Se è vero che la tendenza selfie , specchio di una società centrata sull’individualismo e l’autostima, è ancora molto diffusa, online si moltiplicano i quiz per menti eccelse. Sulla pagina Facebook Test d’intelligenza - Italia (oltre 16.700 mi piace) si va dal «c’è qualcosa di nascosto nell’immagine, riesci a vederlo?» a «conta i punti neri» e «scopri l’errore». La posta in gioco? Trovare la soluzione per il semplice gusto di arrivare là dove altri si arenano: ennesima declinazione dello spirito competitivo che, dal sano confronto, rischia di sconfinare nel delirio di onnipotenza. Dai bicipiti ai neuroni, ovvero come surclassare la concorrenza con un approccio muscolare. Oltre il machiavellismo e la spietatezza da lupi di Wall street. Per eccellere non serve giocare sporco, sabotare il rivale: basta (si fa per dire) allenare le sinapsi. Convinti che l’ enhancement , il potenziamento, sia sempre possibile. Peccato che «la fase saliente, di maggiore plasticità cerebrale — sottolinea Stefano Farioli Vecchioli, ricercatore all’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Cnr — sia quella tra l’infanzia e l’adolescenza. A 40-50 anni si può sviluppare la memoria, ma non aumentare le capacita cognitive». Se dovessimo descrivere la giornata tipo, le abitudini corrette dell’intelligentone, quali sarebbero? «Una buona qualità del sonno, esercizio fisico moderato — spiega l’esperto — e una dieta ricca di acidi grassi polinsaturi, utilizzati nella sintesi della guaina mielinica che protegge i neuroni». Fondamentali, gli stimoli: cinema, teatro, musica, lettura, relazioni sociali...
Tra i fattori che svolgono un ruolo importante nel favorire la neurogenesi adulta, Farioli Vecchioli si è concentrato sull’attività fisica: «Da un nostro lavoro pubblicato nel 2014 — ricorda — si è visto che nell’ippocampo dei topi sottoposti a movimento spontaneo era presente il 30 per cento in più di nuovi neuroni rispetto ai sedentari». Preso atto che l’intelligenza è una dote innata e che, oltre una certa età, non aumenta, come si può conservarla il più a lungo possibile? «Con una dieta sana, bassi livelli di stress e stimoli ambientali si costruisce la cognitive and brain reserve , un tesoretto che può contribuire a evitare o ritardare l’insorgere di malattie neurodegenerative». Senza dimenticare che, dal punto di vista evoluzionistico, il nostro cervello non è stato creato per vivere fino a 75-80 anni e che, a differenza di altre parti dell’organismo, «non è ancora stata trovata una medicina in grado di renderlo più longevo».
Repoubblica 19.3.16
Cuba Usa
Nelle strade in festa dell’Avana aspettando Obama il “Santo”Domani arriva il presidente Usa, per la storica visita che segue il disgelo. Sull’isola già lo venerano perché il regime ha dovuto ristrutturare vie e palazzi. Così, tra alberghi pieni e affari, il paese spera che si apra una nuova era
di Omero Ciai

L’AVANA DALLA terrazza dell’hotel Saratoga si domina, a perdita d’occhio, tutta la capitale di Cuba. Fra la spuma bianca di una “piña colada” e il profumo della hierbabuena di un “mojito”, avvocati e consulenti finanziari americani, si riposano sulle sdraio di tela chiara osservando lo spettacolo del Sole che tramonta dietro la cupola bianca del Capitolio. Confusi tra qualche ricco pensionato canadese in gita primaverile e quattro giovanotti newyorchesi in vacanza, sono loro i nuovi procacciatori d’affari sbarcati sull’isola proibita per avviare la nuova era delle relazioni fra Washington e l’Avana che il presidente Barack Obama s’appresta a sigillare con la storica visita che inizierà domani. Affari, per ora, pochi, cocktail caraibici numerosi. Ma da quando vi hanno alloggiato il segretario di Stato John Kerry, Paris Hilton e Beyoncé, questo vecchio e fastoso albergo, completamente ristrutturato dieci anni fa, è diventato uno dei luoghi preferiti dagli americani. Stanze da 400 dollari minimo e proprietà Habaguanex, una delle aziende turistiche del governo cubano, ai margini dello spettacolare centro coloniale dell’Havana Vieja. Lo stesso che assaltano come stormi d’uccelli curiosi centinaia di turisti che in questi giorni si spintonano fra le pietre della piazza della Cattedrale e la struggente bellezza dei portici della Plaza Vieja. L’Avana è di moda.
È al centro del mondo con i suoi alberghi che da mesi non hanno più una stanza disponibile e i nuovi visitatori costretti a saggiare gli standard delle “casas particulares”, i bed and breakfast privati, che sorgono ovunque per soddisfare le richieste di alloggio. E la città si offre ai suoi nuovi amanti con i suoi storici gioielli da Luna Park. La “Bodeguita del Medio”, dove s’ubriacava Hemingway; il Floridita, altro bar dello scrittore; “l’Ambos Mundo”, il suo primo albergo che conserva religiosamente una stanza dove visse. E i ritratti di Che Guevara, le magliette, gli adesivi, le cartoline postali, le borse. Il guerrigliero eroico in ogni dove. E i sigari. E il rum. E il Museo della rivoluzione.
Il nuclueo antico dell’Avana splende di lavori in corso e attende nuovi padroni per riconquistare colori. Sugli edifici sbrecciati e polverosi tanti cartelli bianchi e rossi scritti a mano: “Se vende” (in vendita). Ma la procedura resta complessa: gli stranieri non possono investire negli immobili, l’eventuale compravendita è privilegio dei cubani. Così chi investe non appare, si fida di un prestanome locale. L’affare adesso sono i piccoli alberghi, molto trendy per clienti ricchi ed esclusivi. Un impreditore italiano che vive qui da anni ci porta in una stradina chiusa dietro la cattedrale e ci mostra quello che sta succedendo. In fondo alla via c’è Doña Eutimia, un ristorante privato specializzato in cucina criolla che già da tempo s’è conquistato un posto sulle guide turistiche. Sei mesi fa non c’era altro. Oggi ci sono altri cinque ristoranti che fanno concorrenza al più famoso, con tanto di buttadentro. L’esplosione del turismo e le timide aperture all’iniziativa privata stanno cambiando il paesaggio cittadino. Promuovendo quel che sperava Obama quando ha accettato la riconciliazione senza chiedere nulla in cambio al regime castrista. La nascita di quella classe media che, dopo quasi sessant’anni d’uniformità socialista, prima o poi reclamerà diritti.
Perfino gli “almendrones” (i “mandorloni”) sembrano risorti. Si chiamano popolarmente così a Cuba le vecchie macchine ancora in vita di prima della rivoluzione, Buick e Chevrolet. Rimetterli su strada per la gioia dei turisti è un altro degli affari di questi mesi. I dollari per l’operazione arrivano dai parenti di Miami, quelli della diaspora cubana dall’altra parte dello Stretto della Florida. È il flusso delle rimesse che aumenta e i cubano americani che iniziano a investire timidamente sui piccoli commerci dei loro familiari sull’isola, scommettendo sul cambiamento. La settimana che si apre con l’arrivo di Obama, si chiuderà con il primo concerto, gratuito, dei Rolling Stones. Ma non tutti guardano senza timori alla pace con gli Stati Uniti. Per esempio, Rey. Un ragazzo che ricorda come a scuola gli abbiano spiegato che l’ultimo americano visto a Cuba prima di Barack e Michelle Obama si chiamava Meyer Lansky, era un luogotenente di Lucky Luciano, e insieme a Batista voleva trasformare Cuba nel resort della mafia. Mambo, prostitute e casinò. Marta invece è piena di speranze. In fila da Coppelia, la gelateria voluta da Fidel Castro nei giardini del Vedado, dove la incontriamo, ricorda i suoi anni da “Gloria dello sport”. Era ginnasta e grazie al suo talento ha avuto una vita agevolata. Nessun doganiere, racconta, si permetteva di ficcare il naso nelle valige di uno sportivo quando andava a gareggiare all’estero. Così lei le riempiva di sigari e rum che rivendeva e tornava a casa con leccornie occidentali per tutta la famiglia. Oggi, a 62 anni, pulisce le stanze di una “casa particular” e il suo fragile benessere dipende dal turismo. Alla vigilia dell’evento - Obama è il primo presidente degli Stati Uniti che visita l’Avana dopo quasi un secolo - i cubani si divertono a scoprire dove andrà seguendo gli operai che riasfaltano le strade e riverniciano i palazzi. Il percorso, rimesso a nuovo, l’hanno già battezzato “via Obama”. E lui, il presidente a stelle e strisce, è diventato “Santo Obama” perché il suo arrivo ha fatto scomparire le buche nelle strade.
Subito dopo c’è un altro appuntamento che potrebbe avere conseguenze sul futuro di Cuba. Il 15 aprile si apre il VII Congresso del Pcc, il partito comunista cubano. E sarà anche l’ultima assise con Raúl Castro al potere. Il fratello minore di Fidel, che compirà 85 anni a giugno, ha promesso che si ritirerà nel febbraio del 2018. Le manovre per la successione inizieranno al Congresso dove si dovrà decidere anche in che forme avverrà. L’attuale vicepresidente, per la prima volta, non è un Castro. Si chiama Miguel Diaz-Canel, 55 anni, designato da Raúl nel 2013. Ma i due veri “uomini forti” della leadership di regime sono suoi parenti. Il generale Luis Alberto Rodriguez Lopez-Callejas è suo genero e controlla Gaesa, l’holding delle Forze Armate. Alejandro Castro Espin è suo figlio, e guida l’intelligence. C’è chi spera che la successione a Raúl possa avvenire attraverso una consultazione più larga che coinvolga in qualche modo anche i cittadini e non solo i 14 membri - otto sono militari - del Burò politico del partito. Ma, per ora, sembrano illusioni, visto che il governo cubano ripete che non ha concessioni da fare alla pax americana né sul piano dei diritti civili, né su quello dei diritti umani. Chi non ci sta, oggi emigra più facilmente. Qualcuno, ed è un fenomeno nuovo, perfino torna nella speranza che le aperture vadano lentamente consolidandosi con una nuova politica economica. Ma i più smaliziati fanno notare che, fatte le debite proporzioni, a Cuba stanno nascendo dei mini oligarchi come nei mesi burrascosi della fine dell’Urss. La maggior parte degli affari del turismo sono in mano alle aziende di Stato e per aprire un bar o un ristorante in una zona privilegiata bisogna essere molto vicini alla nomenclatura.
Repubblica 1.3.16
Il dilemma delle destre
di Marc Lazar

PRIMA, in Europa, la situazione in campo politico era chiara. La sinistra, ormai da decenni, perdeva elettori, iscritti, influenza culturale, ed era profondamente divisa su quasi tutti gli argomenti. Era in preda a un declino, definito talvolta come irresistibile. I suoi avversari se ne rallegravano, i suoi sostenitori lo deploravano, gli studiosi ne facevano uno dei loro campi di studio prediletti. La destra, al contrario, sembrava sprizzare salute: alcuni saggisti affermavano che la sua vittoria era ormai ineluttabile e le pronosticavano un radioso avvenire, visto e considerato che le nostre società sono dominate dall’ideologia liberista, popolate da esseri profondamente individualisti, narcisisti, consumisti e sempre più vecchi e dunque conservatori inveterati.
Ora sta esplodendo un fatto nuovo: anche la destra si sta frantumando e indebolendo. L’Italia ne offre un eccellente esempio, con i conflitti tra Forza Italia, Lega Nord, Destra e Fratelli d’Italia. In Germania, la Cdu-Csu sta affrontando una grande crisi sulla questione dei migranti e sotto la pressione dei successi elettorali dell’Afd (Alternativa per la Germania), che ha registrato un’avanzata clamorosa nelle ultime tre elezioni regionali. Il Partito popolare spagnolo alle elezioni dello scorso dicembre ha perso più di 3 milioni e 600mila elettori, in gran parte confluiti nell’astensione o passati a Ciudadanos, ed è scosso da scandali di corruzione e finanziamento illecito. Il Partito conservatore britannico sta andando in pezzi sulla questione del referendum per la permanenza nell’Unione Europea previsto per giugno. In Francia, la destra si sta spaccando in vista delle primarie del prossimo autunno, che designeranno il candidato alle presidenziali del 2017.
A sconquassare la destra è la crisi economica, ma soprattutto l’evoluzione dell’Unione Europea, gli effetti della globalizzazione e la gestione dei migranti. E oltre a queste ci sono altre due grandi sfide. La prima nasce dei successi dei nuovi partiti contestatari e populisti, che sono diversissimi tra un Paese e l’altro, ma fanno tutti appello al popolo, si presentano come nuovi (e a volte lo sono davvero) e criticano la collusione dei partiti tradizionali che cercano di bloccare la competizione politica per impedire ad altre formazioni di accedere al potere e beneficiare delle sue risorse, simboliche e materiali. L’Afd in Germania, l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte nazionale in Francia, la Lega Nord, Fratelli d’Italia o – in modo diverso – il Movimento 5 Stelle in Italia, Ciudadanos in Spagna, presentano delle differenze reali, ma sfidano tutti tanto la sinistra quanto la destra. Da qui il dilemma dei partiti che si trovano ad affrontare una concorrenza a destra (non è il caso della Spagna): continuare a fare riferimento ai loro valori tradizionali per conservare gli elettori moderati o addirittura sedurre quelli della sinistra e gli ecologisti, come fa per esempio Angela Merkel? Oppure spostarsi il più possibile a destra sperando di recuperare gli elettori perduti, come cerca di fare Sarkozy in Francia? Bisogna ispirarsi a Marine Le Pen o Donald Trump, come fanno Matteo Salvini e molti altri esponenti della destra italiana, a rischio di perdere gli elettori centristi?
La seconda sfida è quella della leadership. La destra si era adattata molto più facilmente della sinistra alla democrazia del pubblico, che accorda un ruolo fondamentale al leader che si rivolge direttamente all’opinione pubblica. L’adattamento variava a seconda dei Paesi e delle loro istituzioni, sistemi elettorali, partiti e tradizioni politiche. Ma la tendenza era netta.
Ora la destra sperimenta amaramente che più il leader è forte più è debole, perché costantemente esposto. La minima sconfitta elettorale lo mette direttamente in pericolo. E l’usura del tempo e del potere produce effetti devastanti, specialmente quando si tratta di gestire la successione: la fine di Berlusconi diventa patetica; il tentativo di ritorno in campo di Nicolas Sarkozy sta assumendo i tratti di una via crucis; Mariano Rajoy si gioca la sua sopravvivenza politica e giudiziaria e una sua eventuale caduta potrebbe trascinare con sé anche il partito che guidava come un dittatore; la sorte di Cameron si giocherà sull’esito del referendum che lui stesso ha scelto di organizzare; solo Angela Merkel sembra riuscire a cavarsela, forte dell’assenza, almeno per il momento, di rivali seri.
Certo, la destra e la sinistra rimangono le principali forze di governo. E incontestabilmente la destra se la passa molto meno male della sinistra. Ma entrambe sono destabilizzate, e questo per l’Europa rappresenta un cambiamento considerevole, se non addirittura storico, che si declina in forma variabile da un Paese all’altro. Destra e sinistra sono lacerate tra posizioni inconciliabili: alcuni sono tentati dalla radicalizzazione del loro campo (bisogna essere “veramente” di sinistra o “veramente” di destra), altri si battono per trasformazioni profonde o addirittura per il superamento degli schieramenti tradizionali. Siamo entrati con ogni probabilità in una fase di profonda ricomposizione: non solamente dei partiti, ma delle culture e identità politiche dell’Europa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 19.3.16
Il partito dell’accoglienza ispirato da papa Francesco
di Agostino Giovagnoli

IL FUTURO dell’Europa si gioca sempre di più sulla questione dei migranti, come mostra l’accordo con la Turchia finalmente raggiunto dopo ripetuti vertici dell’Unione europea. E le Chiese sono impegnate perché la bilancia penda dalla parte dell’accoglienza. È ormai in atto un coinvolgimento sempre più intenso di tanti cristiani — non da soli ma insieme a molti altri — in questioni sociali, dispute religiose, lotta al terrorismo, confronti elettorali, problemi politici e trattative diplomatiche che si intrecciano sempre più strettamente intorno al nodo immigrazioni.
Il cardinale Marx e il vescovo evangelico di Berlino hanno stigmatizzato il “linguaggio d’odio” usato dall’Afd, partito vicino all’ideologia xenofoba di Pegida, che ha raccolto molti consensi nelle recenti elezioni tedesche. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha raccomandato una preparazione spirituale all’ormai prossima Pasqua ortodossa che passi per un concreto soccorso ai profughi. Qualche giorno fa l’arcivescovo di Bologna ha sollecitato la costruzione di una grande moschea nella sua città e questa settimana i vescovi francesi hanno dedicato la loro assemblea generale ai rapporti con l’Islam. Il Consiglio permanente della Cei, che si è occupato di accoglienza ai profughi «senza discriminazione di nazionalità», ha dichiarato che «l’immigrazione porta con sé un contributo di ricchezza per tutto il Paese» e a Skopje il cardinale Parolin ha ribadito che l’Europa deve affrontare l’emergenza dei migranti con maggior solidarietà e meno individualismo. Nel giro di pochi giorni, infine, papa Francesco, ha elogiato i «corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Chiese evangelica, valdese e metodista per evitare i «viaggi della morte» a chi giunge in Europa; ha lanciato un appello perché «le nazioni e i governanti aprono i cuori e le porte» a quanti «stanno vivendo una drammatica situazione d’esilio»; e ha richiamato l’attenzione delle future classi dirigenti sui rifugiati «tragicamente costretti ad abbandonare le loro case, privati della loro terra e della loro libertà».
Tante iniziative e tanti interventi, non coordinati tra loro, danno l’idea di un orientamento sempre più diffuso e radicato, malgrado divisioni e resistenze (come in Europa Orientale dove è forte l’ostilità verso gli immigrati). Emerge, indirettamente, un progetto sul futuro dell’Europa. È quello che Francesco ha cominciato a tracciare scegliendo Lampedusa per il suo primo viaggio da papa. Di recente, ha criticato severamente l’Europa per una gestione dei processi migratori senza visione e strategia.
Bergoglio ha più volte paragonato il Vecchio Continente ad una nonna che deve tornare ad essere madre o ad una donna sterile che può generare sebbene in tarda età. E si è detto sicuro che «l’Europa alla fine sorriderà ai migranti », anche grazie alla forza che viene dalla memoria di «grandi personaggi dimenticati» della sua storia come Adenauer, Schuman, De Gasperi. Proprio al piano Schuman, che fu all’origine del primo nucleo della Comunità europea, fa non a caso riferimento l’ultimo numero de “La Civiltà cattolica” — i cui articoli sono concordati con la Segreteria di Stato vaticana — per affermare che sospendere o, peggio, abbandonare il trattato di Schengen sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea significa contraddirne i principi fondamentali Il Papa che «non si immischia in politica » — come ha detto tornando dal Messico — è oggi il principale ispiratore di un “partito dell’accoglienza” destinato ad avere un peso politico crescente. È una politica molto lontana dall’iniziativa messa in atto nel 2003 per inserire riferimenti alle «radici cristiane» del Vecchio Continente in una Costituzione europea destinata tra l’altro a non entrare mai in vigore. Non a caso, nel 2014 Francesco ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla sua capacità di praticare o meno la solidarietà. Quella di oggi non è la politica tradizionalmente praticata dai cattolici: non è infatti scolasticamente desunta da principi supremi ma empiricamente ispirata dalle attese degli ultimi, non è ecclesiasticamente organizzata ma laicamente disorganizzata, non è chiusa in un recinto confessionale ma aperta a «tutti gli uomini di buona volontà». Ma è, anch’essa, politica. Un’Europa solidale verso gli immigrati sarà, infatti, «più facilmente immune dai tanti estremismi». Il “partito dell’accoglienza” può avere cioè un ruolo nella battaglia tra il centro e le estreme — o tra i partiti democratici e quelli che non lo sono — che nei Paesi europei, come ha scritto Garton Ash su Repubblica, sta sempre più spesso prendendo il posto del tradizionale confronto tra destra e sinistra.
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“ Bergoglio ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla capacità di praticare solidarietà
Corriere 19.3.16
Il sì di Renzi (che in cambio chiede flessibilità)
di Marco Galluzzo

BRUXELLES Nell’incontro con il commissario economico, Pierre Moscovici, con il presidente del Pse, il bulgaro Sergej Stanisov e con il presidente del Parlamento, Martin Schulz, si fa il punto sul prossimo incontro a Roma. L’appuntamento è per la fine di maggio, tutti i capi di governo socialisti riuniti nella capitale, come avvenuto a Parigi qualche giorno fa, ma questa volta per mettere nero su bianco la proposta di una fetta della Ue, quella che appartiene alla famiglia socialista, rivolta alla Commissione e al Consiglio.
Matteo Renzi ha indubbiamente un ruolo di traino: «Proporremo lo scorporo dei cofinanziamenti nazionali dei progetti europei dalle regole di bilancio». E la proposta in elaborazione prevede un’estensione della attuali regole sullo scorporo: almeno da uno a tre anni, dunque due anni di flessibilità in più per quei Paesi che intendono sostenere la crescita con una politica economica espansiva. Ma non solo: «Il tema degli eurobond è tutt’altro che tramontato», chiosa lo stesso premier al termine del Consiglio. È il punto che sta più a cuore a Renzi, che ne discute anche nel corso di un bilaterale con la cancelliera: l’Italia in fondo non ha fatto resistenza all’accordo con la Turchia, si spera che a giugno i tedeschi e i Paesi che di solito si accodano alla posizione di Berlino, siano collaborativi come sono stati i governi a guida socialista sul tema migranti. «L’accordo con la Turchia — dice il premier al termine del Consiglio — rispetta i paletti che non solo noi avevamo posto, ora dalle parole bisogna passare ai fatti, e c’è un esplicito riferimento ai diritti umani, alla libertà di stampa, ai valori fondamentali della Ue ». Subito dopo torna al punto economico: «Credo che una strategia di politica economica che non tenga conto degli investimenti e della possibilità di ridurre le tasse, anche attraverso la flessibilità, sia assurda. L’iniziativa della Bce è sacrosanta, ma se non c’è politica economica fondata su investimenti, creazione di infrastrutture e riduzione fiscale non vinceremo mai la sfida alla deflazione».
Corriere 19.3.16
I migranti rimandati in Turchia
di Ivo Caizzi

Accordo fra Bruxelles e Ankara: l’Europa accoglierà dai campi profughi chi ha diritto all’asilo
Per ogni migrante ripreso sul proprio territorio da domani 20 marzo, la Turchia invierà un rifugiato legale da ricollocare in uno dei Paesi dell’Ue. È uno dei punti previsti dall’accordo raggiunto ieri tra Ankara e il consiglio dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue. Ma Ungheria e Slovacchia hanno già anticipato di non voler partecipare.
In cambio la Ue concede fino a 6 miliardi di aiuti e riapre la procedura per l’ingresso nell’Unione

BRUXELLES Il Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue ha superato faticosamente le forti divisioni interne e ha raggiunto un accordo di compromesso con la Turchia, che prevede tre miliardi e alcune concessioni politiche ad Ankara in cambio del blocco dei maxi flussi di profughi siriani e iracheni diretti principalmente in Germania. Inoltre tutti i migranti irregolari sbarcati nelle isole elleniche da domani 20 marzo saranno riportati sul territorio turco nel rispetto delle normative internazionali. L’obiettivo dichiarato è scoraggiare il ricorso alle organizzazioni criminali impegnate nel lucroso traffico di esseri umani.
Ogni posizione dovrà essere valutata individualmente dalle autorità greche. Non si potrà ricorrere a espulsioni di massa. Sarà possibile appellare il rimpatrio. Per ogni migrante ripreso, la Turchia invierà un rifugiato legale da ricollocare nell’Ue. Ungheria e Slovacchia hanno anticipato di non voler partecipare. Il Vaticano ha protestato tramite il segretario di Stato Pietro Parolin perché di fronte al «grave dramma» di tanti migranti «dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto».
Nella prima giornata del summit a Bruxelles, conclusa oltre la mezzanotte di giovedì scorso, i 28 leader hanno dato mandato al presidente stabile del Consiglio, il polacco Donald Tusk, di negoziare direttamente con il premier turco Ahmet Davutoglu. La rinuncia di Ankara alla liberalizzazione dei visti per l’Europa, all’accelerazione del processo di accesso all’Ue e al raddoppio degli aiuti (fino a sei miliardi) ha favorito il compromesso. Nel testo restano aperte come possibilità, ma senza garanzie preventive.
La cancelliera tedesca Angela Merkel, principale promotrice della collaborazione di Bruxelles con il controverso presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha ammesso di non farsi «illusioni» sulle difficoltà di attuare il compromesso soprattutto per «i grossi problemi legali da superare» nel rinvio in Turchia dei migranti. «E’ realistico questo progetto di accordo? — ha commentato il premier Matteo Renzi —. Si, è molto difficile da realizzare. E’ il frutto di discussioni e compromessi. Le prossime settimane, i prossimi mesi, ci diranno se sarà anche realizzato». Renzi ha definito «molto, ma molto complicato» e «né facile né breve» il percorso di eventuale adesione della Turchia all’Ue, che prevede di rispettare «i diritti umani, la libertà di stampa e quei valori fondanti dell’Europa». Il premier italiano ha rilanciato il ricorso ai titoli di debito eurobond per finanziare gli interventi nei Paesi di provenienza dei migranti e ha considerato l’accordo Ue-Turchia un «precedente» applicabile negli Stati africani, da dove partono i flussi diretti sulla costa italiana. La responsabile Esteri dell’Ue, Federica Mogherini, ha sostenuto in una lettera che in Libia ci sarebbe «circa mezzo milione» di migranti pronti a dirigersi verso l’Europa.
Due casi imbarazzanti sono avvenuti nella conferenza stampa finale del summit. Davutoglu ha criticato il Belgio per aver consentito a un gruppo di curdi, che lui considera terroristi, di dimostrare pacificamente contro le violazioni dei diritti umani in Turchia proprio fuori dalla sede del vertice. Tusk ha replicato definendo «parole esagerate» quelle del premier turco e ha aggiunto che «la libertà di parola è il marchio di fabbrica europeo». Ma il portavoce dello stesso Tusk non ha poi concesso di fare una domanda sull’accordo preventivamente chiesta da Sevgi Akar Cesme, la direttrice dell’edizione in inglese del quotidiano d’opposizione turco Zaman , diventato noto internazionalmente per essere stato trasformato in organo sostenitore di Erdogan con un’irruzione della polizia.
Corriere 19.3.16
«In pensione prima con il 3% in meno»
di Federico Fubini e Enrico Marro

Via dal lavoro prima, ma con pensioni decurtate del 3% l’anno. A sostenerlo è il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ribadisce la necessità di correggere la legge Fornero.
a pagina 11
ROMA Presidente Boeri, lei insiste sulla necessità di correggere con urgenza la riforma Fornero, per consentire ai lavoratori di andare in pensione qualche anno prima, sia pure con un assegno più basso. Perché?
«Se il governo ha intenzione di introdurre la flessibilità in uscita, vale la pena di farlo adesso — risponde il presidente dell’Inps, Tito Boeri —. Il brusco innalzamento dei requisiti stabilito con la legge Fornero ha bloccato nelle imprese una parte dei lavoratori che altrimenti sarebbero andati in pensione. Questo blocco ha avuto un effetto molto forte sulle assunzioni dei giovani. Lo abbiamo verificato controllando due campioni di imprese, il primo con lavoratori bloccati dalla riforma e il secondo no. Nel primo non c’era spazio per assumere. Si spiega anche così il tasso di disoccupazione giovanile del 40%».
Finora la flessibilità in uscita, promessa l’anno scorso dallo stesso premier Matteo Renzi, non è stata introdotta perché troppo costosa per i conti pubblici.
«Su questo abbiamo un problema con l’Unione europea. All’inizio, pagando più pensioni, aumenterebbe la spesa. Ma poi si recupererebbe perché l’assegno erogato sarebbe più basso. Il primo passo sarebbe quindi quello di farsi certificare dalla Commissione Ue che proposte di questo tipo non avrebbero effetti di lungo periodo sui conti pubblici. Oppure potremmo cominciare noi a farci certificare dall’Ufficio parlamentare di bilancio le proposte neutre sul bilancio a lungo termine per poi portarle in Europa».
Quando ha parlato l’ultima volta con Renzi di questo e quale è stata la reazione?
«L’ultima volta, pochi giorni fa. Credo che ci sia interesse, anche se c’è preoccupazione per i conti pubblici».
Realisticamente, di quanti anni si potrebbe anticipare il pensionamento?
«Secondo la nostra proposta fino a tre anni. Chiaramente con delle riduzioni dell’importo della pensione, commisurate al fatto che l’assegno lo si prenderà per più tempo».
Riduzioni di quanto?
«Intorno al 3% per ogni anno di anticipo, quindi al massimo circa il 9% in meno, se uno va in pensione tre anni prima delle regole vigenti».
Presidente, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che abbiamo intervistato giovedì, parlando di lei ha detto: Boeri pensi a gestire l’Inps e non faccia politica.
«Il ministro ha detto: lui fa le proposte, il governo decide. Mi ci ritrovo perfettamente. Di fatto, sto dicendo che il governo deve decidere. La cosa che mi lascia più a disagio è quando il governo non decide, lasciandoci in un limbo. Poi Poletti ha anche detto che l’Inps può fare proposte e questo è già un passo in avanti rispetto a chi dice che neppure questo possiamo fare».
Come definirebbe i suoi rapporti col governo?
«Proficui, utili. Ma la cosa che mi piace di più è il rapporto con le altre amministrazioni. Persone come Raffaele Cantone (autorità anticorruzione), Rossella Orlandi (Agenzia entrate), Antonio Samaritani (Agenzia digitale), Ernesto Ruffini (Equitalia), sono tutte di grande valore, con cui si lavora bene».
Lei ha annunciato l’invio di 7 milioni di «buste arancioni» ad altrettanti lavoratori con dentro la simulazione della pensione. Quanti scopriranno che è più bassa di quello che si aspettavano?
«In effetti molte persone avranno sorprese negative. In base ai nostri campioni, circa il 60%. Ma penso che avere questa informazione sia molto importante, perché consente di pianificare il futuro».
Non teme che le brutte sorprese inducano a consumare meno, con effetti negativi sull’economia?
«Non credo che gli effetti siano così negativi. Ciò che deprime i consumi è l’incertezza. Invece noi qui stiamo dando più informazioni».
Su un altro fronte, quello del lavoro, dopo che gli sgravi sulle assunzioni sono stati tagliati, a gennaio c’è stata una frenata dei contratti a tempo indeterminato.
«È presto per trarre conclusioni. Nel 2015 ci sono stati quasi un milione di contratti a tempo indeterminato in più. Un fatto importantissimo. Non solo gli sgravi, ma anche il contratto a tutele crescenti ha avuto un ruolo».
Che ne pensa di rendere permanente lo sgravio?
«È una scelta onerosa, ogni punto in meno di contributi costa 3,5 miliardi, che se non fiscalizzati, farebbero scendere anche la pensione».
Repubblica 19.3.16
Le elezioni.
Il candidato pd sente il vento contro: “Rimotivare i delusi” Tentativo di dialogo con l’area Sel
Roma, allarme Giachetti “Così rischio la batosta” E cerca rinforzi a sinistra
di Giovanna Vitale

ROMA. «Ragazzi, qua si mette male ». Roberto Giachetti è preoccupato. Forse per la prima volta da quando, tre mesi fa, decise di accettare l’invito di Renzi a correre per il Campidoglio, ha realizzato che l’impresa è più complicata del previsto. Non che non ne fosse consapevole: la traumatica caduta della giunta Marino, la rottura dell’alleanza con Sel e i tormenti interni al Pd facevano già presagire che la strada sarebbe stata in salita. Ma la campagna on the road per le primarie e l’implosione del centrodestra gli avevano restituito la speranza di una rimonta possibile.
Fino agli ultimi, impietosi sondaggi: tutti concordi nel fotografare la grillina Virginia Raggi al ballottaggio e poi vincente contro qualunque candidato, con un tasso di astenuti e di incerti concentrato specialmente fra gli elettori del centrosinistra. «Dobbiamo trovare il modo di recuperare, di riconquistare il nostro popolo, altrimenti al secondo turno ci asfaltano», ha sussurrato ieri il vicepresidente della Camera al termine dell’ennesima giornata di passione. «So bene quanto sia difficile, che ci portiamo dietro anche il peso dei nostri errori», ha poi spiegato a Radio24, «ma ripeto: se questa storia va avanti c’è bisogno di una rottura totale con il passato, a cominciare dalle liste elettorali».
Un incubo, la fuga dalle urne, da cui Giachetti teme di svegliarsi sconfitto. Scenario così realistico da impensierire pure il Nazareno. Dove i dati romani sulla disaffezione al voto sono stati letti come un campanello d’allarme. Perché «se il caos nel centrodestra avvantaggia noi, coi quattro candidati che finiranno per neutralizzarsi a vicenda» — o, per dirla con Orfini, «noi pensiamo alla città, non ai giochetti di politica nazionale messi in atto dagli altri partiti» — la vera incognita è cosa accadrà al ballottaggio. Quando «ci sarà la corsa a far perdere il Pd». Tutti coalizzati, destra e sinistra, sulla candidata a 5 stelle. L’ultimo endorsement targato Giorgia Meloni: «Sono molto amica di Giachetti, però non riuscirei in nessun modo a sostenere il governo Renzi e i suoi rappresentanti », ha detto la leader di Fdi ad Agorà. «Tra lui e la Raggi voterei Raggi, anche se trovo molto deludente la storia del M5s». Parole che devono aver suscitato parecchio malumore se poco dopo l’ex ministro della Gioventù è stata costretta a twittare: «Escludo di non arrivare al ballottaggio, il problema non si pone».
Una questione da affrontare subito, dunque. Parola d’ordine: mobilitare gli elettori di centrosinistra delusi o tentati dall’astensione. Come? Innanzitutto facendo professione di ottimismo: «Sei mesi fa il Pd era dato per perso, con i sondaggi che dopo Mafia Capitale ci davano al 16%», ha ribadito ieri il candidato sindaco. «Adesso tutti gli indicatori dicono che la partita è contendibile». Ovvero: «È tosta ma ce la giochiamo », riassume la renzianissima Lorenza Bonaccorsi. E poi cercando di aprire un canale con la sinistra che ha puntato su Stefano Fassina. Perché se il candidato ex pd resta ostile a ogni ipotesi di riconciliazione, c’è invece una parte di Sel — che a Roma governa con i democratici in Regione e nei municipi — per nulla rassegnata alla rottura dell’alleanza. Obiettivo di Giachetti: disarticolare quell’area, come a Milano e Bologna. In attesa di capire cosa farà l’ex sindaco Marino: scenderà in campo oppure no?
Due perciò le strategie pensate per strizzare l’occhio alla sinistra extra-Pd. Intanto una lista arancione con dentro movimenti, associazioni e pezzi di Cgil da tempo non più in sintonia coi dem, oltre ai fuoriusciti di Sel. E poi una lista Pd con qualche nome forte, anche della minoranza, che per Orfini dovrebbe essere guidata da Fabrizio Barca, l’uomo che ha mappato i circoli e fatto pulizia. Infine coinvolgendo, specie nella stesura del programma, parlamentari tutt’altro che renziani come Walter Tocci e simboli dell’ex giunta Marino, a cominciare dal giudice Alfonso Sabella.
Due liste cui ne verranno affiancate altre tre: una radicale, in omaggio all’antica appartenenza di Giachetti, messa in piedi dal giovane segretario Riccardo Magi. Una cattolica organizzata dall’ex dc Beppe Fioroni insieme all’ex leader Cisl Raffaele Bonanni. E una del sindaco, con esponenti di richiamo della società civile.
Uno schema tuttavia a rischio per i malumori della stessa minoranza, che si sente trascurata. «Nel partito c’è molta preoccupazione », rivela l’ex sfidante alle primarie Roberto Morassut, «la campagna elettorale è ferma, fatichiamo a trovare una linea di combattimento e un percorso unitario. Orfini si dia una svegliata ». Con il bersaniano Nico Stumpo ad avvertire: «O Giachetti decide di allargare, inaugurare una gestione collegiale su liste e programma, oppure non si va da nessuna parte».
Repubblica 19.1.16
La sindrome Badoglio
di Alessandra Longo
Attenzione a non far arrabbiare i camerati di Casa Pound. Simone Di Stefano, il loro Capo, non ha apprezzato per niente che Giorgia Meloni, candidata sindaco a Roma, abbia detto di non essere mai stata fascista e, soprattutto, di non conoscerlo. Lui, su Facebook, la smentisce: «Ricordi Giorgia? La prima volta che sei entrata in una sede del Msi la porta te l’ho aperta io. E abbiamo fatto militanza insieme per due anni». Di Stefano ironizza: «Governare con i moderati fa perdere la memoria». Si materializza l’orgoglio muscolare dei camerati: «Meglio soli che accompagnati da infami e traditori. Schiena dritta e orgoglio sempre. Lei non ti conosce? Simone, fregatene. Giorgia è solo borghesia patrimoniale improduttiva. Come ai tempi della Repubblica di Salò ci sono i combattenti fedeli all’ideale e i traditori». Ultima chiosa: «Chi va con il Badoglio è Badoglio pure lui». Eia eia.
Corriere 19.3.16
Chi sono i nuovi padri
di Luigi Zoja

Ogni evento buio ha un rovescio luminoso. L’eclissi della famiglia tradizionale è, in sostanza, scomparsa dei padri: se i padri sono assenti si diventa consapevoli della loro importanza.
Il mio libro sulla possibile fine del padre uscì nel 2000: coincise con la fine di un millennio. Il peggior posto della terra sembrava il Ruanda. Così azzardai: «Possiamo immaginare un futuro in cui il Ruanda sarà un posto decente: non uno in cui i padri torneranno al loro posto». Oggi il Ruanda gode quasi di prosperità e stabilità. I padri, invece, non sono tornati. Il loro tasso di assenza ha continuato ad aumentare. Una consolazione: forse ha raggiunto livelli tali per cui non aumenta più. I dati degli Stati Uniti per il 2014 sono un riassunto del mondo. La quasi totalità dei bambini cresce ancora con la madre. Dispongono anche del padre l’80% degli asiatici, che scalano le vette dell’istruzione e della posizione sociale. Lo hanno il 68% dei bianchi, il 52% dei «latinos», ma solo il 29% degli afro-americani. Essi restano i più miserevoli: non perché manchino opportunità nell’economia americana, ma perché da secoli manca la coppia dei genitori alle famiglie afro-americane. Gli schiavi non avevano personalità giuridica, quindi non potevano sposarsi: potevano fare figli, ma l’unico legame era quello con la madre. Fin da quando era uno sconosciuto, uno dei principali programmi di Obama (purtroppo poco noto in Europa), è stato promuovere fra i maschi afro-americani il piacere e la fierezza di essere padri di famiglia.
Ogni statistica mostra evidenti legami tra l’assenza di padre e l’emarginazione sociale. Non ne è l’unica causa. Il circolo vizioso di ostacoli in cui popolazioni intere restano rinchiuse è dato da pregiudizi, dal colore della pelle, dalle barriere linguistiche: ma anche dalla famiglia-tipo. Quando prevale la ragazza-madre, prevalgono povertà e analfabetismo.
I padri mancano statisticamente, perché sono aumentate sia le nascite fuori dal matrimonio sia i divorzi. Ma sono venuti a mancare anche come simbolo positivo. Hanno spesso abusato del potere nella storia; e la critica agli abusi ha raggiunto il culmine nel XX secolo. Purtroppo, il suo risultato non è stato necessariamente una società dotata di sensibilità più «femminili», supposte più dolci. Le impronte maschili sono rimaste predominanti: ma dai modelli paterni si è spesso passati a quelli del branco e del maschio competitivo. D’altra parte, oggi constatiamo che la competitività è aumentata anche per le femmine. Il ruolo paterno è molto più legato di quello materno alla cultura e all’educazione. Quindi può variare di più, col tempo e fra i popoli: e addirittura scomparire. Certo, i maschi continuano ad esistere. Ma a volte rinasce in loro la barbarie dell’orda: aumentano gli stupri di gruppo, in cui (a differenza dal violentatore individuale) ci si conferma e ci si incoraggia a vicenda. Dall’altro lato, proprio perché nelle scolaresche il «bullo» è spesso il modello maschile che «fa tendenza», gli studi dell’Ocse segnalano che nei venti Paesi leader del mondo la resa scolastica dei maschi continua a diminuire: ormai riesce a malapena a superare quella femminile solo in matematica. Su questa crisi di identità maschile, mondiale e senza precedenti storici, mancano studi adeguati.
Naturalmente nascono anche nuove sensibilità, che portano i «nuovi padri» ad affiancare di più le madri. Spesso, però, si limitano al cosiddetto «mammo»: a un accudimento corporeo utilissimo, ma che non riempie la mancanza di quel contenitore che si chiamava padre ed era necessario soprattutto in fasi più avanzate della crescita.
Torniamo all’America, ma Latina. Un grave fattore di ritardo rispetto a quella del Nord iniziò già dalla scoperta del continente: non vi immigravano famiglie, ma i conquistadores, maschi soli. Come ci si poteva attendere, fecero milioni di figli con le donne indie senza sposarle. Una società senza padre: diversamente da quella di oggi, fin dagli inizi. Vi prevalevano i «bastardi», identità per secoli associata a scarsa autostima collettiva. Non stupisce, così, che in Messico «Che meraviglia!» si dica ancora «Che padre!». È, spiegano i messicani, la cosa per secoli desiderata e non avuta.
L’autore.
Luigi Zoja, 72 anni, psicanalista, ha lavorato a Zurigo, New York e Milano. Dal 1998 al 2001 ha presieduto la International association for analytical psychology, associazione che raggruppa gli analisti junghiani nel mondo. Ha vinto per due volte (2002 e 2008) il Gradiva Award assegnato ogni anno negli Stati Uniti alla saggistica psicologica. I suoi saggi sono tradotti in 15 lingue. Tra questi, il celebre Il gesto di Ettore, dedicato alla «scomparsa del padre», uscito in edizione aggiornata, ampliata e riveduta da Bollati Boringhieri.

Corriere 19 Marzo, 2016
Capire il bisogno di avere un figlio
di Massimo Ammaniti

È un interrogativo impossibile quello che pone Claudio Magris in un suo recente articolo: può ogni desiderio trasformarsi in un diritto. La società umana, come ha mostrato Sigmund Freud nel suo libro Il disagio della civiltà , per sopravvivere deve necessariamente reprimere i desideri e i piaceri individuali e piegarli al principio di realtà, anche se nel corso del tempo il rapporto fra desideri individuali e repressione necessaria si è profondamente modificato. Nella società viennese dei tempi di Freud le ragazze, ad esempio, venivano scoraggiate a proseguire negli studi e addirittura venivano avviate a scuole particolari, in cui le attività domestiche avevano un peso preponderante. Da allora il mondo è profondamente cambiato, i giovani, oggi, hanno difficoltà ad accettare il linguaggio del dovere e ricercano piuttosto nella loro vita la felicità personale, parola che non apparteneva al lessico delle passate generazioni.
Quando Freud parla di desideri si riferisce fondamentalmente a quelli che scaturiscono dal mondo inconscio, mentre Magris si riferisce piuttosto al desiderio cosciente di avere dei figli che vale sia per le coppie eterosessuali che per quelle omosessuali. Quando in passato non si potevano avere dei figli si accettava in modo rassegnato che «il Signore non li avesse mandati».
Ma anche in questo campo la naturalità della procreazione è profondamente cambiata con l’avvento delle recenti tecniche di fecondazione assistita, che hanno infranto vecchie convinzioni e tabù. La sterilità non rappresenta più un ostacolo alla procreazione, come anche la conclusione del ciclo fertile fino ad arrivare all’utilizzo sicuramente problematico delle gravidanze surrogate. Quando si invoca la procreazione naturale si dimentica che la condizione umana si è profondamente modificata con le nuove tecnologie mediche che hanno cambiato il modo in cui avviene la procreazione, come anche la gravidanza e il parto. Questo non vuole significare rassegnarsi al dominio delle tecnologie, che possono diventare pervasive e addirittura negative, come succede ad esempio con l’abuso delle ecografie in gravidanza oppure con l’eccessivo ricorso ai parti cesarei per evitare il travaglio del parto.
Ma il desiderio di un figlio ha un significato molto diverso, non rappresenta solo il compiacimento narcisistico di allevare un bambino o una bambina, che proseguirà la propria vita realizzando i propri sogni irrealizzati, è profondamente radicato nella propria storia personale, addirittura nell’evoluzione della specie umana. Basta vedere una coppia che si affanna per avere un figlio con le tecniche della fecondazione assistita, cercare un centro specializzato, fino a poco tempo fa all’estero, iniziare e ripetere pratiche mediche pesanti, affrontare le ripetute delusioni quando la fecondazione fallisce oppure l’apprensione quando inizia la gravidanza, se potrà andare avanti e con quale risultato. Non si tratta di un desiderio momentaneo, non è come andare al supermercato, è piuttosto un percorso doloroso e travagliato giustificato dal profondo desiderio di avere un figlio che verrà a completare la propria identità personale. E non si riferisce solo a un desiderio personale o di coppia, è addirittura radicato nel cervello umano perché, come ha mostrato la ricerca neurobiologica, esiste un circuito cerebrale che sostiene le capacità di prendersi cura e di sintonizzarsi emotivamente col proprio figlio, come viene documentato, ad esempio, nel libro americano The mommy brain (Il cervello materno) di Katherine Ellison. Questo circuito cerebrale, che si attiva non solo nelle madri ma anche nei padri, ha permesso alla specie umana di sopravvivere nel corso di centinaia e centinaia di secoli, proteggendo i propri piccoli di fronte ai pericoli e ai predatori che ne potevano minacciare la sopravvivenza. Anche sul piano metabolico un neuro-ormone, l’ossitocina, interviene nel favorire i comportamenti di caregiving , ossia i comportamenti genitoriali di cura.
Per ritornare alla personalità umana esistono diverse motivazioni che orientano la vita emozionale e psichica fin dalla nascita. In primo luogo, come ha mostrato la ricerca recente, la motivazione del bambino a legarsi ai genitori e agli adulti che si occupano di loro, in modo da regolare la propria sicurezza soprattutto nei momenti di difficoltà. I comportamenti delle figure di attaccamento vengono fatti propri da ogni bambino, ossia assimilati attraverso identificazioni multiple, che influenzeranno i modelli genitoriali quando diventerà adulto. Sottolineo questo per dire che le capacità genitoriali sono legate alle esperienze che si sono avute con i propri genitori o con le persone che si sono occupate di noi, indipendentemente dal genere e dal sesso, perché è stata rilevante la disponibilità affettiva e la sensibilità che hanno mostrato.
Entrando ora in merito al tema più controverso della filiazione nelle coppie omosessuali, ugualmente nei gay si attiva il sistema motivazionale di caregiving genitoriale, che si è sedimentato nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza nel rapporto coi genitori. Pertanto il desiderio di un figlio rappresenta un bisogno insopprimibile, che addirittura ha spinto in passato i gay a costruire relazioni di coppia tradizionale per soddisfare questo desiderio. In altri termini la maturazione della personalità implica la realizzazione di sé come genitore, indipendentemente dalla propria identità di genere. Questo è stato confermato dalla ricercatrice israeliana Ruth Feldman che ha messo in luce, oltre alle capacità di caregiving dei genitori gay, anche l’attivazione nel loro cervello della corteccia orbito-frontale che interviene nei comportamenti di cura dei figli.
Se il desiderio delle coppie omosessuali è così radicato nella storia umana si traduce inevitabilmente nel diritto a diventare genitore e che si intreccia col diritto del bambino ad essere allevato e curato da genitori sensibili e protettivi. D’altra parte è impossibile scindere il diritto del bambino da quello dei genitori, come concluse lo psicoanalista inglese John Bowlby nel 1950, in una monografia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle cure parentali, «se vuoi aiutare i bambini devi in primo luogo aiutare i genitori» .