sabato 26 marzo 2016

il manifesto 26.3.16
Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte
Iconografie. I due gemelli ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino
di Raffaele K. Salinari


Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama in gioco nella deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio Laodamia, della stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è ferito a morte da Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue, avvolgerlo nelle bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri. Indistinguibili nell’aspetto esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari simbolici che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura iconografica: mentre Hypnos non sembra avere tratti caratteristici, suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta, simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi intrecciati, rimando alla posizione in cui venivano sepolti i morti nell’antica Grecia.
Nelle teogonie classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione intrinsecamente complementare; è questo a determinare in essenza il mitologema che li accomuna: stati speculari che trapassano l’uno nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla Tenebra infera, l’Erebo. E dunque, seppure generati della combinazione delle stesse Potenze – la notte che porta i sogni e la esiziale tenebra eterna – le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari sì, ma non per questo identici; anzi. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.
È in questo luogo inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo trae le anime, ma non permette loro di uscirne. La loro specularità è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi molteplici figli, tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o subire alcuna violenza» – come afferma Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di un’affinità evidente – ed, al contempo, permette ai corpi di uscire ed entrare in lui. Al contrario, il suo gemello senza figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece allo stato del non essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal corpo mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono indispensabili al gesto della deposizione, che dunque simboleggia il passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.
Il sonno ed il suo sognare
A differenza degli antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci vita alcuna nel «sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per poi ritornare, ed unirsi, al «corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non rappresentava che il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo del sonno profondo», imbalsamato nella mummia – involucro necrico di preservazione per questo stato particolare – non era solamente una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita immortale.
Nell’antico Egitto è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua «immensità indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su queste credenze. Per la Grecia classica, al contrario, il sonno portatore di sogni è una componente determinante della vita; possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi, incubare sogni – dormire cioè in un luogo ritenuto sacro – significava entrare in contatto diretto con il numinoso, con l’Invisibile. Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da sogni e visioni, apparizioni oniriche di ombre che li visitano e li guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro dell’Iliade, «Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo. L’ate, lo stato d’animo che spesso domina l’agire dei guerrieri iliaci, altro non è che un temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di onirismo che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a rifarsi per la perdita della concubina portando via ad Achille la sua. D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o fare un sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma «gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà onirica di influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.
Sul Cratere di Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C., attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la scena della deposizione di Sarpedonte è magistralmente raffigurata. Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome ma, ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come se fosse riflesso nell’oggetto che, elettivamente, permette di coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio. Qui è dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è quest’ultimo che interagisce con la vita; è la vita stessa, mentre la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia nella morte. Non basta, allora, solo il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo significato essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso su di una superfice che rimanda al vivente l’immagine della sua ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di Hypnos, cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente, un giorno passerà dal sonno alla morte.
Passano i secoli e vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino. La tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo soltanto quelli la cui anima è portata da questi particolari messaggeri. Nella Parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso che gli attribuisce questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo” (Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura apocalittica giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes che coprono il corpo «con lini preziosi e lo ungono con olio fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una fossa scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione finale».
Il «Compianto»
E così vediamo che, nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di Eufronio, i due gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di battaglia per depositarlo nel suo sacello in Lidia. Il gesto è dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei secoli, verrà ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da questo schema e con gli stessi personaggi simbolici: il Sonno e la Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla nuova narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta figura del «Compianto», cioè nella deposizione del Cristo Morto sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella che è la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio Verginis.
In particolare il Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa immagine viene dipinta più frequentemente e con più attinenza all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie del Vangelo apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di Giorgio di Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa scena vengono però dalle miniature bizantine del IX secolo, in cui inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto: Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio che, come vedremo, altro non sono che le trasposizioni in chiave cristiana di Hypnos e Thanatos.
In più, se prendiamo le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno (329-390), Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino Basilio I – attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia – vediamo chiaramente come le posture delle figure di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos e Thantos sul Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre San Giuseppe, come Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare ordini ai due. In questa immobilità, in questa ieratica staticità delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo dell’immagine originaria presente nel canto omerico e ripresa dal ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione di un essere divino. Il cosiddetto Threnos – la figura composta dai quattro personaggi visti nel loro insieme – è dunque originato da questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa che invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio dalla vita alla morte.
Ma certo la postura delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento della Vergine e di altri personaggi di contorno, non basta a verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco, della Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo omologo bizantino. E allora, per far combaciare ulteriormente le due rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi rappresenta Thanatos e chi Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata dai Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è Thanatos mentre Nicodemo è Hypnos, perché?
Giuseppe di Arimatea e Nicodemo
Giuseppe di Arimatea è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo e così rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui abbiamo già un attributo chiaro che lo identifica con Thanatos: è lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth. Dichiarare deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della croce, non era un compito facile. Bisognava avere una certa esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel modo, poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti. E dunque chi meglio di Thanatos riconosce, per così dire, la sua opera? Ma non è tutto.
Giuseppe di Arimatea ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla morte: Anubis. Infatti gli attributi della divinità dei morti egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione», «Colui che è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le tombe, ed infine «Colui che è nelle bende» intendendo non solo le bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed è proprio Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi sia gli unguenti per lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba scavata appunto sul fianco di una montagna. Dal lato opposto troviamo invece Nicodemo-Hypnos.
Anche qui l’archetipo muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo alla sua figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti, vive, per così dire, una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la Barca. I sogni che marcano la sua figura, tutti inerenti la deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si racconta che Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine di Gesù Morto così come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne il Volto. Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la sorpresa di vedere l’opera compiuta da mano angelica.
Qui appare evidente la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura divina, come magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo studioso delle icone è il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo sguardo, che egli definisce come vero e proprio «simbolo ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare» e dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba, al «corpo del sonno profondo» del Cristo.
Dice ancora Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo visibile da quello invisibile, ed in tal modo congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si badi bene del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice riproduzione, cioè di una mera ed imperfetta maschera funeraria, diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque, attraverso il suo sonno profetico, in diretto contatto col suo stesso volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile», conclude Florenskij. Influenzato a vita dal suo primo sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a Isacar, uomo giusto e timorato di Dio.
Di generazione in generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento anni dopo, nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in sogno lo stesso angelo scultore che gliene svelò la presenza. La scultura fu collocata allora su una barca affidata alla Divina Provvidenza perché la facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono poste anche due ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe d’Arimatea con Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi era allora un Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi, al quale apparve in sogno l’angelo che gli suggerì di andare a Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E dunque la catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo protetto dove simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.
La Dormizione di Maria
Ma la figura che chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e sussume entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il Sonno e la Morte riportandole all’unità originaria, è certamente quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La Madonna altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima ipostasi della Grande Madre, della Grande Potnia mediterranea, dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica prima dell’avvento delle divinità legate al patriarcato.
È lei che crea tutto, che è tutto. Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le prime Potenze, i Titani ed Eros protogeno, la Notte ed Erebo – dai quali vengono poi generati i «gemelli veloci» – via via enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi figli e, al tempo stesso, sue manifestazioni. E dunque neanche la spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice la potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la Creazione è generata e curata da una Essere dalle qualità femminili. Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia cristiana, è certamente quello della Madonna della Misericordia che, sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il Creato, morti inclusi.
Perciò Maria non può morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e viene assunta in cielo in questo stato peculiare, unico, come si conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha generato, partorito e curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che senza il suo sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la carica resurrezionale che emana dal suo Volto intenso ed estatico, il Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo. Come la Basilinna durante le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per rigeneralo e consentirgli di riprendere il ciclo della vita indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla morte del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che la quintessenza della sua stessa definizione secondo Georges Bataille: portare la vita sin dentro la morte. «Ti sei addormentata ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano».
Così recita il testo di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che diviene madre partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era Colui che veniva generato; così nella tua Dormizione vitale, tu sola a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e di corpo» dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma della Immacolata Concezione senza per questo dover rinnegare la forza numinosa dell’archetipo precristiano. Non a caso la Festa della Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai secoli VI e VII, ed è originariamente legata alla comunità di Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio della cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della Grande Madre che tutto può perché tutto è. E così nel suo sonno eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.
Repubblica 26.3.16
Cristiani o no siate giusti e sarete salvi
Il senso vero della Pasqua è che la redenzione riguarda tutti gli esseri umani ed è legata al bene e all’amore
È estranea alle parole di Gesù l’idea che solo chi crede possa rialzarsi dalla caduta
di Vito Mancuso


«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni», dichiarò il cardinal Martini nell’ultima intervista, ma io penso che tale ritardo ecclesiastico sia l’espressione di un più preoccupante ritardo del cristianesimo in quanto tale, sempre più incapace di sostenere il suo annuncio fondamentale. Fa problema il centro stesso della fede cristiana, cioè la salvezza. Come pensarla? Qual è la sua specificità? Roger Haight, gesuita americano, descrive così la situazione: «Il significato della salvezza rimane elusivo; ogni cristiano impegnato sa che cos’è la salvezza finché non gli si chiede di spiegarla ». Non c’è religione senza salvezza, ci sono religioni senza Dio, nessuna senza salvezza. Per il cristianesimo la salvezza scaturisce dalla
Pasqua di Cristo, al cui riguardo si legge nel Catechismo cattolico: «Vi è un duplice aspetto nel Mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita» (art. 654). Questo è il centro del messaggio: la salvezza come redenzione operata da Cristo. Il concetto di redenzione è sconosciuto alle altre religioni: Mosè, Buddha, Confucio, Maometto sono legislatori, maestri, profeti, saggi, non redentori, non sono cioè essi a dare la salvezza, che è invece ottenuta dai fedeli seguendo i loro insegnamenti. Il cristianesimo si distingue perché ritiene l’umanità corrotta dal peccato originale e incapace di meriti spirituali, e quindi annuncia la salvezza come operata gratuitamente da Dio mediante la redenzione ottenuta da Cristo. Ogni anno la Pasqua è la solenne celebrazione di questo evento. Esaminando la storia di tale dottrina si vede che il primo a formularla fu San Paolo. Egli scrive: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» ( Romani 3, 23-25). Paolo afferma che la morte di Cristo è stata voluta direttamente da Dio e altrove aggiunge: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» ( 2 Corinzi 5,21).
Leggendo i suoi scritti in ordine cronologico si scopre però che non sempre San Paolo la pensava così. Nella sua lettera più antica infatti egli non parla della morte-risurrezione di Cristo come di un atto redentivo, né dell’evento salvifico come già avvenuto. Al contrario per lui la salvezza deve ancora attuarsi. Ecco come: «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi per andare incontro al Signore» ( 1Tessalonicesi 4,16-17). Paolo scrive che Cristo è morto «per noi», ma non fa dipendere la salvezza da quella morte, prova ne sia che non ritiene quest’ultima voluta da Dio (come invece sosterrà in seguito) ma dagli ebrei, come appare da queste parole destinate nei secoli ad alimentare l’antisemitismo: «I giudei hanno persino messo a morte il Signore Gesù e i profeti, e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini » (2,15-16). Qui non c’è un piano di Dio che manda il Figlio a morire, c’è piuttosto l’inimicizia degli ebrei che hanno ucciso Gesù, il quale però è stato risuscitato da Dio a chiara dimostrazione della mutazione della storia che si realizzerà con il suo imminente ritorno. La stessa impostazione si ritrova in 1Corinzi.
San Paolo cambia presto prospettiva ed è facile capire il perché: la mancata venuta di Cristo lo induce a porre il centro focale non più nel futuro ma nel passato, Cristo è il salvatore non perché tornerà vittorioso ma perché è morto offrendosi al Padre e riconciliandoci a lui con il suo sangue. Cristo diviene così il redentore crocifisso. È in questa luce che vent’anni dopo vengono composti i Vangeli. Essi però, riportando anche il pensiero di Gesù, permettono di sollevare la questione decisiva: Gesù pensava la salvezza come redenzione oppure, da ebreo osservante, la legava al responsabile esercizio della libertà?
Vi sono testi evangelici in linea con la teologia della redenzione, per esempio quando Gesù dice di essere venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti» ( Marco 10,45) o quando nell’ultima cena pronuncia le note parole: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » ( Matteo 26,28). Nei Vangeli però vi sono molti altri testi che presentano la salvezza legata non a un evento esterno ma alle azioni liberamente poste, secondo la tradizionale concezione ebraica della salvezza come esito della fedeltà all’alleanza, cioè come giustizia. Io penso anzi che a Gesù la dottrina della redenzione non sarebbe piaciuta per nulla, c’è tutto il Discorso della montagna a dimostrarlo, a partire dalle parole del Padre Nostro sul ruolo attivo della libertà: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Gesù prosegue: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdone- rà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» ( Matteo 6,12-15). La mossa decisiva spetta alla libertà umana, la quale per Gesù è in grado di operare anche il bene perché non è irrimediabilmente corrotta, come invece dirà San Paolo e più radicalmente Sant’Agostino.
L’idea di una libertà efficace in ordine alla salvezza si ritrova in molti altri passi evangelici tra cui: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» ( Matteo 7,2). Il principio salvifico è quindi legato alla prassi responsabile: «Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» ( Matteo 7,21). Il Discorso della montagna, cuore del messaggio di Gesù, è un appello alla libertà quale via efficace per il conseguimento della salvezza.
A questo punto appare evidente la problematicità della successiva costruzione teologica cristiana basata sulla redenzione, da cui la difficoltà nel rispondere alle seguenti questioni: 1) In cosa consiste propriamente la redenzione operata da Cristo? 2) L’atto redentivo vero e proprio è la morte di croce o è la risurrezione? 3) Qual è la sorte di chi non vi partecipa? 4) Da cosa si viene redenti: dalla morte, dal Diavolo, dall’egoismo, dal mondo, dal castigo di Dio, dalla Legge, dal peccato, o da tutto questo messo insieme? La radice dell’aporia risiede a mio avviso nell’idea di una specificità cristiana della salvezza in quanto legata a un determinato evento storico, cioè nell’impostazione data al cristianesimo da san Paolo ed estranea a Gesù. In realtà occorre pensare che la salvezza è sempre stata disponibile agli esseri umani, a qualunque religione o non-religione appartengano, perché è legata al bene e alla giustizia. È il Vangelo ad affermarlo: «Venite, benedetti dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito» ( Matteo 25,34-36). Nel Libro dei Morti dell’antico Egitto vi sono parole analoghe: «Ho soddisfatto Dio con ciò che ama: ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (cap. 125). Il testo risale a 1500 anni prima di Cristo e dicendo le stesse cose mostra il vero senso della salvezza, che mai mancò al genere umano, ben prima del cristianesimo storico: la liberazione dall’ego e l’apertura al bene, all’amore, alla giustizia. Io ritengo non implausibile pensare che, in chi pratica questo stile di vita, possa generarsi una peculiare disposizione della sua energia costitutiva (ciò che tradizionalmente si chiama anima) in grado di vincere la curvatura dello spazio-tempo.
Repubblica 26.3.16
Dilma Rousseff.
“Contro il mio governo è in atto un golpe vogliono che mi dimetta ma io difenderò Lula”
La presidente del Brasile: “Il giudice Moro usa metodi illegali io lotterò per la nostra democrazia”
Hanno creato una situazione pericolosa di caos. Non vorrei che spuntassero i salvatori della patria
di Antonio Jiménez Barca


BRASILIA. Nelle ultime due settimane il Brasile è in subbuglio. Dilma Rousseff ne parla nel suo enorme studio da presidente a Brasilia, a cominciare da quello che la riguarda più da vicino: la procedura d’impeachment che si è già messa in moto e minaccia di allontanarla dalla presidenza in meno di un mese. «Legalmente è molto debole. Ed è stata lanciata perché il presidente del Congresso, Eduardo Cunha (nemico della Rousseff, anche se appartiene al Partito del movimento democratico del Brasile, formazione in teoria sua alleata, ndr), ha minacciato il governo: se non avessimo votato contro un’indagine a suo carico, lui avrebbe messo in moto la procedura. Cunha è stato denunciato dalla procura generale della Repubblica perché hanno trovato cinque conti illegali a suo nome».
Lei dice che il Brasile, con questa procedura, potrebbe subire un colpo di Stato.
«In Brasile abbiamo già avuto golpe militari. In un sistema democratico, i golpe cambiano metodo. E un impeachment senza basi legali è un golpe. Rompe l’ordine democratico, per questo è pericoloso».
Ma come reagirà di fronte a una sconfitta? Che cosa farà se dovesse perdere?
«In una democrazia bisogna reagire in forma democratica. Ricorreremo a tutti gli strumenti legali per evidenziare le caratteristiche di questo golpe. Ma vi consiglio di interrogarvi su chi sono i beneficiari di tutto questo: molti di loro non sono ancora nemmeno entrati in scena, rimangono sullo sfondo. Come il caso della divulgazione delle conversazioni (fra lei e Lula, diffuse dal giudice Sérgio Moro, ndr): è una cosa che non si può fare. L’atteggiamento corretto non era divulgare la registrazione, ma inviarla al Tribunale supremo federale, che è l’organo che ha il diritto di indagare su di me. Un giudice non può giocare con le passioni politiche. Nessuno può destituirlo, ma lui in cambio dev’essere imparziale. E poi c’è la faccenda delle dimissioni. Chiedono che mi dimetta. Perché? Perché sono una donna fragile? Non lo sono. La mia vita non è stata così. Vogliono che rinunci per evitare di dover cacciare in modo illegale una presidentessa eletta. Sono convinti che io mi senta ferita, sconcertata, sotto pressione. Ma non mi sento così. Non sono così. Ho avuto una vita molto complicata, figuratevi se non sono capace di lottare adesso. Quando avevo 19 anni sono stata in carcere per 3 anni durante la dittatura, e il carcere di allora non era una cosa da ridere».
Molti hanno criticato la nomina di Lula sostenendo che era semplicemente uno stratagemma giuridico per sfuggire alla giustizia, grazie all’immunità garantita dalla carica di ministro.
«Pensare che diventando ministro sfuggirebbe alla giustizia è vedere un problema dove non c’è. Può essere indagato dai magistrati del Tribunale supremo federale. La verità è che non vogliono che venga al governo. Ma Lula verrà, come ministro o come consigliere: in una maniera o nell’altra, verrà. È mio amico, l’ho aiutato durante i suoi due mandati. Mi piace molto lavorare con lui. Non mi preoccupa minimamente che Lula possa togliere lustro alla mia presidenza.
Una delle conseguenze di questa crisi è la sfiducia assoluta dei brasiliani verso i politici… «È una conseguenza grave, perché quando si comincia a mettere in discussione i politici, in Brasile spuntano fuori i salvatori della patria. Prima si crea il caos e poi arrivano quelli che salvano dal caos. Noi siamo favorevoli a un compromesso, ma si deve fare senza rotture della democrazia, senza tentativi infondati di impeachment».
Teme un’esplosione sociale, considerando la crescente instabilità del paese e la sua progressiva polarizzazione?
«Le esplosioni sociali nascono soprattutto dalla disuguaglianza e dalla povertà. Noi, in forma democratica, negli ultimi anni abbiamo fatto entrare nella classe media 40 milioni di persone e abbiamo riscattato dalla povertà altri 36 milioni».
Corriere 26.3.16
La lotta continua con la materia
Così ascoltava le voci delle cose
I lavori dagli anni 30 (quando «dichiarò guerra» alla pittura) agli 80
di Roberta Scorranese


All’alba del 1930, a Mosca Vladimir Majakovskij si conficcava un proiettile nel cuore; a Rapallo, Ezra Pound pugnalava il moderno sistema finanziario, accusando gli interessi dominanti del capitalismo; a Parigi, Joan Miró decideva di uccidere per sempre la pittura.
Un’invisibile ma dirompente forza distruttiva ha attraversato le avanguardie tra le due guerre mondiali. E la mostra che si apre al Mudec di Milano, Joan Miró: la forza della materia , è il racconto di questo annientamento dell’arte che il catalano decise di compiere quando, quasi quarantenne, entrò in una grave crisi.
Andava e veniva da Parigi, città dove il Manifesto Surrealista di André Breton aveva sancito la predominanza degli automatismi psichici «in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione» e dove poeti come Paul Éluard scrivevano versi quali «Villages de la lassitude/Où tous les êtres sont pareils». Che senso poteva ancora avere la pittura tradizionale? Non era forse meglio lasciar parlare la materia, scavare nei supporti (tavola, tela, carta, ferro) e fare in modo che quelle voci incastrate lì dentro da millenni si esprimessero finalmente con la propria lingua? Gruppo di personaggi nel bosco del 1931 apre il viaggio (curato dalla Fundació Joan Miró di Barcellona sotto la direzione di Rosa Maria Malet).
Gli sfregamenti sulla tela, come un ossessivo interrogare le cose inerti, lasciano tracce che si ribellano al colore dello sfondo. Ferite. Come La voce umana , dramma dell’anno prima scritto da Jean Cocteau: la donna abbandonata che inutilmente interroga una voce dall’altra parte del telefono, che non risponde mai. Questa sordità delle cose turbava profondamente Miró, che prese a immaginare figure biomorfe, uccidendo le identità e persino i nomi: se negli anni precedenti era arrivato a chiamare le sue opere «X» perché (sinceramente) non sapeva più che cosa fossero, adesso sceglie denominazioni come Senza Titolo o Personaggi e uccello (in mostra). Che cosa fare? All’inizio degli anni Quaranta, quando Picasso rifletteva sull’allegoria giorgionesca con Le tre età dell’uomo , Miró ingaggiava un corpo a corpo con la carta, raschiava la superficie, scartavetrava la parte colorata.
E si allontanava sempre di più da quell’umanità imbarbarita che stava distruggendo il suo Paese e il mondo intero. Le costellazioni hanno origine da questo costante senso di estraneità rispetto al vivere — l’acquerello Donne, uccello, stelle è del 1942, lo stesso anno in cui uscì Lo straniero di Camus, romanzo mosso da un eguale istinto distruttivo.
E tale ininterrotto duello con la pittura raggiunge il sublime con Dipinto , del 1960: sottilissimi segni e macchie di colore su una tavola di legno, la vera protagonista dell’opera, con tutti i suoi difetti (nodi e cicatrici). Un manifesto: l’arte è anche quello che non si vede. È l’incertezza del tratto, è la scultura volutamente istrionica (molto belle quelle in mostra), è il disegno sottostante, è la poesia di un legno rovinato dal tempo e dalla pioggia.
Corriere 26.3.16
La giacchetta di Joan Miró
di Andrea Nicastro


Non sono passati politici all’inaugurazione della nuova mostra su Miró che si è aperta al Mudec. Meglio così. Da qualche anno Joan Miró non è più soltanto «il più surrealista di tutti noi» (copyright Andrè Breton), la firma contesa in aste milionarie, l’artista della musica su tela (e tanto altro ancora), ma è diventato un marchio prezioso anche per la politica.
La sua fama nasce tra le due Grandi Guerre assieme all’arte ribelle della Parigi che affollata com’era di profughi (già, fuggiaschi dai combattimenti e dalle dittature come i siriani di oggi) si trasformò in capitale morale e intellettuale del mondo. L’ultima parte della sua vita, invece, coincise con la svolta democratica spagnola del 1976 e così Miró offrì il suo pennello allegro e colorato per rappresentare la Spagna della movida e della ritrovata liberà. Dopo la morte, l’ultima giravolta: Miró viene promosso profeta del catalanismo, artista con il sogno inconfessato di vedere la sua Barcellona indipendente. Povero Joan, tirato per la giacchetta sporca di colori… lui così schivo, poche parole e una sola moglie, così lontano dall’effervescenza di quel Pablo Picasso che gli scriveva «Ma come puoi resistere tanto con la stessa donna?».
Due anni fa la vice presidente del governo spagnolo Soraya Saenz de Santamaria tenne un discorso all’apertura di una grande esposizione al Museo Albertina di Vienna. «Miró è un pezzo fondamentale della genialità di Catalogna e della storia di Spagna. Miró è spagnolo, è catalano, ma anche di tutti coloro che si avvicinano alla sua opera» disse Santamaria. Sembravano parole di circostanza, invece apriti cielo. Erano i giorni della Diada, la marcia in favore dell’indipendenza catalana, e arrivò una grandinata di critiche. «Miró era spagnolo di passaporto, non lo si può negare — scrisse ad esempio Joan M. Minguet sul sito web dell’Associació Catalana de Crítics d’Art —, ma vale ricordare che Miró ha sempre dichiarato la sua catalanità dalla famosa intervista del 1928 con il francese Trabal, fino al discorso del 1979 per la laurea honoris causa dell’Università di Barcellona; se ciò non bastasse la sua ossessione per i paesaggi catalani, la sua iconografia mediterranea». Insomma, altro che spagnolo, Miró era super catalanista.
L’appropriazione era cominciata qualche anno prima. Nel 2011 alla Tate di Londra, Vicenç Villatoro, presidente del centro catalanista Institut Ramon Llull, teorizzo la necessità dell’acquisto: «Miró non ha bisogno di noi per proiettarsi nel mondo, al contrario è la cultura catalana che necessita di ambasciatori della caratura di Miró per presentarsi al mondo» teorizzò senza vergogna. Difficile resistere alla tentazione d’iscrivere un tale campione nel proprio campo.
Chi non ci riuscì mai fu il regime franchista. Miró esule, Miró dissidente, Miró fu democratico e anti fascista, sempre e senza esitazioni. Anche quando, tornato a vivere in Spagna e il franchismo da dittadura era diventato dittablanda , l’artista non si mostrò mai affiancato al regime. «Dopo la Guerra Civile del ’36 — racconta Roberto Baravalle, scrittore e critico d’arte — tutti gli esuli erano anti franchisti. Erano i rappresentanti della Spagna oppressa, non della Catalogna occupata. Barcellona era serbatoio di opposizione, ma come tante altre regioni. Da lì ad accaparrarsi in chiave localistica il mito di Miró, ce ne passa».
Negli anni giovanili, il catalano Miró aveva lavorato al tentativo di francobollo Ayuda Espana e, in tarda età, aveva autorizzato l’utilizzo di due suoi simboli per la campagna di promozione turistica della nuova Spagna. Il «sole di Miró» è forse il marchio turistico più longevo del marketing internazionale, rivaleggia quanto a riconoscibilità con il cuore rosso di «I (love) New York». Abc, un giornale super unionista, mette l’artista tra le dieci ragioni perché la Catalogna non si stacchi dal resto di Spagna e cita proprio l’ok del genio all’uso del suo «sole» sui cartelli turistici: «Per il re e per il governo, tutto gratis». Il contrario di ciò che sostengono i catalanisti. Per loro, Miró era un cripto-indipendentista. In occasione del dono al museo di storia cittadina del manifesto del 1977 «Votem l’Estat», «Votiamo lo Statuto», il consigliere (indipendentista) alla cultura Joan Manuel Tresserras si lanciò in una lettura pro domo sua dell’opera. «Osservando bene le lettere, si può notare che l’artista suggeriva un secondo livello di lettura, non Votem l’Estat, ma Volem l’Etat, cioè vogliamo lo Stato». Teresa Montaner, curatrice responsabile della Fondazione Miró di Barcellona, si tiene lontana dalle polemiche: «Il catalanismo dell’artista è indiscutibile — dice —, nelle sue fonti di ispirazione, nel primitivismo contadino. Ma è un catalanismo vitalistico, non politico». Per favore, attenti a quella giacchetta.
Corriere 26.3.16
Karadzic e il genocidio la sentenza che non basterà
di Aleksandar Hemon


Permettetemi di esprimere un’ovvietà: il genocidio uccide, e uccide moltissima gente. Inoltre provoca traumi inauditi ai superstiti, mentre distrugge ogni punto di riferimento morale negli esecutori materiali. È questo il motivo per cui la sentenza emessa nei confronti di Radovan Karadzic all’Aia non ha accontentato nessuno in Bosnia-Erzegovina. Karadzic è stato ritenuto colpevole di dieci capi di imputazione su undici, per i quali è stato giudicato dal Tribunale penale internazionale della ex Jugoslavia e condannato a quarant’anni di prigione. È stato riconosciuto responsabile del genocidio di Srebrenica nel 1995, come pure di altri cinque reati contro l’umanità e quattro reati di guerra. Però è stato assolto dal reato di genocidio perpetrato in altri sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sono macchiate di esecuzioni e stupri di massa, hanno gestito campi di concentramento e perseguito alacremente una efficientissima campagna di «pulizia etnica», termine coniato dallo stesso Karadzic durante la guerra in Bosnia.
Benché sia assai probabile che Karadzic finirà i suoi giorni in carcere, il fatto che non gli sia stato comminato l’ergastolo ha scatenato la rabbia di moltissimi bosniaci. Il quotidiano di Sarajevo, Oslobodenje cita Ramiza Grudic, una madre di Srebrenica che ha perso marito e due figli, la quale definisce il verdetto «doloroso, vergognoso e tristissimo». Amir Kulagic, un superstite che ha perso una ventina di familiari, è altrettanto insoddisfatto: «La condanna che ha ricevuto sembra un premio per quello che ha fatto, non una punizione. Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Agli occhi di Ramiza e Amir, il verdetto rispecchia appieno una narrativa etica secondo la quale le vittime non hanno avuto giustizia, e non l’avranno mai. Esse vivono in un mondo che le aveva abbandonate allora, e che al giorno d’oggi, davanti alle loro sofferenze, solleva quel minimo di interesse che serve ad archiviare la guerra una volta per tutte, per non pensarci più.
I crimini di Karadzic e dei suoi complici, perpetrati dalle strutture e dai meccanismi da essi stessi instaurati e gestiti, hanno alterato per sempre la compagine morale della realtà in cui vivono i bosniaci. Il mondo come casa comune è un concetto ormai annientato, e resterà per sempre un ideale irraggiungibile, a causa delle devastazioni inflitte dalla violenza. «Karadzic è vivo», dice Ramiza, che a distanza di vent’anni cerca ancora le ossa del figlio più giovane. «Lui vedrà i suoi familiari, mentre noi abbiamo perso i nostri. Noi soffriamo e tutto il nostro strazio ce lo teniamo chiuso in petto».
Ecco le conseguenze del genocidio: esso crea nuove realtà, eliminando le persone considerate scomode o indesiderate. Quello che Karadzic si era proposto di fare, con il pieno sostegno dello stato serbo, controllato da Slobodan Milosevic, era di creare un territorio esclusivamente serbo che un giorno sarebbe entrato a far parte della Grande Serbia. I suoi crimini non sono stati gli incresciosi effetti collaterali di una guerra selvaggia nei Balcani (quel luogo immaginario, assetato di sangue, dove varie tribù si massacrano con una certa regolarità), bensì lo strumento primario di un progetto militare e politico per restituire grandezza alla Serbia. Il suo progetto nazionalistico, ben definito e altrettanto ben studiato, imponeva l’eliminazione, con qualunque mezzo necessario, della popolazione di fede musulmana da gran parte del territorio bosniaco, e a questo compito Karadzic si era dedicato con il massimo impegno.
E ci è riuscito. Circa un terzo del territorio bosniaco antecedente il conflitto, compresa Srebrenica, è stato assegnato ai serbi come parte dell’accordo di pace di Dayton, stipulato dall’inviato di Bill Clinton, il defunto Richard Holbrook. Etnicamente ripulita da cima a fondo, la Republica Srpska, ovvero la parte della Bosnia controllata dalla Serbia, formalmente fa parte della Bosnia Erzegovina, un paese il cui governo oggi è composto da quelle persone che hanno combattuto e ucciso per distruggerlo. Lo spirito e il retaggio di Karadzic pertanto esercitano tuttora la loro influenza sulla Republica Srpska, uno staterello nato dalla guerra e dal genocidio da lui orchestrato. Pochi giorni prima della sentenza, la casa dello studente a Pale, cittadina dalla quale fu lanciato l’assedio di Sarajevo, è stata battezzata con il nome di Karadzic. Con tutta la pompa degna del varo di una nave, alla cerimonia ha presenziato Milorad Dodik, il presidente della Republica Srpska, come pure la moglie di Karadzic, per inviare un messaggio chiarissimo a tutti gli interessati: Radovan Karadzic è uno dei padri fondatori della Republica Srpska, dove le sue gesta sono ammantate di eroismo. E così una fantasia genocida si è trasformata in storia ufficiale.
In altre parole, tutto in Bosnia rispecchia gli ideali di Karadzic, tranne forse la speranza che gli venga assegnata una cella confortevole in un carcere del civile Occidente, dove vivrà di sicuro molto meglio dei superstiti dei suoi massacri. I bosniaci speravano che avrebbe ricevuto una sentenza non solo commisurata alle perdite umane da lui inflitte, ma anche consona alla folle ambizione del suo progetto criminale della Grande Serbia, per il quale si era tanto prodigato. Una sentenza capace di rendere giustizia alle vittime per il tragico stravolgimento della realtà umana avrebbe ricucito il tessuto sociale lacerato, ma tale sentenza non appartiene al mondo dei comuni mortali.
(Traduzione di Rita Baldassarre )
Corriere 26.3.16
La scienza ci spiega perché sospiriamo
Platone e Heidegger faccia a faccia
di Ida Bozzi


Storie che raccontano la realtà e noi stessi. Biografie, esperienze liete o difficili, ricerche, scoperte, invenzioni, tutte queste sono, in fondo, storie. Uno scrittore che confessa come nasce un romanzo su una città che non è la propria ma lo diventa in profondità. Una band giovane che svela l’ingrediente di una carriera musicale. Teorici e artisti che spiegano a quale punto stiamo in una storia dell’arte contemporanea. E molto altro.
Nel nuovo numero de «la Lettura», in edicola domani, sono tante le storie che ci parlano del mondo e di come è fatto. E sono inaspettate, come la vicenda che sta dietro al romanzo di Garth Risk Hallberg «Città in fiamme» (Mondadori) così come ce la racconta lo stesso scrittore parlando della bellezza di New York e del dolore della sua ferita. O come la biografia di due giovani musicisti, Benji & Fede, che raccontano con freschezza il loro rapporto con le note, il talento, le correzioni di rotta e il successo. Mentre un altro musicista, il pianista James Rhodes, alla musica è arrivato dopo un’infanzia d’inferno.
Occorrono sguardi molto acuti per capire questo tempo: un teorico e artista come Gillo Dorfles, nato nel 1910, in dialogo con il filosofo e critico Aldo Colonetti, fa il punto sul passato e presente del design. E a proposito di un secolo come il Novecento, Pierluigi Battista si occupa di un periodo problematico del passato recente, gli anni Settanta. Sguardi acuti: come quelli dello scienziato Edoardo Boncinelli, che illustra origine e segreti del sospiro; o come gli occhi elettronici del Cnr che a Catania mostrano il mondo su scale più che microscopiche.
E poi le recensioni, il «Cartellone» dell’arte, la graphic novel di Federico Maggioni, le classifiche. Per scoprire infine la «storia delle storie»: un’infografica che mostra l’impressionante «parentela» chimica degli esseri umani con il pianeta commentata dal poeta Francesco Targhetta.
Repubblica 26.3.16
Sesso con minori, sospeso un prete
Indagato un sacerdote milanese: tra il 2009 e il 2011 adescò un ragazzo in chat. Il giovane avrebbe poi tentato il suicidio. Lo sconcerto del cardinale Scola: “La mia diocesi vuole verità e trasparenza”
di Sandro De Riccardis


MILANO. È stato sospeso con un atto ufficiale della Curia di Milano, il giorno del Venerdì santo, dopo che le gerarchie ecclesiastiche sono state informate dalla procura dell’esistenza di un’inchiesta per prostituzione minorile.
Don Alberto Lesmo, 48 anni, fino a due giorni fa parroco della chiesa di Santa Marcellina e decano al quartiere Baggio, periferia ovest di Milano, avrebbe avuto rapporti sessuali a pagamento con un minorenne per circa tre anni. Le indagini del procuratore aggiunto Piero Forno e del pm Giovanni Polizzi avrebbero accertato che il religioso, tra il 2009 e il 2011, quando la vittima aveva tra i 15 e i 17 anni, ha avuto «rapporti sessuali in cambio di corrispettivi in denaro variabili da 150 a 250 euro per volta». Ieri mattina è stato lo stesso cardinale di Milano, Angelo Scola, a rendere pubblico con un comunicato il provvedimento, e far conoscere così il caso. «La diocesi agisce per la verità e la trasparenza, è molto importante pregare per tutte le persone coinvolte», ha ribadito anche ieri sera, a margine delle celebrazioni in Duomo. E ieri anche nella piccola chiesa di Santa Marcellina, don Vittorio, il prete che ha sostituito don Alberto, ha fatto riferimento a quanto accaduto. «Viviamo un giorno di Passione che non è solo retorica, perché si concretizza nella nostra vita, e costa tanto anche perché abbiamo una persona amica, in cui abbiamo confidato». A rendere ancora più grave la vicenda, anche il fatto che la vittima fosse tossicodipendente e usasse il denaro ricevuto dal prete per comprare cocaina.
L’Arcidiocesi ha precisato che solo il 2 marzo è stata informata dell’indagine, nonostante don Lesmo sia stato perquisito in parrocchia già nel 2013, «senza che ne desse in alcun modo notizia ai suoi superiori». È stata invece la procura a informare la Curia di aver inoltrato al gup la richiesta di rinvio a giudizio per il prete, accusato di prostituzione minorile, e per un secondo indagato, Guido Milani, ex presidente di un centro ricreativo a Lecco, che non ha rapporti con il religioso, ma dovrà rispondere, oltre che di prostituzione minorile, anche di violenza sessuale e cessione di droga. Secondo le indagini, i primi contatti tra don Lesmo e il giovane sarebbe avvenuto in chat. Nell’inchiesta, emergono contatti anche con altri ragazzi, anche se non sono stati provati rapporti sessuali. Per il sacerdote la procura aveva chiesto l’arresto, negato dal gip.
Pesanti le conseguenze della vicenda sulla vittima, finita in ospedale nel 2011 dopo un tentativo di suicidio. Dalla denuncia dell’ospedale, è poi partita l’inchiesta. Ora anche la Curia milanese ha avviato un’indagine nel processo canonico. Sconcerto e disorientamento hanno manifestato invece i fedeli della piccola parrocchia, dove il sacerdote era stimato dall’intera comunità.
Repubblica 26.3.16
Sesso con minori, sospeso un prete
Indagato un sacerdote milanese: tra il 2009 e il 2011 adescò un ragazzo in chat. Il giovane avrebbe poi tentato il suicidio. Lo sconcerto del cardinale Scola: “La mia diocesi vuole verità e trasparenza”
di Sandro De Riccardis


MILANO. È stato sospeso con un atto ufficiale della Curia di Milano, il giorno del Venerdì santo, dopo che le gerarchie ecclesiastiche sono state informate dalla procura dell’esistenza di un’inchiesta per prostituzione minorile.
Don Alberto Lesmo, 48 anni, fino a due giorni fa parroco della chiesa di Santa Marcellina e decano al quartiere Baggio, periferia ovest di Milano, avrebbe avuto rapporti sessuali a pagamento con un minorenne per circa tre anni. Le indagini del procuratore aggiunto Piero Forno e del pm Giovanni Polizzi avrebbero accertato che il religioso, tra il 2009 e il 2011, quando la vittima aveva tra i 15 e i 17 anni, ha avuto «rapporti sessuali in cambio di corrispettivi in denaro variabili da 150 a 250 euro per volta». Ieri mattina è stato lo stesso cardinale di Milano, Angelo Scola, a rendere pubblico con un comunicato il provvedimento, e far conoscere così il caso. «La diocesi agisce per la verità e la trasparenza, è molto importante pregare per tutte le persone coinvolte», ha ribadito anche ieri sera, a margine delle celebrazioni in Duomo. E ieri anche nella piccola chiesa di Santa Marcellina, don Vittorio, il prete che ha sostituito don Alberto, ha fatto riferimento a quanto accaduto. «Viviamo un giorno di Passione che non è solo retorica, perché si concretizza nella nostra vita, e costa tanto anche perché abbiamo una persona amica, in cui abbiamo confidato». A rendere ancora più grave la vicenda, anche il fatto che la vittima fosse tossicodipendente e usasse il denaro ricevuto dal prete per comprare cocaina.
L’Arcidiocesi ha precisato che solo il 2 marzo è stata informata dell’indagine, nonostante don Lesmo sia stato perquisito in parrocchia già nel 2013, «senza che ne desse in alcun modo notizia ai suoi superiori». È stata invece la procura a informare la Curia di aver inoltrato al gup la richiesta di rinvio a giudizio per il prete, accusato di prostituzione minorile, e per un secondo indagato, Guido Milani, ex presidente di un centro ricreativo a Lecco, che non ha rapporti con il religioso, ma dovrà rispondere, oltre che di prostituzione minorile, anche di violenza sessuale e cessione di droga. Secondo le indagini, i primi contatti tra don Lesmo e il giovane sarebbe avvenuto in chat. Nell’inchiesta, emergono contatti anche con altri ragazzi, anche se non sono stati provati rapporti sessuali. Per il sacerdote la procura aveva chiesto l’arresto, negato dal gip.
Pesanti le conseguenze della vicenda sulla vittima, finita in ospedale nel 2011 dopo un tentativo di suicidio. Dalla denuncia dell’ospedale, è poi partita l’inchiesta. Ora anche la Curia milanese ha avviato un’indagine nel processo canonico. Sconcerto e disorientamento hanno manifestato invece i fedeli della piccola parrocchia, dove il sacerdote era stimato dall’intera comunità.

Corriere 26.3.16
La scienza ci spiega perché sospiriamo
Platone e Heidegger faccia a faccia
di Ida Bozzi


Storie che raccontano la realtà e noi stessi. Biografie, esperienze liete o difficili, ricerche, scoperte, invenzioni, tutte queste sono, in fondo, storie. Uno scrittore che confessa come nasce un romanzo su una città che non è la propria ma lo diventa in profondità. Una band giovane che svela l’ingrediente di una carriera musicale. Teorici e artisti che spiegano a quale punto stiamo in una storia dell’arte contemporanea. E molto altro.
Nel nuovo numero de «la Lettura», in edicola domani, sono tante le storie che ci parlano del mondo e di come è fatto. E sono inaspettate, come la vicenda che sta dietro al romanzo di Garth Risk Hallberg «Città in fiamme» (Mondadori) così come ce la racconta lo stesso scrittore parlando della bellezza di New York e del dolore della sua ferita. O come la biografia di due giovani musicisti, Benji & Fede, che raccontano con freschezza il loro rapporto con le note, il talento, le correzioni di rotta e il successo. Mentre un altro musicista, il pianista James Rhodes, alla musica è arrivato dopo un’infanzia d’inferno.
Occorrono sguardi molto acuti per capire questo tempo: un teorico e artista come Gillo Dorfles, nato nel 1910, in dialogo con il filosofo e critico Aldo Colonetti, fa il punto sul passato e presente del design. E a proposito di un secolo come il Novecento, Pierluigi Battista si occupa di un periodo problematico del passato recente, gli anni Settanta. Sguardi acuti: come quelli dello scienziato Edoardo Boncinelli, che illustra origine e segreti del sospiro; o come gli occhi elettronici del Cnr che a Catania mostrano il mondo su scale più che microscopiche.
E poi le recensioni, il «Cartellone» dell’arte, la graphic novel di Federico Maggioni, le classifiche. Per scoprire infine la «storia delle storie»: un’infografica che mostra l’impressionante «parentela» chimica degli esseri umani con il pianeta commentata dal poeta Francesco Targhetta.

Corriere 26.3.16
Karadzic e il genocidio la sentenza che non basterà
di Aleksandar Hemon


Permettetemi di esprimere un’ovvietà: il genocidio uccide, e uccide moltissima gente. Inoltre provoca traumi inauditi ai superstiti, mentre distrugge ogni punto di riferimento morale negli esecutori materiali. È questo il motivo per cui la sentenza emessa nei confronti di Radovan Karadzic all’Aia non ha accontentato nessuno in Bosnia-Erzegovina. Karadzic è stato ritenuto colpevole di dieci capi di imputazione su undici, per i quali è stato giudicato dal Tribunale penale internazionale della ex Jugoslavia e condannato a quarant’anni di prigione. È stato riconosciuto responsabile del genocidio di Srebrenica nel 1995, come pure di altri cinque reati contro l’umanità e quattro reati di guerra. Però è stato assolto dal reato di genocidio perpetrato in altri sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sono macchiate di esecuzioni e stupri di massa, hanno gestito campi di concentramento e perseguito alacremente una efficientissima campagna di «pulizia etnica», termine coniato dallo stesso Karadzic durante la guerra in Bosnia.
Benché sia assai probabile che Karadzic finirà i suoi giorni in carcere, il fatto che non gli sia stato comminato l’ergastolo ha scatenato la rabbia di moltissimi bosniaci. Il quotidiano di Sarajevo, Oslobodenje cita Ramiza Grudic, una madre di Srebrenica che ha perso marito e due figli, la quale definisce il verdetto «doloroso, vergognoso e tristissimo». Amir Kulagic, un superstite che ha perso una ventina di familiari, è altrettanto insoddisfatto: «La condanna che ha ricevuto sembra un premio per quello che ha fatto, non una punizione. Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Agli occhi di Ramiza e Amir, il verdetto rispecchia appieno una narrativa etica secondo la quale le vittime non hanno avuto giustizia, e non l’avranno mai. Esse vivono in un mondo che le aveva abbandonate allora, e che al giorno d’oggi, davanti alle loro sofferenze, solleva quel minimo di interesse che serve ad archiviare la guerra una volta per tutte, per non pensarci più.
I crimini di Karadzic e dei suoi complici, perpetrati dalle strutture e dai meccanismi da essi stessi instaurati e gestiti, hanno alterato per sempre la compagine morale della realtà in cui vivono i bosniaci. Il mondo come casa comune è un concetto ormai annientato, e resterà per sempre un ideale irraggiungibile, a causa delle devastazioni inflitte dalla violenza. «Karadzic è vivo», dice Ramiza, che a distanza di vent’anni cerca ancora le ossa del figlio più giovane. «Lui vedrà i suoi familiari, mentre noi abbiamo perso i nostri. Noi soffriamo e tutto il nostro strazio ce lo teniamo chiuso in petto».
Ecco le conseguenze del genocidio: esso crea nuove realtà, eliminando le persone considerate scomode o indesiderate. Quello che Karadzic si era proposto di fare, con il pieno sostegno dello stato serbo, controllato da Slobodan Milosevic, era di creare un territorio esclusivamente serbo che un giorno sarebbe entrato a far parte della Grande Serbia. I suoi crimini non sono stati gli incresciosi effetti collaterali di una guerra selvaggia nei Balcani (quel luogo immaginario, assetato di sangue, dove varie tribù si massacrano con una certa regolarità), bensì lo strumento primario di un progetto militare e politico per restituire grandezza alla Serbia. Il suo progetto nazionalistico, ben definito e altrettanto ben studiato, imponeva l’eliminazione, con qualunque mezzo necessario, della popolazione di fede musulmana da gran parte del territorio bosniaco, e a questo compito Karadzic si era dedicato con il massimo impegno.
E ci è riuscito. Circa un terzo del territorio bosniaco antecedente il conflitto, compresa Srebrenica, è stato assegnato ai serbi come parte dell’accordo di pace di Dayton, stipulato dall’inviato di Bill Clinton, il defunto Richard Holbrook. Etnicamente ripulita da cima a fondo, la Republica Srpska, ovvero la parte della Bosnia controllata dalla Serbia, formalmente fa parte della Bosnia Erzegovina, un paese il cui governo oggi è composto da quelle persone che hanno combattuto e ucciso per distruggerlo. Lo spirito e il retaggio di Karadzic pertanto esercitano tuttora la loro influenza sulla Republica Srpska, uno staterello nato dalla guerra e dal genocidio da lui orchestrato. Pochi giorni prima della sentenza, la casa dello studente a Pale, cittadina dalla quale fu lanciato l’assedio di Sarajevo, è stata battezzata con il nome di Karadzic. Con tutta la pompa degna del varo di una nave, alla cerimonia ha presenziato Milorad Dodik, il presidente della Republica Srpska, come pure la moglie di Karadzic, per inviare un messaggio chiarissimo a tutti gli interessati: Radovan Karadzic è uno dei padri fondatori della Republica Srpska, dove le sue gesta sono ammantate di eroismo. E così una fantasia genocida si è trasformata in storia ufficiale.
In altre parole, tutto in Bosnia rispecchia gli ideali di Karadzic, tranne forse la speranza che gli venga assegnata una cella confortevole in un carcere del civile Occidente, dove vivrà di sicuro molto meglio dei superstiti dei suoi massacri. I bosniaci speravano che avrebbe ricevuto una sentenza non solo commisurata alle perdite umane da lui inflitte, ma anche consona alla folle ambizione del suo progetto criminale della Grande Serbia, per il quale si era tanto prodigato. Una sentenza capace di rendere giustizia alle vittime per il tragico stravolgimento della realtà umana avrebbe ricucito il tessuto sociale lacerato, ma tale sentenza non appartiene al mondo dei comuni mortali.
(Traduzione di Rita Baldassarre )

Corriere 26.3.16
La giacchetta di Joan Miró
di Andrea Nicastro


Non sono passati politici all’inaugurazione della nuova mostra su Miró che si è aperta al Mudec. Meglio così. Da qualche anno Joan Miró non è più soltanto «il più surrealista di tutti noi» (copyright Andrè Breton), la firma contesa in aste milionarie, l’artista della musica su tela (e tanto altro ancora), ma è diventato un marchio prezioso anche per la politica.
La sua fama nasce tra le due Grandi Guerre assieme all’arte ribelle della Parigi che affollata com’era di profughi (già, fuggiaschi dai combattimenti e dalle dittature come i siriani di oggi) si trasformò in capitale morale e intellettuale del mondo. L’ultima parte della sua vita, invece, coincise con la svolta democratica spagnola del 1976 e così Miró offrì il suo pennello allegro e colorato per rappresentare la Spagna della movida e della ritrovata liberà. Dopo la morte, l’ultima giravolta: Miró viene promosso profeta del catalanismo, artista con il sogno inconfessato di vedere la sua Barcellona indipendente. Povero Joan, tirato per la giacchetta sporca di colori… lui così schivo, poche parole e una sola moglie, così lontano dall’effervescenza di quel Pablo Picasso che gli scriveva «Ma come puoi resistere tanto con la stessa donna?».
Due anni fa la vice presidente del governo spagnolo Soraya Saenz de Santamaria tenne un discorso all’apertura di una grande esposizione al Museo Albertina di Vienna. «Miró è un pezzo fondamentale della genialità di Catalogna e della storia di Spagna. Miró è spagnolo, è catalano, ma anche di tutti coloro che si avvicinano alla sua opera» disse Santamaria. Sembravano parole di circostanza, invece apriti cielo. Erano i giorni della Diada, la marcia in favore dell’indipendenza catalana, e arrivò una grandinata di critiche. «Miró era spagnolo di passaporto, non lo si può negare — scrisse ad esempio Joan M. Minguet sul sito web dell’Associació Catalana de Crítics d’Art —, ma vale ricordare che Miró ha sempre dichiarato la sua catalanità dalla famosa intervista del 1928 con il francese Trabal, fino al discorso del 1979 per la laurea honoris causa dell’Università di Barcellona; se ciò non bastasse la sua ossessione per i paesaggi catalani, la sua iconografia mediterranea». Insomma, altro che spagnolo, Miró era super catalanista.
L’appropriazione era cominciata qualche anno prima. Nel 2011 alla Tate di Londra, Vicenç Villatoro, presidente del centro catalanista Institut Ramon Llull, teorizzo la necessità dell’acquisto: «Miró non ha bisogno di noi per proiettarsi nel mondo, al contrario è la cultura catalana che necessita di ambasciatori della caratura di Miró per presentarsi al mondo» teorizzò senza vergogna. Difficile resistere alla tentazione d’iscrivere un tale campione nel proprio campo.
Chi non ci riuscì mai fu il regime franchista. Miró esule, Miró dissidente, Miró fu democratico e anti fascista, sempre e senza esitazioni. Anche quando, tornato a vivere in Spagna e il franchismo da dittadura era diventato dittablanda , l’artista non si mostrò mai affiancato al regime. «Dopo la Guerra Civile del ’36 — racconta Roberto Baravalle, scrittore e critico d’arte — tutti gli esuli erano anti franchisti. Erano i rappresentanti della Spagna oppressa, non della Catalogna occupata. Barcellona era serbatoio di opposizione, ma come tante altre regioni. Da lì ad accaparrarsi in chiave localistica il mito di Miró, ce ne passa».
Negli anni giovanili, il catalano Miró aveva lavorato al tentativo di francobollo Ayuda Espana e, in tarda età, aveva autorizzato l’utilizzo di due suoi simboli per la campagna di promozione turistica della nuova Spagna. Il «sole di Miró» è forse il marchio turistico più longevo del marketing internazionale, rivaleggia quanto a riconoscibilità con il cuore rosso di «I (love) New York». Abc, un giornale super unionista, mette l’artista tra le dieci ragioni perché la Catalogna non si stacchi dal resto di Spagna e cita proprio l’ok del genio all’uso del suo «sole» sui cartelli turistici: «Per il re e per il governo, tutto gratis». Il contrario di ciò che sostengono i catalanisti. Per loro, Miró era un cripto-indipendentista. In occasione del dono al museo di storia cittadina del manifesto del 1977 «Votem l’Estat», «Votiamo lo Statuto», il consigliere (indipendentista) alla cultura Joan Manuel Tresserras si lanciò in una lettura pro domo sua dell’opera. «Osservando bene le lettere, si può notare che l’artista suggeriva un secondo livello di lettura, non Votem l’Estat, ma Volem l’Etat, cioè vogliamo lo Stato». Teresa Montaner, curatrice responsabile della Fondazione Miró di Barcellona, si tiene lontana dalle polemiche: «Il catalanismo dell’artista è indiscutibile — dice —, nelle sue fonti di ispirazione, nel primitivismo contadino. Ma è un catalanismo vitalistico, non politico». Per favore, attenti a quella giacchetta.

Corriere 26.3.16
La lotta continua con la materia
Così ascoltava le voci delle cose
I lavori dagli anni 30 (quando «dichiarò guerra» alla pittura) agli 80
di Roberta Scorranese


All’alba del 1930, a Mosca Vladimir Majakovskij si conficcava un proiettile nel cuore; a Rapallo, Ezra Pound pugnalava il moderno sistema finanziario, accusando gli interessi dominanti del capitalismo; a Parigi, Joan Miró decideva di uccidere per sempre la pittura.
Un’invisibile ma dirompente forza distruttiva ha attraversato le avanguardie tra le due guerre mondiali. E la mostra che si apre al Mudec di Milano, Joan Miró: la forza della materia , è il racconto di questo annientamento dell’arte che il catalano decise di compiere quando, quasi quarantenne, entrò in una grave crisi.
Andava e veniva da Parigi, città dove il Manifesto Surrealista di André Breton aveva sancito la predominanza degli automatismi psichici «in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione» e dove poeti come Paul Éluard scrivevano versi quali «Villages de la lassitude/Où tous les êtres sont pareils». Che senso poteva ancora avere la pittura tradizionale? Non era forse meglio lasciar parlare la materia, scavare nei supporti (tavola, tela, carta, ferro) e fare in modo che quelle voci incastrate lì dentro da millenni si esprimessero finalmente con la propria lingua? Gruppo di personaggi nel bosco del 1931 apre il viaggio (curato dalla Fundació Joan Miró di Barcellona sotto la direzione di Rosa Maria Malet).
Gli sfregamenti sulla tela, come un ossessivo interrogare le cose inerti, lasciano tracce che si ribellano al colore dello sfondo. Ferite. Come La voce umana , dramma dell’anno prima scritto da Jean Cocteau: la donna abbandonata che inutilmente interroga una voce dall’altra parte del telefono, che non risponde mai. Questa sordità delle cose turbava profondamente Miró, che prese a immaginare figure biomorfe, uccidendo le identità e persino i nomi: se negli anni precedenti era arrivato a chiamare le sue opere «X» perché (sinceramente) non sapeva più che cosa fossero, adesso sceglie denominazioni come Senza Titolo o Personaggi e uccello (in mostra). Che cosa fare? All’inizio degli anni Quaranta, quando Picasso rifletteva sull’allegoria giorgionesca con Le tre età dell’uomo , Miró ingaggiava un corpo a corpo con la carta, raschiava la superficie, scartavetrava la parte colorata.
E si allontanava sempre di più da quell’umanità imbarbarita che stava distruggendo il suo Paese e il mondo intero. Le costellazioni hanno origine da questo costante senso di estraneità rispetto al vivere — l’acquerello Donne, uccello, stelle è del 1942, lo stesso anno in cui uscì Lo straniero di Camus, romanzo mosso da un eguale istinto distruttivo.
E tale ininterrotto duello con la pittura raggiunge il sublime con Dipinto , del 1960: sottilissimi segni e macchie di colore su una tavola di legno, la vera protagonista dell’opera, con tutti i suoi difetti (nodi e cicatrici). Un manifesto: l’arte è anche quello che non si vede. È l’incertezza del tratto, è la scultura volutamente istrionica (molto belle quelle in mostra), è il disegno sottostante, è la poesia di un legno rovinato dal tempo e dalla pioggia.

Repubblica 26.3.16
Dilma Rousseff.
“Contro il mio governo è in atto un golpe vogliono che mi dimetta ma io difenderò Lula”
La presidente del Brasile: “Il giudice Moro usa metodi illegali io lotterò per la nostra democrazia”
Hanno creato una situazione pericolosa di caos Non vorrei che spuntassero i salvatori della patria
di Antonio Jiménez Barca


BRASILIA. Nelle ultime due settimane il Brasile è in subbuglio. Dilma Rousseff ne parla nel suo enorme studio da presidente a Brasilia, a cominciare da quello che la riguarda più da vicino: la procedura d’impeachment che si è già messa in moto e minaccia di allontanarla dalla presidenza in meno di un mese. «Legalmente è molto debole. Ed è stata lanciata perché il presidente del Congresso, Eduardo Cunha (nemico della Rousseff, anche se appartiene al Partito del movimento democratico del Brasile, formazione in teoria sua alleata, ndr), ha minacciato il governo: se non avessimo votato contro un’indagine a suo carico, lui avrebbe messo in moto la procedura. Cunha è stato denunciato dalla procura generale della Repubblica perché hanno trovato cinque conti illegali a suo nome».
Lei dice che il Brasile, con questa procedura, potrebbe subire un colpo di Stato.
«In Brasile abbiamo già avuto golpe militari. In un sistema democratico, i golpe cambiano metodo. E un impeachment senza basi legali è un golpe. Rompe l’ordine democratico, per questo è pericoloso».
Ma come reagirà di fronte a una sconfitta? Che cosa farà se dovesse perdere?
«In una democrazia bisogna reagire in forma democratica. Ricorreremo a tutti gli strumenti legali per evidenziare le caratteristiche di questo golpe. Ma vi consiglio di interrogarvi su chi sono i beneficiari di tutto questo: molti di loro non sono ancora nemmeno entrati in scena, rimangono sullo sfondo. Come il caso della divulgazione delle conversazioni (fra lei e Lula, diffuse dal giudice Sérgio Moro, ndr): è una cosa che non si può fare. L’atteggiamento corretto non era divulgare la registrazione, ma inviarla al Tribunale supremo federale, che è l’organo che ha il diritto di indagare su di me. Un giudice non può giocare con le passioni politiche. Nessuno può destituirlo, ma lui in cambio dev’essere imparziale. E poi c’è la faccenda delle dimissioni. Chiedono che mi dimetta. Perché? Perché sono una donna fragile? Non lo sono. La mia vita non è stata così. Vogliono che rinunci per evitare di dover cacciare in modo illegale una presidentessa eletta. Sono convinti che io mi senta ferita, sconcertata, sotto pressione. Ma non mi sento così. Non sono così. Ho avuto una vita molto complicata, figuratevi se non sono capace di lottare adesso. Quando avevo 19 anni sono stata in carcere per 3 anni durante la dittatura, e il carcere di allora non era una cosa da ridere».
Molti hanno criticato la nomina di Lula sostenendo che era semplicemente uno stratagemma giuridico per sfuggire alla giustizia, grazie all’immunità garantita dalla carica di ministro.
«Pensare che diventando ministro sfuggirebbe alla giustizia è vedere un problema dove non c’è. Può essere indagato dai magistrati del Tribunale supremo federale. La verità è che non vogliono che venga al governo. Ma Lula verrà, come ministro o come consigliere: in una maniera o nell’altra, verrà. È mio amico, l’ho aiutato durante i suoi due mandati. Mi piace molto lavorare con lui. Non mi preoccupa minimamente che Lula possa togliere lustro alla mia presidenza.
Una delle conseguenze di questa crisi è la sfiducia assoluta dei brasiliani verso i politici… «È una conseguenza grave, perché quando si comincia a mettere in discussione i politici, in Brasile spuntano fuori i salvatori della patria. Prima si crea il caos e poi arrivano quelli che salvano dal caos. Noi siamo favorevoli a un compromesso, ma si deve fare senza rotture della democrazia, senza tentativi infondati di impeachment».
Teme un’esplosione sociale, considerando la crescente instabilità del paese e la sua progressiva polarizzazione?
«Le esplosioni sociali nascono soprattutto dalla disuguaglianza e dalla povertà. Noi, in forma democratica, negli ultimi anni abbiamo fatto entrare nella classe media 40 milioni di persone e abbiamo riscattato dalla povertà altri 36 milioni».

Repubblica 26.3.16
Cristiani o no siate giusti e sarete salvi
Il senso vero della Pasqua è che la redenzione riguarda tutti gli esseri umani ed è legata al bene e all’amore
È estranea alle parole di Gesù l’idea che solo chi crede possa rialzarsi dalla caduta
di Vito Mancuso


«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni», dichiarò il cardinal Martini nell’ultima intervista, ma io penso che tale ritardo ecclesiastico sia l’espressione di un più preoccupante ritardo del cristianesimo in quanto tale, sempre più incapace di sostenere il suo annuncio fondamentale. Fa problema il centro stesso della fede cristiana, cioè la salvezza. Come pensarla? Qual è la sua specificità? Roger Haight, gesuita americano, descrive così la situazione: «Il significato della salvezza rimane elusivo; ogni cristiano impegnato sa che cos’è la salvezza finché non gli si chiede di spiegarla ». Non c’è religione senza salvezza, ci sono religioni senza Dio, nessuna senza salvezza. Per il cristianesimo la salvezza scaturisce dalla
Pasqua di Cristo, al cui riguardo si legge nel Catechismo cattolico: «Vi è un duplice aspetto nel Mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita» (art. 654). Questo è il centro del messaggio: la salvezza come redenzione operata da Cristo. Il concetto di redenzione è sconosciuto alle altre religioni: Mosè, Buddha, Confucio, Maometto sono legislatori, maestri, profeti, saggi, non redentori, non sono cioè essi a dare la salvezza, che è invece ottenuta dai fedeli seguendo i loro insegnamenti. Il cristianesimo si distingue perché ritiene l’umanità corrotta dal peccato originale e incapace di meriti spirituali, e quindi annuncia la salvezza come operata gratuitamente da Dio mediante la redenzione ottenuta da Cristo. Ogni anno la Pasqua è la solenne celebrazione di questo evento. Esaminando la storia di tale dottrina si vede che il primo a formularla fu San Paolo. Egli scrive: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» ( Romani 3, 23-25). Paolo afferma che la morte di Cristo è stata voluta direttamente da Dio e altrove aggiunge: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» ( 2 Corinzi 5,21).
Leggendo i suoi scritti in ordine cronologico si scopre però che non sempre San Paolo la pensava così. Nella sua lettera più antica infatti egli non parla della morte-risurrezione di Cristo come di un atto redentivo, né dell’evento salvifico come già avvenuto. Al contrario per lui la salvezza deve ancora attuarsi. Ecco come: «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi per andare incontro al Signore» ( 1Tessalonicesi 4,16-17). Paolo scrive che Cristo è morto «per noi», ma non fa dipendere la salvezza da quella morte, prova ne sia che non ritiene quest’ultima voluta da Dio (come invece sosterrà in seguito) ma dagli ebrei, come appare da queste parole destinate nei secoli ad alimentare l’antisemitismo: «I giudei hanno persino messo a morte il Signore Gesù e i profeti, e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini » (2,15-16). Qui non c’è un piano di Dio che manda il Figlio a morire, c’è piuttosto l’inimicizia degli ebrei che hanno ucciso Gesù, il quale però è stato risuscitato da Dio a chiara dimostrazione della mutazione della storia che si realizzerà con il suo imminente ritorno. La stessa impostazione si ritrova in 1Corinzi.
San Paolo cambia presto prospettiva ed è facile capire il perché: la mancata venuta di Cristo lo induce a porre il centro focale non più nel futuro ma nel passato, Cristo è il salvatore non perché tornerà vittorioso ma perché è morto offrendosi al Padre e riconciliandoci a lui con il suo sangue. Cristo diviene così il redentore crocifisso. È in questa luce che vent’anni dopo vengono composti i Vangeli. Essi però, riportando anche il pensiero di Gesù, permettono di sollevare la questione decisiva: Gesù pensava la salvezza come redenzione oppure, da ebreo osservante, la legava al responsabile esercizio della libertà?
Vi sono testi evangelici in linea con la teologia della redenzione, per esempio quando Gesù dice di essere venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti» ( Marco 10,45) o quando nell’ultima cena pronuncia le note parole: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » ( Matteo 26,28). Nei Vangeli però vi sono molti altri testi che presentano la salvezza legata non a un evento esterno ma alle azioni liberamente poste, secondo la tradizionale concezione ebraica della salvezza come esito della fedeltà all’alleanza, cioè come giustizia. Io penso anzi che a Gesù la dottrina della redenzione non sarebbe piaciuta per nulla, c’è tutto il Discorso della montagna a dimostrarlo, a partire dalle parole del Padre Nostro sul ruolo attivo della libertà: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Gesù prosegue: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdone- rà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» ( Matteo 6,12-15). La mossa decisiva spetta alla libertà umana, la quale per Gesù è in grado di operare anche il bene perché non è irrimediabilmente corrotta, come invece dirà San Paolo e più radicalmente Sant’Agostino.
L’idea di una libertà efficace in ordine alla salvezza si ritrova in molti altri passi evangelici tra cui: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» ( Matteo 7,2). Il principio salvifico è quindi legato alla prassi responsabile: «Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» ( Matteo 7,21). Il Discorso della montagna, cuore del messaggio di Gesù, è un appello alla libertà quale via efficace per il conseguimento della salvezza.
A questo punto appare evidente la problematicità della successiva costruzione teologica cristiana basata sulla redenzione, da cui la difficoltà nel rispondere alle seguenti questioni: 1) In cosa consiste propriamente la redenzione operata da Cristo? 2) L’atto redentivo vero e proprio è la morte di croce o è la risurrezione? 3) Qual è la sorte di chi non vi partecipa? 4) Da cosa si viene redenti: dalla morte, dal Diavolo, dall’egoismo, dal mondo, dal castigo di Dio, dalla Legge, dal peccato, o da tutto questo messo insieme? La radice dell’aporia risiede a mio avviso nell’idea di una specificità cristiana della salvezza in quanto legata a un determinato evento storico, cioè nell’impostazione data al cristianesimo da san Paolo ed estranea a Gesù. In realtà occorre pensare che la salvezza è sempre stata disponibile agli esseri umani, a qualunque religione o non-religione appartengano, perché è legata al bene e alla giustizia. È il Vangelo ad affermarlo: «Venite, benedetti dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito» ( Matteo 25,34-36). Nel Libro dei Morti dell’antico Egitto vi sono parole analoghe: «Ho soddisfatto Dio con ciò che ama: ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (cap. 125). Il testo risale a 1500 anni prima di Cristo e dicendo le stesse cose mostra il vero senso della salvezza, che mai mancò al genere umano, ben prima del cristianesimo storico: la liberazione dall’ego e l’apertura al bene, all’amore, alla giustizia. Io ritengo non implausibile pensare che, in chi pratica questo stile di vita, possa generarsi una peculiare disposizione della sua energia costitutiva (ciò che tradizionalmente si chiama anima) in grado di vincere la curvatura dello spazio-tempo.

il manifesto 26.3.16
Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte
Iconografie. I due gemelli ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino
di Raffaele K. Salinari


Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama in gioco nella deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio Laodamia, della stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è ferito a morte da Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue, avvolgerlo nelle bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri. Indistinguibili nell’aspetto esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari simbolici che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura iconografica: mentre Hypnos non sembra avere tratti caratteristici, suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta, simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi intrecciati, rimando alla posizione in cui venivano sepolti i morti nell’antica Grecia.
Nelle teogonie classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione intrinsecamente complementare; è questo a determinare in essenza il mitologema che li accomuna: stati speculari che trapassano l’uno nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla Tenebra infera, l’Erebo. E dunque, seppure generati della combinazione delle stesse Potenze – la notte che porta i sogni e la esiziale tenebra eterna – le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari sì, ma non per questo identici; anzi. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.
È in questo luogo inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo trae le anime, ma non permette loro di uscirne. La loro specularità è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi molteplici figli, tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o subire alcuna violenza» – come afferma Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di un’affinità evidente – ed, al contempo, permette ai corpi di uscire ed entrare in lui. Al contrario, il suo gemello senza figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece allo stato del non essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal corpo mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono indispensabili al gesto della deposizione, che dunque simboleggia il passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.
Il sonno ed il suo sognare
A differenza degli antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci vita alcuna nel «sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per poi ritornare, ed unirsi, al «corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non rappresentava che il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo del sonno profondo», imbalsamato nella mummia – involucro necrico di preservazione per questo stato particolare – non era solamente una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita immortale.
Nell’antico Egitto è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua «immensità indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su queste credenze. Per la Grecia classica, al contrario, il sonno portatore di sogni è una componente determinante della vita; possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi, incubare sogni – dormire cioè in un luogo ritenuto sacro – significava entrare in contatto diretto con il numinoso, con l’Invisibile. Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da sogni e visioni, apparizioni oniriche di ombre che li visitano e li guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro dell’Iliade, «Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo. L’ate, lo stato d’animo che spesso domina l’agire dei guerrieri iliaci, altro non è che un temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di onirismo che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a rifarsi per la perdita della concubina portando via ad Achille la sua. D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o fare un sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma «gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà onirica di influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.
Sul Cratere di Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C., attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la scena della deposizione di Sarpedonte è magistralmente raffigurata. Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome ma, ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come se fosse riflesso nell’oggetto che, elettivamente, permette di coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio. Qui è dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è quest’ultimo che interagisce con la vita; è la vita stessa, mentre la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia nella morte. Non basta, allora, solo il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo significato essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso su di una superfice che rimanda al vivente l’immagine della sua ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di Hypnos, cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente, un giorno passerà dal sonno alla morte.
Passano i secoli e vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino. La tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo soltanto quelli la cui anima è portata da questi particolari messaggeri. Nella Parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso che gli attribuisce questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo” (Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura apocalittica giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes che coprono il corpo «con lini preziosi e lo ungono con olio fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una fossa scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione finale».
Il «Compianto»
E così vediamo che, nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di Eufronio, i due gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di battaglia per depositarlo nel suo sacello in Lidia. Il gesto è dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei secoli, verrà ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da questo schema e con gli stessi personaggi simbolici: il Sonno e la Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla nuova narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta figura del «Compianto», cioè nella deposizione del Cristo Morto sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella che è la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio Verginis.
In particolare il Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa immagine viene dipinta più frequentemente e con più attinenza all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie del Vangelo apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di Giorgio di Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa scena vengono però dalle miniature bizantine del IX secolo, in cui inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto: Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio che, come vedremo, altro non sono che le trasposizioni in chiave cristiana di Hypnos e Thanatos.
In più, se prendiamo le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno (329-390), Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino Basilio I – attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia – vediamo chiaramente come le posture delle figure di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos e Thantos sul Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre San Giuseppe, come Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare ordini ai due. In questa immobilità, in questa ieratica staticità delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo dell’immagine originaria presente nel canto omerico e ripresa dal ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione di un essere divino. Il cosiddetto Threnos – la figura composta dai quattro personaggi visti nel loro insieme – è dunque originato da questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa che invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio dalla vita alla morte.
Ma certo la postura delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento della Vergine e di altri personaggi di contorno, non basta a verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco, della Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo omologo bizantino. E allora, per far combaciare ulteriormente le due rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi rappresenta Thanatos e chi Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata dai Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è Thanatos mentre Nicodemo è Hypnos, perché?
Giuseppe di Arimatea e Nicodemo
Giuseppe di Arimatea è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo e così rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui abbiamo già un attributo chiaro che lo identifica con Thanatos: è lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth. Dichiarare deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della croce, non era un compito facile. Bisognava avere una certa esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel modo, poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti. E dunque chi meglio di Thanatos riconosce, per così dire, la sua opera? Ma non è tutto.
Giuseppe di Arimatea ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla morte: Anubis. Infatti gli attributi della divinità dei morti egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione», «Colui che è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le tombe, ed infine «Colui che è nelle bende» intendendo non solo le bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed è proprio Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi sia gli unguenti per lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba scavata appunto sul fianco di una montagna. Dal lato opposto troviamo invece Nicodemo-Hypnos.
Anche qui l’archetipo muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo alla sua figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti, vive, per così dire, una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la Barca. I sogni che marcano la sua figura, tutti inerenti la deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si racconta che Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine di Gesù Morto così come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne il Volto. Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la sorpresa di vedere l’opera compiuta da mano angelica.
Qui appare evidente la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura divina, come magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo studioso delle icone è il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo sguardo, che egli definisce come vero e proprio «simbolo ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare» e dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba, al «corpo del sonno profondo» del Cristo.
Dice ancora Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo visibile da quello invisibile, ed in tal modo congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si badi bene del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice riproduzione, cioè di una mera ed imperfetta maschera funeraria, diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque, attraverso il suo sonno profetico, in diretto contatto col suo stesso volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile», conclude Florenskij. Influenzato a vita dal suo primo sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a Isacar, uomo giusto e timorato di Dio.
Di generazione in generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento anni dopo, nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in sogno lo stesso angelo scultore che gliene svelò la presenza. La scultura fu collocata allora su una barca affidata alla Divina Provvidenza perché la facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono poste anche due ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe d’Arimatea con Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi era allora un Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi, al quale apparve in sogno l’angelo che gli suggerì di andare a Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E dunque la catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo protetto dove simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.
La Dormizione di Maria
Ma la figura che chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e sussume entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il Sonno e la Morte riportandole all’unità originaria, è certamente quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La Madonna altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima ipostasi della Grande Madre, della Grande Potnia mediterranea, dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica prima dell’avvento delle divinità legate al patriarcato.
È lei che crea tutto, che è tutto. Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le prime Potenze, i Titani ed Eros protogeno, la Notte ed Erebo – dai quali vengono poi generati i «gemelli veloci» – via via enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi figli e, al tempo stesso, sue manifestazioni. E dunque neanche la spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice la potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la Creazione è generata e curata da una Essere dalle qualità femminili. Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia cristiana, è certamente quello della Madonna della Misericordia che, sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il Creato, morti inclusi.
Perciò Maria non può morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e viene assunta in cielo in questo stato peculiare, unico, come si conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha generato, partorito e curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che senza il suo sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la carica resurrezionale che emana dal suo Volto intenso ed estatico, il Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo. Come la Basilinna durante le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per rigeneralo e consentirgli di riprendere il ciclo della vita indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla morte del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che la quintessenza della sua stessa definizione secondo Georges Bataille: portare la vita sin dentro la morte. «Ti sei addormentata ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano».
Così recita il testo di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che diviene madre partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era Colui che veniva generato; così nella tua Dormizione vitale, tu sola a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e di corpo» dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma della Immacolata Concezione senza per questo dover rinnegare la forza numinosa dell’archetipo precristiano. Non a caso la Festa della Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai secoli VI e VII, ed è originariamente legata alla comunità di Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio della cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della Grande Madre che tutto può perché tutto è. E così nel suo sonno eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.