sabato 30 aprile 2016

Corriere 30.4.16
Al Maggio Musicale Fiorentino
Festa per gli 80 anni di Mehta, direttore «rivoluzionario»
di Gian Mario Benzing

Firenze Ormai è praticamente un rivoluzionario, Zubin Mehta, tanto iper-tradizionalista appare il suo stile. Come domenica scorsa, all’avvio del Maggio Musicale Fiorentino: e dove la senti più una Nona Sinfonia di Beethoven diretta così, grandiosa come in epoche lontane, senza le secchezze e i tempi isterici che oggi segnano buona parte della norma esecutiva spacciata per giovanile originalità?.
Nel distretto viennese (o salisburghese?) di Florenz am Arno, dove il Festkonzert per gli ottant’anni di Mehta inizia alle sei di sera, il maestro indiano distende respiro e maestà, tempi larghi (tranne l’Adagio, in 13’55), fusione morbidissima; una lezione di equilibrio timbrico che va dagli splendidi corni ai timpani del «Molto vivace», in realtà vivace neanche un po’, fino al possente Coro del Maggio; e che solo esclude, mal assortiti, i solisti di canto, un baritono tutto impeto nasale, un tenore pallidissimo e un soprano slabbrato su vari La acuti. Standing ovation, 8’55 di applausi e il Coro che tuona «Tanti auguri a te».
E questo dopo i brividi della prima parte: un Concerto «Imperatore» in cui Mehta sfida le leggi della statica, tenendo in equilibrio, sul cashmere di un’orchestra avvolgente e sontuosa, il pianoforte di un András Schiff in modalità «folletto spietato». Nelle lunghe pause, il grande ungherese tiene le mani stese sopra il pianoforte, come in preghiera sull’altare del genio; poi, di colpo, tutto trasparenze e lampi, sbalza i temi eroici come cristalli accecanti. Mai un pensiero affettuoso. E più il cashmere di Mehta lo accarezza, più lui scava polifonie nascoste, inauditi galoppi della sinistra e staccati radiosi. Libero, ardito. E da questo mix, all’apparenza «impossibile», il Maggio fiorisce brillantissimo.
Repubblica 30.4.16
La primavera di Pompei: così sotto il Vesuvio torna la grande bellezza
Restauri, mostre e concerti: finiti gli anni del degrado E aprono ai visitatori Villa imperiale e Antiquarium
di Antonio Ferrara

Chiusa la lunga stagione dei crolli, nel 2015 incassi da record e quasi tre milioni di biglietti venduti

POMPEI.
La terza vita di Pompei ha le sembianze della grande sala da pranzo della Villa Imperiale. Una lussuosa dimora con vista sul golfo di Napoli, dove la vita scorreva tra l’otium e gli incontri quotidiani del padrone di casa con i clientes, che venivano dalle campagne a omaggiare il patrono. Con i fondi del Grande progetto Pompei, quelle stanze sono finalmente aperte al pubblico, a pochi passi da Porta Marina, l’ingresso principale nella Pompei dei record che ha fatto registrare 2.978.884 visitatori nel 2015 e 21 milioni d’incasso.
Nelle sale della Villa Imperiale ecco ricostruito un triclinio con arredi e oggetti da mensa, ecco la diaeta, la sala da studio e riposo con vista sul mare. Danneggiato dai bombardamenti alleati dell’agosto 1943, l’edificio non era stato mai accessibile al pubblico. Al piano superiore c’è l’Antiquarium: riapre le porte dopo 36 anni, era stato danneggiato dal terremoto dell’Irpinia. Voluto nel 1870 dall’inventore della Pompei moderna, Giuseppe Fiorelli, ora ospita il nuovo bookshop, il plastico ricostruttivo della città prima dell’eruzione del 79 dopo Cristo, e un percorso con video che introduce alla visita. All’interno, esposti reperti chiusi nei depositi, alcuni mai visti: sono ex voto, statue e ceramiche dei santuari della Pompei preromana e romana. Fino al 27 novembre, l’Antiquarium ospita la mostra
Per grazia ricevuta: la Madonna di Pompei entra così per la prima volta negli scavi, con l’assenso dell’arcivescovo Tommaso Caputo. Domani Primo Maggio, in occasione della domenica gratuita, ingressi a fasce orarie: di mattina potranno entrare al massimo 15mila persone, poi cancelli chiusi e riapertura alle 14.30.
Quelle di Villa Imperiale e Antiquarium sono solo le ultime aperture, frutto dei lavori del-Grande progetto Pompei da 105 milioni di euro diretto fino a poco fa dal generale dei carabinieri Giovanni Nistri (attualmente al comando interregionale Ogaden) e affidato oggi al generale Luigi Curatoli. «Contiamo entro la fine del 2016 — spiega Curatoli — di spendere 84 milioni di euro, l’intero importo sarà esaurito entro il 2018. Entro l’estate apriremo altre quattro domus e consegneremo altri quartieri messi in sicurezza. La sfida di Pompei può dirsi vinta».
Furono gli affreschi della Villa dei Misteri, restaurati nel marzo 2015, a stregare il ministro Dario Franceschini e a dare il segno del cambiamento. Dalla Pompei dei crolli — si disse un anno fa — si passa agli scavi delle meraviglie. Da allora, la città romana sepolta dal Vesuvio nel 79 dopo Cristo assieme a Ercolano e Stabiae non ha smesso di stupire. Le strade sono diventate un unico, vasto cantiere. Decine di imprese lavorano a tempo pieno, e mese dopo mese si completano i restauri e i lavori di messa in sicurezza, come quelli della Regio VIII, che un mese fa hanno restituito alla visita intere strade. Nel maggio 2015 ci fu la mostra dei venti calchi delle vittime dell’eruzione esposti nell’Anfiteatro, ad agosto la riapertura della Palestra Grande con gli affreschi da Murecine, oggi affiancati dalle sette statue per la mostra Egitto Pompei provenienti dal Museo egizio di Torino. A Natale la visita di Matteo Renzi e l’apertura di altri sei edifici. «Ammirato da questa bellezza esplosiva», si disse il premier. Quattro mesi fa sono iniziati i lavori di ripristino della Schola Armaturarum: quel crollo il 6 novembre 2010 causò la sollevazione della comunità scientifica internazionale e fu lo spunto per dare l’avvio al Grande progetto europeo. E ancora: a marzo scorso aperte altre 5 domus, tra le quali la Casa di Octavius Quartio con uno splendido giardino. Poi è stata la volta del Tempio di Iside, allestito con animazioni multimediali e un video di Stefano Incerti. Prossime tappe: il percorso per diversamente abili che consentirà a tutti di visitare gli scavi, anche ai non vedenti, e l’inaugurazione il 15 maggio della mostra di Igor Mitoraj. Il 7 e 8 luglio David Gilmour riporta i Pink Floyd nell’Anfiteatro, il 12 sarà la volta di Sir Elton John. Vista così, Pompei è davvero cambiata.
La Stampa 30.4.16
Philippe Daverio
“La cultura? In Italia è in minoranza. Essere intelligenti non paga”
“Funzionano soltanto architetti e designer. E, a sorpresa, quegli eroi degli scienziati”
intervista di Alberto Mattioli

Philippe Daverio è il conversatore più brillante di cui disponga un Paese dove purtroppo piacciono più le urla. Ed è anche uno dei pochi che possano discorrere davvero di tutto: il problema non è farlo parlare, semmai farlo smettere. Riceve in accappatoio a righe e pantofole rosse modello Ratzinger («Lo adoravo») nella sua labirintica bellissima casa di Milano, un intrico inestricabile di libri, quadri e cani.
Che cosa fa, adesso?
«Molte conferenze. E insegno a Palermo, purtroppo».
Purtroppo per l’insegnamento o per Palermo?
«Per Palermo. La Sicilia è affascinante soltanto se non devi lavorarci».
Cosa insegna?
«Se riuscissi a capirlo sarei felice. Sono ad Architettura, ma ho una cattedra di Design. Dopo le riforme di quella che non sapeva nemmeno cosa sia un’università non si capisce più nulla».
Intende la Gelmini?
«Sì, lei».
Lei era la star di quei cinque milioni di italiani, uno su 12, che leggono libri e giornali, vanno alle mostre e a teatro, insomma la minoranza silenziosa. Perché è sparito dalla tivù?
«Perché la Rai delega sempre di più a produttori esterni. E il fatturato della mia piccola bottega era troppo piccolo per renderla appetibile. La cosa buffa è che continuano a replicare le mie vecchie puntate, che fanno sempre buoni ascolti».
Perché in Italia la cultura è in minoranza?
«Perché ha vinto la Controriforma: san Carlo Borromeo è stato il più grande politico italiano di tutti i tempi. Leggere è pericoloso, perché poi si pensa con la propria testa e magari si diventa eretici. Quindi, viva l’analfabetismo. C’è anche il rovescio della medaglia, però».
Quale?
«Architettura, pittura e scultura se ne sono giovate. E abbiamo inventato l’opera».
Venendo a politici più vicini a noi, chi le piace?
«Direi nessuno».
Nemmeno Renzi?
«È un incrocio fra Berlusconi e Benigni. Di Berlusconi ha il protagonismo e la voglia di fare, di Benigni l’apparente simpatia e l’accento. In ogni caso, è sveglio».
Pericoloso o promettente?
«Direi preoccupante, essendo del tutto privo di una visione del futuro. Gli interessa solo inseguire il consenso. Io preferivo Bersani».
Bersani?
«È l’unico politico a darmi l’impressione di credere a quel che dice. Poi magari dice un sacco di sciocchezze, ma almeno le dice in buonafede. Il dramma dell’Italia è la mancanza di quella che i tedeschi chiamano “Prominenz”».
Traduca.
«Una classe di notabili che guidi il Paese. Noi l’abbiamo avuta dopo al Seconda guerra mondiale; dopo Tangentopoli, non l’abbiamo più. Non mi riferisco solo alla politica. Gli intellettuali sono spenti e frustrati. Sopravvivono gli scienziati. Non so perché: date le condizioni della ricerca, devono essere degli eroi. Però ci sono».
E le arti?
«Vanno bene l’architettura e il design».
Perché?
«Perché sono le uniche ad avere rapporti con il mercato e con il mondo vero».
Chi è stato il peggior ministro dei Beni culturali?
«Che domande! La Bono Parrino. Me la ricordo a Londra, a un ricevimento della Royal Academy alla presenza del Principe Carlo. Leccò il coltello della torta. Che vergogna».
E il migliore?
«A pari merito, Alberto Ronchey e Antonio Paolucci».
E Franceschini?
«È lì da troppo poco tempo. Finora, direi, nella media».
Veniamo a lei. Perché un signorino alsaziano, cresciuto nel crocevia dell’Europa, si è stabilito a Milano?
«Perché mio padre era di origini lombarde e perché mi avevano sbattuto fuori dal collegio a Strasburgo. Mi iscrissi alla Bocconi, Economia: un errore di programmazione. Infatti non la finii mai. Sono l’unico professore ordinario senza laurea. Però ho fatto il Sessantotto, nel Movimento».
Daverio con l’eskimo!
«No, con il papillon. Esiste ancora nell’archivio del Corriere una foto mia e di mio fratello in corteo dietro uno striscione con i nostri bei cravattini. L’altro fratello, invece, fa il colonnello del Sesto Dragoni, a Saumur».
Nel ’93, assessore alla Cultura a Milano, con Formentini. Scandalo: Daverio che governa con i leghisti con le corna in testa...
«In realtà Formentini è un uomo coltissimo, ma pigro. Quindi il nostro libro su Tacito non lo finiremo mai».
Come valuta quell’esperienza?
«Non sta a me dirlo. Ma la Milano di oggi, con il complesso del Palazzo Reale, la nuova Scala, il Castello sistemato, il piano urbanistico, fu concepita allora».
La ripeterebbe?
«Mia moglie non me lo permetterebbe. Chiudendo la galleria, ci ho rimesso un sacco di soldi».
A proposito: Sala o Parisi?
«Alla fine, meglio Sala. Ma senza entusiasmo. Nessuno dei due ha la minima idea di come dovrebbe diventare Milano fra vent’anni».
Tre persone che salverebbe oggi in Italia.
«Faccio fatica. Mi consola il fatto che non le salverei nemmeno in Francia. No: a ben pensarci, in Italia qualcuno c’è».
Chi?
«Giorgio Napolitano. Me lo ricordo a New York, in una casa amica, ministro degli esteri del Pci in tournée americana. A Capalbio, da pensionato, in spiaggia con le ciabatte e l’ombrellone. E infine al Quirinale. In tutti e tre i casi, sembrava l’uomo giusto al posto giusto. Come in un racconto di Somerset Maugham».
Ammette di essere un po’ snob?
«Credo che lo snobismo sia un valore positivo. Forse per questo non esiste più. Oggi è più importante il dandysmo».
Perché?
«Perché è l’unica forma possibile di distinzione».
Per questo si veste nel suo modo pazzesco?
«Ma no, è un caso. I vestiti sono come i libri: mi sono cresciuti addosso».
il manifesto Alias 30.4.16
Alias   
Nei meandri oscuri della mente
Videogames. Esce per pc distribuito da Steam The Town of Light, dove il giocatore fa visita a un manicomio sulle tracce di una ragazza sedicente, internata nel 1938 e la segue fra ricordi e allucinazioni, abusi e violenze
di Francesco Mazzetta

Nel 1964 due psichiatri della clinica londinese Tavistock, Ronald D. Laing e Aaron Esterson danno alle stampe uno studio sulla schizofrenia femminile che sarà pubblicato in Italia nel 1970 da Einaudi col titolo Normalità e follia nella famiglia. Nel loro studio Laing ed Esterson presentano 11 casi di donne la cui condizione di disturbo psichico classificata come «schizofrenia», o – per usare un termine alternativo per questa condizione già individuato da Laing in una sua precedente opera – «io diviso», non è una patologia endogena, che scaturisce da difetti o problemi all’interno della persona colpita, ma al contrario deve essere vista come una risposta apparentemente aberrante alla condizione di stress sociale e specialmente familiare, una risposta di rottura alla contraddizione del meccanismo del «doppio legame» (formalmente ti lodo ma implicitamente ti condanno) già studiato da Gregory Bateson. In particolare la situazione di stress ed il meccanismo del doppio legame colpiscono l’elemento femminile più fragile all’interno del nucleo familiare, incrinando l’autostima e mandando in pezzi l’identità, che viene appunto vissuta come frammentata e contraddittoria. Un altro psichiatra inglese – anche se di origini sudafricane – David Cooper portò all’estrema conclusione tali premesse teorizzando la «morte della famiglia» e l’uccisione della figura interiorizzata dal padre come strumento di perpetuazione di un potere dispotico e maschile.
In questo scenario teorico è possibile collocare nientemeno che un nuovo videogioco: The Town Of Light, sviluppato dall’italiana LKA e distribuito per PC dalla piattaforma Steam e in corso di conversione per Xbox One. Per questo videogioco – che può essere considerato un «serious game» che non ha solo un valore di sperimentazione intellettuale, ma che approda anche all’esito commerciale con tanto di distribuzione internazionale – sono state condotte approfondite ricerche sia sulla struttura del vecchio manicomio dismesso ed abbandonato di Volterra, sia sulla documentazione relativa ai pazienti ed alle terapie in uso al suo interno. The Town Of Light porta il giocatore a fare una visita all’interno del manicomio sulle tracce di una ragazza sedicenne, internata nella struttura nel 1938: Renèe. Figlia di madre non sposata, Renèe inizia a dare segni di squilibrio tramite reazioni violente, linguaggio osceno ed inappropriato, denudandosi in pubblico. Una volta nel manicomio progressivamente la sua condizione degenera, anche per gli abusi sessuali a cui viene sottoposta da parte del personale, fino a sfociare in una condizione per cui le viene prescritta prima la terapia dell’elettroshock e poi quella della lobotomia. Il giocatore però sperimenta solo di riflesso le vicende di Renèe, perché il gioco gli fa invece indossare i panni di un’anonima visitatrice attuale del manicomio, che vaga tra i suoi recessi in rovina alla ricerca degli indizi della presenza della giovane del secolo precedente. Ma ben presto gli indizi si tramutano in ricordi, i ricordi in allucinazioni, il presente in passato. E il giocatore non sa più se sta guardando attraverso gli occhi dell’anonima visitatrice del 2016 o attraverso quelli della Renèe del ’38 sperimentando in questo modo una simulazione videoludica della frammentazione dell’identità che vive lo schizofrenico.
Da segnalare che l’assenza della figura paterna si trasforma nella storia nel videogioco nella creazione di un «rimosso» che ritorna in ogni figura maschile, che possiede sessualmente Renèe con la violenza o che la «punisce» per il suo essere «cattiva» con l’elettroshock prima e la lobotomia poi. L’unica figura, anche sessualmente, positiva è un’altra paziente, Amara, con cui Renèe costruisce un rapporto di amicizia e d’amore, rapporto non a caso sanzionato dal complesso psichiatrico con la violenta sottrazione dell’amica.
La realtà psichiatrica descritta nel gioco potrebbe sembrare una rappresentazione, per quanto accurata, di un passato oggi ampiamente superato. Eppure il meccanismo della famiglia come perpetuazione dei meccanismi del potere si vede in atto nelle difficoltà insuperate che ha affrontato la legge sulle unioni civili, si vede nel fenomeno della violenza sulle donne e del femminicidio in cui il maschio spodestato dalla propria centralità familiare da figure femminili sempre più consapevoli e meno fragili non trova altra via che quella della sopraffazione fisica. Eppure il meccanismo della malattia mentale non è meno rimosso per il solo fatto che ai muri dei manicomi si sono sostituite le barriere chimiche e farmacologiche.
Tutto ciò fa di The Town Of Light non solo un videogioco – per quanto sia un bel videogioco, angosciante e graficamente curato – ma anche un’occasione per discutere e riflettere, oggi, sulla malattia e sul disagio mentale.
il manifesto Alias 30.4.16
L’avventura del contatto
Tempi presenti. «S/Oggetti di desiderio: Sexistence»: un’anticipazione della «lectio» che il filosofo francese terrà a Bari il 5 e il 6 maggio, al Festival delle donne e dei saperi di genere
Constantin Brancusi, «Il bacio», 1907
di Jean-Luc Nancy

Esiste l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».
In prossimità di soddisfazione
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» – niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di conservazione della specie (e/o del gruppo…) attraverso la generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.
Forse il sesso propone una cifra – se non la cifra – di tale rinnovamento del desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure non smette mai di volersi fare.
Un atto performativo
Cosa facciamo quando facciamo l’amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice, più o meno letteralmente, fare l’amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre qualcosa ; se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione (riporto l’espressione di Françoise Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che i figli non lasciano fare!»), non si tratta dell’amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente. Noi facciamo nel senso che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio atto, è un sentimento, una disposizione, l’eccitazione del rapporto al di là di se stesso, verso ciò che sembra destinato a rinnovarlo all’infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con cui concluderlo, senza però sapere in che senso vada preso quest’ultimo verbo.
Se non altro l’espressione indica un’effettività dell’amore che nessuna dichiarazione, nessuna dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai pretendere di raggiungere. Ecco perché, in un certo senso, non è impossibile fare l’amore in maniera diversa dal rapporto sessuale in senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino delle parole può avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una cosa, infatti, è certa: l’amore non può essere soltanto detto, il suo dire stesso dev’essere un fare. «Ti amo» è un atto performativo: fa ciò che dice. L’amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che «performa» il proprio limite.
Perché bisognerebbe parlarne? Semplicemente perché non c’è casualità nel gesto compiuto da Freud quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui tendevano già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non c’è casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi significati ciò che era stato così accuratamente e costantemente sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a dire ciò che poteva soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato nell’assunzione dell’amore divino.
La dissimulazione del sesso non faceva che portare avanti, con una modalità nuova proveniente dal contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di prescrizioni particolari, che si tratti dei culti rivolti agli organi genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù o delle clausole d’impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità, delle prostituzioni sacre oppure delle pratiche sessuali legate a certi esercizi spirituali – per limitarci ad alcune voci di un elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.
Se è vero che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la forma più propensa alla diffidenza e all’astinenza sessuali, evidentemente esiste un nesso con il motivo dell’amore così come è stato determinato dal cristianesimo. L’amore cristiano non si distingue soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall’eros in quanto desiderio di possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della spiritualità cattoliche, l’agapè – distinta in quanto affetto, diletto, cura (che diventa caritas) dell’altro – è stata spesso accostata per molti aspetti all’eros. Carità e concupiscenza si oppongono, ma l’una non può essere completamente estranea all’altra, perché in un certo senso si deve pure amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che si ama. In realtà, carità e concupiscenza si attraggono a vicenda tanto quanto sembrano respingersi.
Il ritorno infinito
Se l’unico amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso di un genitivo soggettivo, cioè l’amore che viene da Dio e anche l’amore che costituisce l’essere Dio, allora questo amore rivolto all’intero creato, amore egli stesso creatore, relega nell’insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama qualsiasi creatura a entrare in quell’amore, a diventare amore. Così due tendenze profonde hanno governato e diviso il cristianesimo, riunendosi e dividendosi al suo interno: un’espansione infinita dell’eros e un’assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l’egida di una cura originaria.
Nell’ottica dell’infinito, l’esigenza eccede in maniera assoluta ogni possibilità di realizzazione, oppure non viene realizzata se non come l’atto divino da cui procede. Dio crea per amore e questo amore vuole tornare a sé all’infinito. L’amore diventa il nome di un ritorno infinito – all’origine, a sé, all’altro assoluto. Nell’ottica della totalità, il tutto va inteso non più come un ordine (un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come una scelta gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L’amore ordina che lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla). Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di restituire l’amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore ricevuto costituisce una specie di credito illimitato: l’amore rivendica se stesso ovunque, in tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo, un’economia totalitaria dell’amore, dietro la quale peraltro non è certo indifferente veder profilarsi un’economia del profitto.
È a partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti al mondo moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza mai conosciute altrove. Esso è carico di tutta l’energia che nessun impeto divino può più assumersi e che quindi non raccolgono nemmeno più le macchine adibite alla produzione.
La vita in più
Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l’amore è un comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe troppo semplicistica, perché un figlio è un’altra esistenza più che un prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi dal limitarsi agli atti che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e dove finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e atteggiamenti. Esso attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato alla luce Freud, con il nome di «pulsione (Trieb) erotica», non è l’imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro inferiore della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso nuova e antichissima di ciò che ha aperto l’essere vivente a un sovrappiù di vita e l’essere vivente parlante a un’esclamazione ai confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il sesso apre l’esistente a un abisso e a una violenza che se non esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell’esistenza, quanto meno possiedono una caratteristica: ci conducono – in un groviglio di abisso e violenza – sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si limita a sfiorare al tempo stesso il doppio al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa «deiscenza», una sexistenza.
(Traduzione italiana di Ida Porfido)

SCHEDA
Si concluderà in grande la quinta edizione del Festival delle donne e dei saperi di genere, con le due lezioni di Jean-Luc Nancy del 5 e 6 maggio che andranno a coronare il percorso fitto di appuntamenti, tra filosofia, cinema, teatro e incontri, che ha preso avvio a Bari fin dalla metà di aprile. Dedicata interamente al segno delle transizioni, quindi partendo dalla riflessione intorno alla soggettività nomadica, la cifra complessa del presente riesce a dipanarsi. Ne è convinta Francesca Recchia Luciani, organizzatrice e direttrice del festival e docente di Storia delle filosofie contemporanee a Bari; appartiene infatti al presente l’interrogazione sul corpo «e l’identità sessuale, i corpi migranti nella loro relazione con i luoghi, riguarda tutti i cambiamenti innestati nell’esistenza individuale dall’appartenere a un mondo relazionale e sociale in perenne metamorfosi». Se nelle prime due edizioni il baricentro atteneva ai saperi e le pratiche delle donne, da tre anni a questa parte il festival ha cambiato non solo nome ma anche fisionomia. Una torsione che è apertura femminista al tema delle differenze. Il rilievo scientifico ma anche politico non può dunque sfuggire quando si nominano le protagoniste delle precedenti edizioni, da Ipazia a Carla Lonzi, passando per Audre Lorde. Centralità di vite e portati politico-filosofici che assumono quest’anno l’idea di un punto di partenza per raccontare cosa esprima la «transizione» quando a essere interpellati sono corpi sessuati e in relazione. Con una precisa intenzione di coinvolgimento del territorio, emerge allora una sinergia di forze e di pratiche capaci di attrarre non solo un pubblico di studenti ma più vasto che possa restituire narrazioni all’altezza di uno spaesamento che si fa sempre più pressante.
Il festival, promosso dal Centro interdipartimentale di studi sulla cultura di genere dell’università degli studi di Bari «Aldo Moro» e sostenuto dalla Regione Puglia, dall’università di Bari, da Apulia film commission e Teatro pubblico pugliese [mentre le lezioni di Nancy sono state sostenute da Fondazione Puglia e Alliance Française di Bari], viene largamente condiviso anche dal tessuto associazionistico e da molte e molti che con passione ci lavorano intorno, nonostante la variabilità dei fondi a disposizione ma con il saldo auspicio di un sempre maggiore impegno. Questo perché la formula adottata in direzione di una trasversalità dei linguaggi può rappresentare un antidoto alle chiusure disciplinari e al contempo un metodo efficace di ricognizione esperienziale.
Il sito che riguarda l’iniziativa è www.festivaldonnesaperidigenere.it. Mentre nel sito della rivista di pratiche filosofiche e scienze umane «Postfilosofie» (http://www.postfilosofie.it), si possono leggere gratuitamente i materiali dei festival precedenti, come quelli relativi agli Atti di questa edizione di prossima pubblicazione. (alessandra pigliaru)
il manifesto 30.4.16
Anders Breivik
La punizione e i diritti umani
di Sarantis Thanopulos

Anders Breivik –il folle pluriomicida norvegese- sta scontando la sua pena detentiva. Recentemente, una giudice del distretto di Oslo ha stabilito che i suoi diritti sono stati violati durante la detenzione. La sentenza ha fatto scalpore: quanta premura per un mostro crudele! Nick Kohen, opinionista del «Guardian», ha scritto in un articolo, intitolato «I diritti umani non stanno mai in piedi da soli», che tali diritti sono invenzione dell’illuminismo e devono coesistere con la democrazia. Si reggono sul consenso dell’opinione pubblica, che deve essere persuasa. Specialmente in tempi di populismo alimentato dalla crisi dei profughi.
La combinazione del realismo politico con il relativismo etico nel discorso di Kohen, è segno della confusione che regna nel nostro modo di intendere la giustizia e, di conseguenza, la democrazia. Il consenso è condizione necessaria della democrazia che, tuttavia, diventa sufficiente solo in presenza della giustizia: l’ugual diritto dei cittadini di realizzare il loro modo di vivere secondo le loro potenzialità e le loro inclinazioni.
La giustizia è protetta dal consenso, ma non deriva da esso: essendo il fondamento della condizione umana, la parità di tutti sul piano del desiderio non si decide per votazione. È il grado di uguaglianza dei cittadini all’interno della Polis che decide della possibilità della maggioranza (necessariamente variabile) di rappresentarli tutti nella gestione dell’interesse comune.
Conseguentemente, la gestione del conflitto politico attraverso il suffragio universale è tanto più democratica quanto più aspira all’uguaglianza. Nella direzione opposta, più si allontana dall’uguaglianza, più il consenso maggioritario diventa strumento di conformazione di tutti a un principio totalitario.
Sfortunatamente (ma non incomprensibilmente) nell’esperienza reale la validità del principio di uguaglianza è confermata più da esempi negativi che da esempi positivi. La dissuasione prodotta delle catastrofi a cui conduce la violazione del principio della fraternità umana, è più forte della persuasione derivante dalle situazioni di prosperità che il suo rispetto garantisce.
Di conseguenza l’amministrazione della giustizia si fonda eticamente sulla punizione dell’infrazione del diritto dell’altro e non sulla premiazione del suo riconoscimento. Ciò che è punito è l’hubris: l’espandersi in modo disordinato, arrogante del proprio spazio senza alcuna preoccupazione per lo spazio dell’altro.
La punizione è proporzionata al grado di intenzionalità e non a quella del danno, perché deve sancire, di fronte ai capaci di intenderlo, il principio di inviolabilità di un limite e non essere usata come vendetta.
Tuttavia, in ogni misfatto intenzionale il danno provocato aumenta proporzionatamente alla sua componente di preterintenzionalità: l’intenzionalità di danneggiare che supera la capacità di intendere l’entità del danno.
L’hubris vera e propria è questa e la punizione assume qui il suo significato catartico: “Per te, capace e, al tempo stesso, non capace di intendere (ora o per sempre), e per tutti noi che ci vogliamo capaci, valga l’inammissibilità assoluta del fatto da te compiuto; chiunque lo compia sarà duramente sanzionato”.
La sanzione ripristina un limite invalicabile. E per questo non può a sua volta valicarlo. Ragion per cui, una volta punito secondo legge per la sua intenzionalità/preterintenzionalità e non per l’entità del danno, Breivik non può essere discriminato nei suoi diritti di detenuto. È improbabile che questo serva a restituirgli la sua umanità. Ma serve a noi per conservare la nostra.
il manifesto 30.4.16
Allarme, un comunista è fuggito
Intervista. Dennis Berry, attore e regista, racconta le vicende del padre sfuggito alla caccia alle streghe
di Rinaldo Censi, Cecilia Ermini

Il primo approccio dice tutto. Siamo lì, nel tendone in Piazza della Libertà, a Bergamo. Siamo lì per seguire l’incontro tra Anna Karina e Olivier Seguret, parte integrante dell’omaggio ad Anna Karina, promosso dal Bergamo Film Meeting. Tutti gli occhi sono rivolti a lei, Anna: la sua perenne aria sbarazzina, gli occhi vispi, compresa una certa timidezza. Mentre parla, Karina ringrazia più volte il marito, Dennis Berry; lo cerca anche con lo sguardo, controlla dove sia. Aggiunge anche che Dennis è un regista, e che ha girato film insieme a lui. E Dennis è proprio lì davanti a noi, in prima fila, una testa riccioluta su una sagoma fasciata perennemente da un piumino grigio. C’è un momento comico: Dennis si alza, stufo di stare seduto. Karina si rivolge ancora a lui ma lui non c’è, e lei lo cerca con lo sguardo. Ci diciamo che deve aver già sentito queste risposte più di una volta. Più tardi siamo all’Hotel. Bisogna intervistare Karina. Ritroviamo anche Dennis, seduto a lato. Un viso simpatico. Ha la battuta pronta. Parla inglese, un inglese californiano. Scambiamo qualche parola. Dice che Anna è stanca per il viaggio in treno. Perché non avete preso l’aereo? Lui ci fissa con uno sguardo sbilenco, di chi la sa lunga, e ci dice che ha problemi col passaporto. La cosa – pensiamo – si fa interessante. Durante l’intervista, è lui ad imbeccare lei, le ricorda qualche aneddoto: somiglia a una specie di pigmalione, ma uscito da un film dei fratelli Marx. Ridacchia, fa battute e alla fine ci accorgiamo che, più che seguire l’intervista, seguiamo lui. Ha qualcosa di magnetico. Più tardi, mentre passeggiamo, mettiamo insieme i pezzi, attratti da quella sagoma, tanto bislacca quanto irresistibile. Americano, regista, con problemi di passaporto: digitiamo il suo nome su google e – bum! – si apre un mondo intero. Dennis Berry è il figlio di John Berry, grande regista hollywoodiano, aiuto di Orson Welles al Mercury Theater, ricercato da McCarthy perché tra i «rossi» di Hollywood. Più tardi, mentre lui accompagna Karina in sala per presentare al pubblico Band à part, la decisione è presa. Dobbiamo intervistarlo. Questo è ciò che abbiamo raccolto, la mattina dopo, a cominciare proprio dal ricordo del padre John. «Mio padre iniziò la sua carriera nel Mercury Theatre di Orson Welles come attore e assistente di Orson e quando Welles se ne andò a Hollywood, mio padre John prese per un po’ le redini del teatro e fece molti spettacoli di successo, mettendo in scena anche un bellissimo e controverso testo di Richard Wright. Poi andò a Hollywood».
Quando avvenne, da parte di tuo padre, l’adesione al partito comunista che, come sappiamo, gli costò una promettente carriera a Hollywood, costringendolo a emigrare a Parigi?
Prima di lasciare il Mercury, molti anni prima. Negli Stati Uniti, parliamo degli anni ’30, se eri di New York e desideravi conoscere e «vivere» di cultura, dovevi in qualche modo aderire al movimento, anche solo simpatizzare, perché la lotta e le manifestazioni erano gli unici mezzi, anche nel mondo dello spettacolo, per respirare e «produrre». Dopo qualche stagione al Mercury, mio padre fu chiamato a Hollywood, girò cinque o sei film come attore e poi passò alla regia cinematografica, realizzando film come Bionda tra le sbarre con Betty Hutton e Casbah con Yvonne de Carlo. Poi, nel 1950, Edward Dmytryk – questo prima che collaborasse dopo mesi passati in prigione – propose a mio padre di girare un piccolo film per supportare i famosi «Hollywood Ten» e mio padre accettò. In quel documentario si percepisce l’atmosfera cupa e claustrofobica di quel periodo, sembra quasi un film noir ma purtroppo le cose peggiorarono nei mesi successivi. John Garfield ad esempio, protagonista del film di mio padre Ho amato un fuorilegge, fu chiamato a testimoniare e morì d’infarto poco prima di presentarsi alla commissione, immaginate lo stress, la paura di perdere il suo status di attore… Poi toccò a mio padre e così un giorno due agenti dell’FBI si presentarono a casa nostra per prelevarlo. Mio padre scappò dalla finestra, prese la macchina e guidò per nove giorni fino al Canada per poi volare verso la Francia. Il giorno dopo, su tutti i quotidiani, la sua fotografia in prima pagina era affiancata dalla scritta «Minaccia, regista comunista sta fuggendo dalla nazione, se lo vedete chiamate questo numero» e così finì nella lista dei criminali più pericolosi d’America. Era il 1951, mia madre, con discrezione, si liberò della casa e partimmo poco dopo anche noi alla volta di Parigi.
Parigi, all’epoca, era un approdo «sicuro» e frequente per moltissimi «blacklisted». Che clima si respirava? Tuo padre come e quando riprese a lavorare?
Si formò una meravigliosa comunità: Jules Dassin, Alex North, lo sceneggiatore Ben Barzman, addirittura alcuni, per crearsi uno status o trovare lavoro, dicevano di essere nella lista ma non lo erano veramente. Era figo in Francia essere un americano di sinistra. Vivemmo in una sorta di comunità per due, tre anni, condividendo i pochi soldi che avevamo e ci riunivamo in piccoli gruppi per fare dei piccoli convegni, anche divertenti a volte, come quello per stabilire se era «comunista» o meno avere la donna di servizio. Poi Jules Dassin riuscì a ottenere il primo contratto in Francia e lasciò la comunità perché non voleva condividere i soldi. Questa comunità, alla fine, si ruppe perché il capitalismo era ed è, purtroppo, più forte di tutto il resto.
È un po’ la storia che racconta Lubitsch in «Ninotchka»…
Esatto. Invece, per quanto riguarda mio padre, fece qualche film in Francia con Eddy Constantine, un po’ di teatro a Londra e tornò a girare negli States solo parecchi decenni dopo.
Che ricordi hai di tuo padre sul set?
Vedevo poco mio padre a casa quindi andavo spesso a trovarlo sul set. Il mio primo ricordo – quella che posso considerare la mia «scena primaria» – avrò avuto cinque anni credo, risale ai tempi di Tension. Mio padre parlava con Cyd Charisse, spiegandole, in un letto gigantesco, come baciare Tony Martin. Mia madre mi teneva per mano e quindi lo ricordo come un mix esplosivo di eccitazione, colpa, complesso di Edipo, ecc ecc. A parte questo, mio padre, oltre all’essere stato un grande regista, era un attore magnifico.
Come avvengono invece i tuoi primi passi nel mondo del cinema? Dalle scarne informazioni trovate su internet, esordisci come attore, nel 1967, ne «La collezionista» di Eric Rohmer…
In realtà il mio primo lavoro nel cinema è stato come assistente personale di Vincente Minnelli, a 19 anni, per il suo film Castelli di sabbia con Richard Burton e Liz Taylor nel 1965. Non amavo quel lavoro, c’era poco da fare anche perché Minnelli aveva una padronanza assoluta del set e così, alla fine, il mio compito era soltanto quello di evitare di non far ubriacare troppo i due.
Passiamo a «La collezionista»…
Haydée Politoff, la protagonista del film, mi adorava e disse a Rohmer «Se devo collezionare ragazzi, voglio decidere io chi». Non desideravo recitare, non amo essere diretto da altre persone, ma conoscevo Rohmer da un po’ e sapevo che sarebbe stato un lavoro breve. Fu un’esperienza magnifica perché c’erano solo nove persone sul set ed era un mondo completamente diverso da quello che avevo imparato a conoscere grazie a mio padre. Sul quel set capii che si poteva girare un film in maniera completamente diversa e capii anche che una cultura alternativa stava crescendo contro il sistema. Rohmer diceva sempre «È l’economia a creare l’estetica» e credo non esista affermazione più veritiera. Cominciò così il mio tortuoso percorso cinematografico, a cavallo fra Francia e Stati Uniti alla fine degli anni ’60.
Dopo «La collezionista», reciti anche in «L’amour fou» di Rivette, «Pauline s’en va» di André Téchiné e «Paris n’existe pas» di Robert Benayoun. Come e quando avvenne il passaggio da attore a regista?
Feci un film come attore, Borsalino, e mi pagarono molto bene. Era verso la fine degli anni ’60 e un amico, che conosceva le mie velleità registiche, mi disse «Fai come Philippe Garrel, fregatene del budget». Avevo scritto un soggetto dal titolo Jojo Doesn’t Want to Show His Feet, la storia di una specie di mostro di 22 anni e della sua ragazza. Una storia davvero bizzara, questo ragazzo non si toglieva mai le scarpe, nemmeno sotto la doccia. All’inizio volevo rubare i soldi per girare perché all’epoca ero convinto che il furto fosse l’unico atto «legittimo» e tutto ciò che era legale era bandito. Alla fine non rubai nulla e lo girai con pochi soldi, insieme alla mia amica Zouzou, ma fui molto soddisfatto. Jacques Rivette amava molto questo piccolo film, lo considerava il primo horror senza trama. Poi girai anche un altro corto The Death of a Cat che vinse il primo premio al festival di Oberhausen. Ottenni così un po’ di celebrità come regista underground e iniziai a pensare al mio primo lungo, che volevo girare insieme alla donna che, nel frattempo, avevo sposato: Jean Seberg.
Come avvenne l’incontro con Jean? Era in qualche modo legato ai comuni interessi civili e politici?
No, scoprimmo successivamente di condividere la stessa passione per l’attivismo e i diritti civili. La prima volta che la vidi avevo 25 anni ed ero in un night club. La vidi danzare ma non avevo capito che fosse lei, era molto buio. Ballava con una sorta di strano personaggio, forse un nano. Rimasi folgorato e chiesi a un amico di organizzare un party per incontrarla. Arrivò con Fabio Testi poi, approfittando di un momento di solitudine, si avvicinò a me dicendomi «Puoi fare qualcosa per me?» Risposi «Farò tutto quello che mi chiederai» e lei sussurrò «Baciami». Uscimmo insieme tre volte e poi ci sposammo. Dopo il matrimonio con Jean, volevo girare con lei il mio primo lungometraggio, una storia molto cupa, una sorta di sci-fi d’autore anche perché lei era stufa di recitare in film prettamente commerciali ma, per qualche guaio di produzione, il film, Prossima apertura casa di piacere, si trasformò in una commedia. Alla fine lo girai più per lei che per me, non lo amo molto, e continuai a fare la spola con Los Angeles in cerca di soldi per girare altri film.
Negli Stati Uniti hai avuto modo di entrare in contatto con il cinema underground dell’epoca?
Conoscevo Andy Warhol e Paul Morrissey. Un giorno Warhol mi mostrò un film Jesus Christ on 42nd street, la storia di un piccolo freak che vendeva speed e si comportava come Gesù Cristo. Era un lavoro magnifico, molto più interessante, a mio avviso, di altri suoi film. Il film andò deliberatamente perduto perché, secondo me, Warhol non voleva mostrare altri lati del suo genio; quel film cozzava contro l’immagine che si era costruito e l’aveva reso famoso, quell’aura di provocazione e rottura che lo circondava.
A proposito di «factory», a Parigi hai mai avuto contatti con lo Zanzibar Group?
Conoscevo bene Olivier Mosset e ovviamente anche Philippe Garrel. A un certo punto avrei dovuto girare un western psichedelico con Tomas Milian e Pierre Clementi ma purtroppo arrestarono Pierre in Italia e restò in galera per tre anni. Quando uscì era totalmente distrutto. Fu una vera tragedia perché l’unica «colpa» di Pierre fu andare a una festa e fumare marijuana. Ricordo che tutti, all’epoca, anche Federico Fellini, cercarono di farlo uscire ma senza successo e poco tempo dopo una tragedia simile accadde anche a Philippe Garrel. Quando uscì di prigione mi disse «Non scorderò mai l’orrore che mi hanno fatto». Da allora, ho l’impressione che Philippe giri film sempre bellissimi ma più dolci e meno folli di quelli realizzati come Zanzibar. Per me resta uno dei pochissimi esempi di purezza, lotta e non compromesso, non come me, piccolo ladro del sistema.
Perché ti definisci in questo modo?
Dopo numerosi progetti falliti, negli anni ’70, e la separazione da Jean, volai a Los Angeles. Là incontrai Anna Karina e ci innamorammo. Ho girato con lei un film, Last Song, la storia di un rockstar che indaga sulla morte del fratello. Dopo una serie di passaggi a festival importanti, compreso quello di Montreal e Taormina, il film avrebbe dovuto avere una regolare distribuzione ma il distributore fallì quattro settimane prima dell’uscita. Avremmo dovuto proiettarlo anche qui a Bergamo, ma l’unica copia ora disponibile, è doppiata in francese, senza il mio consenso. E non mi piace affatto. Sto lavorando ad una nuova copia che uscirà in dvd. Poi, un po’ per caso e un po’ per problemi finanziari, accettai qualche tempo dopo la proposta di un amico di sostituire un regista in una serie tv. Non sapete i tormenti prima di dire sì! Avrei messo a repentaglio la mia purezza? Ho bluffato e ho accettato: «ma solo per una settimana!» gli ho detto. Poi sono andato sul set: ed era tutto bellissimo. Da allora non mi sono più fermato. Dopo anni di budget microscopici, pre-produzioni fallimentari, ecc ecc finalmente avevo a disposizione macchine da prese, comparse, molti soldi, una sorta di mia piccola Hollywood, un ritorno sulle tracce di mio padre.
Va bene, forse ho accettato un compromesso che mai avrei immaginato prima. Però non ho intenzione di «cedere» sulla questione del passaporto. Dopo i guai dovuti all’allontanamento di mio padre, non ho mai più risolto la questione, nonostante ancora oggi ci siano dei problemi quando viaggio. Credo che potrei risolvere tranquillamente la cosa ma, per lealtà verso mio padre, non lo farò mai.
il manifesto 30.4.16
Il vecchio Ippocrate e il medico amministrato
Sanità. Riformisti e conservatori, ma a parti rovesciate, tra i neo e i post ippocratici. La "slow medicine" che nonostante le buone intenzioni porta all’accettazione della medicina amministrata
di Ivan Cavicchi

Le profonde e accresciute diseguaglianze del servizio sanitario si intrecciano con i cambiamenti dello stesso paradigma ippocratico. Oggi la medicina ippocratica è in crisi e ci pone un dilemma: da una parte, a partire da me, si ritiene che i postulati che l’hanno definita come è ora sono tutti cambiati per cui si avrebbe bisogno di fare una riforma. Orientamento “neo-ippocratico”. Altri, “post-ippocratici”, invece che soprattutto a causa dei problemi economici alcuni suoi postulati siano ormai insostenibili per cui andrebbero contro riformati.
Il discrimine passa per i due principi cardine della medicina ippocratica:1) curare il malato secondo le sue necessità 2) libertà di cura per il medico. Nessun malato si può curare secondo necessità se il medico non è libero di curare. Per l’orientamento neo ippocratico le diseconomie sono innegabili ma per risolverle non c’è bisogno di sacrificare questi due principi a condizione di usarli meglio quindi investendo su un medico più bravo a scegliere nella complessità . Per l’orientamento post ippocratico al contrario si tratta quanto meno di ridimensionarli, perché ci si deve rassegnare a curare secondo i mezzi disponibili. Nel primo il medico deve reimparare a fare il medico nel secondo resta quello che è ma deve regolare le sue condotte sulla base di limiti predefiniti sotto forma di linee guida, precetti, vincoli. Cioè accettare di farsi amministrare.
Le varie teorie di medicina amministrata sono tutte ad orientamento post ippocratico perché tendono a condizionare in qualche modo sia la libertà clinica del medico che la cura secondo necessità. Ad esse non interessa riformare la medicina per avere un medico più bravo ma solo di regolarne i comportamenti per correggerne i costi.
Nasce così un nuovo conflitto: i neo ippocratici che per difendere i sacri principi vogliono riformare la medicina che c’è e i post ippocratici che privi di un pensiero riformatore rispetto alla medicina che c’è al contrario vogliono contro riformarla per amministrarla meglio .
Il post ippocratismo sotto forma di behaviorismo è pericoloso non solo perché distrugge dei valori ma anche perché non risolve niente: 1) non risolve la crisi paradigmatica della medicina anzi finisce per esasperarla nel senso di offrire a una società sempre più esigente una medicina meno costosa ma clinicamente discriminante; 2) usa la scienza in modo semplicistico nel senso di vincolarla a delle evidenze statistiche che nella realtà sono regolarmente falsificate dal caso clinico, dalla singolarità dei malati.
In questo contesto si inserisce l’azione di slow medicine una associazione culturale fatta da brava gente, con una estrazione di sinistra, tutti positivisti doc, che credono nella sanità pubblica, con una forte vocazione moralizzatrice. Essa sa poco o nulla di paradigmi e quindi scarta la possibilità di riformare la medicina ippocratica tentando la strada di una medicina amministrata moderata. Dogmatica nelle sue visioni scientifiche (evidenza e verifica) organizza la sua idea di scienza dentro una curiosa contrapposizione slow/fast che ricorda molto quella di Celentano rock/lento. Se prima in nome della qualità sfornava raccomandazioni e linee guida, oggi dopo essersi affiliata a slow food, in nome della “moderazione” alias “sostenibilità”, si propone cavalcando l’onda di choosing wilesy come una specie rieducatori di medici male educati.
Choosing wilesy a slow medicine è apparsa come la quadratura del cerchio cioè la possibilità di amministrare finalmente le scelte del medico con il consenso del malato dentro una relazione.
Non è una impresa impossibile ma a condizione: 1)di rinunciare alla pretesa di amministrare le condotte professionali 2) investire su una nuova idea di medico 3) valorizzare la sua libertà di scelta mettendogli a disposizione non con le prediche ma con l’information technology le migliori conoscenze disponibili 4) verificando con i risultati le sue prassi .
Ma soprattutto definendo una riforma paradigmatica della medicina ippocratica perché per mettere insieme evidenze scientifiche relazioni e complessità non basta l’attak cioè l’adesivo universale.
Siccome questi 5 punti non appartengono a slow medicine mi permetto lealmente di diffidare della sua credibilità. Choosing wilesy non è una riforma del paradigma e slow medicine per fare quello che predica dovrebbe essere la prima ad autoriformarsi a partire dalla sua davvero discutibile idea di scienza amministrata.
La sua preoccupazione non è riformare la medicina (chiacchiere da filosofi ignoranti) ma convincere medici e malati a rispettare per ragioni di sostenibilità le sue evidenze scientifiche preferite
Nella relazione di cui parla slow medicine , il medico dovrebbe ragionare non solo con le logiche dogmatiche delle evidenze ma anche con quelle polivalenti del malato complesso del contesto e della contingenza. Cioè dovrebbe avere un altro concetto di scienza. Purtroppo sono logiche del tutto estranee alla razionalità dura e pura di slow medicine. E poi se slow medicine le avesse scatterebbe immediatamente il paradosso: le evidenze per tagliare davvero i consumi di medicina dovrebbero essere imperative ma se fossero tali danneggerebbero il malato ..per non danneggiarlo dovrebbero essere relative al malato ma se fossero relative non sarebbero più evidenze ma opinioni. E allora?
C’è infine una ultima questione: ho paura che a causa della medicina amministrata il fenomeno del contenzioso legale tra medici e malati cresca ma cambiando forma. I medici oltre ad andare in tribunale per quello che fanno andranno in tribunale anche per quello che non fanno magari perché hanno seguito i precetti prescritti da Choosing Wilesy e le raccomandazioni di Slow Medicine. Sarà l’omissione della cura necessaria cioè il reato di controfattualità clinica il problema del futuro.
Corriere 30.4.16
Non lasciamo sole le ragazze della Rete
di Marta Serafini

Sono state elette per la prima volta nei consigli comunali in Arabia Saudita. A breve dovrebbero aggiudicarsi la guida del Palazzo di Vetro. E molto probabilmente sarà loro anche la poltrona di presidente degli Stati Uniti. Eppure le donne non possono permettersi il lusso di cantare vittoria. Dall’omicidio di Berta Càceres in Honduras uccisa perché difendeva la sua terra passando per il massacro di Ruqia Hassan, la blogger che sfidava l’Isis con i suoi post ironici, fino a Shaima Al-Sabbagh, attivista egiziana morta tra le braccia di un compagno, sono ancora troppi i tentativi di mettere a tacere le donne. E se la libertà di espressione oggi passa indiscutibilmente dalla Rete, non aiuta certo che l’accesso alla tecnologia sia ancora in molte zone del mondo una prerogativa maschile, come sottolinea tra gli altri la ong statunitense Freedom House nel suo ultimo rapporto. Perché a cosa servono applicazioni, connessioni super veloci e piattaforme, se nei Paesi a basso o medio reddito le donne hanno ancora il 21 per cento di possibilità in meno di possedere un telefono cellulare? I segnali incoraggianti ci sono. In Nigeria — lo stesso Paese dove Boko Haram rapisce le studentesse per trasformarle in kamikaze — un gruppo di ragazze hacker ha aperto una scuola per insegnare ai giovani a navigare senza esporsi al rischio di intercettazioni e censure. E, ancora, nel collettivo di hackitivst di Anonymous si è creato un gruppo di donne che aiuta e sostiene chi denuncia episodi di violenza. Infine percentuale di donne che hanno accesso alla rete è salita a livello mondiale di due punti percentuali rispetto all’anno scorso. Una speranza, dunque. Ma queste ragazze hanno bisogno soprattutto di una cosa: di non essere lasciate sole.
Corriere 30.4.16
«Femminicidio, ultimo atto del mio Messico impunito»
di Alessandra Coppola

L’aveva scritto Sergio González Rodríguez già vent’anni fa: «Da giornalista indagavo sugli omicidi di donne a Ciudad Juárez — le prime inchieste per le quali è diventato celebre anche all’estero, e per le quali ha rischiato la vita — e in più di un articolo ho avvertito che se questa impunità non fosse stata contenuta, si sarebbe estesa al Paese intero». Così è stato, sotto i suoi occhi attenti e impotenti: non c’è una ragione geografica o culturale per spiegare tanta violenza, sottolinea, il motivo sta principalmente nella mancanza di conseguenze.
«Il Messico registra ormai un’impunità del 98-99 per cento per ogni reato commesso — continua —. E, come è noto, è l’impunità il detonatore dei crimini. In più, da quando è stata condotta la guerra al narcotraffico (2007-2012), il Paese è devastato. In questo conflitto ci sono stati almeno 120 mila assassinati e 25 mila scomparsi. Negli ultimi anni, nonostante il governo dica di aver concluso quella guerra, ci sono stati 60 mila ammazzati e migliaia ancora di desaparecidos». L’ultima cifra che elenca è la più spaventosa: «Ogni giorno in Messico spariscono 13 persone, delle quali non si saprà mai più nulla».
È anche di questa tragedia, che nel tempo ha preso proporzioni sconvolgenti, che González Rodríguez parlerà al Festival dei diritti umani. A partire dal tema centrale della violenza sulle donne e del «femminicidio» che lui stesso ha contribuito a definire, con un primo reportage sulla rivista messicana Reforma nel 1997 ( Noche y Dia. Las muertas de Juárez ) e poi in un libro del 2005, tradotto in italiano da Adelphi, Ossa nel deserto .
Negli anni, la quantità e l’orrore dei casi si sono moltiplicati; ma la consapevolezza, anche sul piano giuridico, si è completamente trasformata. «Il termine femminicidio è entrato nel codice messicano nel 2007, nella Legge generale di accesso delle donne a una vita libera dalla violenza, in cui l’articolo 21 si afferma: “Violenza femminicida è la forma estrema di violenza di genere, prodotto della violazione dei diritti umani delle donne, in ambito pubblico e privato, determinata dall’insieme delle condotte misogine che possono implicare impunità sociale e dello Stato e può culminare con l’omicidio”». Così a Città del Messico, ma anche in altri codici penali latinoamericani.
Gli strumenti dunque ci sono, spiega il giornalista, «è la volontà politica di metterli in pratica che manca». Senza impulso dei governanti e in mancanza di una pena certa, la violenza, in particolare nella sua declinazione misogina, si spande. Anche lungo le rotte dei migranti che continuano ad attraversare il Centroamerica verso gli Stati Uniti «le donne soffrono un grado maggiore di sfruttamento, prepotenze, abusi». In Messico, in particolare, strada obbligata per il Nord, «a causa della corruzione, le reti criminali che gestiscono il traffico di persone hanno trasformato questa migrazione in un’avventura ad alto rischio. Una situazione aliena al rispetto dei diritti umani: i territori di passaggio sono diventati campi di sfruttamento e di sterminio nell’indifferenza generale».
Tragedie enormi di cui in pochi si curano. «La responsabilità delle grandi potenze e dei Paesi sviluppati di fronte al dramma della violenza contro le donne, della corruzione politica, della migrazione in Messico o in America Latina risulta evidente — denuncia González Rodríguez —. Il modello economico della globalizzazione ha portato con sé tali avversità che pochi vogliono vedere. Come è ovvio, le formalità dominano le relazioni internazionali e le grandi potenze ricevono con onori di Stato governanti impresentabili. È una vergogna e un ulteriore dolore per milioni di cittadini che subiscono i cattivi governi, incapaci di far rispettare la costituzione e il diritto internazionale. Bisogna cercare maniere critiche di contrastare questa spinta negativa».
Corriere 30.4.16
Apre il coraggio di Lea Garofalo
Omaggio speciale alla Tunisia
La forza dei film e dei «docu»: «Ideali per poi riflettere»
di Peppe Aquaro

Al cinema, di solito, dopo i titoli di coda: tutti in piedi e via. Parlando dei film del primo Festival dei diritti umani — dal 3 all’8 maggio alla Triennale — forse sì, più di qualcuno si alzerà, ma per chiedere la parola. «Dopo la proiezione di un film di qualità, il pubblico si trova in una situazione di pathos: l’ideale per innestare testimonianze di persone che hanno vissuto situazioni di violazione di diritti umani, sia come vittime, sia come soccorritori», osserva Paolo Bernasconi, avvocato del Foro di Lugano e presidente di Reset-Diritti Umani, l’associazione (creata lo scorso anno insieme a Giancarlo Bosetti, Piergaetano Marchetti, Francesco Micheli e Danilo De Biasio) che ha realizzato il festival delle «due dediche»: alle donne (sottotitolo della rassegna è: «Diritti sulla terra per la metà del cielo») e alla Tunisia. Per la prima, raccontando, per esempio, del coraggio delle donne che si ribellano alla mafia. Come nel film, Lea , nome di battesimo della Garofalo, uccisa dalla ‘Ndrangheta, e che inaugura, dalle 9.30 del 3 maggio, sia il festival, sia la sezione «Edu», pensata per gli studenti delle scuole superiori, coinvolti in 1.500.
La Tunisia, invece, sarà protagonista nel pomeriggio di mercoledì 4, nella sezione «Talk», in occasione di «Pane e gelsomini: donne e società civile in Tunisia»: tra gli ospiti, l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino e l’attivista tunisina Amira Yahayaoui. «Le donne sono le vittime preferite, insieme ai loro bambini, per la violazione di diritti umani», ricorda Bernasconi, il quale sa bene che, per scoprirlo, non occorre andare in guerra per scoprirlo: bastano le mura domestiche.
E di questo si parlerà, giovedì 5, nel Salone d’onore della Triennale, durante «Uomini che odiano le donne: il femminicidio dentro e fuori casa». Tutte le sere, dalle 21, ci sarà un film. Alla programmazione ci ha pensato Vanessa Tonnini: tra le sue scelte, Qu’ Allah benisse la France! , in prima nazionale il 4. È la storia di un immigrato congolese che vive nella periferia di Strasburgo. Il protagonista, Abd Al Malik, afferma qualcosa di forte e semplice allo stesso tempo: «Siamo definiti dallo sguardo che ci rivolge la gente».
Oltre ai film, i documentari, selezionati dall’associazione «Sole Luna», e in concorso. Tra i ventidue in gara, giovedì 5, dalle 17.45, ecco Nemico dell’Islam? Un incontro con Nouri Bouzid : road movie su e giù per il paese dei datteri, della Primavera araba e dei volontari alla guerra dell’Isis. Il Buco nero dei diritti nel Medio Oriente è l’oggetto d’indagine di un dibattito a più voci, sabato 7, nel quale interverrà Carla Del Ponte, membro della Commissione d’inchiesta Onu sulla Siria.
«Basta alzare lo sguardo — dal motto della prima edizione del festival — per rendersi conto che la violazione dei diritti umani non avviene soltanto in altri continenti, ma alle porte di casa nostra», osserva Bernasconi, per trent’anni membro del Cda del comitato internazionale della Croce Rossa. E alle porte di casa si riferisce il racconto di Magdalena Jarczak, da vittima del caporalato a segretaria provinciale Flai Cgil di Foggia, presente l’ultimo giorno del Festival insieme a Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano.
Zoom infine sul Burkina Faso, con «Sheroes», mostra fotografica di Amnesty International, dedicata a quattordici donne, tra sofferenza e speranza.
Corriere 30.4.16
La misura del sopruso
Più attenzione ai crimini contro le donne ma lo sguardo è limitato ai casi eclatanti
L’appuntamento A Milano la prima edizione del Festival dei Diritti Umani punta sulla condizione femminile nel mondo. Dalle «schiave» dell’Isis alle spose-bambine del Burkina Faso, così si inizia a prendere coscienza di umiliazioni e violenze
di Viviana Mazza

Dalle ragazze yazide ridotte in schiavitù dall’Isis alle nigeriane trasformate in kamikaze da Boko Haram, dalle spose bambine del Burkina Faso alle «resistenze» italiane. Le protagoniste del Festival dei Diritti Umani di Milano sono le donne. È lo specchio di un’attenzione internazionale crescente sulle violazioni dei loro diritti, ottenuta anche grazie all’attività instancabile di attiviste e attivisti. La strada da percorrere è però lunga, spiegano al «Corriere» i difensori dei diritti umani.
«La sensibilità sulla violazione dei diritti delle donne è in aumento — dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia — ma a questo non corrisponde l’efficacia delle misure dei governi. Il fatto recente forse più importante è stata la Convenzione di Istanbul, il primo testo vincolante sui diritti delle donne contro la violenza in Consiglio d’Europa, ma l’applicazione è solo parziale. Delle tre p che sono i cardini del testo, quindi protezione, prevenzione e punizione, vediamo attuata solo l’ultima. La sensazione è che si provveda a sanzionare cose già accadute».
Amnesty è presente al festival con una mostra sulle spose bambine in Burkina Faso realizzata dalla fotografa Leila Alaoui prima di morire pochi mesi fa in un attentato. Un modo per ricordare il coraggio di chi dà voce alle altre donne anche a rischio della vita. «Sui matrimoni forzati e precoci c’è più sensibilità — continua Noury — e il fenomeno delle mutilazioni genitali è in regresso grazie anche allo straordinario lavoro di Emma Bonino. Ma in generale, se il mondo va male, le prime a subirne le conseguenze sono le donne, anche per mano di gruppi armati non statali come nei casi delle studentesse di Chibok, della pulizia etnica delle yazide o di Malala». «L’attenzione ottenuta finora non è sufficiente», ci dice Ameena Saeed, attivista yazida. La sua comunità, nel nord dell’Iraq, fu attaccata dall’Isis nel 2014. «All’inizio le donne rapite erano 5mila, ma tuttora ci sono 3mila persone nelle loro mani e alcuni sono bambini: ora li addestrano a compiere violenze».
«Le sofferenze delle cosiddette schiave sessuali meritano l’attenzione ricevuta sui media perché i crimini nei loro confronti sono orribili — nota Andrea C. Hoffman autrice di Farida , storia vera di una di loro, appena pubblicata da Piemme —. Ma non dobbiamo dimenticare le migliaia di uomini massacrati allo stesso tempo. È un genocidio e dovrebbe essere considerato tale». In teoria l’enfasi sui diritti delle donne dovrebbe illuminare il resto della storia, avverte la scrittrice nigeriana Lola Shoneyin, autrice di Prudenti come serpenti (editore 66th and 2nd). «Dobbiamo stare attenti a non dimenticare che la campagna Bring Back Our Girls è legata alla guerra contro Boko Haram. Molte donne sono state rapite dai miliziani, ma ci sono anche stati 59 ragazzi massacrati nella loro scuola».
Nel caso della pena capitale in Iran, dove la stragrande maggioranza dei condannati sono uomini, i casi più famosi sono quelli di donne: Delara Darabi, Sakineh Ashtiani, Reyhaneh Jabbari. Il fondatore di Iran Human Rights, Mahmoud Amiry-Moghaddam, spiega il problema è che lo sguardo resta spesso limitato ai casi più eclatanti. «In Sudafrica quando l’apartheid divenne un caso internazionale, non erano solo le esecuzioni a fare notizia ma il fatto stesso che i neri non potessero sedersi nelle stesse panchine dei bianchi. In Iran alle donne è vietato entrare negli stadi e ci sono restrizioni sull’abbigliamento punibili con 74 frustate. Se le italiane venissero umiliate così, non ci sarebbe una sollevazione globale? Ma abbiamo sviluppato una tolleranza per gli abusi dei diritti, abbiamo stabilito un livello che siamo pronti ad accettare. Sakineh ha suscitato tanta attenzione e ne siamo felici, ma vuol dire che è la lapidazione la soglia alla quale diciamo basta?». Perciò Amiry-Moghaddam ammira la campagna «My Stealthy Freedom», che pubblica su Facebook foto di iraniane che si tolgono per protesta il velo obbligatorio: è una lotta contro le violazioni «quotidiane» dei diritti.
La fondatrice Masih Alinejad nota che «i diritti delle donne sono oggi in prima linea tra le questioni politiche, mentre prima gli uomini dicevano che se ne sarebbero occupati dopo aver risolto i problemi prioritari». Ma chiede aiuto alle politiche occidentali. «Federica Mogherini dovrebbe parlare dell’accordo nucleare ma anche dei diritti umani e delle donne». Lei e tante altre intanto lavorano per aumentare la consapevolezza all’interno propri Paesi. «In Nigeria la gente capisce sempre di più i vantaggi dell’istruzione femminile, anche perché ne vede i benefici economici — osserva Shoneyin —. Il problema è che c’è tutta una generazione ancora legata a valori religiosi o tradizionali oppressivi».
Corriere 30.4.16
Festival dei Diritti Umani dal 3 all’8 maggio
La mattina dedicata alle scuole superiori

Dal 3 all’8 maggio 2016 alla Triennale di Milano, il Festival dei Diritti Umani organizzato da Reset-Diritti Umani, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, del Comune di Milano, di Città Metropolitana di Milano e dell’Ufficio Scolastico per la Lombardia. Il comitato coordinamento e direzione è composto da Paolo Bernasconi, Giancarlo Bosetti e Danilo De Biasio, che ne è direttore esecutivo. Per la prima edizione la scelta del filo conduttore è caduta sul tema: il non-diritto di essere donna . Tutte le mattine al Teatro dell’Arte e al Salone d’Onore la programmazione sarà dedicata agli studenti delle superiori. Al Salone d’Onore, lectio magistralis e dibattiti, con ospiti e testimoni internazionali.
E poi proiezioni cinematografiche, Show cooking, la prima tappa della mostra fotografica itinerante sui diritti delle donne e i matrimoni precoci e forzati in Burkina Faso. L’ingresso è libero, fino ad esaurimento posti. www.festivaldirittiumani.it .
Il Fatto 30.4.16
La vera paura dell’Islam è il desiderio delle donne
Tahar Ben Jelloun “Matrimonio di piacere”, il nuovo romanzo: un uomo si innamora della sua legale concubina
Intervista esclusiva allo scrittore marocchino
di Caterina Soffici
Un uomo di una certa età, una moglie e un’altra donna, giovane e bellissima. Con la quale lui trova il piacere sessuale che nella coppia non ha più. In un romanzo occidentale sarebbe il classico triangolo. Nell’ultimo libro di Tahar Ben Jelloun, appena sbarcato in libreria, invece è tutta un’altra storia. Perché siamo in Marocco e la religione musulmana permette a un uomo non solo di avere più mogli, ma di avere anche delle amanti “legalizzate”, grazie al cosiddetto “Matrimonio di piacere”, quello appunto che dà il titolo al romanzo. Si tratta di un vero e proprio contratto a tempo che un uomo può contrarre con una donna per un periodo di un mese o due.
il seguito qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/ben_jelloun?workerAddress=ec2-52-23-229-241.compute-1.amazonaws.com
Corriere 30.4.16
Un magistrato patriota tra gli ex nazisti «Così ho riscoperto Fritz Bauer»
intervista di Stefano Montefiori

PARIGI Se l’organizzatore della soluzione finale Adolf Eichmann un giorno di maggio 1960 ha dovuto interrompere la sua vita serena in Argentina, turbata solo dallo scrupolo di «non avere finito il lavoro», come diceva, lo si deve in buona parte alla determinazione del procuratore tedesco Fritz Bauer. Un personaggio dimenticato dalla Storia, che lo scrittore e giornalista francese Olivier Guez ha raccontato anni fa nel saggio L’impossibile ritorno, storia degli ebrei in Germania dopo il 1945 (Flammarion) e ora, da co-sceneggiatore, nel film Lo Stato contro Fritz Bauer .
Bauer era un ebreo tedesco, un patriota socialdemocratico, costretto a rifugiarsi in Danimarca all’avvento del nazismo. Alla fine della guerra tornò a Francoforte e da magistrato si mise in testa di ridare onore al suo Paese cercando di processare i responsabili dell’Olocausto. Nella Germania degli anni Cinquanta i più teneri lo trattavano da scocciatore invasato; i servizi segreti tedeschi, ancora pieni di ex nazisti, cercavano di fermarlo.
Come ha riscoperto il personaggio di Fritz Bauer?
«Facendo le ricerche per il libro sul ritorno degli ebrei tedeschi in Germania. Avrei dovuto imbattermi in lui immediatamente invece non è stato così. Questo mi stupì molto, all’epoca. Il libro è uscito in Francia nel 2007, e dopo la sua traduzione in Germania nel 2011 il regista Lars Kraume mi ha contattato per pensare insieme a una sceneggiatura. Anche lui non conosceva Fritz Bauer. Tutti sanno che Eichmann è stato catturato in Argentina dal Mossad, poi processato e impiccato a Gerusalemme nel 1961, ma non che gli israeliani sono stati messi sulle sue tracce da Bauer».
Come si spiega questo oblio?
«La Germania ha un rapporto con il passato più complicato di quanto noi vogliamo credere. Solo l’attore protagonista del film, Burghart Klaußner, che è nato nel 1949, si ricordava di Fritz Bauer e della sua morte nel 1968, per lui era qualcuno di importante, è stato uno dei pochi tedeschi che hanno cercato di ri-appropriarsi del loro passato. Abbiamo in testa un’immagine falsa di una Germania che si è messa subito al lavoro per farsi l’esame di coscienza. Ma questo succede solo alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli Ottanta, quando la generazione della guerra — i quadri nazisti erano piuttosto giovani — va finalmente in pensione».
Fritz Bauer è un ebreo tedesco che aiuta Israele, ma i suoi rapporti con gli israeliani non sono facili.
«È un aspetto molto interessante, che discende dalla storia dell’ebraismo europeo. Una delle scene più forti, alla quale abbiamo lavorato a lungo, è l’incontro di Bauer con il capo del Mossad a Gerusalemme. Gli ebrei tedeschi e quelli dell’Europa orientale si detestavano. I primi si sentivano emancipati e colti, parlavano tedesco e disprezzavano quel dialetto germanico che è lo yiddish; i secondi a loro volta non amavano gli ebrei tedeschi, che a loro parere avevano abbandonato la tradizione e il patrimonio ebraico per fingere di essere tedeschi. Fino al nazismo e alla guerra gli ebrei tedeschi erano in posizione di forza, si sentivano più moderni e civilizzati. Ma nel dopoguerra in Israele ci sono gli ebrei partiti anni prima verso la Palestina dall’Europa dell’Est: bielorussi, polacchi, ucraini. È la grande rivalsa nei confronti degli ebrei dell’Ovest, che in Israele arriveranno dopo».
Il capo del Mossad si rifiuta di parlare tedesco con Bauer.
«Vuole umiliarlo anche se sa benissimo il tedesco, gli si rivolge in yiddish e Bauer gli risponde innervosito a sua volta “io non capisco l’yiddish”. Per gli israeliani negli anni Cinquanta era impossibile vivere in Germania, il capo del Mossad dice “io mi occupo degli ebrei vivi, non degli ebrei morti”, per loro Fritz Bauer è un’anomalia storica. Non c’è alcuna complicità».
Fritz Bauer cerca con tutte le forze di fare estradare Eichmann in Germania, vuole processarlo a Francoforte come momento chiave di una palingenesi nazionale.
«Ma non è un diplomatico e non coglie la realpolitik del dopoguerra. Israele ha bisogno della Germania Ovest perché gli servono armi e tecnologia, la Germania ha bisogno di Israele per reinserirsi nel consesso delle nazioni, che è il grande obiettivo del cancelliere Adenauer. E il miglior modo di mostrare al mondo che la Germania è cambiata è fare la pace con gli israeliani. Poi, processare Eichmann a Francoforte porterebbe probabilmente alla scoperta di quanti quadri nazisti ancora detengono i posti più importanti dello Stato, e questo farebbe vacillare il governo Adenauer: un’eventualità che, in piena guerra fredda, gli americani non possono permettersi».
Alla fine comunque Eichmann viene catturato e processato. Altri continueranno a sfuggire.
«Sto lavorando a un libro su Josef Mengele. Che nel 1956, all’ambasciata tedesca di Buenos Aires, recupera tranquillamente un passaporto a suo nome. Il sentimento di impunità era assoluto».
Il Sole 30.4.16
La Consob cinese in campo per battere la speculazione
Acciaio, minerale di ferro e coke riprendono a correre
La Csrc promette di essere «irremovibile» contro chi alimenta la bolla delle commodities
di Sissi Bellomo

La “Consob” cinese ha confermato ufficialmente di essere scesa in campo per contrastare l’eccesso di speculazione sulle materie prime:?una nuova bolla, che si teme possa esplodere com’è successo l’estate scorsa con quella dei listini azionari (si veda il Sole 24 Ore di ieri). «Saremo irremovibili nell’impedire che il mercato dei futures diventi un ricettacolo di speculatori di breve termine», afferma un comunicato della China Securities Regulatory Commission (Csrc), al primo serio banco di prova da quando ne ha assunto la guida Liu Shiyu.
Il suo predecessore, Xiao Gang, era stato improvvisamente rimosso in febbraio, forse perché?ritenuto responsabile di non aver saputo gestire l’emergenza in Borsa:?le misure per placare la volatilità avevano provocato una fuga disordinata degli investitori dai listini e una paralisi quasi totale degli scambi. Errori che sarebbe importante evitare di ripetere con i mercati delle materie prime, ampiamente utilizzati anche dai produttori a fini di hedging. La recente impennata di volumi e prezzi ha provocato perdite pesanti agli operatori commerciali, che com’è normale erano posizionati posizionati “corti”, e molti hanno abbandonato il campo.
Anche dall’estero si guarda con timore alle possibili ripercussioni. «Per adesso non ci sono segnali di trasmissione ad altri mercati e comunque i prezzi delle materie prime dovrebbero risalire molto di più per danneggiare le nostre economie - spiega Viktor Nossek, direttore della ricerca di WisdomTree Europe, al Sole 24 Ore - Sarebbe però preoccupante se la speculazione in Cina dovesse provocare danni a banche, società di trading o produttori di metalli. In tal caso ci sarebbero ripercussioni anche nel resto del mondo».
Esortate dalla Csrc, da lunedì scorso le borse dei futures di Shanghai, Dalian e Zhengzhou hanno più volte aumentato i costi di negoziazione e i depositi di garanzia sui prodotti presi di mira dagli speculatori. Il regolatore avrebbe inoltre ordinato di allontare gli investitori privi di competenze specifiche sulle materie prime, anche se non è chiaro come si possa raggiungere l’obiettivo. «Continueremo a guidare le borse a intraprendere azioni appropriate contro l’eccessiva speculazione e i comportamenti illegali», promette la Csrc.
Dopo qualche giorno di ribassi, le commodities hanno intanto ripreso a correre. A Dalian i prezzi di minerale di ferro e coke sono risaliti del 6%, il massimo consentito, la vergella di acciaio a Shanghai ha recuperato il 3%. Tutte le materie prime siderurgiche in aprile hanno registrato rialzi senza precedenti, oltre il 20%. Per la vergella ci sono stati volumi di scambio record nel mese, pari a 1,4 miliardi di tonnellate:?con tanto acciaio, osserva la Reuters, si potrebbero costruire 15mila ponti come il Golden Gate di San Francisco.
Il Sole 30.4.16
«No a Pechino economia di mercato»
Grande coalizione. I parlamentari europei dell’Italia hanno spiegato a Roma i motivi dell’opposizione
di C.Fo.

ROMA Lo schieramento trasversale di europarlamentari contrari alla concessione alla Cina dello status di economia di mercato (che va sotto l’acronimo Mes) è tornato a spiegare le ragioni del «no» in un incontro organizzato ieri a Roma presso la sede del Parlamento Ue. I deputati europei hanno avviato sul tema una controconsultazione dopo quella lanciata dalla Commissione e confidano che ne deriveranno dati più accurati e chiari sull’impatto di un eventuale riconoscimento dello status .
Antonio Tajani, primo vicepresidente dell’Europarlamento (gruppo Ppe) e David Sassoli, vicepresidente in quota al gruppo S&D, si ritrovano a parlare del caso con accenti molto simili. «Il nostro no è chiaro - dice Tajani - e legato al fatto che la Cina non ha ancora i requisiti per essere considerata un’economia di mercato. Si rischia di andare incontro alla distruzione dell’industria europea». Per questo Tajani continua a sostenere l’irrinunciabilità dei dazi: «Anche qualora ci fosse una maggioranza che apre al Mes e la Commissione andasse in questa direzione, la nostra linea del Piave deve essere la difesa di misure antidumping».
Sassoli evidenzia anche l’esistenza di «valutazioni politiche inerenti un quadro di diritti civili su cui da parte cinese vanno fatti ancora tanti passi avanti». L’eurodeputato del Pd mette poi sul tavolo alcuni numeri. «L’Italia sarebbe colpita per il 40% degli interessi europei» dice, in riferimento alle stime secondo le quali su 10 imprese europee difese dai dazi antidumping quattro sono italiane. «Oltre all’acciaio - ricorda Sassoli - sono a forte rischio la meccanica, la chimica, la bulloneria, l’industria della carta, la ceramica. Potrebbero essere minacciati tra 200 e 500mila posti di lavoro». Per David Borrelli, eurodeputato del M5S e organizzatore dell’evento che si è svolto ieri a Roma, il confronto sul Mes a avuto il merito di coagulare forze diverse con un unico obiettivo: «All’interno dell’Europarlamento si è creato un gruppo di lavoro che raccoglie oltre 70 deputati di 16 Paesi in rappresentanza dell’intero panorama politico, coesi nel lanciare la contro-consultazione».
La voce delle imprese ha fornito ulteriori elementi. Paolo Mattei, vicepresidente di Assocarta, ha portato la testimonianza diretta di un settore molto esposto, con la vitale necessità di vedere rinnovate i dazi in scadenza a maggio. Daniel Kraus, vicedirettore generale di Confindustria, ricorda che al 2011, data dell’ultimo studio di verifica, la Cina rispettava solo uno dei cinque criteri necessari per il riconoscimento del Mes. E c’è un evidente problema di relazioni con le altri grandi controparti mondiali. «Giappone e Stati Uniti - sottolinea Kraus - non hanno intenzione di concedere lo status» e il rischio sarebbe una massiccia deviazione dei flussi commerciali verso il mercato continentale. Senza considerare altre implicazioni, come danni a catena che il Mes concesso dall’Europa potrebbe arrecare anche agli stessi Stati Uniti nel caso in cui contemporaneamente si firmasse il famigerato accordo transatlantico Ttip.
il manifesto 30.4.16
«Ancora in piazza per rinnovare il sogno dei nostri figli scomparsi»
Argentina. Intervista a Hebe de Bonafini, leader delle Madres de Plaza de Mayo
di Geraldina Colotti

«I nostri figli hanno dato la vita per un sogno e noi lo rinnoviamo ogni giorno». Non tradisce il peso degli anni, la voce di Hebe de Bonafini, storica dirigente delle Madres de Plaza de Mayo, classe 1928. Oggi, l’organizzazione che ha contribuito a fondare, il 30 aprile del 1977, compie 39 anni. Il 24 marzo dell’anno prima, una giunta militare aveva preso il potere in Argentina, scatenando una repressione che, in sei anni, provocherà circa 30.000 scomparsi.
Sfidando il pericolo, quel 30 aprile le Madres lanciano al mondo un simbolo di resistenza, come una bandiera: un fazzoletto bianco con su scritto il nome dei loro figli scomparsi, un pannolino di tela con cui li hanno fasciati da piccoli. Donne semplici, via via sempre più coscienti e organizzate, consapevoli del rischio e disposte a continuare a prezzo della vita. Il 10 dicembre del 1977, nella giornata internazionale dei Diritti umani, il giornale delle Madres pubblica l’elenco dei ragazzi desaparecidos.
Quella notte, l’operaia Azucena Villaflor, una delle fondatrici viene sequestrata da uno squadrone della morte e condotta in uno dei campi di sterminio, probabilmente l’Esma. I suoi resti sono ritrovati l’8 luglio del 2005, durante la stagione dei processi ai responsabili della dittatura. Le ceneri vengono sepolte ai piedi della Piramide di Maggio, al centro della Plaza de Mayo, l’8 dicembre del 2005, a conclusione della 25ma marcia di resistenza delle Madres.
Oggi, il pañuelo è diventato un simbolo nazionale dell’Argentina «e per tutti i popoli del mondo rappresenta la lotta, la resistenza, la trasformazione collettiva», scrive Kabawil, il gruppo di appoggio italiano alle Madres. Per il loro 39mo compleanno, Kabawil ha organizzato una carovana, che si conclude oggi a Mar del Plata.
Cosa ricorda Hebe di quel 30 aprile di 39 anni fa? Com’è cominciata quella battaglia?
Da mesi, ci incontravamo al ministero degli Interni, nelle caserme, tutte alla ricerca dei nostri figli scomparsi. Un giorno, che può essere considerato il punto d’avvio, eravamo andate alla chiesa della marina Stella Maris, dal vescovo Emilio Gracelli che poteva avere notizie. E Azucena Villaflor ha detto: basta, andiamo in piazza. Eravamo stufe di girare a vuoto. Così ci rechiamo a Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale argentino, con una lettera per il generale Videla. Era un sabato, e lì non c’era nessuno, mentre noi volevamo essere visibili. Qualcuna suggerisce di tornare il venerdì, ma c’è chi dice: no, venerdi è il giorno delle streghe. Così cominciamo a girare in piazza il giovedì alle 15,30: per rientrare prima del buio, perché eravamo seguite e perseguitate.
Quanti figli ha perso?
Due, più mia nuora, sposata al maggiore. Ma per le Madres la maternità è collettiva, abbiamo deciso di socializzarla, parliamo dei nostri figli per parlare della storia di questo paese, dei molti giovani coraggiosi che le famiglie non hanno voluto ricordare. Loro hanno dato la vita per un sogno, noi abbiamo deciso di condividerlo e di rinnovarlo, ogni giorno da allora. Per noi, non sono né vittime – perché hanno lottato, anche con le armi per i propri ideali – né tantomeno terroristi. Nessun terrorista dà la vita per amore degli altri. La rivoluzione è un atto politico d’amore: perché sempre i popoli hanno motivo di lottare e di guardare a quelli che lo hanno fatto prima di loro per costruire una speranza. In Argentina abbiamo avuto 12 anni meravigliosi con il kirchnerismo, la casa del governo era aperta, era parte della nostra vita. Con Nestor e Cristina, l’Argentina ha aperto la scatola nera del passato, ci sono stati i processi, si sono rimesse in moto le energie.
Ma adesso è tornata la destra…
E siamo tutti responsabili. Certo, ci sono stati errori di tipo diverso: candidati che non sono stati all’altezza, la corruzione, ma il più grave è stato l’aver dato le cose per acquisite. Non abbiamo capito cosa sia davvero la lotta di classe. Abbiamo dimenticato che, senza un adeguato lavoro politico, la gente più umile quando ottiene dei benefici si rivolge verso l’alto e non verso il basso, pensa che chi sta più in alto possa darle ancora di più, senza capire che quello che ha avuto è perché se lo è conquistato. E così è arrivata la destra con le sue promesse megagalattiche di lavoro, felicità, parole vuote e demagogiche dirette agli strati più umili. Macri ha promesso di tutto, salvo quello che sta mettendo in atto: licenziamenti, pallottole per chi protesta, chiusura delle università popolari e delle mense scolastiche per i bambini poveri…
Le Madres sono nuovamente a rischio?
Sì, ci hanno minacciato di morte, telefonate continue in cui dicevano che ci avrebbero uccise. Quattro tizi armati sono entrati nella sede della nostra radio, hanno sfondato la porta, ferito un compagno. Io sono stata citata tre volte in giudizio per incitamento alla violenza. Una prima volta mi chiama il giudice e mi dice di andare a deporre. Rifiuto. Mi manda una citazione. Non vado. Mi dice: mandi il suo avvocato. Rispondo: non nomino nessun avvocato perché non ho commesso alcun reato. Se volete arrestarmi, fate. Sto aspettando. Un giorno ci hanno impedito di entrare in piazza, una camionetta di polizia proibiva l’entrata. Ma sono arrivati i compagni, insieme a 40 deputati.
La deputata Milagro Sala è in carcere per presunte irregolarità amministrative.
Sì, purtroppo. Mi ricordo che anni fa lavoravamo a un progetto di case popolari chiamato Il sogno condiviso. Con quello abbiamo fatto uscire dal carcere due detenuti e due emarginati che si trovavano in un ospizio. E questi, con la complicità di funzionari governativi hanno messo su una truffa con cui hanno cercato di screditarci. E un giudice ci ha obbligato a pagare i danni. Abbiamo capito che la politica non va mischiata con il denaro, con il capitalismo che non puoi controllare perché stimola solo gli interessi individuali, la politica va intesa nel suo senso più alto, come la migliore azione collettiva. Per questo, a differenza delle altre associazioni, abbiamo rifiutato risarcimenti economici per i nostri figli. Non c’è prezzo per la vita e non serve dedicare una strada a qualcuno degli scomparsi. I nostri figli non sono morti, vogliamo che vivano nelle lotte presenti insieme a tutti i 30.000 scomparsi. Per via dell’età, siamo sempre di meno, ma il nostro impegno è lo stesso: mostrare ai giovani che la lotta non è inutile, neanche il sangue versato è inutile e che non bisogna sentirsi vittime.
Lei è tornata in piazza per difendere il socialismo bolivariano e ha denunciato i golpe istituzionali in marcia in America latina.
Sì, bisogna difendere Nicolas, Dilma… Prima, per eliminare i presidenti le destre usavano l’esercito, oggi si servono dei giudici, dei grandi media e degli imprenditori. Nel governo Macri sono quasi tutti imprenditori, schierati per riconsegnare il paese ai fondi avvoltoio. E la sinistra non capisce che deve riformulare il proprio pensiero politico. Ma il popolo, durante gli anni del kirchnerismo ha imparato a scendere in piazza. Macri ha fatto un decreto per impedirci di scendere in piazza, ma il 24 marzo eravamo un milione di persone a rendere carta straccia il suo decreto. Uno tsunami. Il popolo è uno tsunami e uno tsunami non si ferma per decreto. In America latina si è aperta una speranza, dobbiamo lottare perché diventi realtà, senza delegare tutto ai politici. Loro fanno il possibile, il popolo deve fare l’impossibile e lì stanno le Madres.
Corriere 30.4.16
Come cadde Gheddafi Storia di una guerra sbagliata
risponde Sergio Romano

Lei ha spesso criticato l’operazione militare anglo-francese, lanciata con il sostegno degli Stati Uniti contro Gheddafi nel 2011. Ma che cosa si sarebbe dovuto fare? Aspettare che Gheddafi sterminasse tutti i suoi nemici, come aveva promesso? Le ricordo che quando Francia e Gran Bretagna entrarono in azione, il leader libico stava marciando verso Bengasi, centro della resistenza contro il suo regime.
Elio Sala Brescia

Caro Sala,
Effettivamente i bombardamenti anglo-franco-americani in Libia furono considerati un «intervento umanitario», nello stile di quelli realizzati dalla Nato sul territorio della Jugoslavia nel 1995 e nel 1999. A me sembrò che la parola «umanitario», come in molti altri casi, nascondesse fini, meno confessabili ed esponesse la società internazionale al rischio di conflitti sempre più difficilmente gestibili.
A chi osserva che vi sono circostanze in cui gli Stati moderni hanno l’obbligo morale di intervenire, risponderei che esistono almeno due modi di concepire gli «obblighi morali». Vi è l’etica dei principi, invocata quando uno Stato decide che è suo dovere porre fine a situazioni moralmente condannabili. Ma vi è anche l’etica delle responsabilità, quando lo Stato, prima di agire, si chiede anzitutto se sarà possibile terminare l’operazione senza lasciare alle spalle una situazione più grave, se sforzi ulteriori e imprevedibili potrebbero caricare sulle spalle del Paese un insostenibile onere umano e finanziario. Dopo le esperienze del Ventesimo secolo, le buone guerre si dovrebbero fare soltanto quando è necessario difendere il Paese da un pericolo mortale, quando il governo non ha altra scelta fuor che quella di chiedere ai suoi concittadini i sacrifici necessari.
Quella contro la Libia fu esattamente l’opposto. Non appena si accorse di avere commesso un errore, il presidente degli Stati Uniti fece un passo indietro. Non appena poterono sostenere di avere dato un colpo mortale al regime di Gheddafi, Francia e Gran Bretagna smisero di interessarsi alla sorte della Libia. Accusate di questa frettolosa negligenza risponderebbero di avere salvato le migliaia di vittime che avrebbero riempito le strade di Bengasi se Gheddafi avesse conquistato la città. Ma che cosa direbbero del numero molto più grande di uomini, donne e bambini uccisi dalla guerra civile che ha sconvolto il Paese negli anni seguenti e inondato l’Africa di armi provenienti dagli arsenali libici?
il manifesto 30.4.16
Ken «il rosso» scatena una «tempesta perfetta» nel Labour
Gran Bretagna. Dopo le dichiarazioni antisemite di Livingstone, Corbyn - accerchiato dalla destra interna e dai giornali - avvia inchiesta indipendente per stroncare ogni ombra di razzismo nel partito
di Leonardo Clausi

LONDRA È una «tempesta perfetta» quella che si è scatenata nel partito laburista, sul suo scomodo leader, Jeremy Corbyn, e sul principale alleato di questi, Ken Livingstone.
Perfetta, perché sfrutta la ben nota rozzezza verbale dell’ex sindaco di Londra – grande aficionado delle controversie mediatiche – mettendola al servizio dell’ormai soverchia necessità di togliere dalle mani di «Corbyn l’alieno» la macchina del partito, prima che questi ne cambi irreversibilmente i connotati politici.
Perfetta, perché lo sbriciolamento in diretta dei vertici Tories sulla questione del quasi imminente referendum europeo aveva disperato bisogno di essere compensata da un travaglio almeno lontanamente paragonabile nelle fila del principale partito d’opposizione e perché si gioca tutta su dichiarazioni scriteriate su scivolosi argomenti.
Tanto perfetta infine, da unire tutti i giornali britannici, dai cosiddetti quality papers a tabloid già di proprietà di facoltosi ammiratori del fascismo, in un indistinto quanto roboante sdegno corale, dove genuina indignazione e miserabile calcolo politico vanno tranquillamente a braccetto.
Tutto parte dalle dichiarazioni infiammabili di una parlamentare Labour, Naz Shah, deputata per la circoscrizione di Bradford, città dello Yorkshire con una notevole presenza musulmana, la quale aveva scritto nel 2014 sul suo profilo Facebook: «Soluzione al conflitto in Palestina: trasferire Israele in America».
È stata immediatamente sospesa dalla direzione dopo essere stata sommersa da un non incomprensibile torrente di critiche, tra cui l’accusa di antisemitismo, provenienti da dentro e fuori il partito. Shah, che ha subito fatto pubblica ammenda scusandosi, di certo avrebbe fatto a meno della catastrofica difesa ex post che Ken Livingstone aveva in serbo per lei, e che ha portato a sua volta alla sua stessa sospensione.
Ai microfoni della Bbc, Livingstone ha commesso l’errore più grave in qualsiasi contraddittorio politico, per tacere in uno che ha Israele e la Palestina come contenzioso: dopo aver definito la compagna «vittima di una ben orchestrata campagna della lobby di Israele», ha tirato in ballo Hitler dicendo che «la sua politica, quando vinse le elezioni nel 1932, era di trasferire gli ebrei in Israele» quando quest’ultima, peraltro, ancora nemmeno esisteva ed evocando così la sciagurata equiparazione sionismo-nazismo.
Una richiesta in carta bollata per fregiarsi dell’accusa di antisemitismo non avrebbe potuto funzionare meglio: in mezzo alle urla, Corbyn lo ha dovuto sospendere fin quando un’indagine disciplinare interna non avrà accertato la sostanza delle accuse.
Urla fisiche, come quelle con cui il deputato labour moderato John Mann non ha potuto trattenersi dall’investire Livingstone poco dopo l’intervista, una volta certo che ci fossero non meno di cinquanta telecamere a riprenderli. Sadiq Khan, il musulmano candidato Labour alle municipali di Londra che corre contro il tory Zac Goldsmith il prossimo 5 maggio, si è immediatamente unito al coro di critiche, come anche il vice di Corbyn Tom Watson, che ha preceduto il leader nel garantire che i presunti focolai di antisemitismo nel partito saranno debellati.
Era chiaro che l’ambigua quanto deliberata confusione di antisionismo e antisemitismo resa possibile dalla retorica – troppo spesso rozza – utilizzata dalle frange radicali del Labour targato Corbyn sarebbe stata utilizzata come un randello dalle due destre che circondano il nuovo corso del partito: la destra mercatista nel suo complesso e quella della componente parlamentare, ancora sotto shock per una sconfitta nella corsa alla leadership dalla quale stenta a riprendersi.
Un simile gergo antisemitico già esisteva nel partito ed era emerso in rete ben prima dell’ascesa di Corbyn.
Ma ora capita a fagiolo per bastonarlo politicamente: attraverso le accuse a un suo sodale noto per le antiche battaglie contro i veri razzisti del British National Party e della English Defense League e dimenticando i termini apertamente razzisti usati dal governo per definire i migranti.
Corriere 30.4.16
I medici di Aleppo: «Obama e Putin, dovete proteggerci»
Dr. Hatem, Direttore dell’ospedale pediatrico di Aleppo Dr. Abu Altiem, ospedale pediatrico di Aleppo Dr. Yahya, ospedale pediatrico di Aleppo Dr. Abu Albrae, ospedale pediatrico di Aleppo Dr. Abu Al Zubeir, ospedale pediatrico di Aleppo Dr. Khaled, ospedale Al Quds di Aleppo Dr. Salah Safadi, Associazione dei dottori indipendenti

In quanto dottori che da sempre lavorano in prima linea ad Aleppo, abbiamo avuto diverse riserve sulle possibilità di successo della cessazione delle ostilità decisa lo scorso febbraio. Purtroppo, nel corso degli scorsi giorni, le nostre peggiori paure si sono avverate. Aleppo sanguina.
Mercoledì scorso, aerei siriani o russi hanno bombardato l’ospedale di Al Quds nella parte orientale della città. Almeno 50 persone hanno perso la vita, più di 60 sono ferite e i volontari per l’organizzazione White Helmets (caschi bianchi) stanno ancora estraendo i corpi dalle macerie. Tra le vittime, il nostro caro amico e collega dottor Mohammed Wasim Moaz.
Ci ricorderemo per sempre del dottor Moaz come di un’anima gentile e coraggiosa, la cui devozione alla cura delle vittime più giovani di questa guerra non ha paragoni. Questo attacco ha derubato Aleppo est del suo ultimo pediatra, e Wasim era uno dei migliori pediatri rimasti in tutta la Siria. Si è trattato dell’ennesimo segnale del fatto che chi attacca Aleppo non ha nessun rispetto per la sacralità della vita e dell’umanità. Anche un altro caro amico, il dottor Mohammed Ahmad, uno dei dieci dentisti rimasti ad Aleppo est, è rimasto ucciso nell’attacco. Si aggiunge al dottor Moaz e ad almeno altri 730 nostri colleghi che sono rimasti uccisi nel corso dei passati cinque anni in Siria. I nostri coraggiosi colleghi che lavorano per i Caschi Bianchi hanno sofferto simili perdite, rischiando la loro vita per salvarne altre. Il giorno prima della morte del dottor Ahmad e del dottor Moaz, il centro di riabilitazione Al-Alareb gestito dai Caschi Bianchi è stato colpito più volte da missili terra-terra, provocando cinque vittime fra i loro volontari. Presto non saranno rimasti più medici ad Aleppo — a chi si rivolgeranno i civili bisognosi di cure?
Questa settimana nel corso di appena due giorni, quasi quattro persone sono state uccise ogni ora e più di cinque ferite. I nostri ospedali non ce la fanno più. Se questo non è un segnale che la cessazione delle ostilità è fallita, non sappiamo cosa altro potrebbe essere. La Russia e gli Stati Uniti si sono presi, a detta loro, dei seri impegni affinché la cessazione delle ostilità iniziasse e resistesse. Ma adesso non stanno mantenendo fede a quegli impegni e sono le donne, i bambini, gli anziani a pagarne il prezzo più alto.
Sebbene una tregua non sia di per sé una soluzione alla crisi, assicurarsi che regga può aiutare a prevenire ulteriori massacri come quello di Al Quds ed evitare che l’assedio di Aleppo sia completato. Se Aleppo dovesse essere assediata si tratterebbe di un disastro al livello di Srebrenica. La Russia sostiene di avere serie intenzioni riguardo la pace: è tempo adesso che dimostri tali intenzioni e rispetti i propri obblighi, assicurando che i bombardamenti della città finiranno e la cessazione delle ostilità venga rispettata da tutte le parti. Se, infine, la pressione della comunità internazionale e della Russia riusciranno a porre fine all’assalto contro Aleppo, sarà senz’altro un passo in avanti, ma molto di più deve essere fatto.
In quanto medici, ogni giorno abbiamo difficoltà ad avere accesso ai materiali di cui abbiamo bisogno per curare i feriti. I rifornimenti che arrivavano da Castello Road, l’unica strada percorribile per arrivare ad Aleppo est, è stata interrotta da mesi ed è a malapena operativa. Gli Stati Uniti dovrebbero utilizzare la loro influenza per fare in modo che questa rotta ritorni ad essere percorribile. In quanto co-responsabili dell’ International Syria Support Group (Issg), ciò che succede oggi ad Aleppo avviene sotto il controllo del presidente Putin e del presidente Obama. Loro hanno il potere e la responsabilità di proteggere i civili. Noi ci auguriamo e preghiamo affinché ne facciano buon uso, per il bene della Siria, dei nostri pazienti e di noi stessi.