giovedì 21 aprile 2016

Repubblica 21.4.16
La classifica.
Nella graduatoria di Reporter senza frontiere, l’Italia finisce soltanto al 77esimo posto A penalizzarla il parametro delle aggressioni “fisiche e verbali” ai cronisti. Soprattutto da parte delle mafie
Minacce e processi ai giornalisti ecco perché la stampa è meno libera
diu Cristina Nadotti

ROMA. Giornalisti querelati in maniera pretestuosa, insultati e minacciati, soprattutto dalle mafie. È per questo che l’Italia scivola al 77esimo posto nella classifica stilata da Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa. Il rapporto annuale dell’organizzazione non governativa denuncia un’informazione in pericolo in gran parte del mondo, con pochi segnali di ottimismo e tanta preoccupazione per la crescita di conflitto d’interessi, ideologie ostili alla libera circolazione di idee e leader politici sempre più paranoici nei confronti del quarto potere. In questo quadro generale , l’Italia peggiora la sua posizione rispetto al 2015, quando era 73esima, e nell’Europa dove la libertà di stampa resta comunque un valore fondamentale si colloca tra gli ultimi, davanti soltanto a Cipro, Grecia e Bulgaria, comunque dietro a Moldova, Nicaragua Armenia e Lesotho.
A penalizzare l’Italia sono gli indicatori usati dal World Press Freedom Index, che misura il livello di libertà dei giornalisti in 180 Paesi valutando pluralismo, indipendenza dei media, ambiente in cui si opera e autocensura, provvedimenti di legge in materia, trasparenza, infrastrutture e abusi. Così come accade per la nostra economia, a rallentare l’informazione sono soprattutto la corruzione e il crimine organizzato perché, sottolinea il rapporto, «il livello di violenza contro i giornalisti (incluse violenze verbali, intimidazioni fisiche e minacce di morte) è allarmante ». A sostanziare le argomentazioni di Rfs ci sono i dati di “Ossigeno per l’informazione”, l’osservatorio promosso da Federazione della stampa e Ordine dei giornalisti sui cronisti minacciati, e l’ultimo rapporto della Commissione parlamentare antimafia. Dal 2006, quando Ossigeno ha cominciato a raccogliere i dati, il numero di minacce ai cronisti è cresciuto in maniera costante, con 2763 casi totali, di cui 528 nel 2015 e già 90 nel 2016. Le minacce più frequenti, come indicato anche da Rsf, sono le querele per diffamazione ritenuta poi pretestuosa, gli insulti e abusi del diritto. Ma non mancano le minacce personali (13 nel 2015) e di morte (6 casi lo scorso anno) e le 8 aggressioni gravi. I dati italiani indicano anche che sono i giornalisti della carta stampata a ricevere più minacce, con 119 casi nel 2015, seguiti da chi scrive per il web (80) e per la televisione (51). Ma la situazione potrebbe essere anche peggiore, poiché l’Osservatorio sottolinea che dietro a ogni intimidazione documentata in Italia almeno altre dieci restano ignote, perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche. Una forza, è l’allarme lanciato dal rapporto di Rsf che rischia di venire meno in tutta Europa, dove a minacciare l’indipendenza dei giornalisti c’è spesso il conflitto di interessi, visto che i gruppi editoriali sono spesso di proprietà di imprenditori i cui affari possono essere danneggiati da inchieste e indagini giornalistiche.
Repubblica 21.4.16
La classe media rimasta senza lavoro. Un j’accuse contro il neoliberismo
Continuano a chiamarla flessibilità
di Richard Sennett

Sono passati quasi vent’anni da quando scrissi “L’uomo flessibile”, uno studio sui cambiamenti nell’economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo
le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego.
Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.
Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo faber, l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima.
Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull’assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini.
La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”. La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro.
In Gran Bretagna stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non sono d’accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori (per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo), semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo lavoro, perfino acquistando l’intera Tata Steel per per fare in modo che i lavoratori vadano avanti. Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.
Non sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of Economics.
È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l’idraulico, l’elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse.
Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.
Repubblica 21.4.16
Da Atene a Auschwitz chi ha tradito la democrazia
di Ezio Mauro

La lezione di Jules Isaac un inno alla libertà oggi sempre più attuale

LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo
rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac». Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire. Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo. Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia — spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio — Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni — la metà dei tempi storici — separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato ». La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male. Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto. Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei. «Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici. Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento». La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia — quella che fu la Francia — il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
IL LIBRO Jules Isaac Gli Oligarchi ( trad. P. Fai Sellerio pagg. 392 14 euro)
Repubblica 21.4.16
“First Lady mostro” In Israele è bufera su Fiamma Nirenstein
È la candidata di Netanyahu
di Fabio Scuto

GERUSALEMME. «La scelta dell’ex parlamentare italiana Fiamma Nirenstein come prossimo ambasciatore di Israele a Roma è stata controversa fino ad ora soprattutto a causa dell’opposizione da parte della comunità ebraica italiana e di vari ministeri italiani. Ora, sembra che i commenti scritti in passato come giornalista che ha “coperto” Israele per diversi media italiani potrebbero anche causare qualche dispiacere nell’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu».
Haaretz torna così per la seconda volta in una settimana sul caso Nirenstein, sul quale il quotidiano liberal israeliano ha già espresso il suo giudizio negativo, anche per i diversi “conflitti di interesse” che suscita sia in Italia che in Israele.
L’articolo dell’insider diplomatico del giornale cita un pezzo scritto dalla Nirenstein del 1996 in cui si riferiva alla moglie di Netanyahu, la potentissima Sara, come a «un mostro vestita da first lady ». L’articolo — che come scrive Haaretz è ancora sul sito ufficiale italiano della Nirenstein — è quasi un tiro a segno, il cui bersaglio unico è Sara. È descritta come nevrotica ossessiva, soggetta a scatti d’ira, affetta da avarizia ossessiva. Incapace nel ruolo di first lady e spregiudicata nell’uso pubblico della famiglia.
Giudizi di venti anni fa, ma che potrebbero dispiacere al premier, e soprattutto indispettire la potentissima consorte. È noto a tutti a Gerusalemme che qualsiasi nomina, investitura, candidatura decisa dal primo ministro passa prima per il vaglio della moglie. Bibi e Sara sono, come scrivono i giornali israeliani, un “brand” indissolubile, nonostante le molte disavventure, le gaffes, gli scandali sulle spese e le questioni legali con il personale di servizio, inciampi sui quali il gossip impazza sempre. Ma tutti sanno a Gerusalemme che “chi tocca Sara muore”, ne hanno fatto le spese diversi parlamentari, diplomatici, membri dello staff, ministri e anche un capo del Mossad.
Netanyahu finora si è molto speso per difendere una candidatura avversata da tutti: ministero degli Esteri israeliano, comunità italiana in Israele, comunità ebraica romana. C’è stato anche un “discreto” messaggio del governo italiano, smentito poi da Palazzo Chigi con due righe che non hanno convinto nessuno. Fiamma Nirenstein non è il primo caso di un cittadino israeliano nato all’estero ad accedere al ruolo di ambasciatore — come Micheal Oren nato negli Usa e negli anni scorsi rappresentante all’Onu — ma nessuno è mai stato prima parlamentare di un altro Stato.
Finora il premier ha ignorato i già noti conflitti di interesse — una pensione dallo Stato italiano, è stata dipendente del Ministero degli Esteri italiano, un figlio nell’Aise — e un’età (71 anni) nella quale i diplomatici israeliani sono già in pensione da diverso tempo. Ma adesso se si scatenano le famose “ire di Sara” la nomina diventa davvero difficile. La sensazione è che un suo passo indietro volontario, sarebbe in questo momento apprezzato da tutti. Anche da Sara.
il manifesto 21.4.16
Scosse politiche e sociali nel «sogno cinese» di Xi
Scaffale. Dalla politica estera e il terrorismo alla nuova sensibilità sociale e conflittuale della letteratura degli operai migranti
di Simone Pieranni

L’intento è pregevole: la casa editrice Carocci ha inaugurato il primo di una serie di volumi annuali sulla Cina, per darne un’immagine vivida e originale, capace di spaziare dal dettaglio politico a quello più culturale e sociale.
Si tratta di Cina Report, il cui primo numero ha come titolo Politica, società e cultura di una Cina in ascesa – L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato – a cura di Marina Miranda (20 euro). E lo scopo – nei contributi di sinologi italiani – è indagare questo primo periodo del regno di Xi Jinping da una prospettiva di studio, provando a capire a che punto è il «sogno cinese» promesso dal nuovo leader.
La curatrice del volume nell’introduzione specifica l’intento dell’opera, sancito dall’utilizzo di fonti per lo più cinesi per una comprensione contestualizzata di quanto accade in Cina; in questo modo si sottolinea una distanza di metodo rispetto al lavoro quotidiano dei mass media. Si tratta di una puntualizzazione ovvia dato che i due mondi dovrebbero riuscire a dialogare, poiché nel mondo dell’informazione la Cina riveste ormai un ruolo di primo piano ed è naturale una sua progressiva conoscenza da parte del pubblico, anche attraverso una proposta informativa che può rischiare la parzialità.
Del resto gli spazi e le modalità di espressione sono diverse tra un articolo (che pure può utilizzare fonti in lingua originale) e un saggio, ma è altresì importante che il mondo della sinologia cerchi di puntualizzare alcuni aspetti.
Particolarmente interessante nel volume appare il capitolo dedicato alla lettura degli eventi siriani da parte della Cina a opera di Sara Pilia. Dall’analisi di articoli scritti da autori cinesi si evince come Pechino guardi con sospetto a ogni mutamento di regime nelle aree dove ha interessi; la Cina appare preoccupata da quanto potrebbe accadere in Africa e – come sottolineato su Foreign Affair da un analista cinese (ormai la rilevanza internazionale cinese permette anche di utilizzare fonti originali di autori che scrivono in inglese su importanti riviste mondiali) – la Cina sembra possibilista rispetto a una vicinanza con la Russia, purché questo legame non diventi formalmente un’alleanza, data l’esistenza di molti potenziali punti di frizione tra i due paesi. Altresì Pechino appare preoccupata di quanto sta accadendo in Africa, dove i suoi interessi e investimenti sono ingenti e dunque più a rischio a causa del dilagare dell’estremismo islamista.
Sulla stampa cinese analizzata non mancano riferimenti al terrorismo interno, nella regione del Xinjiang, che da sempre la Cina pone sul piatto della bilancia internazionale. Pechino sembra disposta a occuparsi del terrorismo internazionale, purché venga riconosciuto il «suo» problema interno. E a proposito di questioni interne spicca anche l’analisi del fenomeno dei cosiddetti «indignati» cinesi (fenqing) contro l’atteggiamento dei media occidentali rispetto alle isole contese con altri paesi asiatici.
Interessante è il focus del volume sulla poesia degli operai migranti (dagong shige) che permette a Serenza Zuccheri, autrice del capitolo, una prima ricapitolazione della presenza di Antonio Gramsci nella storia sociale cinese e in seguito una digressione sulla nuova generazione di operai, distinta dalla precedente disposta ad accettare salari bassi per poi tornare nelle campagne e comprare una casa.
Ripercorrendo la nascita del genere poetico «migrante» Zuccheri apre uno squarcio su una categoria subalterna e, scrive Zuccheri, «quando parliamo di poesia dagong ci riferiamo a quei componimenti scritti da operai migranti in possesso di un’istruzione di tipo tecnico- specialistico di livello medio alto rispetto alla maggior parte dei membri della loro comunità». Non solo, perché rispetto a una precedente letteratura operaia, iscrivibile all’interno della «letteratura del dolore» promossa dal Partito nei primi anni post rivoluzionari, la poesia cui si riferisce Zuccheri «è una denuncia della crudeltà e disumanità prodotta da un capitalismo globale presente e non da un’utopia del passato». Storia subalterna, poetica del conflitto, come testimonia Xi Lizhi, operaio alla Foxconn di Shenzhen, suicida a 24 anni. Versi che raccolgono una cruda consapevolezza, secondo cui «nulla potrà in breve tempo cambiare la loro condizione».
Xi Lizhi solo un mese prima di togliersi la vita scriveva i seguenti versi: «Voglio scalare un’altra montagna, provare a richiamare l’anima che ho perso, accarezzare il cielo, toccare l’azzurro leggero, ma questo non mi sarà possibile, sto per lasciare questo mondo, e quelli che hanno sentito parlare di me, non saranno sorpresi».
La Stampa 21.4.16
Arriva il treno Pechino-Lione
La nuova via della seta su rotaie
Al momento l’Italia è tagliata fuori, ma con la Tav sarà collegata

Come una nuova via della seta, ma su rotaie. Questa mattina alle 8, alla stazione logistica di Saint-Priest, vicino a Lione, è in arrivo un treno molto speciale. Ci saranno politici, consoli e fotoreporter ad attenderlo. È il primo treno carico di merci partito dalla Cina: raggiunge la sua destinazione dopo 11.300 chilometri di viaggio percorsi attraverso Kazakistan, Russia, Bielorussia, Polonia e Germania, uno scalo per scaricare alcuni container a Duisburg. Ci sono voluti quindici giorni. Sono stati superati non pochi problemi tecnici. In Russia, per esempio, i binari hanno lo scartamento più largo, servono soste obbligate e cambi in corsa. Ma resta comunque un viaggio corto la metà rispetto a quello per mare. E ormai il treno è qui, sta arrivando nel cuore dell’Europa.
L’obiettivo
La notizia è che presto questo viaggio straordinario diventerà normale. La compagnia «Wuhan Asia Europe Logistics», la prima ad aver inaugurato la rotta, ha già annunciato l’intenzione di aprire un ufficio permanente a Lione. Per poi organizzare un servizio di tre convogli al mese: andata e ritorno. Con alcune razionalizzazioni lungo il percorso, l’obiettivo è riuscire a coprire la tratta da Wuhan a Lione in una settimana. Sette giorni per questo viaggio intercontinentale di terra. Così oggi, il primo arrivo viene celebrato come una grande possibilità di sviluppo.
L’Italia per adesso è tagliata fuori, ma non lo sarà in futuro. Con l’inaugurazione del tunnel del Gottardo, e poi con la Torino-Lione. Ecco perché proprio Mario Virano, il direttore generale di Telt, la società italiana che gestisce i lavori per la costruzione del tunnel per l’alta velocità fra Italia e Francia, è stato invitato alla cerimonia. «Sono molto felice di partecipare a ad un momento così altamente simbolico - dice Virano - il corridoio Est-Ovest, tanto vituperato da alcuni, che lo ritenevano solo un’illusione, sta diventando realtà. La Svizzera già collega treni dalla Spagna alla Cina. Il governo russo e quello cinese hanno realizzato un accordo per costruire l’alta velocità: un’opera da sei miliardi di dollari. Insomma: il mercato si annuncia in fortissima crescita. C’è un oggettivo grande interesse nel potenziare questa rotta. Per le merci e per i passeggeri».
E l’Italia? «Il percorso naturale sarebbe proprio il Corridoio Mediterraneo, quello che attraversa la Pianura Padana. Ma oggi non è praticabile perché sconta la penalizzazione dell’attraversamento alpino a 1300 metri di quota nel vecchio tunnel del 1871, qualcosa di incompatibile con le nuove tipologie di treni. Però è evidente: la via della seta non era una congettura poetica. Ora è il mercato stesso a segnalare la necessità di infrastrutture che connettano in modo più veloce, sicuro e pulito il nuovo mondo globalizzato. Quello che sta succedendo mette in luce ancora di più i nostri ritardi, ma è anche uno stimolo per accelerare».
La Torino-Lione
Il piano di lavoro per la linea ad alta velocità Torino-Lione, almeno sulla carta, è questo: completare la prima parte entro il 2019, due miliardi di investimenti di cui 813 milioni finanziati dalla commissione europea. Dal 2020 al 2027 verrà completato lo scavo. Quindi serviranno altri due anni di opere tecniche per attrezzare la galleria. Totale: tredici anni per entrare a far parte della nuova via della seta.
È proprio con questa visione che lo scorso novembre molti sindaci delle principali città interessate dal progetto hanno firmato la «Carta di Torino». Mosca, Tirana, Norimberga, Barcellona, Siviglia, Lione e Budapest. Un impegno per aggregare gli interessi dei territori, mettere in condivisone le energie e rendere il sogno sempre più concreto.
il manifesto 21.4.16
Dilma domani all’Onu denuncia il golpe istituzionale
Brasile. Attesa per la decisione della Corte costituzionale sul ruolo di Lula
di Geraldina Colotti

Al momento per noi di andare in stampa, non era ancora arrivata la decisione del Supremo tribunale federale, la Corte costituzionale brasiliana, sulla nomina a capo di Gabinetto dell’ex presidente Lula, sospesa dalla magistratura il 16 marzo scorso, su denuncia delle opposizioni secondo le quali si sarebbe così sottratto all’arresto.
Si insedierà invece il prossimo 26 aprile la commissione speciale del Senato – composta da 21 titolari e altrettanti supplenti, scelti in maniera proporzionale tra le forze politiche – che dovrà decidere se archiviare o trasmettere al Senato la procedura di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff.
Entro 10 giorni, la commissione deve decidere: se approva l’impeachment, Dilma sarà sospesa dalle funzioni per un periodo massimo di 180 giorni, durante i quali il vice presidente Michel Temer assumerà l’interim e la presidente dovrà difendersi dalle accuse, esaminate da presidente della Corte costituzionale, Ricardo Lewandowski. Poi, gli 81 senatori voteranno di nuovo a maggioranza dei 2/3 il 17 maggio. Se per Dilma va male, Temer sarà il nuovo presidente. Domani, Rousseff denuncerà la situazione alla sessione straordinaria delle Nazioni unite.
il manifesto 21.4.16
Ora toccherà ai giovani salvare le tante conquiste della Rivoluzione cubana
Cuba. Per quanto riguarda le nuove relazioni con Washington, Raúl ha parlato di due paesi che restano distanti pur auspicando rapporti «civili» e «rispettosi della propria indipendenza e sovranità»
di Aldo Garzia

Con orgoglio e tenacia, Fidel Castro ha partecipato martedì scorso all’ultima giornata del VII Congresso del Partito comunista cubano. Non si è limitato a ricevere gli applausi degli oltre mille delegati convenuti nel Palazzo delle Convenzioni a L’Avana.
Sulla soglia dei 90 anni che compirà il prossimo agosto, indossando la sua nuova uniforme che da qualche anno è una tuta da ginnastica, inforcando un paio di occhiali da vista, senza rinunciare a stare eretto in piedi appena poteva per salutare i congressisti, ha pronunciato un breve discorso con voce sicura.
Fidel ha ripercorso la sua biografia spiegando come è diventato comunista e curioso del marxismo fin da quando era un giovane studente di giurisprudenza all’Università dell’Avana. Poi ha difeso questa identità e le scelte di Cuba socialista. Si è congratulato con il fratello Raúl per come ha gestito gli ultimi anni dell’isola, quelli che dal 2006 vedono Fidel lontano dal governo a causa di una prolungata malattia. Infine, la parte più emotiva dell’intervento: «Fra poco dovrei compiere 90 anni, non me lo sarei mai immaginato. È un capriccio del caso. Ben presto sarò come tutti gli altri. Per tutti arriva il proprio turno ma resteranno le idee dei comunisti cubani… Forse è l’ultima volta che parlo in questa sala. Vi ringrazio».
Il saluto di Fidel ha avuto il sapore del commiato. Ma pure l’intero Congresso è stato all’insegna del passaggio generazionale. Raúl Castro ha confermato che lascerà i suoi incarichi nel 2018. Gli ultraottantenni del gruppo storico che ha fatto la rivoluzione del 1959 sono ormai un sparuta minoranza. Il Congresso ha inoltre approvato alcune clausole che favoriscono il rinnovamento: nel Comitato centrale non bisognerà avere più di 60 anni per essere eletti, per le massime cariche non si dovranno superare i 70. Ora il testimone passa ai quaranta-cinquantenni.
A loro spetterà il compito di salvare le conquiste della rivoluzione, rinnovare il modello socialista e reggere la nuova sfida con gli Stati Uniti che sono meno aggressivi dopo la recente visita a Cuba di Barack Obama. L’impresa è titanica. Va dato atto al gruppo storico di aver lavorato con saggezza e lungimiranza a questo inevitabile passaggio di fase.
Chi sarà l’erede alla guida dell’isola è troppo presto per dirlo. Nei prossimi due anni affiorerà di sicuro più di una candidatura. Gli occhi sono intanto puntati sull’attuale vicepresidente: Miguel Diaz-Canel, classe 1960.
Politicamente, il Congresso ha confermato gli assi strategici dell’ultimo periodo. Raúl Castro ha ribadito con fermezza che aprire alcuni settori dell’economia al lavoro privato non equivale alla restaurazione del capitalismo: lo Stato non è più in grado di coprire alcuni servizi, quindi niente paura verso i «cuentapropisti» che hanno superato i le 500mila unità.
Nuova apertura pure alle imprese miste e a partnership straniere. Cuba ormai punta a un’economia mista con istruzione, difesa, previdenza e sanità saldamente in mani pubbliche. Il punto debole restano i bassi salari e le basse pensioni in una fase di crescita economica e aumento dei prezzi.
Per quanto riguarda le nuove relazioni con Washington, Raúl ha parlato di due paesi che restano distanti pur auspicando rapporti «civili» e «rispettosi della propria indipendenza e sovranità».
Da qui la reiterata richiesta che tutte le clausole dell’embargo vengano abolite e che si restituisca ai cubani la base militare di Guantanamo. Indietro non si torna, questa è la volontà dell’Avana. Vedremo se il nuovo inquilino della Casa bianca la penserà altrettanto.
Sul Congresso dei comunisti cubani hanno pesato infine le notizie che arrivano da Brasile, Argentina e da altri paesi latinoamericani dove sembra di assistere alla fine del ciclo progressista del recente passato e dove la destra sta affilando le armi per un ritorno generalizzato al potere. Anche in Venezuela, l’alleato più fedele di Cuba, le cose non vanno per il meglio.
Il «golpe bianco« in corso contro la presidente Dilma Roussef può avere conseguenze politiche sugli equilibri dell’intera America latina. Che L’Avana si sia garantito il buon vicinato non belligerante degli Stati uniti è un risultato importantissimo, oltre che una storica vittoria. Difficile che Cuba torni accerchiata e isolata come dieci o quindici anni fa.
il manifesto 21.4.16
Fidel: «La specie umana rischia di scomparire come i dinosauri»
Cuba. Stralci del discorso di Fidel pronunciato a conclusione del VII Congresso del Pcc
di Fidel Castro

Nell’aprile del 1959, quando mise piede a New York per la sua prima visita da leader della neonata rivoluzione cubana, Fidel Castro, disse ai giornalisti: «L’unico mio merito è di credere nel popolo, che è leale con chi gli è leale, e ama chi lo ama». A 57 anni da quel momento, a conclusione del VII Congresso del Partito che fondò, e alla soglia dei novant’anni, Fidel è di nuovo tornato sul tema: «Dirigere qualunque popolo in tempo di crisi costituisce uno sforzo sovrumano – ha detto -. Senza i popoli, i cambiamenti sarebbero impossibili. In una riunione come questa, nella quale si incontrano oltre 1.000 rappresentanti scelti dal proprio popolo rivoluzionario che a loro ha delegato la sua autorità, significa per tutti l’onore più grande ricevuto in vita. A questo si aggiunge il privilegio di essere rivoluzionario, che è frutto della nostra coscienza. Perché sono diventato socialista, o meglio, perché sono diventato comunista?»
Una parola, questa – ha proseguito Castro – «che esprime il concetto più distorto e calunniato della storia da parte di quelli che ebbero il privilegio di sfruttare i poveri, spossessati di tutti i beni materiali che provengono dal lavoro, il talento e l’energia umana. Da quanto tempo l’uomo vive in questo dilemma… Lo so che a voi non serve questa spiegazione, ma forse a qualcuno dei presenti, sì. Parlo così – ha precisato – perché si capisca meglio che non sono ignorante, estremista, né cieco, né ho appreso le mie idee per conto mio, studiando economia per conto mio. Non ho avuto un precettore quando ero studente di legge e scienze politiche…. Non avevo un precettore che mi aiutasse a studiare il marxismo-leninismo… avevo una fiducia totale nell’Unione sovietica… E l’opera di Lenin oltraggiata dopo settant’anni di rivoluzione! Che lezione storica! Si può affermare che non dovranno trascorrere altri settant’anni perché si verifichi un avvenimento simile alla Rivoluzione russa, perché l’umanità abbia un altro esempio di una grandiosa Rivoluzione sociale come quella che ha prodotto un enorme passo avanti nella lotta contro il colonialismo e il suo inseparabile compagno, l’imperialismo.
Tuttavia, forse il pericolo maggiore che oggi incombe sulla terra deriva dal potere distruttivo dell’armamento moderno che potrebbe distruggere la pace del pianeta e rendere impossibile la vita umana sulla superficie terrestre. Scomparirebbe la specie come scomparvero i dinosauri… Se la specie sopravvive… Come alimentare migliaia di milioni di esseri umani la cui realtà confliggerebbe irrimediabilmente con i limiti dell’acqua potabile e delle risorse naturali necessarie?». Questioni epocali che Fidel consegna alle generazioni future accompagnate da un’esortazione: «Ai nostri fratelli dell’America latina e del mondo dobbiamo trasmettere una speranza: che il popolo cubano vincerà». (l’intero discorso su www.granma.cu)
il manifesto 21.4.16
Fidel: «Resteranno le idee»
Congresso Pcc. Il lider maximo si è schierato a sostegno delle riforme iniziate dal fratello Raúl
di Roberto Livi

L’AVANA «Per tutti arriva il proprio turno, però resteranno le idee del Partito comunista». È stato Fidel, martedì, a concludere il VII Congresso del Pcc, commuovendo i mille delegati e gli invitati, affermando che «fra poco compirò 90 anni e forse è l’ultima volta che parlo in questa sala», ma che la sua eredità, ovvero il socialismo realizzato nell’isola resterà, assieme al messaggio, che i delegati devono diffondere al mondo e all’America latina: che «il popolo di Cuba vincerà».
Visibilmente invecchiato, vestito, come sempre, con una semplice tuta da ginnastica, Fidel ha ribadito poi quale deve essere oggi il centro della politica, ovvero i grandi temi dell’ambiente («Come alimentare miliardi di persone la cui realtà si scontrerà con i limiti fisici del pianeta, l’acqua e le risorse naturali di cui avranno necessità») e della pace. Si è trattato di un intervento coinciso ma di alto profilo, con la difesa delle idee (anticolonialiste e antimperialiste) della Rivoluzione sovietica e, appunto, indicando che la politica deve avere al centro gli interessi dell’umanità e non del capitale. Il lider maximo si è schierato a sostegno delle riforme iniziate dal fratello Raúl e con l’obiettivo di giungere a Cuba a un «socialismo prospero e sostenibile», delle misure e dei tempi indicate nelle tesi del Congresso per attuarle e della direzione «storica» del partito-stato che nei prossimi cinque anni dovrà governare tale processo.
L’imprimatur di Fidel non è rituale. «Anche nella base del partito, afferma il professor Enrique López Oliva, si attendevano misure più avanzate in materia di riforma economica in relazione al processo di disgelo con gli Usa, come pure l’inizio di un rinnovamento generazionale nella direzione del partito e dello Stato». Il Congresso ha rieletto tutto il vertice dell’Ufficio politico, ovvero la direzione civile e militare espressione della Rivoluzione del 1959, e composto in gran parte da ultraottantenni.
È stato riconfermato Ramón Machado Ventura nella sua carica di primo vicesesegretario generale del Pcc nonostante quest’anno compia 86 anni e che rappresenti l’ala del partito giudicata più «conservatrice». Alla vigilia, circolavano voci su un possibile segnale di rinnovamento con l’«innalzamento» alla carica di primo vicesegretario del più giovane Diaz-Canel, generalmente indicato come il probabile successore di Raúl alla presidenza della repubblica. I nuovi membri dell’Ufficio politico, due uomini e tre donne, non sembrano, secondo i critici, sufficienti a garantire «la marcia in più» che sarebbe necessaria ad affrontare il difficile periodo di crisi e di cambiamenti. La riforma della Costituzione che dovrà assicurare un rinnovamento completo dell’attuale vertice del partito –prevede un limite massimo di 60 anni per i membri del Comitato centrale e di 70 anni per quelli dell’Ufficio politico e la possibilità di un massimo di due periodi di cinque anni di carica e che tali limiti si estendano anche alle massime cariche dello Stato- è dunque rimandata al prossimo Congresso previsto nel 2021.
E con essa un ricambio generazionale che, anche all’interno del partitto, viene individuato come un fattore importante. «Il Doi Moi (rinnovamento) in Vietnam è iniziato quando è stata sostituita la vecchia direzione dei tempi di Ho Chi Min, e per il nuovo corso in Cina è stato necessario il ricambio del vertice maoista», sostiene Jorge un giovane militante del partito comunista. Il Congresso ha approvato (all’unanimità e senza interventi correttivi) la continuità del processo di riforme economiche e sociali ( in gergo politico locale i Lineamenti) decise cinque anni fa con un piano di lavoro per renderle effettive e produttive nei prossimi quindi anni. Tali misure in sostanza tendono a rendere meno stringente il controllo dello Stato sull’economia, concedendo più autonomia alle imprese statali e affidando un crescente ruolo alle cooperative e al settore privato per riassorbire le molte centinaia di migliaia di lavoratori espulsi dal settore pubblico e per dare più efficienza al sistema produttivo cubano.
Una parte dei delegati ha esaminato la tesi sulla «concettualizzazione del sistema socialista cubano» ovvero dell’ambito economico politico nel quali opereranno le riforme. La preoccupazione di fondo, espressa anche dal presidente Raúl nel suo discorso di apertura, è che il rafforzamento del settore dei cuentapropisti comporti sia un allargamento della forbice sociale con una «concentrazione della proprietà» nel settore privato, sia alla formazione di una classe media che potrebbe poi rivendicare obiettivi politici in contrasto con il socialismo cubano in alleanza con gli Usa. Per questa ragione, non solo è stato riconfermato che i piccoli imprenditori non hanno personalità giuridica (in pratica non hanno la proprietà del loro negozio ma sono solo titolari di una licenza) ma è stata aggiunta una clausola che «proibisce la concentrazione della ricchezza» nelle mani dei privati.
Due importanti voci nel Congresso hanno ripreso le tesi di Fidel sul pericolo della «mano tesa» dal presidente Obama se questa, come sembra, comporta un attacco al sistema socialista. Il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez ha infatti definito la recente visita del presidente degli Usa all’Avana come «un attacco» a Cuba, mentre Abel González Santamaría, viceconsigliere della Commissione difesa e sicurezza nazionale (guidata dal figlio di Raúl, Alejandro) si è riferito al discorso rivolto da Obama alla popolazione cubana come a quello di una sirena che, suppostamente, vuole far naufragare i cittadini cubani. Le tesi approvate dovranno ora essere sottoposte alla discussione della base.
Questa è l’indicazione data da Raúl – riconfermato primo segretario generale del partito, carica che probabilmente manterrà anche quando, nel febbraio 2018, lascerà la presidenza della repubblica- anche per rispondere alle critiche che, a differenza del precedente congresso, non vi era stato un massiccio dibattito nella base. Una discussione necessaria, perché la linea del più giovane dei Castro, quella di procedere ai cambiamenti ma, ma «senza avere fretta» per non incorrere in errori, seppur confermata dalla massima istanza del partito non sembra però convincere una parte della base. Soprattutto i giovani, che continuano ad esprimere molta preoccupazione riguardo al loro futuro e, in parte, a «votare con i piedi» cercando di emigrare.
Repubblica 21.4.16
Un’eroina afroamericana per la prima volta sui dollari
di Federico Rampini

NEW YORK. Conta più il Tesoro degli Stati Uniti o Broadway? La risposta non è ovvia. Il segretario al Tesoro Jack Lew è stato costretto a fare marcia indietro da un musical. Il successo fenomenale di “Hamilton” a Broadway, lo spettacolo a ritmo di rap che racconta la storia di uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, ha reso impossibile – a furor di popolo – sostituire la faccia di Hamilton sulla banconota da 10 dollari per fare posto a una donna. Da anni si discute sulla necessità di affacciare finalmente una donna su una delle banconote verdi, finora un monopolio scandalosamente maschile. Barack Obama ne aveva fatto una promessa solenne. Erano partite consultazioni e sondaggi, in pole position c’erano Eleanor Roosevelt e alcune leader afroamericane del movimento per i diritti civili. Poi è successo il ciclone-Hamilton. Nel senso del musical. I biglietti per il teatro dove va in scena tutte le sere vanno a ruba da anni, i bagarini li vendono a peso d’oro, è stato perfino arrestato qualche falsario. Hanno visto Hamilton a ritmo rap i coniugi Obama e tanti altri leader nazionali o dignitari stranieri in visita.
Naturalmente il Tesoro non ammette che è questa la ragione. E si rifugia in un compromesso: Hamilton rimane su una facciata della banconota da 10 ma sull’altra compariranno le donne che guidarono le lotte per il diritto al voto. Hamilton fu tra l’altro l’inventore del Tesoro americano, un personaggio dalla visione economica moderna, che capì l’importanza di una gestione del debito pubblico.
E così, a fare le spese della popolarità teatrale di Hamilton è un altro dei Padri Fondatori. Sarà il presidente Andrew Jackson ad essere sfrattato, dalla banconota dei 20 dollari, per far posto a Harriet Tubman, morta nel 1913, storica eroina afroamericana della lotta per l’abolizione dello schiavismo. La Tubman fu una delle organizzatrici della cosiddetta Underground Railroad, per portare al Nord gli schiavi in fuga dagli Stati del Sud. Anche Jackson è stato raccontato in un divertente musical di Broadway pochi anni fa: ma senza raggiungere le vette di audience e d’incassi del suo rivale. Bocciato al botteghino, cacciato dalle banconote.
Non è proprio la prima volta che una donna appare su una banconota americana. C’è il precedente di Martha Washington, la First Lady originaria, il cui ritratto decorava una speciale banconota d’argento emessa nel 1891. Ma il suo rimase un caso unico. Il Tesoro ha fatto sapere anche qual è la “sua” classifica della popolarità, cioè la graduatoria delle banconote più usate. Il primo posto spetta a quella da un dollaro (30% del circolante), seguita dal centone (28%) mentre il biglietto da venti arriva terzo col 23%. L’onore del biglietto da 10 non corrisponde ad una grande visibilità. La bocciatura di Jackson è in fondo un castigo ben meritato: a suo tempo il presidente era un fiero avversario delle banconote cartacee che considerava nefaste per l’economia. Cacciarlo per mettere al suo posto una donna nera è un doppio castigo: Jackson fu un ricco proprietario di schiavi, oltre che un accanito sostenitore delle deportazioni degli indiani.
il manifesto 21.4.16
Sanders rimane in corsa perché ha fatto breccia anche nel «mainstream liberal»
La Bernie revolution. Lo stesso New York Times, che pure ha dato il suo endorsement a Hillary, riconosce che «la presenza di Sanders ha reso questa corsa una competizione infinitamente più di sostanza, una corsa nella quale le politiche di entrambi i candidati sono state meglio verificate, e di conseguenza meglio delineate»
di Guido Moltedo

Dopo le primarie nello stato di New York, Hillary Clinton raggiunge l’81 per cento dei delegati necessari per ottenere la nomination democratica. Bernie Sanders il 50 per cento. I numeri dicono che un sorpasso, da parte del senatore del Vermont, è adesso più difficile, ma ancora impresa possibile. Dietro la cruda matematica c’è però un’analisi della «qualità» del voto di martedì che rende scoraggiante, per lo sfidante di Hillary, la prospettiva di una rimonta. La partita newyorkese era difficile, ma questo era messo nel conto da Tad Devine e dagli altri consiglieri di Sanders. Accadde anche a Barack Obama di perdere malamente, nel 2008. Ma anche considerando che Hillary, per due mandati senatrice dello stato di New York, era largamente la favorita nei sondaggi, non solo non si può minimizzare l’ampiezza del distacco (58-42) ma soprattutto non va sottovalutato l’arco variegato di settori demografici che hanno votato Hillary.
Il popoloso stato di New York è importante non solo per l’alto numero di delegati che invia alla convention ma anche perché è uno degli stati che meglio contiene la varietà sociale, etnica, religiosa e culturale del melting pot nordamericano. E che il Partito democratico, la «grande tenda» interclassista e multietnica, storicamente rappresenta. Nello stato di New York si è visto, martedì, come l’elettorato di Clinton sia una «coalizione» che riflette bene questa varietà, mentre Sanders fatica ad ampliare la base che fin dall’inizio ha creduto in lui e l’ha seguito e sostenuto, ad ampliarla in modo tale da poter sperare di superare Clinton nelle primarie, in particolare nelle primarie che demograficamente somigliano di più a quelle dello stato di New York. Come le prossime in Pennsylvania. E soprattutto in California. Certo, il processo accumulativo di crescita e di ampliamento dell’originario blocco elettorale sandersiano è un fenomeno impressionante, se si considerano le posizioni di partenza.
La progressiva conquista di quote di elettori all’inizio refrattarie al suo messaggio – africani americani, ispanici, classe operaia bianca, anziani, donne – è stata consistente ma non è ancora sufficiente, dice il risultato di New York. Probabilmente, se la competizione durasse ancora qualche tempo, le chance di Bernie aumenterebbero significativamente. Non è così, ma questa non è una buona ragione per Sanders per gettare la spugna. Infatti, la corsa va avanti e anzi, come è accaduto nelle precedenti sconfitte, l’elettorato più militante reagisce anche stavolta con un sovrappiù di orgoglio e di sostegno, anche finanziario, per Bernie. Il quale ha commentato i risultati di New York in un comizio affollatissimo nell’università statale della Pennsylvania, con toni e parole ad alto tasso di combattività che tutto fanno pensare, tranne a una sua volontà di farsi da parte. Questo vorrebbe il fronte avverso. L’ha detto chiaramente la portavoce della campagna di Hillary, Jennifer Palmieri.
Il solito discorso che si fa in queste circostanze, con parole, peraltro, che sembrano fatte apposta per ottenere l’esito opposto a quello desiderato. Il succo: continuare la corsa, continuare ad attaccare Clinton da parte di Sanders, è «destructive», è solo un favore a Trump e ai repubblicani. Niente di più sbagliato, è lo stile supponente che più di ogni altra cosa rende antipatica Hillary e con lei i clintoniani.
Come ha detto David Axelrod, la mente delle campagne elettorali di Obama, Clinton «è chiaramente irritata dal fatto di doversela vedere con questo signore». A preoccupare i clintoniani non sono tanto le munizioni che Sanders può passare ai repubblicani, con i suoi attacchi. È la sua stessa presenza, nella competizione, a fare spiccare evidenti le negatività di Hillary che a una parte consistente dell’elettorato leale a Sanders rendono indigesto, ad alcuni impossibile, il passaggio sotto le insegne clintoniane, nella sfida finale di novembre, quando e se sarà lei la nominee democratica.
Lo stesso New York Times, che pure ha dato il suo endorsement a Hillary, riconosce che «la presenza di Sanders ha reso questa corsa una competizione infinitamente più di sostanza, una corsa nella quale le politiche di entrambi i candidati sono state meglio verificate, e di conseguenza meglio delineate». Quindi, proprio per questo, la gara deve continuare e Sanders non deve farsi da parte, secondo il New York Times. È un fatto salutare per la politica, per la democrazia americana. L’editoriale del NYT assume un significato politico ancora più rilevante perché dà al ruolo di Sanders un senso e un significato non effimero che va oltre la corsa stessa. Il giornale coglie bene la portata di quanto sta accadendo quando sottolinea come Sanders abbia «dato voce alle preoccupazioni di milioni di giovani, molti dei quali elettori per la prima volta, e li abbia caricati di energia».
La sua candidatura «ha costretto il partito ad andare più a fondo nell’affrontare temi come la l’ineguaglianza economica, i costi delle tasse e delle rette universitarie, il pedaggio da pagare alla globalizzazione». Di grande rilievo «l’impegno profuso perché la campagna fosse finanziata con piccoli contributi individuali», cosa che ha sgombrato il campo dalla «scusa» dei democratici, secondo cui «anche loro, per vincere, devono cercarsi grossi finanziamenti». Sono tutti punti di una profonda riforma del Partito democratico. Il messaggio di Sanders non avrà finora raccolto i consensi necessari per ottenere l’incoronazione democratica, ma, come si capisce dall’editoriale del Nyt, ha fatto breccia nel cosiddetto mainstream liberal, quegli stessi ambienti che all’annuncio della sua candidatura, avevano reagito, nel migliore dei casi, con l’indulgente simpatia che si deve al vecchio idealista votato a immolarsi sotto il rullo compressore dello status quo.
Proprio perché la sua corsa, per unanime riconoscimento, è considerata una sfida non solo alla Clinton ma all’establishment, il suo ritiro è impensabile, e ancora più impensabile la sua partecipazione alla convention come candidato sconfitto. Ci arriverà e ci sarà, da protagonista.
Repubblica 21.4.16
Clinton contro Trump, l’America ha deciso
È il “nonno” Sanders però che tiene in pugno la vittoria di Hillary
di Vittorio Zucconi

MEZZO secolo dopo la grande rivolta giovanile del Sessantotto e la scoperta shock della guerra fra generazioni, è di nuovo il “Great Divide”, l’abisso fra giovani e meno giovani il luogo dove la prossima presidenza degli Stati Uniti sarà decisa. Ora che i volti dei due contendenti finali sono stati tracciati dal netto successo di Clinton su Sanders ben oltre i sondaggi e dal trionfo dell’inarrestabile Narciso Donald Trump a New York, il futuro della guida politica degli Stati Uniti torna dove era nel tumultuoso 1968. Nella alleanza, o almeno nell’armistizio fra generazioni. Ed è questo il problema che Hillary Clinton dovrà risolvere se vorrà sperare di controllare Trump e di batterlo in novembre.
Un problema che non si pone per i repubblicani, dove Donald Trump esercita il proprio magnetismo attraverso l’anagrafe e, sempre di più, anche attraverso le classi sociali e di reddito. Lo fa con il grimaldello passepartout del suo appeal ringhioso e nazionalista che unisce nel coro ritmato e disperato di U-s-a, U-s-a gruppi di elettori che teoricamente dovrebbero essere opposti fra loro, giovani disoccupati sottoistruiti e miliardari da yacht club, sindacati protezionisti e piccoli imprenditori sull’orlo del fallimento, famiglie dell’America rurale e metrosexual affascinati dal principio secondo il quale “niente ha successo come l’eccesso”. Trump è Trump, un fenomeno unico, paradossale, ma efficace. E da tutti sottovalutato.
Il problema del “Generation Divide”, del gap generazionale come si diceva in passato, è tutto di Hillary e del Partito Democratico. I dati sono spaventosi, per la signora: a New York, che per un candidato democratico è uno Stato teoricamente sicuro ed elettoralmente indispensabile, il 72% degli elettori dem sotto gli “anta” ha votato per Sanders e per vedere rovesciarsi il rapporto si deve salire oltre i sessant’anni. Anche tra le donne, che avrebbero dovuto — e dovranno — rappresentare — l’ancoraggio sicuro per le ambizioni di Hillary lo squilibrio anagrafico è massiccio. Non è il genere, ma è l’età che segna la divisione fra “Clintonistas” e “Sanderistas”.
I giovani, e le giovani, soprattutto quelli impegnati o intrappolati nel labirinto universitario dal quale escono con un titolo di studio quadriennale che non garantisce il lavoro, ma affranti da un debito medio a testa di quasi 30 mila dollari contratto per pagare le rette rapinose, non si riconoscono in Hillary. Avevano riposto le loro speranze, i loro sogni, la ritrovata voglia di partecipare alla vita democratica nel 74enne Sanders, piuttosto che in lei. Neppure l’appello femminista, inizialmente un po’ maldestro, tentato da Hillary ha funzionato, forse perché le ragazze, ha detto l’umorista Bill Maher intervistando la “sanderista” Susan Sarandon, si fidano più del nonno che della mamma. Magari nel sospetto che le mamme, e i papà, abbiano creato, con il proprio soddisfatto egoismo, una società che appare a loro ingiusta, chiusa, fondamentalmente un legno “storto” dal danaro della grande finanza e incapace di promettere un futuro, almeno uguale, se non migliore, materialmente e moralmente.
È dunque il “nonno” rivoluzionario del Partito Democratico colui che tiene in pugno la vittoria di Hillary e la sconfitta di Trump. Nessun altro, nessuno dei “surrogati” della signora, nemmeno il marito, l’ex presidente Bill che finora ha fatto più guai che prodotto vantaggi con le sue uscite a favore della moglie, può trascinare la recalcitrante gioventù che aveva “Feel the Bern”, aveva sentito la piacevole bruciatura di Sanders, sotto le bandiere di Hillary. Soltanto lui può convincere quegli elettori divenuti militanti e attivisti alla dolorosa accettazione del “male minore”, di Clinton rispetto a Trump, qualche cosa che per un ventenne rappresenta sempre una rinuncia amara ai propri sogni.
Da come lui si muoverà fino a martedì prossimo, il 26, quando una slavina di delegati per Hillary prodotti negli stati come Pennsylvania o Maryland chiamati a votare segnalerà la definitiva impossibilità di una rimonta, dalla credibilità di una sua accettazione della sconfitta e del sostegno a lei, dipenderà il successo elettorale di Clinton contro Trump. Sanders, lo sconfitto che ha vinto la battaglia delle idee e ha sparso semi che fra anni produrranno candidati più progressisti e più credibili, è divenuto il “kingmaker”, colui che può consegnare, o togliere per sempre, la corona all’avversaria, aiutandola a costruire un ponte sull’abisso fra generazioni. O cadere invece nella perenne tentazione delle sinistre “pure e dure”, decise a far crollare il tempio con tutti i filistei moderati, consegnandolo agli altri. Per principio.
Repubblica 21.4.16
Parla lo scrittore Gay Talese
“La Grande Mela cede allo show”
intervista di Antonio Monda

Perché una città liberal vota Trump? Perché fa il clown ed è contro l’establishment. E poi Cruz l’aveva attaccata

NEW YORK. Gay Talese oggi ha due motivi per essere scontento: il suo candidato Bernie Sanders è stato sconfitto da Hillary Clinton, e Donald Trump, che lui definisce un «pagliaccio», ha stravinto in campo repubblicano. «Ho 85 anni e ho visto innumerevoli elezioni — mi racconta nella sua casa su Park Avenue — conosco quindi il disincanto, che spero non divenga cinismo. Ho creduto in Obama, ad esempio, ma il resoconto è al di sotto delle aspettative: in otto anni non è stato in grado neanche di chiudere Guantanamo, una delle sue prime promesse. In queste primarie ho votato Sanders, sebbene sappia bene che si tratta di una causa persa e non condivida alcune sue idee».
Iniziamo dal campo repubblicano: come è possibile che una città liberal come New York voti massicciamente per Trump?
«Innanzitutto ribadiamo che si parla esclusivamente del fronte repubblicano. Non dimentichiamo poi che Trump è di Queens, un sobborgo popolare della metropoli e che la stampa, anche quando lo ha attaccato, gli ha fatto enorme pubblicità. Oltre al disprezzo per l’establishment, elemento su cui devono riflettere tutti, è evidente che Trump interpreta meglio di ogni altro l’elemento spettacolo, innato nella cultura americana: uno show volgare, clownesco e pericoloso, ma sempre uno spettacolo. Infine non dobbiamo sottovalutare l’ostilità dei newyorkesi per Cruz, che ha fatto il grave errore di attaccare la città, dipingendola come un luogo di perdizione. Kasich è il più moderato e rispettabile dei tre, ma è rimasto inevitabilmente schiacciato da due personalità forti. C’è un altro dato, sul quale riflettere: il tema dell’immigrazione, che è sentito più di quanto si immagini. Ed è interessante notare che molti immigrati votano Trump, per due motivi: provengono quasi sempre da paesi governati malissimo, e cercano di difendersi da coloro che arrivano dopo di loro».
Perché lei ha votato Sanders?
«Perché ancora mi illudo che ci sia qualcuno che possa cambiare radicalmente il paese e il mondo. Non sono convinto delle sue ricette economiche, ma c’è qualcosa di diretto e coraggioso in quello che dice: ad esempio gli ho sentito ripetere “non tutto quello che dice Netanyahu è giusto”. Un commento del genere potrebbe costare il posto ad alcuni editorialisti. Bibi è l’uomo più potente della politica americana e Sanders lo sfida pubblicamente, mettendo in difficoltà l’establishment del suo partito: non è una novità incredibile? Hillary invece è la candidata ideale di Bibi. E spero che questa affermazione, di questi tempi, non mi costi meccanicamente la fama di anti-Israele o addirittura anti-semita».
Le dichiarazioni di voto in favore di Hillary non sono mai entusiaste.
«Perché Hillary ha commesso molti errori e non è empatica. E rappresenta in maniera assoluta l’establishment, in controtendenza con ogni parte del mondo. Sembra una mamma seria che non sorprende mai, destinata alla mediocrità».
Il mondo intellettuale liberal in queste elezioni si è spaccato.
«Meno di quanto pensi: la maggioranza è per Hillary, ma coloro che appoggiano Sanders sono più rumorosi: nel mondo dello spettacolo Spike Lee, che ha guidato il comizio di Washington Square al grido “Feel the Bern” o Susan Sarandon, che ha espresso anche comprensione per Trump, cosa per me inconcepibile ».
In queste primarie si verifica un paradosso: esistono repubblicani per Sanders e democratici per Trump.
«Questi elettori sono accomunati da due elementi: il disprezzo per l’establishment e la voglia di vedere il fronte opposto rappresentato da un candidato destinato alla sconfitta. Nel primo caso c’è una sincerità che non condivido ma rispetto, nel secondo c’è una furbizia politica squallida».
Corriere 21.4.16
Le ragioni di un duello inevitabile
di Massimo Gaggi

Hillary Clinton vince con ampio margine nel suo Stato e chiude, di fatto, la partita per la «nomination» democratica. Le primarie di New York, mai decisive dall’era di Franklin Delano Roosevelt, stavolta incoronano il candidato progressista alla Casa Bianca. Bernie Sanders lamenta il meccanismo penalizzante del voto, riservato ai democratici iscritti alle liste elettorali, con gli indipendenti esclusi. Amarezza comprensibile, ma questo risultato fa emergere una delle (varie) vulnerabilità del senatore socialista del Vermont: un indipendente che ha indossato la casacca democratica solo per partecipare alle presidenziali.
Il voto di New York è un punto di svolta anche per i repubblicani: la vittoria di Donald Trump era scontata e il miliardario, a differenza di Hillary, probabilmente non arriverà al quorum necessario per garantirsi la nomination. Ma lui nell’«Empire State» ha cambiato marcia su tre fronti: intanto non solo ha vinto, ma ha stravinto conquistando 89 dei 95 delegati in palio. Inoltre Trump negli ultimi giorni ha cambiato tono e linguaggio: forse vuole chiudere il «circo Barnum» degli insulti e delle affermazioni mozzafiato, clamorose o agghiaccianti, che gli hanno garantito l’attenzione continua dei «media», per darsi un’immagine più presidenziale. Così ieri «lyin’ Ted» (Ted il bugiardo) è diventato «il senatore Cruz».
T rump ha, infine, approfittato di giorni meno tesi (qui giocava in casa) per riorganizzare la squadra elettorale trasferendo la guida della campagna dall’irruento Corey Lewandowski allo «stagionato» Paul Manafort: un super professionista della politica con molto pelo sullo stomaco. Non è detto che queste correzioni di rotta durino e abbiano successo: Trump è sempre imprevedibile e la scelta dei mesi scorsi di straparlare, sicuramente studiata a tavolino, è, però, conforme alla sua indole. Senza contare che i «nuovi repubblicani» radicali che sono andati a votarlo pendono proprio dalla sua lingua di carta vetrata. Quanto al team elettorale, voci anonime dall’interno della campagna parlano di un clima da guerra civile con Lewandowski, ridimensionato ma non esautorato, che tiene duro, mentre Manafort — uno che in vita sua ha consigliato tre presidenti conservatori (Gerald Ford, Ronald Reagan e Bush padre), ma anche Viktor Yanukovych, il presidente filo-russo dell’Ucraina deposto in seguito alla «Orange revolution» — già si comporta da padrone assoluto: piazza i suoi uomini nei centri nevralgici e incalza il «campaign manager» uscente anche spulciando le sue note spese.
Nè quello di ieri può essere considerato un knock out definitivo per Cruz, arrivato qui da sicuro sconfitto, visto che si era «suicidato» in anticipo coi suoi attacchi alla «cultura di New York». Ma New York l’ha ripagato dandogli un misero 14% e zero delegati. A questo punto il senatore del Texas è quasi matematicamente fuori dalla gara per il quorum dei rappresentanti repubblicani: per farcela dovrebbe conquistare 678 dei 734 delegati in palio nelle primarie delle prossime settimane, lasciando a Trump solo le briciole. Impensabile. Gli rimane, quindi, solo la guerra d’interdizione sperando che nemmeno Trump tagli il traguardo dei 1237 delegati e che, quindi, quella di Cleveland sia una convenzione «contestata», aperta a ogni sorpresa. È questo lo scenario coltivato nelle settimane scorse dall’ establishment repubblicano che teme di vedere il proprio partito smantellato dalla leadership di un tycoon populista chiaramente pronto a gettare alle ortiche gran parte del bagaglio ideologico del Grand Old Party.
I sismografi repubblicani, però, indicano che, dopo la vittoria a valanga di Trump a New York, molti oppositori del miliardario si stanno chiedendo se, assente un candidato alternativo valido, sia davvero possibile negargli la nomination senza traumi (o, peggio, rivolte) qualora «the Donald» mancasse il quorum solo per qualche decina di delegati. Quanto ai democratici, la prospettiva della prima donna presidente è da ieri molto più concreta, mentre l’amarezza di Sanders è temperata dal fatto che Bernie, partito dal 3% dei primi sondaggi è riuscito non solo a insidiare la royal family della sinistra, ma anche a spostare l’asse della politica americana.
Repubblica 21.4.16
I democratici.
In città la Clinton ha avuto il 63,4%. Bernie aspetta tre ore prima di ammettere la sconfitta
Ricchi e poveri per Hillary i giovani in piazza non salvano Sanders
di Federico Rampini

NEW YORK. «Piazze piene, urne vuote ». L’antica maledizione della sinistra ha colpito Bernie Sanders proprio nella sua città. Ha perso malamente contro Hillary Clinton, ormai lanciatissima verso la nomination. Eppure i comizi del senatore socialista hanno fatto il pienone fino alla vigilia del voto, le piazze traboccavano, l’entusiasmo era ai massimi. In 28.000 sono andati ad ascoltarlo al Prospect Park di Brooklyn, soprattutto giovani. Dai ventimila in su hanno affollato tutti i suoi raduni: a Washington Square (zona Village, davanti alla New York University); a Long Island. Che delusione dallo spoglio.
New York City si è svegliata ancora più clintoniana dello Stato che la racchiude. Qui in città Hillary ha stravinto col 63,4% contro il 36,6%. Volano le accuse, infuria la polemica per 125.000 elettori “cancellati” inspiegabilmente dai registri di Brooklyn, proprio il quartiere di Sanders… e del sindaco Bill de Blasio, schierato con la rivale.
Si discute sulla scelta controversa di tenere delle primarie chiuse, mentre in quelle aperte gli indipendenti favoriscono Sanders. Ma la geografia del voto è comunque implacabile verso il sognatore socialista nato in una famiglia ebrea di Brooklyn, poi emigrato a far politica nel nordico Vermont. Dai newyorchesi ricchi dell’Upper East Manhattan agli afroamericani, dagli ispanici fino a Chinatown, il colore delle mappe elettorali è quasi uniforme. La Clinton dilaga con percentuali “bulgare”, 80%, in quella zona opulenta che va da Carnegie Hill fino ai grandi musei Metropolitan e Guggenheim. Commenta un ascoltatore della radio locale Npr: «In quel quartiere abita un ceto sociale che altrove in America sarebbe repubblicano, qui sono democratici perché newyorchesi ». Spaventati dalla prospettiva di un brutale aumento della pressione fiscale, con un socialista alla Casa Bianca.
Però Hillary stravince pure all’estremo opposto della scala sociale: 77% dei voti nel Bronx. I giovani neri che vidi affollare il comizio di Sanders all’Apollo Theater di Harlem non hanno spostato la bilancia: i loro genitori, e soprattutto i neri più poveri e meno colti, stanno con i coniugi Clinton. La politica delle celebrity non funziona: Spike Lee vota Sanders ma non sposta voti. Hillary raccoglie trionfi in altri quartieri popolari e dominati da minoranze etniche: 60% a Chinatown, 64% nella East Harlem South dei portoricani, 70% a Jamaica vicino all’aeroporto JFK, altro insediamento ispanico e anche di immigrati dall’Est europeo. Tra i quartieri dove avanza da anni la “ gentrification”, l’espulsione di ceti popolari con l’aumento dei prezzi immobiliari, Hillary è plebiscitata nell’Upper West Side di Manhattan e nel West Village. Dove La Repubblica ha l’ufficio, e ogni mattina uscendo dal metrò venivo regolarmente volantinato e indottrinato dai ragazzi di Bernie, alla fine ha vinto lei: da Union Square a Chelsea il 68% ha votato Hillary contro 32% per Bernie. I ragazzi che facevano volantinaggio a Union Square nelle pause dei corsi alla New York University, raramente possono permettersi di abitare lì. E infatti i rari distretti dove ha vinto Sanders seguono la tipologia dei “nuovi hipster”, studenti o artisti cacciati lontano dai quartieri chic di Manhattan. Bernie ha vinto col 64% a Greenpoint- Brooklyn e a Staten Island. Smentendo i luoghi comuni, non è la liberal New York City che ha creduto nel suo socialismo.
Sanders è andato meglio in altre zone di questo Stato, classificate come rurali, anche se talvolta si è spostata lì una nuova popolazione giovane: sia per la presenza di tanti campus universitari, sia per trovare abitazioni a costi inferiori. Bernie ha reagito alla pesante disfatta di New York con una caduta di stile: martedì sera è sparito per tre ore prima di sottoporsi al rito della congratulazione alla vincitrice. Cercherà una rivincita nel prossimo Supermartedì sulla East Coast. Ma il mago delle statistiche elettorali Nate Silver fa un calcolo impietoso: per vincere lui dovrebbe travolgere Hillary in California con 20 punti di distacco. A questo punto sembra fanta-politica.
La Stampa 21.4.16
Hillary strizza l’occhio agli elettori di Sanders
Ma lui non molla
di Paolo Mastrolilli

Hillary Clinton ha appena finito il discorso per la vittoria a New York, nel salone dello Sheraton Hotel, quando la direttrice delle comunicazioni della sua campagna, Jennifer Palmieri, convoca i giornalisti per un briefing. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: «Sanders a questo punto deve decidere se continuare il cammino distruttivo che ha scelto negli ultimi giorni, fatto di attacchi personali e falsità. Noi siamo sicuri che Hillary sarà la candidata presidenziale, perché otterrà la maggioranza dei delegati scelti con il voto popolare».
New York potrebbe essere ricordata come lo spartiacque di questa sfida. Sanders, puntando sulle sue origini a Brooklyn, ha investito tempo e soldi nell’Empire state, per ottenere la vittoria in contropiede che avrebbe demolito le ambizioni di Hillary. Invece lei ha ottenuto quasi il 58% dei voti, e lui il 42%. La campagna della Clinton ora non chiede direttamente al senatore del Vermont che si ritiri, perché «questa è una decisione che deve prendere lui, e ha tutto il diritto di andare fino alla Convention di Philadelphia». Però avverte che proseguendo su questa strada rischia di danneggiare il partito, senza ottenere nulla: «Per recuperare un po’ del vantaggio attuale di Hillary in termini di delegati - ci spiega Palmieri - Sanders avrebbe dovuto vincere lo stato di New York con un distacco di almeno 13 punti, e invece lo ha perso di 15. Le prossime primarie saranno il 26 aprile in Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island, e qui per recuperare dovrà conquistare tutti questi cinque Stati con oltre 15 punti di vantaggio. Considerate che finora ha raggiunto questa quota solo in due occasioni, cioè il New Hampshire e il suo Vermont. Se non ce la farà, dopo il turno del 26 aprile la soglia con cui dovrà vincere per colmare il divario salirà al 25%, che guardando all’andamento avuto finora dalle primarie è irrealistica».
La campagna di Sanders dice che la sua strategia ora è puntare alla Convention di Philadelphia, per convincere là i super delegati non eletti del Partito a cambiare cavallo, scegliendo lui invece di Hillary: «Non so - commenta Palmieri - come potrà sostenere la democraticità di questo argomento, dopo aver perso i delegati scelti attraverso il voto». Anche la Clinton nel 2008 era andata fino alla Convention di Denver, ma con una differenza: «Una volta arrivata al congresso del Partito, aveva chiesto ai suoi delegati di proclamare per acclamazione la candidatura alla presidenza di Barack Obama, in modo da sostenerlo in maniera unanime nella corsa alla Casa Bianca». Bernie finora non solo non ha accennato a questa ipotesi, ma secondo Palmieri negli ultimi giorni ha scelto una strategia «distruttiva», che rischia di danneggiare il partito, proprio mentre i repubblicani sono dilaniati da una guerra civile che apre la porta della Casa Bianca ai democratici: «Sanders ha tutto il diritto di arrivare fino alla Convention, ma noi ci auguriamo che lo faccia tornando a correre una campagna di idee e principi, come aveva promesso fin dall’inizio, invece di quella fatta di attacchi personali e false accuse che ha scelto qui».
La linea dunque è chiara. Hillary non vuole chiedere a Bernie di ritirarsi per non urtarlo, perché per vincere a novembre avrà bisogno del suo appoggio e dei gruppi elettorali che ha conquistato, a partire dai giovani. Perciò martedì sera si è rivolta ai suoi sostenitori con questa frase: «Le cose che ci uniscono sono molte più di quelle che ci dividono». Un invito a seppellire l’ascia di guerra e marciare insieme, per evitare che Trump entri alla Casa Bianca. Nello stesso tempo, però, la pazienza per gli attacchi più velenosi di Sanders si sta esaurendo, anche perché ormai possono ottenere solo il risultato di spaccare il partito. A New York Clinton ritiene non solo di aver vinto, ma anche di aver consolidato la coalizione che può portarla alla presidenza. Ha riconquistato le donne, infatti, oltre alle minoranze nera e latina, e ai moderati della classe media, presentandosi come un democratico realista con obiettivi utili e realizzabili, dall’eguaglianza retributiva fra uomini e donne all’asilo gratuito per tutti i bambini, dai controlli su Wall Street alla sicurezza nazionale. I pezzi che continuano a mancarle sono i giovani, in parte i bianchi delle classi più basse, e soprattutto l’entusiasmo e la simpatia degli elettori. Queste cose non si comprano, ma Sanders può aiutarla ad averne abbastanza, quando si convincerà che non potrà essere lui ad abitare alla Casa Bianca.
Il Sole 21.4.16
Le grandi crisi. Sulla Siria e sui migranti entrambi hanno lanciato messaggi confusi ai partner potenziali
Gli errori condivisi di Usa ed Europa
di Alberto Negri

Americani ed europei condividono più che le stesse politiche i medesimi errori: messaggi sbagliati o ambigui lanciati nei confronti dei turchi, dei sauditi e del Medio Oriente. Per anni Germania e Francia hanno lasciato Ankara nella sala d’aspetto dell’Unione concedendo poco o nulla e ora con l’accordo voluto dal cancelliere Angela Merkel la Turchia ricatta l’Europa. Erdogan si è giocato la carta dei visti e se a giugno non arriveranno c’è da scommettere che anche l’intesa sui rifugiati rischia di saltare: a meno che Bruxelles non metta ancora le mani nelle tasche. L’Unione è condotta da leader poco avveduti che ancora poco tempo fa paragonavano il partito Akp a una sorta di «democrazia cristiana all’islamica» senza accorgersi che il Paese scivolava verso un’autocrazia. Il cedimento della signora Merkel - attesa sabato in Turchia - sul caso del comico che ha satireggiato su Erdogan, mette in dubbio che ci sia una certa differenza tra una democrazia liberale e l’autoritarismo. Non c’è da meravigliarsi se suscita simpatie anche Putin.
Se l’Europa non ha il coraggio di ribattere a Erdogan che cosa ci facciamo qui? Ecco la risposta: Obama teme la Brexit perché la sponda europea è essenziale a sostenere una politica Usa che conta su di noi per disimpegnarsi dagli errori commessi negli ultimi decenni in Medio Oriente e nel Mediterraneo.
Anche Erdogan però ha da dire qualche cosa a europei e Stati Uniti. La signora Hillary Clinton quando era segretario di Stato ha fatto credere ad Ankara, insieme a Francia e Gran Bretagna, che aveva mano libera per abbattere il regime di Assad. Sono stati americani ed europei a sponsorizzare improbabili riunioni dell’opposizione siriana ben sapendo che la Turchia faceva passare migliaia di combattenti sull’”autostrada della Jihad”. Nel 2013 Francia e America discutevano di bombardare il rais siriano che poi hanno più o meno legittimato con i negoziati di Ginevra. Non è stata una sorpresa quando Erdogan ha opposto tanti ostacoli alla concessione delle base di Incirlik all’alleanza anti-Califfato. E tanto meno ha destato stupore che i turchi massacrassero i curdi prima ancora degli islamisti.
La stessa cosa di Erdogan potrebbero affermare i sauditi, che pure sono stati ai ferri corti con Ankara sul colpo di stato di Al Sisi contro i Fratelli Musulmani che da ieri con la visita di Kerry conta anche sull’aiuto di Washington. Riad sponsorizza da decenni i gruppi islamici più radicali: gli americani lo sanno perfettamente perché sono stati i sauditi a finanziare la guerra anti-sovietica dell’Afghanistan appoggiando i gruppi più estremisti. Anche nel caso della Siria, Washington ha fatto credere ai Saud che avevano mano libera per colpire Assad nella guerra per procura contro l’Iran. I Paesi consumatori di petrolio non potevano lamentarsi: per strozzare l’economia iraniana Riad ha inaugurato una guerra sui prezzi che è andata a vantaggio degli occidentali. Una strategia che ha già bruciato circa il 20% delle riserve saudite. E adesso che gli Usa hanno fatto l’accordo sul nucleare con Teheran i nodi vengono al pettine. I sauditi si sentono traditi dagli americani e per di più sono impantanati in Yemen in una sorta di Vietnam arabo: Obama a Riad ha incontrato un re Salman infuriato. Dopo tutto i sauditi durante la sua presidenza hanno acquistato 50 miliardi di armi americane: i buoni clienti non si trattano in questo modo. A Hannover lunedì il presidente Usa e i leader europei parleranno di Isis, Libia, immigrazione, ma qui o si cambia politica o si moltiplica il caos alle porte dell’Europa.
Corriere 21.4.16
Non funziona la ricetta russa, in Siria infuria una guerra civile
di Lorenzo Cremonesi

Fine del cessate il fuoco e paralisi, se non fallimento totale, dei negoziati a Ginevra tra fronte delle milizie ribelli e regime di Bashar Assad: la Siria ripiomba nell’incubo della guerra senza prospettive di uscita. Gli sviluppi drammatici degli ultimi giorni sul terreno e al tavolo della diplomazia paiono soprattutto indebolire le fondamenta della strategia di Vladimir Putin in Medio Oriente. Poco più di due mesi fa pareva il grande vincitore, il condottiero senza paura che, prima intervenendo militarmente al fianco di Assad e poi spingendo per il negoziato da una posizione di forza, poteva porre fine a cinque anni di scontro fratricida e addirittura sferrare l’attacco finale contro Isis. La scelta di annunciare unilateralmente il cessate il fuoco a partire dal 27 febbraio, seguita dalla cacciata di Isis da Palmira e due settimane fa la ripresa dei negoziati sotto l’egida dell’Onu, sembrava davvero vincente.
Ma la situazione si è fatta sempre più complicata. Assad e il suo regime sono più aggressivi che mai. Non esitano a riprendere la strategia degli attacchi indiscriminati contro la popolazione nelle zone controllate dai ribelli. Da qui il risentimento delle controparti esploso a Ginevra. Intanto Stati Uniti, Arabia Saudita e Paesi del Golfo hanno ripreso a sostenere massicciamente quelle stesse milizie sunnite «moderate» (ovvero che, almeno a parole, non hanno alcun rapporto con Isis e i qaedisti di Al Nusra) che oggi abbandonano la città svizzera.
Risultato: il cessate il fuoco è progressivamente decaduto. La classica ultima goccia che fa traboccare il vaso sono stati i bombardamenti dell’aviazione di Damasco martedì sui villaggi a sud di Aleppo e presso Idlib, dove si conterebbero oltre 60 morti, per lo più civili che andavano al mercato. Lasciando Ginevra i rappresentanti dell’opposizione siriana hanno accusato il regime di «seppellire» la tregua. Dura la replica di Bashar Ja’afari, ambasciatore del governo siriano all’Onu e capo negoziatore, che li definisce «politicamente immaturi» e «ostacolo maggiore alla pace», sino a gioire per la loro partenza. Ben poco lascia dunque presagire vi sia spazio a breve periodo per un rilancio del negoziato. Con un’osservazione ulteriore: se la guerra a Isis resta l’obbiettivo centrale del mondo occidentale, gli attori mediorientali mostrano avere altre priorità.
Corriere 21.4.16
In Svizzera
Niente mano alle donne? Niente cittadinanza
Stop alla naturalizzazione di una famiglia musulmana: i ragazzi si rifiutano di toccare le maestre
di Marta Serafini

Fino all’autunno dell’anno scorso Therwil era il tipico paesino svizzero del Cantone Basilea Campagna. Diecimila anime, una chiesetta con un bel giardino e tanti prati verdi. Niente di più lontano dalla Siria e dalle moschee del Medio Oriente. Ora però Therwil è diventato il simbolo dello scontro tra diverse culture e religioni.
Ieri le autorità di Basilea hanno sospeso il processo di naturalizzazione di due adolescenti, 14 e 16 anni e dei loro familiari. E il motivo è di quelli destinati a far discutere. I due ragazzini si sono rifiutati di stringere la mano alle maestre, nonostante la consuetudine svizzera che impone agli alunni a fine lezione di ringraziare con questo gesto gli insegnanti, Per la Basler Zeitung e il Corriere del Ticino , la famiglia dei due ragazzi aveva depositato la domanda di naturalizzazione il 4 gennaio. Le carte sembravano in regola. Il padre aveva ottenuto l’asilo nel 2001 e la famiglia viveva a Ettingen da anni. Poi in autunno, il gesto dei due fratelli alza il polverone. Convocati dai dirigenti scolastici, i due hanno spiegato che loro non possono proprio rispettare la consuetudine svizzera perché se lo facessero trasgredirebbero al precetto che vieta ai musulmani di toccare un’altra donna, all’infuori della moglie. «Faccio così perché l’ho sentito in un sermone su YouTube», ha dichiarato uno dei due.
Prese alla sprovvista le autorità scolastiche hanno esonerato temporaneamente gli alunni dalla stretta di mano. Poi, come da procedura, hanno contattato i vertici cantonali per sapere come regolarsi. Ma le acque non si sono calmate, anzi. Sulla stampa svizzera sono montate le polemiche. La direttrice della scuola Christine Akeret ha spiegato al quotidiano Blick di aver pensato inizialmente a una sospensione o a una multa. «Non sapevamo cosa fare». « Es geht nicht ! È inaccettabile, non è così che mi immagino l’integrazione», ha tuonato in tv la consigliera federale Simonetta Sommaruga. «Allora non stringessero la mano nemmeno ai maschi», ha protestato un’insegnante.
Sull’altro fronte invece il Consiglio centrale islamico svizzero ha confermato che la stretta di mano tra uomini e donne è proibita. «Dopo gli attacchi di Colonia, alla vigilia di Capodanno, è stato chiesto ai musulmani di mantenere le distanze dalle donne, ora chiedono di avvicinarsi a loro», ha scandito ai media svizzeri il portavoce Qaasim Illi. Unici a cercare di gettare acqua sul fuoco quelli della Federazione delle organizzazioni islamiche elvetiche che hanno spiegato: «La stretta di mano tra insegnanti e studenti non è un problema per i musulmani»..
Anche la Svizzera, insomma, è finita a discutere e si è spaccata come successo in Germania dopo la vicenda di Colonia. Fino a ieri, quando le parole si sono trasformate in fatti. E la procedura per la cittadinanza svizzera dei due ragazzi si è bloccata, come confermano al Corriere della Sera le autorità federali. «Si tratta di una procedura comune, quando mancano dei dettagli o si vogliono fare degli approfondimenti», sottolineano da Basilea.
Ora tutti i membri della famiglia verranno interrogati per fare chiarezza sull’accaduto. Ciò che secondo il Corriere del Ticino non è chiaro è se la richiesta di naturalizzazione riguardi o meno tutta la famiglia, composta da otto membri. È il padre stesso, imam della moschea Faysal di Basilea, ad aver ammesso con la stampa di aver rimandato in Siria le due figlie prima che completassero il ciclo di studi. Ed è il Basler Zeitung ad aver ricostruito la storia di questo 54enne. I.S, di origini siriane. scappa in Libano nel 1981 per sfuggire al regime di Assad padre, per i media svizzeri l’uomo sarebbe un sostenitore dei Fratelli musulmani. Successivamente si trasferisce prima a Dubai e poi in Arabia Saudita dove diventa imam. Fino al 2001, quando approda in Svizzera dove ottiene asilo politico. Qui fa il meccanico (abusivo), fa jogging, gli piace sciare. Si integra insomma. E tutto fila liscio. Fino a quando i suoi figli non si sono rifiutati di stringere la mano alla maestra.
Repubblica 21.4.16
Il crinale dell’Europa
di Andrea Manzella

SI È fatto stretto il crinale su cui cammina l’Europa, fra aggregazione e frammentazione. Spaventa l’elenco delle tensioni che mettono a rischio la continuità stessa dell’Unione, la sua identità come “insieme”.
La possibilità che si perda, con il Regno Unito, la chiave della sua proiezione atlantica. I profughi che destabilizzano il governo territoriale di Stati e regioni. Il referendum “consultivo” olandese che rifiuta il segmento di politica esterna faticosamente costruito per dare all’Ucraina una sponda contro il revanscismo russo. La Banca centrale, “sola”, con le (contestate) armi “non convenzionali” di fronte alle tenaci “convenzioni” di una governance economica senza respiro. Tuttavia, ognuno di questi nodi contiene anche, accanto al pericolo di irreversibile rottura, una alternativa di unità.
Prendiamo Brexit. L’alternativa dell’unità è già sul tavolo: è nella coesistenza delle due aree monetarie. Da un lato, una stretta di governo nell’Eurozona con «misure per garantire la sicurezza di un futuro a lungo termine dell’euro». Dall’altro lato, «un meccanismo di salvaguardia dei legittimi interessi degli Stati non euro». Sono insospettabili formule di parte britannica.
Il dilemma rottura/unità si propone anche per il dramma dei profughi. Riabbassare le sbarre confinarie tra gli Stati membri — dimenticare Schengen — significa rompere il tessuto connettivo dell’Unione. Ma ricorre anche qui l’alternativa dell’unità. È nella “fondazione”, finalmente, di una frontiera comune (nel senso di vigilanza condivisa del confine). Paradossalmente, la crisi ha prodotto la presa di coscienza della frontiera come segno di unità “statuale” e di legittimazione sociale. Il migrante, sulla soglia “esterna”, ha in testa un itinerario successivo “interno” nell’Unione. Tenta di appropriarsi di una elementare libertà degli europei: la “libertà di cercare lavoro, di lavorare” (come dice la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione). A chi passa legittimamente il confine viene, in effetti, concesso un passaporto di “cittadinanza sociale”. Coscienza di frontiera significa allora anche il riconoscimento di una maggiore forma di integrazione nell’Unione.
Analogo ultimatum rottura/ unità propone il risultato del referendum olandese. A parte le riflessioni di politica internazionale, la rottura è nella stessa abnormità della prevalenza di uno solo contro il consenso degli altri ventisette Stati. Il meccanismo decisionale dell’Unione è bloccato nella trappola di una doppia unanimità. All’unanimità nel modo di decidere insieme dei governi, si aggiunge la ricerca di una seconda unanimità. Quella dei decisori sparpagliati nei ventotto Stati. Basta un solo referendum, un solo Parlamento, un solo tribunale costituzionale, per romperla. Certo, la storia dell’Unione è in questo senso. E, infatti, di alcuni rifiuti di minoranza subiamo ancora i danni. Ma ora si sono toccati i limiti dell’assurdo e della praticabilità. Nelle decisioni di tutti che riguardano tutti, anche la sovranità nazionale di controllo dovrebbe essere esercitata in condivisione e nel confronto con i poteri di garanzia di tutti gli altri Stati membri. Ci sono già modelli di procedure di garanzia in comune: la iniziativa popolare cittadina; il “dialogo” fra tribunali nazionali e Corte di giustizia; le “conferenze” permanenti di cooperazione interparlamentare.
Naturalmente, è poi nell’Eurozona, cioè nel cuore dell’Unione, il più lacerante dilemma tra rottura e unità. La rottura, ormai insopportabile, è quella tra politica monetaria e politica economica. È il vuoto che Mario Draghi ha denunciato con i suoi pesantissimi interrogativi «sulla direzione in cui andrà l’Europa e sulla sua capacità di tenuta di fronte a nuovi shock». Ma la scelta per l’unità — con la creazione di un pilastro economico dell’Eurozona — non può consistere solo in nuove regole e istituzioni (come il necessario ministro delle Finanze, soggetto-gestore di una struttura di Tesoro). Occorre anche, con uno scossone politico, che regole e istituzioni siano stabilizzate attraverso un mutamento nell’ordinamento giuridico dell’Eurozona. Con il passaggio, cioè, da un sistema basato sul coordinamento a un sistema basato sulla cooperazione (nel significato dei Trattati).
Solo con questo cambio — che faccia dell’Eurozona una entità unitaria — saranno possibili reali innovazioni istituzionali di governo della politica economica. Sarà, cioè, legittimamente praticabile, nell’impotenza dei singoli Stati, quella direzione europea di un programma di investimenti pubblici che appare oggi l’unica maniera per uscire dalla stagnazione. Affidare il timone dello sviluppo a un’autorità dell’Unione può garantire i forti (che lamentano i tassi “punitivi”) e i deboli (che lamentano l’impossibilità di crescita). Ed è l’unica condivisione di sovranità che abbia senso tra tante parole vane.
In ogni caso, non esistono soluzioni facili alle tensioni nell’Unione, le scelte per conservare continuità e unità devono perciò essere commisurate alla gravità dei rischi che si stanno correndo.
La Stampa 21.4.16
Dietro l’offensiva dell’Unione la regia del tedesco Oettinger
Così lo scontro che divide l’Atlantico è cresciuto negli ultimi due anni
di Massimo Russo

Stati Uniti ed Europa hanno culture diverse: «Da loro è permesso tutto ciò che non è vietato. Da noi è vietato tutto ciò che non è permesso».
La frase di Günther Oettinger, il 62enne commissario europeo per l’economia e la società digitale, fa capire il clima nel quale si svolge il confronto tra Google e l’Unione. Una vicenda nella quale il procedimento per il presunto abuso di posizione dominante per il sistema operativo Android non è che l’ultimo capitolo. Una sfida che costringe la società americana «a impiegare una parte crescente della propria energia nel rapporto con le istituzioni, invece che nell’innovazione di prodotto». E, come notava in uno sfogo qualche giorno fa un manager di spicco dell’azienda, «Questo semplicemente non va bene».
Il fronte aperto ieri dalla Commissione fa parte di una guerra economica tra le due sponde dell’Atlantico che vive una recrudescenza proprio quando Google pensava si potesse andare verso un armistizio. Un conflitto che vede in cabina di regia il sistema industriale tedesco e la politica che ne tutela i legittimi interessi, con la partecipazione - di volta in volta - degli altri Paesi dei 28 e degli organismi dell’Unione. Chi pensa che la posta in palio sia l’antitrust, la pubblicità, la privacy, il commercio elettronico, l’oblio, le tasse, si ferma al dito e tralascia la luna, il disegno complessivo. Un quadro che assume significato solo formulando domande diverse: l’auto che si guida da sola sarà progettata nella Silicon Valley o in Baviera? Il sistema che governerà le transazioni finanziarie dei nostri borsellini elettronici avrà sede a Francoforte o negli Stati Uniti? E le informazioni, che una volta interpretate con la scienza del big data permettono di elaborare modelli di business innovativi che scardinano le industrie esistenti, su quale sponda dell’Oceano risiederanno?
Gli Usa negli ultimi vent’anni, attraverso un mercato unico di 300 milioni di abitanti e l’innovazione digitale, hanno saputo sovvertire le regole novecentesche dell’economia per creare una generazione di imprese piattaforma, capaci di crescite esponenziali: Airbnb non ha neppure una camera d’albergo ma vale più della catena ricettiva Marriott, YouTube pubblica 300 ore di video ogni minuto, più di ogni altra major, eBay e Amazon sono negozi al dettaglio senza necessità di possedere il magazzino. Nessuna di queste aziende è nata in Europa, che pure ha una popolazione di 500 milioni di persone.
Il cambio di passo nello scontro tra Google e Unione risale all’autunno del 2014, quando si chiuse la stagione del 68enne commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia. In due occasioni Almunia era stato a un passo dal siglare un accordo con il motore di ricerca sulla prima vertenza antitrust, sul presunto abuso di posizione dominante nel commercio elettronico. Ma in entrambi i casi i ricorrenti si erano opposti. La nuova Commissione, con l’arrivo di Oettinger e della 48enne danese Margrete Vestager alla Concorrenza, ha portato a un mutamento di scenario e al muro contro muro. In venti mesi, malgrado i toni pacati di Oettinger, «Sul digitale non c’è una battaglia tra Europa e Stati Uniti», l’escalation è stata significativa: la chiusura di Google News in Spagna, il pronunciamento del parlamento di Strasburgo che ha ipotizzato di smembrare Google, l’offensiva delle autorità nazionali sulle tasse, fino all’apertura del nuovo caso di ieri.
Google ha reagito cercando di abbassare i toni e di uscire dall’angolo: Matt Brittin, 48 anni, presidente europeo dell’azienda, la scorsa estate ha ammesso alcuni errori di comunicazione: «Non sempre abbiamo fatto le cose giuste. Capiamo che in Europa c’è una mentalità diversa».
Non più tardi di due mesi fa è stato il nuovo amministratore Sundar Pichai, 43 anni, a venire in visita a Bruxelles con un ramoscello di ulivo. Pichai, di origini indiane, prima di arrivare al vertice è stato il creatore del browser Chrome e ha guidato lo sviluppo di Android. Per contrappasso nel 2009 appoggiò le argomentazioni che portarono alla sanzione antitrust europea contro Microsoft. Ma quello, dicono oggi dalla società sotto accusa, era un caso diverso. Android non solo non ha limitato la concorrenza, ma anzi ha portato crescita anche in Europa. Secondo uno studio di Deloitte, commissionato da Google, lo sviluppo di applicazioni per Android ha generato direttamente in Europa 439.000 nuovi posti di lavoro. Cifre avvalorate dal Progressive policy institute, secondo il quale l’economia delle app, di cui Android è parte, ha portato alla creazione di un milione e mezzo di nuovi impieghi nell’Unione.
Di certo gli incontri di Pichai con Vestager e Oettinger non sono serviti a convincere la Commissione. Anzi, contro Google proprio in queste settimane sta maturando un nuovo attacco, stavolta da un gruppo di editori con in prima fila il tedesco Axel Springer: la Commissione ha aperto una consultazione sui diritti ancillari del copyright che si concluderà a giugno e che potrebbe portare a una tassa sul link e sui brevi testi che compaiono nella pagina dei risultati del motore. Oettinger ha già dichiarato di essere aperto sulla questione e di voler arrivare a una legge entro fine anno. Come dite? Senza libertà di link il web non esisterebbe? Questo è un effetto collaterale che pare non turbarlo troppo.