sabato 14 maggio 2016

il manifesto 14.5.16
La guerra di Troia, tra mito e storia
Graphic Novel. Eric Snanower, "L'eta del bronzo", un attentissimo lavoro filologico, in cui le invenzioni, le variazioni sono poste al vaglio dei testi e della credibilità storica e letteraria
di Giancarlo Mancini

Non sono poche le riscritture a fumetti di personaggi storici, fatti più o meno misteriosi, delitti di stato e infine anche di classici della letteratura. E se la riscrittura è una delle pratiche dominanti dell’età moderna che riprende in mano i testi del passato per plasmarli in una nuova veste, questa riscrittura di Eric Shanower, L’età del bronzo (Magic press, € 15) è interessante da più punti di vista.
L’oggetto è la guerra di Troia, un qualcosa che oggi nel nostro immaginario è in bilico tra storia e letteratura, ovvero tra quanto tramandano gli storici dell’epoca e quanto invece ne possiamo desumere attraverso la lettura dell’Iliade omerica.
Shanower spiega nelle note la sua lunga passione per queste vicende e questi personaggi, avvolti per metà dal mito e per metà dalle rievocazioni.
Se nelle molte riscritture a fumetti di questi anni la dominante è sempre l’ironia e uno spirito di intromissione “goliardica” nei meandri della letteratura cosiddetta alta (ammesso che questi recinti significhino ancora qualcosa oggi), per lui la faccenda è tremendamente seria.
Filo rosso di questi sette volumi dedicati allo scontro tra troiani ed Achei è una sorta di tentativo sincretico, di trovare cioè una strada intermedia, tra le vicende raccontate da Omero e quelle invece raccontate dagli storici.
Questo ha implicato tutta una serie di scelte, da un lato volte a dare una coerenza e una compattezza narrativa al lungo racconto, dall’altro per dirimere alcune delle questioni che da sempre attanagliano sia i critici che gli scrittori.
Solo per fare un esempio, Paride, il personaggio da cui tutto, in un certo senso ha origine, essendo materialmente l’uomo che si occupa del rapimento di Elena, moglie di Menelao re di Sparta, invece di essere un pastore qui è un vaccaio e non solo perché alcune fonti come le Eroidi di Ovidio e il Ratto di Elena di Colluto, presentano altresì un Paride dedito alla cura di tori e vacche. Ma soprattutto perché nel sogno con cui incontriamo Paride nella vignetta d’apertura, l’autore preferisce dissolvere il volto della dea Afrodite sul muso di una mucca anziché su quello di una pecora “perché nell’antichità gli occhi bovini erano ritenuti simbolo di bellezza e Paride, in sogno, aveva appena eletto Afrodite come la più bella tra le dee. Ma l’idea del Giudizio interpretato come sogno iniziò a svilupparsi in maniera diversa. La mucca, però, rimase per evidenziare la familiarità di Paride con i bovini, aggiungendo credibilità alla sua decisione di riottenere il toro.”
Oppure c’è l’utilizzo del cane Argo, che nella versione omerica caratterizza uno dei passi più struggenti dell’Odissea, quando ormai vecchio e malato riconosce Ulisse al ritorno a casa travestito da mercante. Nell’opera di Shanower lo incontriamo quasi subito, per drammatizzare la scena della pazzia di Odisseo e azzannare uno di quelli venuti assieme ad Agamennone per portarlo in battaglia, cioè lontano da casa.
Insomma siamo davanti ad una delle manifestazioni più mature e consapevoli del fumetto contemporaneo, senza alcun tipo di remora o di sudditanza rispetto a nomi altisonanti come quello di Omero, o anche solo per restare sul campo storico, della guerra di Troia.
Il lavoro di Shanowe, lo dimostra la ricchissima bibliografia posta alla fine del primo volume, dimostra un attentissimo lavoro filologico, in cui le invenzioni, le variazioni sono poste al vaglio dei testi e della credibilità storica e letteraria.
Per chiarire ancora di più le ragioni da cui scaturisce questa lunga e spaventosa guerra egli fa ricorso alle ragioni poetiche quanto a quelle politiche.
Le prime fanno capo ancora una volta ad Elena, mitiche, la donna più bella del mondo, colei in cui Paride vede incarnata la premonizione fattagli tempo addietro nel bosco. Poi ci sono i motivi d’onore, il patto tra i re delle varie città stato greche, in primis Agamennone.
Poi però c’è anche la geopolitica, l’occasione serve infatti al re miceneo per forzare la mano contro quella importante città stato posta in una dislocazione geografica invidiabile, alle porte dello stretto dei Dardanelli, quello che nell’antichità era chiamato l’Ellesponto.
La scelta più radicale rispetto alla struttura dell’epica omerica riguarda gli Dei che se lì erano parte integrante dello scontro tra le due fazioni, prendendo parte per l’una o per l’altra, portandosi dietro tutte i loro bizzosi criteri, qui sono posto interamente fuori dal racconto e dal recinto dove le cose accadono.
“Ho scelto di ridimensionare l’elemento soprannaturale per aver modo di enfatizzare quello umano. I soli elementi fantastici che ho conservato sono i sogni e le visioni. Che, a ben pensarci, non sono necessariamente soprannaturali in toto. Tutti noi sogniamo. Alcuni soffrono di allucinazioni. Altri sono convinti di avere delle visioni. In ogni parte del mondo ci sono persone che ritengono di potere comunicare con gli dei attraverso le preghiere. Così sogni e visioni fanno parte dell’opera… hanno un carattere abbastanza umano, dopo tutto.”
Nato a key West, in Florida, nel 1963, Eric Shanower inizia a dedicarsi al disegno e alla scrittura delle storie a soli 6 anni, per proseguire, a modo suo I libri di Oz di Frank Baum.
Con l’età del bronzo, iniziato nel 1991 ha vinto l’Eisner Award come miglior scrittore e miglior sceneggiatore nel 2001 e nel 2003.
Nell’età del bronzo Shanower dimostra non solo le sue qualità di sceneggiatore e di disegnatore ma anche, su una prospettiva più ampia, quanto in questi ultimi anni il fumetto sia diventato, o tornato ad essere dipende dai punti di vista, una delle forme espressive più pregnanti di quest’epoca.
il manifesto 14.5.16
Ucciso il comandante militare Hezbollah, occhi puntati su Israele
Siria/Libano. Mostafa Badraddine sarebbe stato ucciso in Siria da una bomba sganciata da aerei dello Stato ebraico. Ma erano tanti i nemici del "capo di stato maggiore" del movimento sciita libanese alleato di Bashar Assad
di Michele Giorgio

Si attendevano ieri in tarda serata, secondo un annuncio fatto nel pomeriggio da Naim Qassem, numero due di Hezbollah, i risultati delle indagini sulla potente esplosione che, pare, martedì a Damasco, ha ucciso Mustafa Badreddine, il comandante militare del movimento sciita libanese sepolto ieri tra migliaia di attivisti e simpatizzanti. La televisione libanese al Mayadeen ieri ha ritirato la notizia diffusa in un primo momento secondo la quale Badreddine sarebbe rimasto ucciso in un violento raid aereo israeliano compiuto nei pressi dell’aeroporto della capitale siriana. La pista dell’attacco dal cielo resta la più concreta. L’aviazione israeliana nell’ultimo anno e mezzo ha colpito e ucciso esponenti di Hezbollah alla guida dei guerriglieri libanesi che combattono con l’esercito governativo siriano contro i jihadisti sunniti. Come Samir Kuntar, per quasi 30 anni detenuto in Israele, e Jihad Mughniyeh, figlio di Imad Mughniyeh, lo storico comandante militare di Hezbollah dilaniato nel 2008, sempre a Damasco, da una bomba piazzata sotto la sua automobile da agenti del Mossad. Israele non ha commentato in via ufficiale la morte di Badreddine. Eppure se da un lato non conferma di essere dietro la «potente esplosione» che ha ucciso il capo militare di Hezbollah, dall’altro nemmeno smentisce.
Tuttavia nella Siria terreno di scontro per gli interessi delle potenze internazionali e regionali, dove si è terroristi solo se si è schierati contro gli Usa e Israele o si è alleati di Bashar Assad e al contrario si viene considerati “combattenti per la libertà” anche quando si massacrano civili inermi (come hanno fatto i miliziani di Ahrar al Sham due giorni fa nel villaggio alawita di Zara), è evidente che un personaggio come Badreddine aveva molti nemici, oltre a Israele. La vicenda personale, politica e militare del comandante di Hezbollah ha attraversato gli ultimi 35 anni di storia non solo del Medio Oriente. I suoi nemici l’hanno accusato di tutto: di aver fatto parte del commando che nel 1983 attaccò le ambasciate di Francia e Stati Uniti a Kuwait city (decine di morti) e di aver organizzato l’attentato in cui è rimasto ucciso nel 2005 l’ex premier libanese Rafiq Hariri. Un importante quotidiano italiano inoltre ieri lo definiva un «nuovo ricco» che passava la vita «tra yacht di lusso e blitz militari in Siria», insomma il solito profilo del terrorista assetato di sangue che se la spassa nei momenti di relax. Di certo c’è che Mustafa Badreddine dopo aver preso il posto di Imad Mughniyeh nel 2008, ha contributo in modo determinante ad accrescere il potenziale bellico del movimento sciita. Poi, nel 2012, un anno dopo l’inizio della guerra civile siriana, ha convinto il suo leader, Hassan Nasrallah, ad inviare reparti scelti a difesa dei siti sacri sciiti a Damasco minacciati dai jihadisti sunniti, il primo passo verso il coinvolgimento pieno di Hezbollah a sostegno di Damasco e del presidente Bashar Assad.
Come si è detto il ruolo centrale avuto in Siria rendeva Badreddine obiettivo di Israele e, allo stesso tempo, di avversari arabi. Non è da escludere peraltro una collaborazione tra Tel Aviv e Riyadh per eliminare un nemico comune. Israele potrebbe aver svolto l’attività di intelligence poi usata da uno dei numerosi gruppi sunniti radicali sul libro paga di re Salman dell’Arabia saudita. L’ipotesi più concreta resta però quella dell’attacco aereo israeliano. La storia insegna che l’establishment politico-militare israeliano raramente ha rinunciato all’opportunità di eliminare un capo di una organizzazione nemica, anche a costo di provocare una escalation militare. Figuriamoci con un personaggio come Mustafa Badreddine, il “capo di stato maggiore” di quella che senza dubbio può essere considerata la forza militare più preparata e determinata che Israele abbia dovuto affrontare negli ultimi decenni. A maggior ragione ora che la tensione è in costante aumento e si parla con insistenza di un “secondo round”, una nuova guerra dopo quella che fu combattuta dieci anni fa dal movimento sciita e lo Stato ebraico in Libano del sud.
Cosa farà Hezbollah, che ha subito un colpo durissimo, se sarà confermata la responsabilità di Israele nell’uccisione del suo capo militare? Il movimento sciita, anche dopo la bomba che a Damasco uccise Imad Mughniyeh, ha attuato rappresaglie limitate per vendicare l’uccisione di alcuni suoi esponenti di primo piano da parte di Israele. Ed è difficile immaginare che in questa occasione possa rispondere con un’ampia operazione militare. Con 5-6mila dei suoi combattenti impantanati nella guerra civile siriana, la capacità di azione di Hezbollah appare ristretta. Il movimento sciita non appare in grado al momento di sostenere l’urto sul terreno dell’esercito israeliano, uno dei più potenti al mondo, come aveva saputo fare nell’estate del 2006. Una nuova guerra, ha già annunciato Israele, coinvolgerà tutto il Libano con effetti devastanti, un altro punto che potrebbe frenare Hezbollah dal tentare di vendicare l’uccisione di Badreddine. Il movimento sciita infine considera fondamentale in questa fase restare impegnato in Siria. La caduta di Damasco avrebbe effetti più devastanti per le sue strategie di quelli dell’uccisione di un capo militare certo importante e carismatico ma comunque sostituibile.
il manifesto 14.5.16
«Noi Sikh in rivolta nonostante i crumiri»
Terzo rapporto Flai sul caporalato. Il primo sciopero dei braccianti e allevatori indiani: tutti alla manifestazione della Cgil per le strade di Latina. Ma i padroni organizzano pullman pieni di concorrenti
Susanna Camusso, il ministro Maurizio Martina e due lavoratori Sikh: hanno parlato ieri alla presentazione del Terzo rapporto Flai Cgil su agromafie e caporalato
di Antonio Sciotto

Una protesta speciale, quella dei braccianti Sikh della provincia di Latina: qualche settimana fa hanno scioperato e sono scesi per la prima volta in piazza per rivendicare migliori condizioni di lavoro, visto che la raccolta dell’Agro pontino non ha nulla da invidiare, in quanto a sfruttamento, a quelle pugliesi o calabresi. Ieri alla presentazione del Terzo Rapporto su Agromafie e Caporalato hanno preso la parola due di loro.
Sohi Hamjot Singh, in particolare, ha spiegato che mentre tanti braccianti erano impiegati nello sciopero, «i caporali organizzavano i pullman con alcuni sostituti. Ma noi non abbiamo ceduto».
Dalle 10 alle 12 ore di lavoro al giorno per una paga oraria di 3, 4 o anche soltanto 2 euro, in nero o con buste paga false: le tariffe riservate da tanti imprenditori pontini ai lavoratori di origine indiana Sikh (per lo più provenienti dal Panjiab) sono assolutamente criminali. Vengono impiegati come braccianti, nei campi e nelle serre, o come mungitori.
Si tratta, spiega la Flai Cgil, di una comunità di circa 30 mila persone concentrate per lo più nell’area tra Latina, Sabaudia e Terracina. Chi non dorme in alloggi di fortuna, in serre o stalle, abita a Borgo Hermada, a Bella Farnia, a Sabaudia. A Bella Farnia, in un residence con villette a schiera vivono oggi circa 1000 indiani. C’è il campetto da calcio, il negozio di alimentari con prodotti indiani, ci sono le case affollatissime il cui affitto è circa 500 euro al mese. A Sabaudia c’è anche un tempio Sikh: luogo di culto e di socializzazione, ma aperto anche a chi vuole offrire assistenza e informazione. La Flai Cgil è infatti presente con un banchetto.
I viaggi per raggiungere l’Italia avvengono tramite intermediari che in cambio di 5 mila/7 mila euro promettono un contratto. Quando arrivano l’illusione dura solo qualche mese, poi il ricatto costante giocato sul rinnovo del permesso di soggiorno.
il manifesto 14.5.16
Sinistra per Roma, veleni anche sull’unico rimasto in pista

Non c’è pace per la sinistra romana. Ieri un quotidiano ha sostenuto, sulla base di un «parere» del Viminale, «l’ineleggibilità» a presidente di municipio di Andrea Catarci, due volte presidente e ora ricandidato all’VIII municipio.
Catarci peraltro è l’unico collegato a «Sinistra per Roma» che non si era visto escludere le liste. In questione sarebbe l’eventuale terzo mandato.
Per Catarci «sono solo falsità, nessun ente ha mai scritto né sostenuto la tesi della mia ineleggibilità, come riportato da un fazioso attacco a mezzo stampa. C’è di più. Malgrado il suddetto parere, il ministero medesimo si è espresso, con i fatti, in maniera inequivocabile. Infatti, l’unica verità risulta dal verbale della Commissione elettorale circondariale di Roma, con cui è stata approvata la mia candidatura. Qualcuno evidentemente accarezza l’idea di far fuori la sinistra cittadina dalle elezioni per via burocratica, ma ha sbagliato i suoi conti».
il manifesto 14.5.16
Fassina escluso: farò un altro ricorso
Il Tar conferma l’esclusione di «Sinistra per Roma». Forse già oggi sarà depositato il nuovo tentativo. Corsa contro il tempo per i legali del comitato. «Non ci fermiamo qui, siamo convinti delle nostre ragioni»
di Daniela Preziosi

ROMA Tira un’ariaccia nella sinistra romana che miracolosamente era riuscita a riunirsi sotto le insegne di «Sinistra per Roma» e alla guida di Stefano Fassina, l’ex deputato pd oggi passato nelle file di Sinistra italiana. Ieri sera il Tar del Lazio ha confermato l’esclusione del candidato dalla corsa elettorale. Non sono riammesse le sue due liste «Sinistra per Roma – Fassina sindaco», la lista ’politica’, e la «Civica per Fassina sindaco» erano state escluse dalla Commissione elettorale circondariale perché 670 firme su circa 1500 erano prive della data di autenticazione. I legali hanno esposto la loro tesi: il vizio formale sarebbe di fatto superato dalla circostanza che l’autenticatrice, la vicepresidente del Municipio IV, è entrata in carica successivamente allo scattare del periodo di 180 giorni precedente le elezioni prima del quale per legge non è possibile raccogliere le firme stesse. Durante l’udienza il dibattito è stato interessante. Ma alla fine i giudici hanno deciso di confermare la decisione della commissione elettorale.
Ma Fassina non molla. E così ieri dopo aver espresso l’ovvio «rammarico» per la sentenza contraria ha subito annunciato di essere pronto ad andare avanti. Con i ricorsi, per ora. «Non ci fermiamo qui. Siamo convinti delle nostre ragioni e ricorreremo al Consiglio di Stato». A stretto giro anche Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, si è schierato a fianco del collega: «Andiamo avanti».
E probabilmente il primo ricorso sarà depositato già stamattina. È una corsa contro il tempo, quella dei comitati e del team dei legali guidati dall’avvocato Pietro Adamo. Anche per non demotivare i militanti a continuare la mobilitazione.
C’è quindi un’ultima speranza di tornare in corsa. Ma è inutile nascondersi che, al di là delle probabilità di esito positivo del nuovo ricorso, il morale della sinistra romana si avvia a finire sotto le scarpe.
In questi giorni Fassina aveva continuato a fare iniziative elettorali e anche provato a tenere unita un’area ancora segnata da un inizio di campagna incerto, durante il quale proprio i suoi compagni di partito di Sinistra italiana-Sel avevano tentato di allargare la coalizione cercando altri nomi al posto di quello dell’ex viceministro. Massimo Bray, gradito a D’Alema; poi Ignazio Marino, il sindaco defenestrato dal Pd. Entrambi si erano defilati , e alla fine sul tenace Fassina bongré malgré è confluita tutta l’area della sinistra, anche quella che fa capo al vicepresidente della regione Lazio Massimiliano Smeriglio, già fautore del centrosinistra nel 2013 ed oggi, a coalizione morta e sepolta, polemico verso un posizionamento troppo «autosufficiente» della lista.
Al netto dell’attesa della prossima sentenza, difficile che la brutta botta della nuova esclusione non faccia riesplodere i conflitti interni che si erano ricomposti sulle liste unitarie. Anche perché in questi giorni sono circolati veleni sull’origine del clamoroso svarione alla base dell’esclusione. In rete c’è chi ipotizza complotti, trappoloni, per di più attribuiti di chi per favorire il Pd si sarebbe sacrificato fino all’autoeliminazione. Tutto, pur di non ammettere una verità assai più probabile: che il ko organizzativo è stato il riflesso di un’amalgama politica non riuscita. Va detto che fin qui nessun dirigente, di nessun’area della coalizione, ha azzardato a intestarsi queste teorie.
Ma, nel caso, sarà la scelta politica a incaricarsi di accendere pubblicamente le polveri sulla destinazione del tesoretto dei voti della sinistra. Martedì scorso Fassina ha promesso ai suoi candidati che, nella caso più brutto dell’esclusione, li riunirà per decidere insieme quale indicazione di voto dare. Sulla decisione pesa una vecchia dichiarazione di Fassina in cui non escludeva il voto ai 5 Stelle in caso di ballottaggio. I candidati, al momento dell’accettazione della corsa, si sono impegnati a rispettare la decisione della lista. Ma non è un mistero che un pezzo di Sinistra italiana, non solo romana, non ha alcuna intenzione di indicare Virginia Raggi nella scheda al secondo turno. Tanto meno al primo.
Repubblica 14.5.16
L’appello degli editori indipendenti
“La nostra sopravvivenza è a rischio l’Antitrust vigili su Mondadori-Rcs”
L’iniziativa della Laterza: “È difficile per il Garante controllare l’efficacia dei rimedi contro la posizione dominante”
Ferri di E/O: “Amazon è dannoso per i librai”
Selva Coddè: “Allargheremo il mercato garantendo l’autonomia dei nostri marchi”
di Simonetta Fiori

TORINO E alla fine la rivolta degli editori indipendenti è arrivata. Perché questo è un Salone diverso dagli altri, il primo che celebra le nozze autorizzate dall’Antitrust tra i due più grandi gruppi editoriali italiani, Mondadori e Rizzoli, con la nascita di un nuovo colosso che detiene quasi il 30 per cento del mercato, quota che non ha pari nel resto d’Europa. «E anche il 60 per cento del tascabile », precisa Giuseppe Laterza mentre fa volantinaggio davanti al suo stand. «Cosa vuol dire il dato sul tascabile? Significa che Mondadori e Rizzoli possiedono il più grande catalogo di tutti i tempi, da Omero a Calvino». Laterza distribuisce la lettera scritta con il cugino Alessandro al presidente dell’Autorità garante della concorrenza. «Chiediamo a Pitruzzella di vigilare sulle condizioni che l’Antitrust ha posto al nuovo gruppo: condizioni che noi riteniamo molto difficili da verificare nel concreto funzionamento del mercato editoriale». Niente di personale, aggiunge con un sorriso: «È però in gioco un pluralismo economico e culturale che è alla base di una società libera». E tra i firmatari del suo appello, accanto a Rodotà e De Mauro, compare anche la firma di Settis, un autore del catalogo Einaudi.
A poche centinaia di metri Sandro Ferri, l’editore della Ferrante che vanta un marchio felice anche in America, ha appena manifestato le sue preoccupazioni nel corso della tavola rotonda organizzata dall’Aie. «In Italia ci sono 600 librerie Mondadori: possiamo pensare che diano spazio agli editori indipendenti?». Il timoniere di E/O è molto critico anche verso Amazon, un «business dannoso» per editori e librai. «Mi meraviglio che il governo abbia nominato come responsabile del digitale proprio il vicepresidente di Amazon, che si è messo in aspettativa: un conflitto di interessi mostruoso». Sono due diverse concezioni del libro quelle che si confrontano ieri mattina al tavolo dell’Aie, dove accanto a Ferri siedono Enrico Selva Coddè, Ceo di Mondadori Libri, e Paola Ronchi, direttore generale di Harper Collins Italia. Due modelli diversi, quello artigianale e quello manageriale, la bibliodiversità e i bestseller, le librerie indipendenti e le librerie di catena, che naturalmente possono anche convivere, «a condizione che non vi siano posizioni predominanti», dice Ferri.
Il capo di Mondadori ascolta con attenzione e poi replica: «È in atto un grande processo di cambiamento nell’editoria mondiale. Un grande editore deve aggregare le diverse case editrici conservando l’autonomia di ciascun marchio». Coabitazione e non concentrazione, tiene a specificare: «L’autonomia è una necessità economica e nel gruppo possono convivere la traduzione integrale di Finnegans Wake e Anna Todd». Si tratta anche di allargare un mercato che oggi è ancora troppo piccolo, «raggiungendo i lettori che ora non ci sono».
Nel tardo pomeriggio c’è un altro incontro tra editori, ma questa volta Mondadori ha rifiutato l’invito. E nel pubblico scarseggiano anche i gruppi più grandi, ad eccezione del vecchio Achille Mauri. Ad aprire la discussione è un economista della Bocconi, Michele Polo, che è molto nitido sul «potere attrattivo della nuova corazzata che già detiene il 60/65 per cento dei top seller». Una quota, dice il professore, «che andrà allargandosi, vista la capacità seduttiva che potrà essere esercitata con gli autori italiani e i publisher stranieri». Molto critico verso la sentenza dell’Antitrust, l’economista giudica «troppo timidi i rimedi suggeriti dall’autorità garante». E chi è stato escluso dal matrimonio «provvederà ad altre nozze per sopravvivere al nuovo colosso». Un mondo concentrato che non piace ad Antonio Sellerio, seduto al tavolo insieme a Giuseppe Laterza e a Bruno Mari, vicepresidente di Giunti: «Solo un dato: nelle librerie indipendenti, Sellerio ha 8 titoli tra i 100 più venduti; nelle librerie di catena questa cifra scende a 2». Ora qualche dato sul mercato dei libri che cresce nel primo trimestre del 2016 dello 0,1 per cento, grazie soprattutto ai romanzi d’amore, ai libri sulla cristianità (che poi vuol dire Papa Francesco), ai testi per la preparazione di esami e concorsi. Cresce anche la strana voce di «non fiction specialistica»: scopriamo che dentro vi è scivolato il libro postumo di Eco Pape Satàn Aleppe (chissà come avrebbe commentato l’autore). Dove si comprano i libri? Sempre più in libreria e sempre meno nella grande distribuzione, soppiantata dalle crescenti vendite online. Stabili i libri per bambini e ragazzi. A questo si aggrappano le speranze degli editori. Ancora una volta il mondo salvato dai ragazzini.
Repubblica 14.5.16
Artematica
La bellezza segreta dei numeri tra le note di Bach e i canti di Leopardi
Grandi protagoniste al Salone del libro, le scienze possono suscitare in noi un piacere estetico. Come insegnano alcuni poeti, pittori, musicisti
di Piergiorgio Odifreddi

Un poeta come Giacomo Leopardi ha scritto molti canti alla Luna ma nessun inno al Sole, perché trovava più bellezza nel colore soffuso e nascosto della notte che nello splendore accecante e palese del giorno. Un pittore come Claude Monet ha dipinto ninfee in uno stagno invece che scene di guerra su un campo di battaglia, perché era più toccato dalle presenze silenziose dei fiori che dagli affanni muscolari degli uomini. Un avventuriero come Pierre Loti ha perso la testa per una turca di nome Aziyadé e non per un’anonima ballerina francese di can-can, perché c’è più fascino in occhi celati dietro una grata che in gambe nude agitate su un palcoscenico. Un eroe come Ulisse ha passato sette anni su Ogigia invece di tornare a casa a Itaca,
perché la presenza di una ninfa velata lo turbava più dell’assenza di una moglie svelata. La matematica ha più le caratteristiche della pallida luce lunare, delle ninfee silenziose nella bruma, di uno sguardo femminile appena intravisto o della forma di un corpo suggerita da un velo, che non della luce solare, del fragore di una battaglia, di un ballo sguaiato o di un volto scoperto. Per accorgersi della sua bellezza bisogna allertare i sensi e la mente ed essere pronti a riconoscerla negli indizi e nei cenni che essa dà di sé, senza sperare di incontrarla per caso e di inciamparci dentro facilmente. Ma così facendo la si trova profusa nella natura e nell’arte, oltre che naturalmente nella matematica stessa.
Per quanto riguarda la natura, bisogna anzitutto sfatare uno sciocco mito romantico diffuso da William Blake, che nella poesia Sfottete, sfottete del 1796 accusava Voltaire e Rousseau di gettare sabbia intellettuale contro il vento dello spirito. E come esempio di questa sabbia citava esplicitamente «gli atomi di Democrito e le particelle di luce di Newton». Blake pensava che la comprensione dei meccanismi matematici di ciò che ci circonda dissolvesse la poesia dalla visione del mondo, ma non capiva che tutto ciò che vede il poeta continua a vederlo anche il matematico. Leopardi era invece perfettamente conscio di questa ovvietà. Scrivere il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia o
Alla Luna non gli impedì di capire che ci sono più cose in cielo e in Terra di quante ne sogni la poesia, e di abbinare a quei componimenti una Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811.
Che cosa vede della Luna la matematica, che la poesia non vede? Ad esempio, un fatto scoperto nel 1666 dal Newton odiato da Blake: che il nostro satellite è in perenne caduta verso la Terra, e cade in un minuto nel cielo della stessa distanza caduta da una mela in un secondo sulla Terra. Se non ci precipita addosso, è solo perché il principio di inerzia tende costantemente a farla fuggire per la tangente, mentre l’attrazione gravitazionale della Terra continua perennemente a catturarla e le impedisce la fuga. Tra l’altro, non c’è meno poesia nel fatto che la forza che tiene la Luna in orbita è la stessa che fa cadere le mele, di quanto ce ne sia nel paragone tra il suo vagabondare per i cieli a la vita di un pastore errante nei campi (sempre per inciso, “errante” è il significato della parola greca planetes, “pianeta”, come ben sapeva Leopardi).
Non sono solo certi letterati a pensarla come Blake, ma anche certi artisti. Michelangelo, ad esempio, che per sminuire gli aspetti geometrici dell’arte diceva che «l’artista deve avere il compasso negli occhi»: nel senso che non deve far calcoli matematici, ma vedere istintivamente le proporzioni estetiche. Quando furono tolte le impalcature della prima metà del soffitto della Cappella Sistina, si accorse però che il suo compasso oculare aveva fatto cilecca e le figure risultavano troppo piccole. Nella seconda metà fu costretto a ingrandirle gradualmente, fino a raggiungere le proporzioni corrette, ma imparò la lezione. E quando una ventina d’anni dopo dovette dipingere il Giudizio Universale, pianificò col compasso le figure in alto in modo che fossero molto più grandi di quelle in basso.
Michelangelo aveva fatto un tipico errore di “anamorfosi”, una tecnica scoperta da Leonardo che costituisce un complemento della prospettiva: mentre questa insegna come disegnare le figure correttamente in modo da farle apparire come le vede l’occhio in situazioni usuali, quella insegna come disegnarle deformate in modo che l’occhio le percepisca corrette se esposte in situazioni inusuali. Le anamorfosi sono particolari esempi di bellezza matematica nell’arte, come lo sono le fughe musicali barocche: anche le loro proporzioni devono essere calcolate esattamente in modo che le voci si amalgamino l’una con l’altra in maniera armoniosa. Non è un caso che Johann Sebastian Bach avesse una particolare sensibilità matematica che emergeva nella struttura geometrica delle sue opere, in particolare, e soggiaceva all’intero contrappunto dell’epoca, in generale.
Che la bellezza matematica possa affiorare nella descrizione scientifica o artistica del mondo probabilmente lo si può accettare di buon grado, pur intuendo che i dettagli rimarranno nascosti in maniera misteriosa alla vista di chi non è del mestiere. Più sorprendente è il fatto che la bellezza si ritrova anche all’interno della matematica stessa. Per fare un esempio semplice ma non banale, nel terzo secolo della nostra era Diofanto d’Alessandria pubblicò un trattato di Aritmetica, in cui annotò una curiosità relativa al numero 65. Da un lato, è il prodotto di 5 e 13, che sono entrambi somme di due quadrati: rispettivamente, 1 più 4 e 4 più 9. Dall’altro lato, anche 65 stesso è somma di due quadrati, addirittura in due modi diversi: 1 più 64, oppure 16 più 49.
La cosa rimase appunto una superficiale curiosità per più di un millennio, fino a quando nel 1572 Rafael Bombelli pubblicò l’Algebra e introdusse quelli che lui chiamò “numeri complessi”, e Cartesio “numeri immaginari”: nomi giustificati dal fat- to che, ad esempio, possono avere segno “meno” quando li si eleva al quadrato, contro la regola dei numeri reali che “più per più fa più”, ma anche “meno per meno fa più”. Una volta introdotti i numeri complessi o immaginari, si capì la ragione profonda della proprietà del numero 65: le lunghezze dei numeri complessi si ottengono mediante la somma dei quadrati delle loro componenti, e la lunghezza di un prodotto come 65 è uguale al prodotto delle lunghezze dei suoi fattori 5 e 13.
Connessioni di questo tipo sono ubique nella matematica, e hanno la stessa natura misteriosa delle alchimie delle parole dei poeti, delle convergenze dei punti di vista degli artisti o delle confluenze di voci nelle composizioni dei musicisti. In queste misteriose connessioni si cela la molteplice, e allo stesso tempo unica, bellezza delle varie discipline.
L’autore dopodomani alle 16, al Salone del libro ( Sala Azzurra) terrà una lectio dal titolo La matematica araba.

Repubblica 14.5.16
Quei cervelli sotto il monte tra Jules Verne e il Big Bang
Nei laboratori del Gran Sasso dove lavorano i ricercatori italiani che il mondo ci invidia
di Maurizio Crosetti

ASSERGI (LÕAQUILA) ZITTI tutti: qui si cerca la materia oscura immersi nel silenzio cosmico. E i cellulari non prendono. E fa un freddo boia. E si incontrano solo cervelloni. Ma per una volta i cervelloni non scappano, anzi le grandi università del mondo li pagano per fare ricerca qui, in casa loro, in casa nostra, sotto un chilometro e mezzo di roccia, nel più grande laboratorio sotterraneo del pianeta. A un tiro di schioppo da una città distrutta da un terremoto e che nessuno ancora sa, o vuole, ricostruire davvero.
Elmetto di plastica in testa, si entra dal tunnel dell’Aquila- Teramo sotto il massiccio, si passa come palline da flipper attraverso giganteschi tubi, si scivola nel labirinto annodato che collega tre enormi sale col soffitto alto come Notre Dame, e in fondo proprio di questo si tratta, una silenziosa cattedrale della scienza.
Mille ricercatori di 32 Paesi spiano l’universo e le sue origini, cercando di capire come sia nato e come sia fatto: il 95 per cento ancora ci sfugge, ma il 5 per cento che possediamo è la storia dell’umanità, è il corpo di un bambino, di un fiore, di un ramarro, di una galassia. Tutto, eppure quasi niente.
Si potrebbe pensare che le migliori menti di svariate generazioni siano fuggite dopo la laurea, invece non è proprio così. I più bravi studiano in Italia e poi all’estero, ma un bel giorno tornano perché i laboratori del Gran Sasso non li ha nessuno.
Tornano anche dalla Columbia University, come il professor Marcello Messina, napoletano, 44 anni: gli americani lo hanno incaricato di curare la messa in opera di una cosa che si chiama Xenon1T, esperimento che andrà a caccia della “dark matter”, la materia oscura.
Potevano stupirci con effetti speciali, questi: tre tonnellate e mezzo di Xenon liquido (costa 1200 dollari al chilo) dentro una specie di condensatore gigante. Il professore apre la porta del silos, ci fa entrare, saremo tra gli ultimi a poter guardare dentro perché tra poco si comincia.
«Sulla ricerca si raccontano troppe bugie, noi italiani abbiamo insegnato agli Stati Uniti come si fa un istituto di fisica, i cinesi ci copiano, siamo un’eccellenza assoluta. Però siamo provinciali e amiamo farci del male, obbligando un ricercatore a vivere con 1.200 euro al mese. Smettiamola di trattarci così: pure all’estero fanno carriera gli amici degli amici, ma qui la proporzione è esagerata».
Il professore ha occhi profondi da divoratore di libri e monitor, però giura che la fisica non è una cosa difficile: «Molto peggio il latino, mi creda ». Si vede che è pieno di passione, e la spiega con un paio di domande: «Lei pensa di riuscire a sottrarsi al fascino di una teoria che può descrivere tutto l’universo? Pensa di non essere conquistato dalla luce che si piega alla curvatura dello spazio tempo?» Siamo sotto terra per proteggere gli esperimenti dalla pioggia delle radiazioni stellari, un po’ Jules Verne, un po’ topi dei cartoni. Qui da trent’anni si mastica fisica astroparticellare, neppure un’ora di vacanza da Capodanno a San Silvestro.
E se un giorno potremo sapere da dove veniamo, forse dovremo ringraziare anche Lucia. Ha 34 anni, Lucia Canonica, una laurea a Genova e poi l’incarico dal Massachusetts Institute of Technology di Boston per partecipare al progetto Cuore. Si tratta del neutrino, “la cosa più vicina al niente che esista”.
«Non sappiamo molto della sua massa, della sua natura, di quanto pesi».
Anche Lucia ha quegli occhi da libri, e il suo lavoro ha alleati pesantissimi e antichi di duemila anni. «Questi lingotti di piombo risalgono all’epoca romana» dice, indicando il box dove sono stati messi in fila. «Li trovò per caso un subacqueo al largo della Sardegna, su una nave Romana affondata. In due millenni hanno perso la loro radioattività, dunque sono perfetti per schermare il nostro esperimento che avverrà dentro torri di cristalli di ossido di tellurio ».
Cristalli, tellurio, antichi Romani. Forse, a proposito del fascino ha ragione il professore: qui sotto ce ne sono scorte planetarie. «Abbiamo ripulito i lingotti e poi li abbiamo fusi nelle forme circolari che ci servivano, si tratta di creare uno schermo attorno al tellurio».
Lucia, quanto guadagna? «Millequattro e cinquanta, non tanto, ma non è questo il punto. In Italia manca la cultura della ricerca, si pensa sia una cosa da lasciare ai pazzi, ai cervelloni o ai disadattati. Se fai il ricercatore non vuol dire che sei bravo, ma che non sei riuscito a trovare un lavoro migliore. Io sono a posto per almeno cinque anni, ma un giorno potrei anche insegnare matematica alle medie, e lo dico col massimo rispetto ».
Sbirciare nell’universo, dal Big Bang a tre minuti fa, costa 6 milioni di euro l’anno. I Laboratori del Gran Sasso fanno parte dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dunque sono un ente pubblico di ricerca.
Tra i giovani con un contratto di ricercatore a tempo determinato c’è anche Luca Pattavina, romano con laurea milanese, Erasmus a Parigi, dottorato a Lione, da quattro anni sotto le pietre del Gran Sasso. Pure lui non supera i 1.500 euro al mese, se fosse rimasto all’estero sarebbero come minimo 3mila.
Materia oscura, veramente. E allora, Luca, perché? «Perché andarmene sarebbe un compromesso al ribasso: nel mio campo di studi, l’Italia è leader mondiale e altrove imparerei sicuramente meno. La paga è bassa, le opportunità di ricerca altissime: non esiste in nessun angolo del pianeta un luogo come questo».
Sul pannello che Luca ha di fronte, pieno di misteriosi pulsanti, c’è il disegno di un uomo buffo che tende un arco. «Perché l’esperimento che stiamo preparando si chiama Cupid ed è strettamente collegato a Cuore».Ancora neutrini. E quando si parla di esperimento, non bisogna immaginare gli alambicchi e i ricordi del piccolo chimico, ma un cantiere che rimane aperto dieci, quindici anni, per decine di milioni di euro e con l’attesa di eventi che possono verificarsi una volta ogni biennio o anche meno, oppure mai. E quando non si trova quello che si cercava, quando una teoria si smonta o si sgretola, non significa il fallimento: una risposta può cominciare anche da quello che una cosa non è. Si va per esclusione, e la caccia continua altrove. Luca Pattavina tende l’arco e scocca la freccia.
«Il mio sogno? Poter dire un giorno: ho scoperto il decadimento doppio beta senza emissione di neutrini». Cosa sia, lui ce l’ha pure mostrato ma è stato come dirlo a un bambino di otto anni, e nemmeno dei più svegli. «Tranquillo, glielo rispiego a Stoccolma quando ci vediamo per il Nobel».
Corriere 14.5.16
Come si approva una legge se non c’è maggioranza
risponde Sergio Romano

  Leggo sul Corriere della Sera dell’11 maggio: sulla riforma del lavoro il Consiglio dei ministri francese ha dato il via libera per approvare il Jobs act alla francese senza il sì dell’Aula. Scelta dettata dall’assenza di maggioranza e del fallimento delle trattative con i sindacati. Altro che riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi! La Carta della Francia prevede quindi un autoritarismo governativo degno delle peggiori dittature!
Giovanni Parmegiani gparmegiani@notariato.it
Caro Parmegiani,
N el terzo paragrafo dell’art. 49 della Costituzione francese è scritto che il Primo ministro, dopo una delibera del Consiglio dei ministri, può impegnare la responsabilità del governo di fronte all’Assemblea nazionale per l’approvazione di una proposta di legge. In questo caso il progetto è considerato adottato a meno che una mozione di censura, depositata entro 24 ore, venga sottoposta al voto.
Non userei, in questo caso, la parola «autoritarismo». La costituzione della V Repubblica fu scritta dopo gli avvenimenti algerini del maggio 1958, quando i militari misero in scena una sorta di putsch e Charles De Gaulle fu chiamato alla presidenza del Consiglio. Il generale non nascose le sue intenzioni. Voleva una nuova costituzione e un capo dello Stato eletto a suffragio universale. Non fu un colpo di mano. La nuova costituzione sarebbe stata sottoposta all’approvazione del Paese e l’elezione diretta del presidente della Repubblica sarebbe stata oggetto di un referendum popolare.
Il Primo ministro sarebbe stato nominato dal capo dello Stato, ma l’Assemblea nazionale avrebbe potuto sfiduciarlo con una mozione di censura. L’intenzione era di rafforzare il potere dell’Esecutivo evitando che divenisse ostaggio dei partiti, i quali, negli anni precedenti, avevano provocato crisi frequenti e drasticamente accorciato la durata dei governi. L’Assemblea nazionale non veniva privata della possibilità di sfiduciare il governo, ma il capo dello Stato avrebbe potuto nominare un nuovo Primo ministro o sciogliere l’Assemblea nazionale e indire nuove elezioni. Il successo della Quinta repubblica fu dimostrato, caro Parmegiani, dalla lunga presidenza di François Mitterrand. Nel 1958 il leader socialista aveva definito la costituzione della V Repubblica un «colpo di Stato permanente». Ma quando divenne presidente della Repubblica non cercò di cambiarla. Aggiungo che l’art. 49 fu usato anche da un Primo ministro socialista, Michel Rocard, quando non aveva la maggioranza all’Assemblea nazionale.
Corriere 14.5.16
I giovani dell’era della crisi che non amano il capitalismo
I risultati di uno studio dell’Università di Harvard danno un’indicazione importante sulle nuove generazioni. Nei ragazzi americani (e europei) qualcosa sta cambiando. Lontani dall’individualismo sfrenato, cercano un equilibrio tra l’Io e il Noi
di Maria Luisa Agnese

Nicola Thorp, giovane e bella ragazza inglese per il suo primo giorno di lavoro in PricewaterhouseCoopers aveva scelto un paio di scarpe basse. Ignorava che il dresscode aziendale prevedeva tacchi fra i cinque e i dieci centimetri e, una volta scoperta la regola, ha tentato di resistere. Invano. È stata licenziata dall’azienda e non difesa neppure dai sindacati, e alla fine si è sfogata su Facebook diventando una piccola bandiera della libertà di scegliere occidentale. Sì perché se a tutte noi piace ogni tanto salire su uno stiletto, non vogliamo però essere schiave della dittatura del tacco 12. Azzardando si potrebbe paragonare l’imposizione del tacco a quella del velo? I codici e i condizionamenti storici sui corpi delle donne sono insidiosi e difficili da decifrare su entrambi i fronti, tanto che una delle più attente femministe arabe, la marocchina Fatima Mernissi aveva, nei suoi libri, paragonato il «loro» velo alla «nostra» taglia 42. E neppure troppo provocatoriamente: nella sua concezione rappresentavano due schiavitù opposte e parallele in cui si vuole ingabbiare il corpo della donna perché, argomentava Fatima, «l’immagine di bellezza dell’Occidente può ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti». Immagine suggestiva e che ci può far riflettere sulle nostre contraddizioni, con la consapevolezza però che noi, con un hashtag su Facebook possiamo decidere di scendere dai tacchi, e trovare anche persone disposte a seguirci, come è stato per Nicola Thorp. La differenza sta tutta qui: noi possiamo scegliere, è Voltaire che lo reclama, e vogliamo che continui a essere così. «Voglio essere libera, libera come una donna» cantava Andrea Mirò al Tempo delle Donne 2015, reinterpretando la famosa canzone di Giorgio Gaber. È il caso di ricantarla?
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Una recente ricerca condotta dall’Institute of Politics della Università di Harvard ha fatto discutere i media americani. Dai dati, risulta infatti che, nei giovani tra i 19 e i 25 anni, solo il 42% degli intervistati sostiene il capitalismo, mentre la maggioranza (51%) ne ha un’opinione negativa. Il Washington Post è arrivato a chiedersi se la crisi non stia cambiando gli orientamenti culturali delle nostre società: forse di fronte a un cambio generazionale destinato a trasformare gli equilibri economici e sociali?
Difficile dire come andranno le cose. Certo è che i dati della prestigiosa università sembrano confermare ciò che, da qualche tempo, segnalano anche altri istituti di ricerca: nella testa e nel cuore dei giovani americani (ed europei) sta cambiando qualcosa. Lontanissimi gli anni della contestazione, ma anche i tempi in cui a spopolare era l’affermazione soggettivistica del proprio Io, i giovani cresciuti nella crisi — specie quelli dotati di un buon livello di istruzione — esprimono sensibilità nuove verso la costruzione di un equilibrio più avanzato tra l’Io e il Noi, tra il sé e l’ambiente circostante.
Le ricerche dicono, ad esempio, che i millennials hanno maturato un orientamento critico tanto verso il liberismo sfrenato quanto verso lo statalismo aggressivo. Convinti della bontà dell’economia di mercato, pensano tuttavia che essa vada regolata e difesa dei suoi stessi eccessi e che sia importante il ruolo attivo che lo Stato può svolgere per garantire le condizioni della crescita.
Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sono convinti che il tema debba essere preso sul serio: non c’è più tempo per rinviare decisioni necessarie per la sopravvivenza del pianeta. Semplicemente perché sanno che sarà la loro generazione a dover sopportare i costi di una colpevole inazione.
Inoltre, i millennials fanno della tolleranza un valore fondamentale e ritengono che la convivenza delle diversità debba diventare un modo ordinario di convivere. Un atteggiamento che li rende anche aperti nei confronti dei migranti, visti più come risorsa che come minaccia. Chi arriva è titolare del diritto a costruirsi una vita migliore. Un diritto che gli stessi giovani vivono sulla loro pelle poiché sanno, per scelta o per necessità, che le loro possibilità di vita non sono legate al posto in cui sono nati.
Infine, l’affermazione personale non è contrapposta ai rapporti sociali. Per la propria vita i giovani aspirano a svolgere un’attività che riconosca le loro capacità, ma che al tempo stesso possa recare un vantaggio alla comunità nella quale vivono, al di là del puro reddito economico o della pura strumentalità. E considerano la qualità delle relazioni un ingrediente fondamentale per il proprio benessere. Una sensibilità che nasce da un’esperienza fondamentalmente positiva dei legami familiari, punto di riferimento sicuro e solido in un mondo incerto.
Si tratta, come si può vedere, di un pacchetto di orientamenti dotato di una chiara logica interna. Una logica relazionale. È come se la nuova generazione, di fronte ai guasti lasciati dal modello di sviluppo iperindividualistico degli ultimi decenni, stesse cercando di trovare un nuovo modo di pensare il legame con l’altro, visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà. Riconoscendo, in buona sostanza, che non esiste l’Io se non in relazione.
Ovviamente le ricerche non dicono che tutti giovani la pensano in questo modo. E tuttavia esse riconoscono un orientamento prevalente, benché ancora frammentato e soprattutto privo di un discorso pubblico capace di renderlo riconoscibile e riproducibile. Ma, come già accaduto altre volte nella storia (l’ultima volta nel ‘68), anche oggi è probabilmente negli orientamenti di questi giovani che si può intravvedere una via per il nostro futuro. A condizione che, anche politicamente, le generazioni degli adulti e degli anziani siano disposte ad ascoltare le proposte e le istanze di chi ha vissuto la propria adolescenza lontano dei miti della crescita infinita; di chi cioè ha conosciuto sulla propria pelle i guasti e le contraddizioni di un modello in liquidazione.
Così, con forme, parole e modalità nuove siamo forse alla vigilia di un nuovo cambio di generazione. Che, possiamo tutti augurarci, potrebbe trasformarsi presto anche in un cambio di paradigma sociale.
Repubblica 14.5.16
Perché un certo Islam è radicale
risponde Corrado Augias

GENTILE signor Augias: “Il laico occidentale di sinistra non ha capito il ruolo della religione nel terrorismo islamico. Solo la religione porta a convinzioni estreme. Peggio ancora: il mondo laico non ha proposte valide per chi è deluso e rifiuta la nostra società”. Così si è espresso Jean Birnbaum di Le Monde — intervistato da Fabio Gambaro — su Repubblica del 15 aprile scorso. Anche nei seminari europei fino ad alcuni anni fa c’era integralismo. “Pronti a dar la vita per le anime!” era la frase più frequente per la coscienza dei seminaristi. Ora prevale l’idea che l’uomo non gestisca verità assolute e debba valutare di volta in volta. Possiamo avere coraggio? Convinzioni? Credo di sì. Il terrorismo spaventa, ma è perdente. Odia gli altri e la vita. Sogna paradisi (inventati da noi), ma in concreto crede solo nelle armi. L’entusiasmo laico? Ognuno può trovarlo. Accompagno spesso gli scolari nei parchi della Valtellina. In ogni gioco metto una condizione: non strappare fiori, perché sono la “madre” di nuove vite. Nessun ragazzo ha mai violato la consegna. Niente scene forti, cose da poco i fiori, ma non è già qualcosa?
Beppe Pautasso — Morbegno


ANCORA una volta la conferma che un mondo diverso è possibile. Meglio: sarebbe possibile se le condizioni generali fossero diverse. Poiché le condizioni sono quelle che sappiamo, il mondo diverso resta un’utopia alla quale tendere. Anche il terrorismo islamico insegue un’utopia: opposta. All’interno della quale la religione ha un posto che è sbagliato sottovalutare. Jean Birnbaum è uno studioso oltre che un giornalista. Il sottotitolo del suo libro “Un silence religieux” (Seuil editore) è: “La sinistra di fronte al jihadismo”. Il punto di vista è molto francese, ma per più di un aspetto riguarda anche noi. Più francese che italiano, per esempio, è che — a sinistra — negare la componente religiosa della guerra santa sia figlia del razionalismo illuminista. Alla luce dei Lumi, la religione non viene più considerata da secoli un possibile motore di decisioni politiche, incluso quelle militari. Già l’Italia dimostra — escluse le opzioni militari beninteso — che le azioni politiche mosse da ragioni religiose sono ancora possibili. Se un terrorista uccide invocando il nome di Allah, argomenta lo studioso, come possiamo dire che le sue azioni non abbiano nulla a che fare con l’Islam? Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Il messianesimo religioso può avere una forza maggiore perfino di quello puramente politico. Mi ha colpito un’idea di Birnbaum valida, questa, anche da noi. In Europa: «Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata importante. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad». Hanno ovviamente peso anche altri fattori come disagio sociale ed esclusione, ma il tema centrale è che quel certo Islam (non tutto l’Islam) si propone come un’alternativa radicale al mondo contemporaneo. Essendo consapevoli di non poterlo cambiare, alcuni preferiscono distruggerlo, comprese le sue tracce più antiche. È una tesi, bisogna valutarla, sarebbe sbagliato non tenerne conto.
Repubblica 14.5.16
“In classe tutto giugno” l’appello di tremila mamme e papà
Allungamento dell’anno scolastico e vacanze estive più corte. Gli insegnanti: “Non siamo baby sitter”
L’Italia è tra i paesi europei che concede la sosta più lunga: 12-13 settimane
di Ilaria Venturi

BOLOGNA. È bastato un appello online di una mamma di Pavullo, 17mila abitanti sull’Appennino modenese, a scatenare il dibattito nazionale. «Scuole primarie aperte almeno sino al 30 giugno », la richiesta di Alberta Alessi, 32 anni e tre figli, al ministro Stefania Giannini. In pochi giorni sono arrivate oltre tremila firme a sostegno e si è riaperta la discussione su un tema molto sentito dai genitori ogni anno alle prese coi loro “cento giorni” senza scuola: dai primi di giugno a metà settembre. Bambini in classe anche in estate, dunque. L’appello dei genitori emiliani a rivedere il calendario scolastico tocca un nervo scoperto. Da una parte le famiglie in corsa per “coprire” il lungo tempo libero dei figli tra ferie, nonni e centri estivi, comunali e privati, a pagamento. Dall’altra gli insegnanti, con stipendi bloccati e al di sotto della media europea, che reagiscono: «Non siamo baby sitter, la scuola non è un parcheggio».
Proprio nei giorni scorsi il ministro Giannini ha presentato il progetto “Scuole al centro” contro il degrado nei grandi centri urbani: 10 milioni per tenere aperti quest’estate 700 istituti nelle periferie di Napoli, Roma, Palermo e Milano. «Un progetto solido che ha dietro finanziamenti e una precisa idea di scuola», ha ribadito ieri dal Giappone. «Una scuola che si apre e si adegua al territorio, che è punto di riferimento delle comunità». A settembre saranno coinvolte altre 5mila scuole di tutto il paese, spiega la senatrice Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd, che caldeggia l’apertura estiva. «Sarà possibile grazie a questi fondi, ma anche a quelli europei, coinvolgendo gli insegnanti e le associazioni del territorio». Non un doposcuola, precisa Stefania Giannini, «ma, a partire dai contesti più complessi, una vera alternativa alla strada, alla dispersione ».
Una scommessa non semplice. Solo a Bologna, dove una scuola media per ogni quartiere accoglie i ragazzini per tre settimane in estate, il Comune è impegnato in un durissimo braccio di ferro coi sindacati sull’apertura delle materne comunali anche a luglio. Eppure da Milano a Palermo, dove l’iniziativa “Il tempo d’estate” prosegue a singhiozzo per mancanza di fondi, non mancano le esperienze. «Il mondo è cambiato, da una parte ci sono i maestri che fanno il lavoro più importante al mondo, dall’altra le nostre esigenze di genitori e di mamme che lavorano: io chiedo solo che si ci venga incontro. Non lezioni, ma almeno attività ludico educative. Almeno a giugno», l’appello di Alberta Alessi. «L’alternativa sono i centri estivi. Ma hanno un costo che non sempre le famiglie, con più figli, riescono a sostenere».
A Milano c’è un ufficio ad hoc dedicato alle scuole aperte, anche d’estate. «Sono un enorme patrimonio poco utilizzato», dichiara Chiara Bisconti, assessore comunale al Benessere. Il direttore dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna Stefano Versari concorda: «Scuole aperte, sempre. Ma non per proseguire l’insegnamento curriculare». In Europa a fare la differenza sono le pause durante l’anno che la maggior parte degli altri Paesi hanno e che usano per poi accorciare le vacanze estive. Quest’anno i bambini in Francia sono andati a scuola il primo settembre e finiranno il 5 luglio. I norvegesi hanno cominciato tra il 17 e il 21 agosto per stare tra i banchi sino al 17-23 giugno. Nei Paesi Bassi staccano dal 15 luglio al 17 agosto. L’Italia, con Portogallo e Irlanda, è fanalino di coda: concede 12-13 settimane di vacanze. La sosta più lunga. Non che si facciano meno giorni di lezione e nemmeno che gli insegnanti stiano in vacanza per tre mesi (hanno 36 giorni di ferie all’anno). Ma la richiesta di un ritocco al calendario, per allungarlo in estate, cresce. «L’idea di principio è giusta: tenere le scuole aperte come servizio sociale oltre che educativo», dice Giorgio Rembado, voce dell’Associazione nazionale presidi. «Però ci vogliono le risorse per farlo».
(ha collaborato Salvo Intravaia)
Repubblica 14.5.16
“Rapina di ovuli”, arrestato Antinori
Roma, il ginecologo è anche accusato di lesioni nei confronti di un’infermiera nella sua clinica milanese : “Doveva curarle una cistite, ma l’ha sottoposta a terapia ormonale e intervento chirurgico. Voleva venderli alle sue pazienti”
Dalla fecondazione in vitro ai bimbi clonati: ascesa e caduta del medico più discusso
L’uomo che prometteva gravidanze a tutte le età (e a qualsiasi costo)
I controlli dei Nas per contestargli il modo in cui conservava materiali biologici
La sua fama è cresciuta a colpi di annunci
Non amava le critiche e rispondeva querelando
di Michele Bocci

ASCESA e caduta dell’uomo che promette la maternità ben oltre l’età della menopausa, a 50 o addirittura 60 anni. Severino Antinori è stato tanto sui giornali e in televisione nel corso della sua carriera ormai lunga, molto spesso per parlare delle sue pazienti e raccontare i suoi successi, qualche volta per guai con la giustizia, ma alla fine resta un oggetto misterioso nel mondo dei medici che si occupano della procreazione assistita, la sua materia. Ha sempre giocato da solo, costruendosi un nome a suon di annunci di gravidanze insperate e di esperimenti di clonazione. Ai congressi ha preferito spesso l’ambulatorio, prima a Roma poi a Milano, dove donne che vogliono diventare madri anche se sembrano nonne, ma anche coppie più giovani, sono ben contente di pagare parcelle importanti per farsi vedere da lui.
Del resto il suo nome è salito alla ribalta per una maternità estrema. Rosanna Della Corte aveva 63 anni quando nel 1994 partorì un bambino con dell’eterologa. Di fronte alle critiche per quella che in quel momento era la madre più vecchia del mondo, lui disse che la paziente appariva più giovane della sua età. Chi aveva qualcosa in contrario faceva bene a tenerselo per sé. Antinori non ha mai amato le critiche e le querele gli partono facilmente. Ci sono colleghi che ricordano di averlo visto ad alcuni congressi accompagnato dal suo avvocato. Della serie: occhio a quello che dite. E in effetti qualcuno cose da ridire per il suo modo di lavorare ne avrebbe anche. «Ha sempre viaggiato al confine della legge — dice un ginecologo — disposto anche a sfidarla pur di ottenere il risultato». Ossia un figlio per la paziente.
Antinori è nato nel 1945 a Civitella del Tronto, provincia di Teramo. Ha frequentato poco il servizio pubblico, ben presto si è dedicato all’attività privata, spesso in convenzione. Un contesto certamente più redditizio, che gli permetteva di girare in Ferrari, ma anche più adatto alla procreazione assistita, che in Italia in effetti viene svolta prevalentemente in strutture private. Ottimo affabulatore, è stato tante volte in televisione. La sua fama è cresciuta a colpi di annunci. La nonna- mamma appunto, ma anche le clonazioni. Ha detto di averle fatte già nel 2002, poi nel 2009 rivelò che nove anni prima erano nati tre bambini grazie a quella tecnica. Si è però appellato alla privacy, rendendo impossibile verificare l’affermazione. E su quelle “conquiste” è caduto l’oblio.
Antinori ci ha provato anche con la politica senza successo. Nel 2000 si è candidato alla presidenza della Regione Lazio con la lista Autonomia liberale. Ha preso il 2,3% dei voti. Dieci anni esatti più tardi è andata male anche per il consiglio regionale, con una lista civica che sosteneva Renata Polverini.
Quando nella primavera del 2014 la Corte Costituzionale ha tolto il divieto di eterologa, Antinori è stato tra i primi ad annunciare di aver fatto alcuni trattamenti. Ad agosto i Nas hanno fatto un controllo nella sua clinica Matris di Milano facendo una serie di contestazioni sul modo in cui veniva conservato il materiale biologico e ipotizzando il pagamento di donatori. Accuse poi cadute nel vuoto. Sono andate invece a segno quelle della moglie. A fine maggio la procura di Roma gli ha vietato l’ingresso in città dopo le denunce per stalking della moglie e delle figlie. Ora la nuova tegola. È un momento difficile per l’uomo che vuole rendere mamme le nonne.
Repubblica 14.5.16
Le vite bruciate alla Thyssen uno scandalo della democrazia
di Ezio Mauro

La Cassazione ha confermato le condanne per i dirigenti I familiari: “Giustizia è fatta”
COME se fosse un monumento alla memoria dei morti sul lavoro, il “reparto” della Thyssen al cimitero di Torino accoglie le bare tutte insieme, in fila, quasi una catena di montaggio postuma. Il Comune ha voluto tracciare attorno una striscia azzurra per contrassegnare quei morti, separarli dalle altre sepolture. In realtà li distingue l’età, scritta sul marmo accanto ai nomi dei morti in mezzo a tombe di nati nel 1923, 1919, 1912. Sono tutti giovani, gli operai bruciati vivi: 36 anni per Antonio Schiavone detto “Ragno”, 43 per Angelo Laurino, 32 per Roberto Scola, 26 per Rosario Rodinò morto dopo 13 giorni di agonia con solo il cinque per cento del corpo non mangiato dal fuoco, 26 anche per Giuseppe Demasi, l’ultimo a morire dopo 4 interventi chirurgici, tre giorni soltanto prima che arrivasse dalla coltura del Niguarda a Milano la pelle nuova per il trapianto.
SEGUE A PAGINA 11 CRAVERO E GIUSTETTI A PAGINA 10
LI HANNO messi insieme al camposanto perché non hanno una tomba di famiglia, come gli altri due, Rocco Marzo e Bruno Santino. Ma anche perché il cimitero è l’unico luogo dove si potrà ricordare la tragedia della Thyssen, se qualcuno vorrà farlo come i bambini che portano i fiori, qualche biglietto da infilare tra le pietre, disegni di scuola. La fabbrica infatti non c’è più. Doveva chiudere poco dopo la tragedia, era già tutto predisposto per spostare le lavorazioni più importanti a Terni. Poi è stata sequestrata per il rogo, in questo lungo calvario giudiziario che è finito ieri, dopo essere durato nove anni. Adesso è uno scheletro industriale come tanti altri a Torino, testimonianza di quella che è stata la capitale del mondo della produzione e anche della civiltà del lavoro, e che ha poi dovuto cambiar pelle attraverso le trasformazioni forzate della globalizzazione e della crisi. La città ce l’ha fatta, reinventandosi. Le fabbriche – quelle che sembrano aver dato forma alla città stessa, con gli stessi attrezzi delle officine – restano vuote e silenziose mentre spariscono gli operai che avevano costruito attraverso il lavoro, e proprio a Torino, i meccanismi politici e sindacali che ancora sopravvivono, sotto forme diverse.
Chi alzava gli occhi il giorno di uno dei tre funerali della Thyssen vedeva la vecchia ciminiera trasformata in campanile della chiesa operaia del Sacro Volto, e tutt’attorno i ricordi dei metalmeccanici di una volta, che indicavano con le mani il posto: proprio lì c’erano i 13 mila delle Ferriere Fiat che poi hanno venduto gli impianti all’Iri per la Finsider, che infine ha ceduto i capannoni alla Thyssen vent’anni fa. E la Thyssen, prima dell’incidente, ha deciso di chiudere, perché a Torino l’acciaio non serve più, e si parla di una lavorazione speciale che sopravviveva proprio solo alla Thyssen, inox 18/10, diciotto di cromo e dieci di nichel. La trasformazione dei mercati, dell’industria, della produzione ha cambiato anche il destino dell’acciaio e dei suoi produttori specializzati, che proprio per questo guadagnavano 300, anche 400 euro più di un operaio Fiat del quinto livello, però dovevano lavorare in squadre che si alternavano nei turni, perché l’acciaio non si può fermare mai, bisogna esserci 24 ore su 24, sette giorni su sette, festivi compresi.
Erano rimasti in 180, chi era riuscito a trovare un altro posto se n’era già andato. Gli operai dicono che bisogna pensare bene e capire cos’è una fabbrica in disarmo: manutenzione bassa e saltuaria, tanto tutto sta per finire, controlli ridotti, e anche l’autosorveglianza che un lavoratore impiega normalmente sapendo che l’acciaio è una bestia pericolosa, anche quella si riduce, inevitabilmente. Tutto diventa provvisorio, precario, ballerino. Ed ecco quel mercoledì sera, il 5 dicembre, quando l’acciaio passa alla linea tecnico-chimica numero 5, che deve temprarlo e ripulirlo dalle impurità per poi cederlo alla lavorazione. Si dice linea, ma è un forno lungo 50 metri, alto quasi come due piani, a 1180 gradi, che fa correre al suo interno l’acciaio a 40 metri al minuto di media, per poi portarlo nella vasca degli acidi che fanno cadere l’ossido della cottura.
Gli operai sono cinque, come previsto dal turno montante, solo che poiché c’erano due assenze si fermano di notte a fare gli straordinari Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, che hanno già lavorato per l’intero loro turno normale, dalle 14 alle 22: cose che capitano quando la fabbrica è in ristrutturazione, tutto è saltato, ma bisogna fare il lavoro comunque. I cinque come vuole la procedura stanno nel “pulpito”, una stanzetta- schermo col vetro protettivo, dove ci sono i comandi. Quando mancano pochi minuti all’una il nastro che arriva a bassa velocità sbanda all’improvviso, sbatte nella carpenteria, le scintille finiscono sulla carta, l’olio le incendia. E’ già successo, gli operai sanno come si fa, escono dal pulpito, prendono gli estintori, ma dicono di averli trovati scarichi. Proprio mentre sono fuori, vicini alle fiamme, un flessibile pieno d’olio esplode per il calore, passa sul fuoco che rilancia le fiamme ingigantendole a dismisura, le sputa come un’arma infernale che spara davanti a sé in orizzontale. Quel fuoco non lambisce gli uomini, li divora in un attimo. Si salva solo Boccuzzi che è dietro un muletto elevatore, sente una vampata che gli brucia la fronte, ma è al riparo. Gli altri barcollano mangiati vivi nella carne, nei muscoli, nel viso, senza più occhi. Rocco Marzo si muove verso le voci che sente confusamente, mentre il suo corpo è bruciato: «Avvisate mia moglie, ditele che mi avete visto, che sto in piedi, non fatela preoccupare». Schiavone sta ancora urlando nel fuoco, Bruno Santino e Giuseppe Demasi costeggiano la linea 4 senza poter vedere più niente, due figure arroventate, con la pelle che non c’è più, hanno paura a toccarli, li scortano fuori col suono delle voci. Restano a terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola, che urla come può: «Ho due figli piccoli, aiutatemi, non potete farmi morire ».
Un operaio del reparto finitura che è accorso alla 5, Giovanni Pignalosa, controlla che non ci sia più nessuno tra le fiamme e quando il fumo acido nei polmoni diventa insopportabile stacca finalmente la tensione a tutta la linea, ferma il flusso degli acidi, spegne l’elettricità. A Torino la Thyssen si ferma così per sempre, mentre suonano i telefoni nelle case dei sette operai bruciati nel rogo della fabbrica. Rispondono le mogli, e da quel momento diventano le vedove.
Torino, raccontano quelli della Thyssen che adesso si sono dispersi dovunque nelle aziende metalmeccaniche della cintura, ha vissuto certo con dolore e con pietà la tragedia, ci mancherebbe: ma come un “incidente”. Con compassione, più che con condivisione. Non c’è più una “classe” che si senta colpita nel suo insieme e direttamente con la morte dei sette operai bruciati, non ci sono quasi più gli operai, tanto che al cimitero hanno mezzo pacchetti di sigarette come segno distintivo dei ragazzi che lavorano in fabbrica, perché sono rimasti ormai quasi i soli a fumare tra quelli della loro età. I loculi per gli operai della Thyssen, le sigarette per contrassegnarli con un marchio d’identità separata, l’operaio (e chi altro?) Ciro Argentino che al primo funerale strappa la corona di fiori mandata in chiesa dalla Thyssen, mentre i dirigenti dell’azienda devono entrare e uscire dalla parrocchia passando dalla sacrestia. Quasi un rito separato. E invece basta guardarsi intorno, in quei giorni, per capire che è un funerale alla città che fu, alla sua vecchia anima operaia che era sopravvissuta fin qui, appena oltre il secolo del lavoro, che a Torino è finito nelle fiamme. Non è un “incidente”, al di là dell’esito giudiziario, dell’attesa disarmata di giustizia da parte delle famiglie, della sentenza finalmente definitiva che fissa le responsabilità. Quel che è accaduto riguarda tutti, che sia avvenuto a Torino lo rende ancor più emblematico, ed ha un nome solo, che tra i banchi del Sacro Volto qualcuno tra i più vecchi sussurrava a bassa voce prima di mettersi in fila per accompagnare i sette al cimitero: uno scandalo della democrazia.
Repubblica 14.5.16
Freccero: “Voterò no, Renzi a casa”
Il Pd attacca il consigliere Rai: “Ci aspettiamo proposte non offese”. Boschi: “Col referendum la scelta è sul merito non di simpatia o antipatia sul governo”. Spataro: “Anche nel 2006 i magistrati si schierarono”
di Paolo Griseri

TORINO. L’attacco più duro viene da Carlo Freccero, storico direttore Rai, oggi indicato dai 5 stelle nel cda di viale Mazzini: «Vinceremo il referendum e Renzi andrà via, lo mandiamo a casa», dice intervistato da Radio24. Poi aggiunge: «Renzi è peggio di Berlusconi dal punto di vista del potere. Ha dalla sua parte il 92 per cento dell’informazione ». E mette nel mirino Michele Anzaldi, membro Pd della commissione di vigilanza, colpevole, a detta di Freccero, «di aver difeso ‘Virus’ (talk show di Raidue n.d.r.) e non Rai3». Chiude Freccero: «Anzaldi è un fondamentalista, è il Gasparri di Renzi ma Gasparri è meglio, è migliorato». Inevitabile la difesa di Anzaldi da parte dei colleghi di partito: «Anzaldi non si è mai abbassato al livello delle offese personali. Da un consigliere di amministrazione come Freccero ci aspettiamo idee e proposte, non offese», dice Lorenza Bonaccorsi, componente della commissione di vigilanza. Per Francesca Puglisi «Freccero si è comportato da cabarettista ». Le parole dell’ex direttore di Raidue hanno infiammato una giornata in cui, al contrario, il governo sembrava deciso ad abbassare i toni della polemica. A Catania per un incontro con all’università Maria Elena Boschi precisa che la battaglia referendaria sarà sul merito della riforma costituzionale e non sul governo. Un modo per correggere in corsa le affermazioni di Matteo Renzi. Parlando a Firenze ai nascenti comitati del sì, il premier aveva detto a inizio maggio: «Scegliamo di andare a vedere se la gente sta con noi, se gli italiani stanno con noi o no». Frase che aveva scatentato le opposizioni. Ieri Boschi ha corretto: «Nel voto del referendum si compie una scelta di merito, non di simpatia o di antipatia nei confronti del governo». Dibattitto sulla modifica costituzionale dunque e non plebiscito pro o contro il premier. Anche se, aggiunge Boschi, «un governo che ha presentato le riforme , che ha chiesto la fiducia al parlamento sulla loro realizzazione, se perde il referendum non può dire ’non è successo niente’ ». Dunque resta la promessa di Renzi: «Se perdo il referendum, vado a casa».
Che lo scontro sia sul merito della riforma e non sul governo lo sostiene anche il fronte del no che ieri si è riunito a Torino. A guidarlo giuristi come Gustavo Zagrebelsky, magistrati come il procuratore capo del capoluogo piemontese Armando Spataro. La riunione si svolge nel salone del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti. Partecipa, tra gli altri, anche il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini.
Tocca a Spataro spiegare il senso di una scelta di campo che ha suscitato non poche polemiche da parte degli uomini di governo dopo l’annuncio su Repubblica del Procuratore capo di Torino. «Ho deciso di schierarmi perché i magistrati sono cittadini e hanno il diritto di partecipare alla campagna referendaria ». Parole che avevano suscitato la protesta del vicepresidente del csm Giovanni Legnini secondo il quale la scelta di campo dei magistrati farebbe a pugni con il principio di terzietà del giudice. Spataro nel suo intervento ribatte: «E’ una polemica incomprensibile. Diverse correnti della magistratura, nel 2006, scesero in campo schierandosi per il no al referendum costituzionale. E non ci furono polemiche». Il fatto è che nel 2006 la riforma era proposta dal governo Berlusconi e da sinistra non si levarono proteste. Il referendum bocciò la riforma con la vittoria dei no.
Corriere 14.5.16
Due scadenze elettorali sovrastate dal non voto
di Massimo Franco

La febbre referendaria sta aumentando. È accompagnata dalla voglia di «coinvolgere i cittadini nelle scelte», come dicono indistintamente tutti i partiti; ma in parallelo da un’incapacità di attirarli alle urne che fa lievitare l’astensionismo a livelli di guardia. Il cortocircuito elettorale, insomma, è in agguato. Il referendum tende infatti a essere utilizzato come il surrogato delle elezioni che non si fanno; o come lo strumento per rimediare a una sconfitta o per puntellare una vittoria. Significa distorcene il significato, favorendo logiche da resa dei conti che ne accentuano la crisi.
La tentazione delle forze politiche a trattare ogni questione con un patologico doppio standard contribuisce a questa deriva. E promette di consegnare risultati imprevedibili. Anche perché il referendum finisce per diventare non il «bagno di democrazia diretta» che coinvolge il popolo e ne mescola le identità su grandi temi. Si presenta invece come uno strumento di mobilitazione «usa e getta»: a volte anche a prescindere dal numero dei votanti. Diventa lo specchio di un’Italia nella quale l’obiettivo non è affermare un’idea ma zittire una minoranza, vera o presunta.
Il fatto che l’istituto referendario premi soprattutto le posizioni più estreme rischia così di riflettere solo una guerra tra minoranze, allontanando il grosso dell’opinione pubblica: le ultime consultazioni dicono questo. E nel caso delle riforme istituzionali, a ottobre, non ci sarà bisogno di raggiungere la percentuale del 50 per cento più uno dei votanti. Una prova generale sulla partecipazione si avrà alle Amministrative del 5 giugno. Anzi, del 5 e 6 giugno, perché il Viminale ha deciso di far votare anche il lunedì per arginare un astensionismo in ascesa.
Colpisce l’elaborazione del Censis sulle tre ultime elezioni comunali in alcune città dal 2001 al 2013. In dodici anni, Roma ha «perso» 572 mila votanti, il 31,5 per cento; Milano 225 mila, meno 25 per cento; Torino 166 mila, il 26,1; Napoli 89 mila, il 15,9. Forse è possibile vedere nella crescita degli astenuti un fenomeno fisiologico. Ma un terzo in meno di elettori nella capitale indica qualcosa di più. E il tema della partecipazione può risultare ancora più decisivo nel referendum sulle riforme costituzionali.
Ieri il ministro Maria Elena Boschi ha insistito su un testo «non perfetto ma buono». E ha spiegato che al referendum si vota sul merito e non sul governo. L’impostazione del premier Matteo Renzi, però, finora è stata diversa: come minimo contraddittoria. Ribadire che in caso di sconfitta si ritirerebbe dalla vita politica estremizza le posizioni. E infatti i «comitati per il No» già scaricano sul premier eventuali contraccolpi. Confermano così che l’approccio di Renzi non mobilita solo i sostenitori del governo, ma i suoi avversari.
Repubblica 14.5.16
Il vento e la brezza
di Ferdinando Giugliano

Non si può valutare l’effettiva rapidità di un veliero ignorando le condizioni del vento. Lo stesso principio si applica anche all’economia: la leggera accelerazione registrata dall’Italia a inizio anno va confrontata con il più deciso allungo segnato dal resto della zona euro. I nostri progressi, per quanto incoraggianti, sono ben inferiori rispetto a quanto sarebbe lecito aspettarsi.
Nei primi tre mesi del 2016, il prodotto interno lordo italiano è cresciuto dello 0,3% rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno. Francia, Germania e Spagna, che condividono con noi valuta e banca centrale, hanno invece visto le loro economie espandersi, rispettivamente dello 0,5%, 0,7% e 0,8%. L’eurozona nel suo complesso è cresciuta dello 0,5%, risalendo per la prima volta sopra il livello di Pil toccato in precedenza della crisi.
Il ritrovato sprint dell’unione monetaria ha delle ragioni esogene. La tanto temuta deflazione, che vede i prezzi diminuire a causa del crollo del costo del petrolio, continua a spingere i consumi europei grazie all’aumento del potere d’acquisto. Le aziende sembrano aver ripreso un po’ di fiducia nel futuro: in Germania gli investimenti sono ripartiti, e qualche timido segnale positivo arriva anche dalla Francia.
La ripresa di consumi e investimenti, agevolati dalla politica monetaria non convenzionale della Banca Centrale Europea e da una politica fiscale più espansiva, riesce così a compensare le difficoltà dell’export. L’apprezzamento dell’euro insieme alle difficoltà dei mercati emergenti quali Russia e Brasile stanno frenando la domanda straniera per le merci europee, incluse quelle tedesche che per anni hanno beneficiato di un cambio molto favorevole.
La crescita della domanda interna nell’eurozona e in Germania in particolare, è una buona notizia. Dai ristoranti gardesani alle aziende della componentistica meccanica, molti lavoratori italiani dipendono dalla prosperità teutonica. L’accordo raggiunto ieri tra il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, IG Metal, e i datori di lavoro per un aumento delle retribuzioni del 4,8% per 21 mesi (ben oltre, dunque, il tasso d’inflazione) fa sperare in una stagione di redditi e consumi più alti, dopo anni di eccessiva compressione salariale.
L’accelerazione dei nostri partner non può, però, essere soltanto festeggiata. La domanda che il nostro governo deve porsi è perché, alla luce di una congiuntura economica piuttosto favorevole, la barca Italia si comporti come se ci fosse soltanto una brezza. La questione è tanto più rilevante perché il presidente del consiglio Matteo Renzi ha deciso di sfruttare al massimo la flessibilità concessa dall’Unione Europea per ridurre più lentamente il nostro disavanzo pubblico e finanziare tagli delle tasse e bonus fiscali. Il successo di questa strategia dipende anche dalla velocità di crociera che ci fa raggiungere.
Il vero problema è che l’Italia resta ancora indietro per quanto riguarda la crescita della produttività, il vero motore alla base dello sviluppo economico di lungo periodo. I dati Eurostat mostrano come, tra il 2010 e il 2015, il prodotto per ora lavorata sia cresciuto in Spagna e in Germania del 6,5% e del 4,2% rispettivamente. In Italia, dello 0,5% appena.
Nonostante l’iperattivismo mostrato in altri contesti, Renzi è ancora troppo timido nell’affrontare questo nodo. Dopo il “Jobs Act”, che dovrebbe migliorare l’efficienza del mercato del lavoro permettendo alle aziende di scegliere con meno rischi il personale, l’azione riformatrice del governo è rallentata. Per esempio, la legge annuale sulla concorrenza, che dovrebbe lubrificare il mercato dei prodotti, è stata svuotata dei provvedimenti più efficaci, cedendo alle pressioni delle aziende dominanti.
Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del consiglio, e Carlo Calenda, da poco ministro dello Sviluppo economico sono i capi-cantiere che dovrebbero rimettere a posto scafi e vele. In queste settimane, il governo sta lavorando a misure volte ad aiutare le aziende a trovare i capitali per crescere, per esempio incentivando fiscalmente gli investimenti da parte dei risparmiatori privati. L’obiettivo è permettere agli imprenditori di raggiungere le economie di scala necessarie per aumentare l’efficienza aziendale.
Queste misure sono un passo nella giusta direzione, ma vanno affiancate ad altre che rendano i mercati maggiormente contendibili e aiutino i salari ad essere in linea con la produttività. La riforma della contrattazione, ora nelle mani di sindacati e aziende, non può essere rimandata oltre tempo.
In economia, come in mare, il tempo può mutare repentinamente. Tra un mese e mezzo la Gran Bretagna potrebbe votare per uscire dall’Ue, provocando sconquassi sui mercati. In Italia, i crediti deteriorati e i bassi margini di profitto continuano a porre le nostre banche in condizioni precarie, che permangono nonostante la creazione del fondo Atlante.
Davanti a questi rischi, non ci si può permettere pause. Da ex sindaco di Firenze, Renzi conosce bene lo stemma mediceo della tartaruga con la vela che decora le sale di Palazzo Vecchio. La prudenza in politica è una virtù, ma va accompagnata da forza d’azione, prima che cali il vento.
Corriere 14.5.16
Roma, tutti contro tutti. Ma con le stesse ricette
di Sergio Rizzo

La mosca bianca è Virginia Raggi. Accerchiata nella competizione elettorale da una coorte di romanisti incalliti, tifa Ternana. Per non deludere il popolo romano ammette tuttavia simpatie biancocelesti, beninteso di riflesso: «Mio marito è della Lazio e mi ha lavorato ai fianchi per vent’anni». Tanto basta per scavare un solco fra lei e, in ordine alfabetico, Roberto Giachetti, Alfio Marchini e Giorgia Meloni. Che rischia pure di essere, sorprendentemente, il più profondo in questo scontro apparente di tutti contro tutti. Anche su temi che fino a ieri autorizzavano a immaginare spaccature insanabili fra i candidati a sindaco di Roma. Il rapporto con le indagini giudiziarie, per esempio.
Politica e inchieste
Alla domanda se il coinvolgimento in una inchiesta con accuse per reati contrari a doveri d’ufficio debba o meno portare alle dimissioni, la risposta di tutti è stata, fatte salve le sfumature: «Dipende. Caso per caso». Sarà magari per i siluri arrivati a qualche esponente del Movimento 5 Stelle che Virginia Raggi ammonisce a non usare gli avvisi di garanzia «come manganelli». Parole che un tempo avrebbero fatto rabbrividire i giustizialisti di incrollabile certezza. A dimostrazione del fatto che un conto è la realtà immaginata e altro conto la realtà reale…
Trasporti
E forse questo spiega pure perché di fronte ai problemi più gravi della capitale evocati a ciascuno di loro in tre giorni di confronti davanti alle telecamere di Corriere Tv , le ricette dei quattro candidati principali non fossero così distanti. Che sul trasporto pubblico si debba intervenire con decisione, del resto, è assolutamente necessario. Che si debba stroncare l’evasione, poi, un imperativo. Come farlo? Chi come Raggi e Giachetti insiste su tecnologie e biglietti elettronici, chi come Meloni sottolinea l’importanza del bigliettaio e chi come Marchini metterebbe un controllore in ogni carrozza della metro. Sempre che la metropolitana, e qui si parla della fantomatica Linea C già costata 3,7 miliardi per non arrivare neppure a metà del percorso e attualmente ferma, debba avere un futuro. Il democratico Giachetti dice che sì, deve averlo, ma si deve mettere un punto fermo e poi riprogettarla insieme alla soprintendenza. Da destra, invece, Giorgia Meloni sostiene che deve arrivare fino a piazza Venezia. La grillina Raggi concorda con Marchini che ha da poco incassato l’appoggio di Silvio Berlusconi: si fermi al Colosseo, poi si vedrà. Anche se l’impressione è che nessuno di loro sappia in fondo con che razza di problema avranno a che fare.
Fori, pedonali o no?
Quanto alla pedonalizzazione dei Fori, ciascuno critica Ignazio Marino, ma poi sono tutti d’accordo.
E giorni duri si profilano anche per i pullman turistici: non uno dei candidati vuole più lasciarli circolare liberamente nel centro storico. Giachetti ricorda che era stato lui a cacciarli, già nel 2000. Mentre poi Marchini profetizza l’introduzione di supertecnologie per preparare Roma alle auto intelligenti senza pilota, s’impegna a incentivare il ciclismo urbano. Tutti giurano di fare più corsie preferenziali. Quando Giorgia Meloni spariglia: per decongestionare Roma si dovrebbero portare fuori dal centro i ministeri, e perfino il Campidoglio. Ottima idea, ma ha più di cinquant’anni. E se non ci sono riusciti allora…
I (dis)servizi
Per non parlare dell’immondizia che fa di Roma la capitale più sporca d’Europa con tariffe che la Confartigianato calcola essere le più care d’Italia, superiori del 50,9% alla media nazionale. «Bisogna chiudere il ciclo dei rifiuti», fanno i quattro in coro. E se Raggi insiste che sono i dirigenti a dover pagare i disservizi della municipalizzata dell’ambiente, Giachetti propone di dare un palmare agli spazzini… Efficienza e tecnologie: tutti d’accordo. Come nel dire un «no» fermo e risoluto alle privatizzazioni delle municipalizzate .
Rilanciare il turismo
E per il turismo, che dovrebbe essere la principale industria della capitale d’Italia? Lotta senza quartiere agli abusi, innanzitutto. Anche qui all’unisono, con Marchini che ha un’idea. Anzi, più d’una. Il sindaco di notte, o l’assessore alla movida: e promette nomi clamorosi. E poi ricordate i centurioni? Perché anziché lasciare il business ai rumeni o a quei coatti, minacciosi e panzoni, non organizziamo spettacoli con i giovani delle scuole di recitazione? In fin dei conti si darebbe anche una mano all’occupazione.
Dipendenti comunali
Già che ci siamo, poi, perché prendersela con i dipendenti comunali, o con gli autisti dell’Atac, oppure con i vigili, o ancora con i netturbini? Anche su questo, il consenso sembra davvero unanime. Giachetti dice che i lavoratori vanno motivati. Bene. Chi sbaglia deve pagare, precisa Virginia Raggi, insistendo sul fatto che la colpa principale non è dei fannulloni: piuttosto, di chi non li mette nelle condizioni di lavorare. Vero. Ma anche qui la sensazione che nessuno di loro abbia voglia di fare un frontale con 62 mila possibili elettori e relative famiglie è consistente. Comprensibile. E per tranquillizzare ulteriormente i tutori dell’ordine municipale, ecco Marchini proporre di affidare la sorveglianza dei campi rom non più a pattuglie di vigili urbani, ma ai droni. Vinca il migliore.
Repubblica 14.5.16
La sentenza dei sondaggi “Giachetti e la Raggi si spartiranno i suoi voti”
Scatta la corsa agli elettori rimasti senza candidato, la Meloni: sinistra e Dem erano già d’accordo
Marchini: “Non credo ci sia un disegno dietro, ora una parte di cittadini non ha rappresentanza”
di Tommaso Ciriaco

ROMA. Contasse solo la statistica, la domanda si ridurrebbe a una soltanto: chi ci guadagna, adesso che un tribunale ha costretto Stefano Fassina in panchina? E chi può ambire ai consensi di una sinistra radicale ormai orfana di candidati? Saranno pure pochi voti, ma nell’aspra contesa per il Campidoglio sembrano davvero decisivi. «Una parte finirà nell’astensione - sostiene il professore Roberto D’Alimonte - il resto si dividerà tra la Raggi e Giachetti. Questa vicenda svantaggia il centrodestra». Ecco il paradosso di un pasticcio fatto di firme e moduli, allora: il fallimento di una lista nata per sgambettare Renzi e infastidire i cinquestelle sarà ossigeno proprio per gli odiati avversari. «Se in questa storia dovessi immaginare un ranking del beneficio – ragiona la sondaggista Alessandra Ghisleri (Euromedia Research) – allora direi: Raggi, Giachetti e Marchini».
Mai come stavolta la Capitale è terra di conquista per le pulsioni più estreme e impronosticabili. «È molto difficile prevedere cosa accadrà – ammette Roberto Weber di Ixè – Quello che posso dire è che a Roma ci sarà una risposta dell’elettorato molto radicalizzata ». Il punto politico parte esattamente da questo ragionamento: se chi sceglie Fassina lo fa in chiave anti-renziana, come potrà virare sul Pd e avvantaggiare proprio Giachetti? «Il motivo – spiega Antonio Noto, a capo di Ipr - è statistico. La quota marginale che andrà al candidato del Pd sarà importantissima. Dovesse guadagnare anche solo il 2% dei voti, questi potrebbero essere decisivi per andare al ballottaggio. Anche perché questi elettori di certo non sceglieranno nomi di centrodestra».
Marchini e Meloni, appunto. Osservano la palude burocratica in cui sono finiti i vendoliani e non sembrano darsi pace. In un attimo, un altro bidone di veleni si riversa sulla campagna elettorale. «Rimango molto perplessa di fronte al fatto che partiti organizzati non sapessero che bisognava consegnare le firme con la data - confida Giorgia Meloni - E quindi ho il dubbio di un accordo tra il candidato della sinistra radicale e il candidato del Pd. Evidentemente si rendono conto che non hanno ad oggi alcuna possibilità di arrivare al ballottaggio ». Desistenza travestita da concorrenza, questo è il sospetto dei lepenisti: «Un favore di Fassina al Pd», insiste Matteo Salvini. La soluzione, secondo la leader di Fratelli d’Italia, passa da una sanatoria per decreto, in modo da riammettere chi ha commesso errori formali: «Sarebbe un gesto di democrazia». Anche Marchini avrebbe preferito un altro finale. «Non credo che ci sia dietro un disegno, penso però che bisognerebbe dare rappresentanza anche a questa sinistra. Abbiamo di fronte uno scenario pericoloso per la tenuta sociale della città. Ha visto i disordini di ieri? Non credo siano casuali». Detto questo, l’imprenditore preferisce non dare ascolto alle interpretazioni degli istituti demoscopici: «È già difficile prevedere se chi ha votato Pd continuerà a farlo, figurarsi sapere se gli elettori di Sel sceglieranno il Partito democratico. Siamo nel campo della chiromanzia...». Nel dubbio, comunque, a largo del Nazareno si festeggia. Numeri alla mano, un concorrente in meno non dispiace. I sondaggisti sembrano confermare: «Prendiamo l’ottavo municipio, in particolare la zona di Garbatella con i suoi 44 mila abitanti - è l’esempio fornito da Ghisleri - Alle ultime comunali Sel ha preso il 9% e Fratelli d’Italia il 5%. E siccome quelli di Fassina non voteranno per la Meloni, Giachetti avrà certamente un vantaggio».
E se invece tutto si riducesse a un misero aggiustamento dello “zerovirgola”? La pensa così il professor Alessandro Amadori, convinto che la ghigliottina sul candidato di Sinistra italiana sposti davvero poco: «Dovessi usare un’immagine, direi che Fassina - che pure considero potenzialmente spendibile - assomiglia in questa campagna a un cane sciolto senza collare: non si capisce che disegno abbia e perché bisognerebbe votarlo. Penso quindi che i suoi elettori finiranno soprattutto nell’astensione».
Repubblica 14.5.16
Roma, il Tar conferma il no a Fassina
Respinto il ricorso della lista contro l’esclusione dall’elezione per il Campidoglio per irregolarità nella raccolta delle firme. Comunali, Alfano propone al governo di votare anche il lunedì. Sala: “Non è una buona idea”
di Mauro Favale

ROMA. È stato uno dei primi a scendere in campo per il Campidoglio, addirittura a fine novembre 2015. Una corsa lunghissima interrotta ancora prima delle urne. Stefano Fassina, il candidato di Sel e Sinistra Italiana, è fuori dalla Comunali di Roma. Dopo la bocciatura della commissione elettorale che ha evidenziato irregolarità nella raccolta delle firme allegate alle sue liste, ora arriva anche lo stop del Tar.
Il verdetto del primo grado della giustizia amministrativa esclude così l’ex viceministro dalla corsa a sindaco della capitale. Ora l’ultima spiaggia è il Consiglio di Stato al quale Fassina ha già annunciato di voler ricorrere. La sentenza dovrebbe arrivare a metà della prossima settimana ma le speranze sono poche. E questo nonostante il (quasi ex) candidato abbia spiegato che «non ci fermiamo qui. Siamo convinti delle nostre ragioni».
A mancare, però, sulle liste presentate da Fassina, sia per il Comune sia per i Municipi, era la data di autenticazione. Un’omissione grave che, scrive la Sezione II bis del Tar, «comporta la nullità insanabile dell’atto di presentazione delle liste». Per i giudici amministrativi, dunque, «le firme sui modelli di accettazione della candidatura a cariche elettive e di presentazione delle liste devono essere autenticate nel rispetto di tutte le formalità». Chi ha proceduto a quest’operazione(la vicepresidente di un Municipio) ha dimenticato, insomma, di inserire la data che, secondo la legge, non può essere antecedente i 180 giorni dalla data di convocazione delle elezioni. E a nulla sono valse le giustificazioni degli avvocati di Fassina secondo cui la donna è entrata in carica il 29 dicembre 2015, entro dunque i termini di legge.
Bocciato anche il ricorso presentato per i Municipi: in quel caso le firme sono state raccolte su moduli vecchi, che non tenevano conto delle nuove norme sulla legge Severino. Il pasticcio (in tanti hanno parlato di «dilettantismo») ha spaccato un’area che, a fatica, si era riunita sotto la candidatura dell’ex esponente Pd e che, secondo i sondaggi, era stimata tra il 5 e il 6%. Un “tesoro” che proveranno a conquistare sia Roberto Giachetti, Pd, sia Virginia Raggi, M5S. Per ora prevale il fair play. Il candidato del centrosinistra si dice «dispiaciuto». E ribadisce un «appello al dialogo e al confronto a tutte le donne e gli uomini di sinistra, agli amministratori, ai militanti e ai dirigenti. Lavoriamo insieme».
Intanto, a poco più di 20 giorni dalle urne, il ministro dell’Interno Angelino Alfano apre alla possibilità di votare anche lunedì 6 giugno e lunedì 20 giugno per i ballottaggi. «Lo proporrò al governo, spero dica sì». E se l’idea piace a tanti che temevano un aumento dell’astensionismo, causa ponte del 2 giugno, il candidato del Pd a Milano Beppe Sala, la boccia: «Non penso sia una buona idea. Dobbiamo lavorare per ridurre un po’ i costi».
La Stampa 14.5.16
Il Tar cancella la lista Fassina
“La metà dei miei ora si asterrà”
Roma, ricorso bocciato. Resta il dilemma su quale candidato sostenere “Dissi che il M5S era meglio del Pd dei palazzinari, ma era solo un’ipotesi”
intervista di Riccardo Barenghi

Alle otto e quaranta di ieri sera Stefano Fassina risponde al telefono: «Ancora niente, ancora niente». Purtroppo ci tocca dargliela noi la notizia: confermata l’esclusione della sua lista. Silenzio. Ancora silenzio. Poi ripete con voce bassissima: «Ah, confermata...». Ci chiede qualche minuto di riflessione prima di parlare: «Richiamo io tra dieci minuti». Eccolo di nuovo, la voce è tornata quella di sempre: «Qualche speranza ce l’avevamo. Purtroppo ha prevalso il piano formale su quello sostanziale. Comunque non ci arrendiamo, faremo ricorso al Consiglio di Stato». Ma anche lui sa benissimo che la partita è praticamente chiusa. «Certo, è difficile essere ottimisti. Però ci proviamo».
Scusi Fassina, ma c’è chi dice che gli errori nella presentazione delle vostre liste che hanno causato l’esclusione non siano casuali ma voluti. C’era chi nel mondo della vostra sinistra non gradiva la sua candidatura.
«Non entro in questa discussione. Io mi assumo la responsabilità politica di quello che è successo. Certo, siamo arrivati all’appuntamento un po’ affaticati e con una discussione al nostro interno perchè c’era chi aveva altre posizioni e voleva un’alleanza col Pd. Ma da qui a dire che qualcuno abbia giocato sporco ce ne corre. Io personalmente non lo penso. Sono sicuro che gli errori siano stati involontari».
Ora i vostri voti sono in libera uscita, quanti sono e dove finiranno secondo lei?
«Una ricerca dice che il 50 per cento finirà in astensione, un 25 per cento a Virginia Raggi dei Cinque stelle e un 20 per cento a Roberto Giachetti».
E lei come voterà?
«Guardi, non lo so e vorrei che lo decidessimo tutti insieme, a cominciare dall’assemblea che faremo martedì prossimo con i nostri 400 candidati».
Ma lei non aveva detto a novembre che tra Pd e Cinque stelle avrebbe scelto questi ultimi?
«Intanto parlavo di un’ipotesi nazionale e non romana, peraltro non ero nemmeno candidato ancora. Era solo un’ipotesi, magari polemica nei confronti di Renzi, ma solo un’ipotesi».
Ormai però, almeno a Roma, questa ipotesi rischia di diventare realtà, il 5 giugno e ancor di più al ballottaggio. È evidente che adesso i due candidati meno lontani dalla Sinistra di Fassina faranno qualche mossa per conquistare quegli elettori (7,5-8 per cento secondo gli ultimi sondaggi) che potrebbe significare la vittoria. Una volta si chiamavano aperture a sinistra: lei ci crede, ci spera?
«Io non vedo nei programmi dei miei ex concorrenti qualcosa che possa avvicinarsi alle nostre idee. Manca totalmente la questione sociale, che per noi è fondamentale. E poi, diciamo la verità, lo slogan di Giachetti - “Roma torna Roma” - proprio non mi convincer. È quella Roma di prima che non ci piace ed proprio per contrastarla che mi ero candidato».
Quale Roma?
«Quella segnata dalla subalternità agli interessi forti. Parlo di chi ha costruito periferie per poi abbandonarle a se stesse».
I costruttori insomma, altrimenti detti palazzinari?
«Esatto».
A proposito, con Marchini avete rapporti o pensate di averne in futuro?
«Marchini ha fatto una svolta a destra molto preoccupante».
Senta Fassina, si trasformi in osservatore: chi andrà al ballottaggio?
«Molto dipende dall’affluenza, avverto una forte astensione in giro che sarà favorita dalla nostra esclusione».
Si vabbé, ma due candidati comunque ci andranno: secondo lei chi saranno?
«Non mi faccia fare il sondaggista».
Il Foglio 14.5.16
Quando rinascerà il patto del Nazareno
Salvati: “Sogno la Raggi a Roma per finirla con la balla del governo degli onesti”
“Il referendum? Sacrosanto, ma sono preoccupato. Se vince il sì? Si vota e poi grande coalizione”
Le comunali? “Guardate i candidati: il comunismo lo ha sconfitto Renzi, mica Berlusconi... ”. Parla Salvati, l’ideologo del Pd
di Claudio Cerasa

Sa che ora che mi ci fa pensare credo di aver capito qual è la grande differenza tra Renzi e Berlusconi... ”. Il partito, il referendum, la giustizia, la minoranza, Grillo, il Cav., il moralismo, Pizzarotti, l’Europa, le elezioni, le amministrative, Roma, Milano, le battaglie interne, il Nazareno e la sorpresa possibile, o forse probabile, per il prossimo governo. Caro professore, mettiamo il termometro? Michele Salvati lo conoscete tutti e i lettori di questo giornale lo conoscono meglio degli altri. Salvati è un economista e un politologo. Insegna Economia politica all’Università Statale di Milano, nella facoltà di Scienze politiche, e il dieci aprile del 2003, proprio sul Foglio, è stato il primo teorizzatore del Partito democratico, che segue da tempo con affetto e attenzione. Tredici anni dopo, con un Pd trasformato, un segretario alla guida del paese, un partito in fibrillazione, un’elezione in vista, un referendum alle porte e un voto anticipato che, secondo Salvati, è qualcosa di più di una semplice tentazione ma una certezza quasi matematica, tredici anni dopo abbiamo pensato di chiedere al professor Salvati, direttore del Mulino, di mettere il termometro sotto il braccio di Renzi, e del Pd, e di misurarne la temperatura. Professor Salvati, insomma, come sta il Pd? E soprattutto, esiste ancora il Pd? “Il Pd esiste ancora, eccome, anche se Renzi lo ha trasformato, dal punto di vista culturale e dal punto di vista organizzativo, con diverse e drastiche innovazioni sia sul lato dei contenuti sia sul lato della forma partito. Il Pd però si trova di fronte a una sfida cruciale che coincide più con quella del referendum di ottobre che con quella delle amministrative. Io non credo, non riesco a credere, che una parte del partito faccia campagna elettorale contro il suo segretario e sono convinto che alla fine si litigherà molto ma non si andrà oltre e che Renzi riceverà il sostegno anche della sua minoranza. Bersani e Cuperlo sono due tipi tosti e combattivi ma ragionevoli e credo che siano consapevoli che fuori dal Pd non c’è nulla che valga la pena di sperimentare e che far fuori Renzi significherebbe oggi far fuori anche l’unica speranza che ha la sinistra di vincere e governare. Viceversa, naturalmente, se all’interno del partito dovesse montare una fronda favorevole al no alla riforma non ci sarebbero alternative e la scissione a quel punto potrebbe essere difficile da evitare”. Ma questo referendum Renzi lo vince o no? “Io credo che votare sì al referendum costituzionale sia un atto meritorio non tanto per il futuro di Renzi quanto per il destino del paese. La riforma Boschi non è la migliore riforma del mondo ma è una riforma che migliora lo status attuale e che rafforza il governo in modo significativo: e non avere un governo debole è tra le altre cose il modo migliore per essere più autonomi anche dal potere e a volte dallo strapotere della magistratura. Personalmente faccio fatica a comprendere le ragioni di chi si schiera contro. O meglio, le posso capire perché, e per questo sono preoccupato, lo scenario che si sta andando a delineare per il 2016 è simile a quello registrato nel 2006 ai tempi del referendum sulla riforma costituzionale voluta da Berlusconi. La scelta di personalizzare la campagna referendaria da parte di Renzi per certi versi era inevitabile ma pone dei problemi non secondari. Il referendum sta diventando una pura scelta politica, che prescinde dai contenuti, e se la partita dovesse essere solo un pro o contro Renzi, come fu allora un pro o contro Berlusconi, non si può dare nulla per scontato. I mille comitati per il sì annunciati da Renzi fanno parte del registro di una propaganda che può servire ad allarmare il paese sulle conseguenze del no ma che non so quanto possa aiutare a convincere nel merito gli elettori che la riforma sia buona. Certo: ci sono alcune differenze sostanziali tra il2006eil 2016. Allora Berlusconi dopo una legislatura a mio avviso inconcludente era in declino di consensi e scelse di non combattere a morte a favore per il sì. Viceversa, Renzi, anche se acciaccato e minacciato da un branco di lupi e di leoni spodestati, oggi combatte come un leone una battaglia che si svolge su un terreno diverso che, al di là della destra e della sinistra, è quella della modernizzazione del paese. Purtroppo per lui, però, l’alleanza contro è formidabile e potente e le speranze che vi sia una vittoria del sì dipendono da quanto Renzi riuscirà a dimostrare con chiarezza le ragioni che fanno del no uno scenario che porta, a mio avviso, allo sfascio del paese”. Sostituiamo il termometro con la palla di vetro. Cosa vede dopo il referendum? “La mia impressione è che il governo Renzi sia in dirittura di arrivo e la forzatura sulle unioni civili, legge che condivido, è un segnale tipico da campagna elettorale. Se il premier vince a ottobre il percorso mi sembra segnato: congresso anticipato e, a stretto giro, voto nel 2017. Sento dire spesso che le elezioni anticipate non sarebbero possibili perché i parlamentari matureranno la loro pensione a ottobre e dunque la legislatura è blindata... Tenderei a non illudermi. Renzi sa bene, non può non saperlo, che dopo il referendum si entra in una zona pericolosa per il suo governo, in cui ogni promessa non mantenuta offuscherà tutte le promesse realizzate. Non può permetterselo. Deve andare a votare subito. E poi deve fare la grande mossa... ”. La grande mossa? “Questa cosa della palla di vetro mi diverte. Allora, vi dico come la vedo. Io dico che sia che il referendum passi, sia che il referendum non passi il destino è segnato: Renzi e Berlusconi, nel prossimo governo, faranno un nuovo patto del Nazareno”. Non ci dica così che lo sa che sveniamo...
“Ma certo, è evidente: è uno schema che non è solo nell’ambito delle possibilità ma è nell’ambito delle probabilità”. Dica. “Il combinato disposto tra nuova legge elettorale e nuova riforma costituzionale darà sì al partito che vincerà le elezioni la possibilità di avere una maggioranza definita nell’unica Camera che sarà necessario avere per ottenere la fiducia. Ma spesso ci si dimentica di ricordare che i parlamentari in più rispetto alla soglia minima di maggioranza non sono infiniti ma sono appena ventiquattro. Se Renzi dovesse vincere le elezioni, per quanto le sue liste possano essere depurate da riottosi parlamentari della minoranza, basterà un piccolo gruppo di deputati ribelli per far cadere quel governo. Per questo credo sia probabile anche nella prossima legislatura la formazione di una grande coalizione. E lo stesso schema, ovviamente, ci potrebbe essere qualora il referendum non dovesse passare: si andrebbe al voto anticipato con un sistema misto, Italicum alla Camera e Consultellum al Senato, e un nuovo patto del Nazareno anche lì sarebbe inevitabile...”. Musica per le nostre orecchie. Ma lei, caro Salvati, crede che ci sia ancora oggi, tra Berlusconi e Renzi, un patto di non belligeranza? “Non lo credo. Credo piuttosto che sia in atto un fenomeno significativo e che riguarda proprio queste amministrative. Guardatevi intorno. Guardate i candidati di centrodestra e centrosinistra a Napoli, a Roma, a Milano, a Torino, a Bologna. Sono tutti candidati moderati, spesso sovrapponibili, e che per questo potrebbero collaborare tra loro anche durante le prossime giunte. Sono, lasciatemelo dire, tutti o quasi candidati ‘nazarenici’ che interpretano bene lo spirito di quel patto che Berlusconi e Renzi firmarono due anni fa: un’Italia moderata all’interno della quale le idee di centrodestra e di centrosinistra si diluiscono e convergono su alcuni temi cruciali. Non so se ve ne siete accorti, poi, ma la grande novità di queste elezioni è che, per la prima volta da non so quanto tempo, non esiste un solo candidato di sinistra tradizionale in nessuna grande città italiana. Mi verrebbe da dire che il comunismo, da un certo punto di vista, lo ha spazzato via più Renzi che Berlusconi...”. Quanto possono pesare le amministrative sul destino del governo? “Nulla, a meno che Renzi non perda Milano”. Abbiamo scritto più volte su questo giornale che Milano rappresenta una sfida importante sia il centrosinistra (Sala uguale renzismo) sia per il centrodestra (il centrodestra unito è competitivo, il centrodestra disunito è suicida). Problema: il centrodestra di Milano è una semplice eccezione o rappresenta il futuro? “Sono pessimista su questo: credo sia il passato, almeno per il momento. Sarebbe il futuro se Berlusconi mostrasse un po’ di buon senso decidendo di appoggiare la riforma sul referendum costituzionale, che è la stessa ma proprio la stessa battaglia che avrebbe potuto vincere nel 2006. Berlusconi sa bene che se il centrodestra non si presenta unito perde. Solo che un tempo il leader incontestato era lui e poteva degradare i proclami leghisti a intemperanze che poi lui avrebbe controllato. Ora il leader non è più lui e nel suo schieramento non c’è un Renzi e non c’è nessuno che abbia uno stampo conservatore-liberale della stessa tempra mediatico-populistica di Salvini. Le sue incertezze derivano da qui. E oggi, purtroppo, se vuole vincere deve sottomettersi: Parisi e Marchini sono solo dei ballon d’essai”. Ballon d’essai come Grillo? “Io sono convinto che il Movimento 5 stelle sia un fenomeno politicamente rilevante ma culturalmente di passaggio. Il punto è che fino a quando l’Italia continuerà ad andare male e fino a che il Movimento non sarà messo alla prova non sarà possibile accelerare il passaggio da una fase a un’altra. Lo dico con un paradosso, ma neanche troppo forse. A Roma voterei per Roberto Giachetti ma allo stesso tempo sarei molto contento se al posto di Giachetti vincesse la Raggi. Sono certo che in quel modo sarebbe evidente a tutti, permettetemi il termine ma con la mia età me
lo posso permettere, quale grande cazzata sovrumana è questa balla enorme del governo degli onesti”.