sabato 28 maggio 2016

Repubblica 28.5.16
Biblioteche, i vertici lasciano per protesta
di Francesco Erbani

Dimissioni per Solimine, Matthiae e per tutto il comitato. “Inutili 25 assunzioni in tutta Italia”
La coperta era troppo corta, si preannunciava da tempo, e qualcuno sarebbe rimasto al freddo. È successo ai bibliotecari, ai quali il concorso previsto dal ministero dei Beni culturali ha attribuito appena 25 dei 500 posti messi a bando per rimpolpare gli esangui ranghi del personale addetto alla tutela del nostro patrimonio. Immediate le conseguenze: Giovanni Solimine, bibliotecario e fra più accreditati studiosi dei sistemi bibliotecari, si è dimesso dal Consiglio superiore dei Beni culturali. E con lui hanno deciso di abbandonare anche i membri del comitato di settore delle biblioteche e degli istituti culturali, Il presidente Mauro Guerrini, il vicepresidente Luca Bellingeri, l’archeologo Paolo Matthiae e Gino Roncaglia.
Il terremoto sconvolge i piani del ministro Dario Franceschini il quale contava molto sull’effetto che le 500 assunzioni avrebbero prodotto sulle malmesse forze del suo ministero. Effetti più psicologici che reali, in realtà. Basta scorrere le cifre che Solimine evidenzia nella lettera di dimissioni e che, pur riferendosi ai bibliotecari, possono estendersi, sebbene meno allarmanti, a tutti i beni culturali. Solo il 2,7 del personale ha un’età inferiore ai 50 anni, mentre il 63 per cento supera i 60. E questi ultimi andranno in pensione entro i prossimi 5 anni. Nel solo 2016 lasceranno il servizio in 37, un numero superiore ai 25 che invece entreranno, ma non prima del 2017. E che rappresenteranno una goccia nel mare.
Solimine non trascura di apprezzare l’aumento degli stanziamenti per le biblioteche, aumento il cui merito attribuisce al ministro, ma lamenta la netta sproporzione fra l’attenzione dedicata ai musei — il riferimento è evidentemente a quelli resi autonomi — e quella prestata a un settore vitale del patrimonio italiano, quello librario, che annovera repertori pregiatissimi, come le due biblioteche nazionali centrali di Roma e di Firenze o la Marciana di Venezia — solo per citarne alcune. Senza personale anche i soldi servono a poco. Solimine contesta anche l’annessione di alcune biblioteche ai poli museali o ai musei autonomi.
Il bando prevede di assegnare 95 posti agli archivisti, 130 agli architetti, 40 agli storici dell’arte, 90 agli archeologi, 80 ai restauratori, 10 agli antropologi e 30 ad addetti alla promozione e alla comunicazione (5 in più, si fa notare polemicamente). Molti concentrati nel Lazio. Pochi nelle regioni meridionali. La distribuzione sembra aderisca a una pianta organica molto scompensata redatta l’agosto scorso.
Contro il bando si mobilitano anche gli archeologi, che contestano i requisiti richiesti ai candidati (penalizzerebbero i più esperti) e annunciano impugnazioni. Dal canto loro, protestano le associazioni di tutela. E molte critiche raccolgono le ipotesi di formazione delle commissioni.
Un pasticcio. Come reagisce il ministero? Franceschini difende «l’unica scelta possibile», sostenendo che «la distribuzione dei 500 posti tra i 9 profili contemplati dalla legge» è stata compiuta in modo proporzionato. È la prima volta che si assume dopo vent’anni, insiste il ministro, che lascia poi aperta la possibilità che per i bibliotecari le assunzioni crescano «fino a 50». Ma la coperta corta è e corta resta.
Repubblica 28.5.16
Thomas Mann
Nella notte d’Europa il dilemma tra silenzio e denuncia del Male
Un libro racconta i tre giorni in cui il grande scrittore, da esule, scelse tra mille tormenti di esporsi pubblicamente contro il nazismo
Quando seppe dei poteri illimitati a Hitler prese la moglie per mano: stava tremando
di Ezio Mauro

C’è un uomo col cane sul sentiero che porta nel bosco gelato della campagna di Kusnacht, sul lago di Zurigo, quel sabato mattina d’inverno. Attorno i corvi beccano la terra, dai campi affiora uno spaventapasseri, nell’aria passa il suono delle campane senza che la nebbia lasci vedere la chiesa. Il cane è un terrier marrone con una striscia nera sulla schiena e sui fianchi. Di fronte ci dev’essere
il lago nascosto nella foschia, perché qui c’è la panchina dove normalmente lo si può guardare in pace. Sciolto il guinzaglio, l’uomo si siede sulla panca col cappotto nuovo dal collo di pelliccia grigio scuro abbottonato in alto, i guanti imbottiti, la sciarpa stretta sotto il mento, i suoi 61 anni. Da tre — fa il conto quel primo giorno di febbraio del 1936 — vive in esilio volontario in Svizzera, dopo aver dedicato al suo Paese il premio Nobel per la letteratura: «Depongo questo premio mondiale ai piedi della Germania e del mio popolo». Adesso ha poche ore di tempo per decidere se la Germania diventata hitleriana merita che lui denunci l’orrore davanti al mondo, oppure se gli conviene tacere e vivere come se non sapesse. Ieri nel suo studio, da solo, ha riletto per l’ultima volta la lettera di condanna indirizzata alla Neue Zurcher Zeitung, ha tolto la stilografica dall’astuccio e ha firmato i tre fogli col suo nome: Thomas Mann.
Mentre getta un ramoscello al cane, cerca in tasca il portasigarette d’argento, non riesce a smettere di torturarsi come ha fatto tutta la notte. Soprattutto una frase della lettera gli torna in mente, come un’ossessione: «Dall’attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo ». Gli sembrava perfetta, quando l’ha scritta, riletta e corretta. Ma di notte ne ha avuto timore. Stamattina appena alzato ha chiamato il caporedattore del giornale svizzero in lingua tedesca, Korrodi, e gli ha chiesto di aspettare, di non pubblicare nulla: ha bisogno di riflettere. È come se i tre anni passati fuori dalla Germania fossero stati vissuti solo per arrivare fin qui, a questi tre giorni finali e supremi, quelli della scelta. I gesti di ogni giorno, che gli danno la sicurezza della regolarità — sveglia alle 8, colazione con caffè, pane e marmellata, lavoro, passeggiata, pranzo, riposo, corrispondenza, tè, passeggiata serale, cena, lettura, diario — adesso gli appaiono puri strumenti per portarlo a questo fine settimana che non riesce a finire, dilatato nell’incertezza della scelta. Settantadue ore che sembrano montate apposta per riassumere e ingigantire l’angoscia del dilemma, quel nodo tra vita e letteratura che può sciogliere soltanto lui, tra Germania e Europa, esilio e patria, essere e dover essere: per lasciarlo infine solo e nudo davanti al dubbio capitale della sua vita. Un dubbio che confida ogni sera al suo diario, tormento dopo tormento, e che Britta Böhler ha rovesciato nel romanzo sulla Decisione, ora proposto in Italia da Guanda, proprio mentre il Saggiatore con La svolta pubblica la scelta di campo contro il regime di suo figlio Klaus.
Lui, Thomas, non aveva guardato un’ultima volta la terra di Germania tre anni prima, mentre in treno attraversava il confine svizzero-tedesco tra Lindau e Bregenz, un po’ perché era assopito, ma soprattutto perché non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Dopo una serie di conferenze su Wagner a Monaco, Amsterdam, Bruxelles e Parigi, ecco tre settimane di riposo in montagna al Waldhotel di Arosa, che come ogni anno gli riservava la stessa camera, dove poteva lavorare. Gli erano sempre piaciuti i grandi alberghi coi tappeti spessi, gli enormi lampadari, gli stucchi e d’inverno le slitte a cavalli. Voleva rimettersi a scrivere Giuseppe in Egitto, stava immaginando le sponde del Nilo coperte di limo mentre ordinava il punch del pomeriggio all’Old India, quando dai giornali cominciò a capire che il suo mondo si stava distruggendo. L’incendio del Reichstag, i comunisti messi fuori gioco, la croce uncinata che diventa la nuova bandiera della Germania, abolendo i colori del Reich. Non poteva pensare che il suo Paese fosse perduto, si trattava solo di aspettare. In fondo, non aveva sempre pensato che per la politica poteva bastare la mano sinistra? Ma quando Medi, la figlia, pianse al telefono da Monaco chiedendo ai genitori di poter scappare, subito, perché a scuola tutto era cambiato, ogni mattina dovevano cantare l’inno nazista, cominciarono a capire. Quando ascoltò alla radio Svizzera la votazione di fine marzo al Reichstag sui poteri dittatoriali a Hitler, aveva già compreso. Era in poltrona nella hall dell’albergo, prese la moglie Katja per mano e stava tremando.
Fu allora che arrivarono i primi attacchi dai giornali tedeschi. Improvvisamente lo accusavano di «aver imbrattato Wagner», proprio mentre la Gestapo entrava per una perquisizione nella sua casa di Monaco e il Rotary gli comunicava per lettera l’espulsione. Era chiaro che non poteva più tornare in Germania. Lui, che non aveva fatto del male a nessuno. Che nelle Considerazioni di un impolitico parlava del suo sensibilissimo «spirito di solidarietà con la mia epoca». Che nel Mio tempo scriverà di aver «sempre sentito il bisogno di essere patriota ». Basta. Non sarebbe più tornato nel suo studio, non avrebbe avuto i suoi ottomila libri e il pianoforte a coda dietro cui appariva vestito da mago a Carnevale, col mantello nero e le stelle dorate sul cilindro quando Erika e Klaus erano piccoli. La casa era perduta, come la Germania.
E infatti vagarono per sette mesi tra Lugano, Basilea, il Sud della Francia, dove poteva incontrare in un caffè del porto il fratello Heinrich, sotto il maestrale. Infine la Svizzera, dove Erika trovò la casa sul lago. Arrivarono i pochi mobili che avevano potuto salvare, la sua scrivania, la poltrona da lettura, il grammofono con i dischi per la sera. Ma la sensazione era di un albero strappato dalla sua terra, quasi come se vivere lontano significasse tradire il Paese, con il tormento di sperare talvolta che la Germania «rimettesse la testa a posto». Ma ecco quella stella gialla, le leggi razziali. Dove sta andando la Germania, dove finirà? Come aveva scritto nella lettera? Ecco, l’aveva riletta così tante volte da saperla a memoria: «L’odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo».
Ma c’è anche un’altra frase della lettera che dice la verità. Prima di tutto a se stesso: «Com’è difficile I’arte di restare neutrali». Sono le vicende angosciose del suo Paese che lo hanno spinto fin qui, sul bordo del lago a mezzogiorno del sabato, sull’orlo della decisione che non sa prendere. Anche la sua famiglia lo spinge. Il fratello Heinrich da lontano, Klaus e Erika, i figli grandi, rimproverandolo com’è successo a Natale perché tace da troppo tempo, davanti alla fine del mondo. Erika soprattutto si attende che lui, il suo Mago, parli. Poi quegli allarmi, la Gestapo che a Monaco interroga i suoi camerieri e l’autista. Il rogo dei libri. Aveva ragione Erika, non poteva restare in disparte, come fosse superiore a tutto e a tutti. Aveva ragione Klaus: «Non c’è più ritorno». D’altra parte come scriveva lui in Mario e il Mago? C’è sempre un momento in cui lo spettacolo finisce e ha inizio la catastrofe. Così aveva preparato la lettera in una settimana, fumando quei sigari svizzeri che gli facevano rimpiangere Monaco. Poi ieri, venerdì, aveva chiesto a Katja di accompagnarlo in auto a Zurigo. Tutto sembrava risolto. Ma ecco che al giornale manca proprio Korrodi, deve lasciare la lettera più importante della sua vita a un assistente, la mano esita, vorrebbe ritirarla, infine la consegna.
Va al cinema con la moglie, vedono Le Rosier de madame Husson, ma lui nel buio si lascia catturare nuovamente dal dubbio. Cosa diranno gli amici? Gli viene in mente l’ultimo incontro con Herman Hesse e il suo consiglio: «Non si immischi, amico mio, si tenga fuori». Ma come si può rimanere “fuori” dall’orrore, c’è un fuori? La notte non dorme e sente che sta cambiando idea: non può dare l’addio definitivo alla Germania, ci sarà pure un’altra strada. Il sabato mattina esce nel freddo per schiarirsi le idee, poi telefona al giornale e ferma la lettera. «Voglio pensarci bene», dice alla moglie, che non commenta. Ma poi Katja non scende a pranzo. Lui mangia tre bocconi di carne, da solo, si chiude nello studio. Guarda le edizioni straniere dei suoi romanzi sugli scaffali, si domanda a cosa servono se i suoi libri finiranno all’indice in Germania. Perché si sta rendendo la vita così difficile? Eppure c’è una via di mezzo, che porta alla salvezza: terrà semplicemente la bocca chiusa, esiste il diritto di tacere.
Si sente solo, nella casa adesso silenziosa e non sa che quello è il dilemma dell’Europa intorno a lui — tacere o rischiare — , un pezzo della tragedia morale dell’Occidente e delle democrazie davanti al Male. L’individuo di fronte al peso della storia, la coscienza personale e la vicenda di un intero Paese, la sproporzione tra il suo dandismo letterario e l’abisso tedesco, e tuttavia il sentimento di dichiararsi e infine il calcolo delle conseguenze. Poi, laggiù in fondo alla stanza, la paura. Dovrà giustificarsi, in un caso o nell’altro? Non sa che fare. Accompagna Katja dalla sarta a Zurigo, l’aspetta all’hotel Baur du Lac dov’erano stati in luna di miele. Quel tavolino d’angolo, con un vermut che profuma di erbe mentre intorno passano torte “Foresta Nera” è il posto giusto per prendere la decisione, vuole costringersi a farlo prima che Katja ritorni. Gli è insopportabile l’idea di rompere con Erika ma anche quella di rompere coi suoi lettori. Poi, mentre si fa buio, un’idea si fa strada dentro il tormento. Lucida, chiara: non vuole tornare in Germania, vuole che la Germania torni da lui, torni com’era prima della follia.
Sardine, uova sode, pane e prosciutto, birra e limonata, cucina Katja e cenano soli. I bambini sono a Basilea, Klaus è continuamente in viaggio, Golo ormai lavora a Rennes, Monika è a Firenze, Erika ovunque col suo cabaret. Alza la birra verso la moglie: «Salute. A volte bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso». Nello studio mette sul grammofono il preludio del Lohengrin, la sua opera preferita. Si addormenta in poltrona, cercando nel dormiveglia qualcosa tra politica e cultura, musica e sventura, chiedendosi se star zitti oggi è un’altra forma del patto col diavolo, ricordando confusamente che anche nel suo Doctor Faustus l’accordo con Satana era stato siglato fuori dalla Germania. Finché il disco arriva alla fine. La domenica si sveglia sapendo che non c’è più tempo e non ci sono alternative. È vero, sarà senza terra, ma lo spirito e l’arte non possono essere separati dalla politica e poi la sua Germania non esiste più. Si lucida le scarpe con la cera, scende per colazione, beve un bicchiere di sambuco. «Telefono adesso — dice a Katja — . Domani la lettera uscirà sul giornale». Nel diario di tela cerata chiuso nel primo cassetto dello studio insieme con vecchi occhiali, spago, ceralacca, fiammiferi, c’è scritto: «Ho concluso con commozione». Poco più in là, il calendario arrivato chissà come da Monaco, spalancato sulla data del giorno d’addio alla Germania tre anni prima, l’11 febbraio. Adesso quei fogli si potevano finalmente girare per arrivare al terribile 1936 dell’Europa, il tempo poteva ricominciare a scorrere, come la vita.
IL LIBRO La decisione di Britta Böhler (Guanda traduzione di Laura Pignatti pagg. 200 euro 15)
Repubblica 28.5.16
L’uomo caduto sulla Terra che diventò Philip K. Dick
In “Io sono vivo, voi siete morti” Emmanuel Carrère racconta genio e ossessioni dell’autore che ispirò “Blade Runner”, rivoluzionando la fantascienza
di Emmanuel Carrère

Tutto doveva essere nuovo in quel periodo: Nouvelle Vague, New Frontier, Nouveau Roman; le cose cambiavano nome, e da una parte e dall’altra dell’Atlantico i vecchi brontoloni sempre pronti a fare del sarcasmo, con la pipa a mezz’asta e gli occhiali sulla fronte, avevano gioco facile a farsi beffe dei tanti parrucchieri diventati improvvisamente stilisti dei capelli. Con lo stesso zelo la fantascienza
barattò il suo rozzo appellativo con i più rispettabili
speculative fiction, che non voleva dire molto, e new thing, che non voleva dire assolutamente niente, ma almeno lo diceva con maggiore impudenza.
Negli Stati Uniti il più accanito promotore della “nuova cosa” fu Harlan Ellison, ex fan sfegatato divenuto, col sudore della fronte, poligrafo virtuoso ed esperto di pubbliche relazioni. [...] Ellison pensava che Dangerous Visions, la sua antologia manifesto, avrebbe rivoluzionato la letteratura americana. [...] Contattato verso la fine del 1965 dall’entusiasta Ellison, Dick fu felice di sapere che, se c’era uno che non poteva mancare nel manipolo dei pericolosi visionari, quello era senz’altro lui, e con vivo piacere accettò di scrivere il suo autoritratto. Ne veniva fuori la figura di una specie di recluso affabile, circondato da amici, che amava il tabacco da fiuto e gli allucinogeni, Heinrich Schütz e i Grateful Dead, affascinava i suoi giovani amici hippy di modesta cultura parlando di Giovanni Scoto Eriugena e adocchiava tutte le ragazze che gli passavano accanto, sotto lo sguardo indulgente della sua giovanissima, timidissima e graziosissima moglie. L’uomo infelice, tormentato, che a Point Reyes aveva creduto di perdere la ragione nel mondo dominato da Anne e da Palmer Eldritch, si era trasformato, sulla soglia dei quarant’anni, in una sorta di guru bonario, dedito all’uso degli allucinogeni per verificare in prima persona le sue ipotesi teologiche e quelle dei suoi gloriosi predecessori, che ormai citava a ogni piè sospinto, al punto da trasformare anche il più modesto romanzo di fantascienza in un patchwork di epigrafi prese da Boezio, da Meister Eckhart o da san Bonaventura. Pur non avendo più ripetuto la terribile esperienza con l’lsd, si atteggiava a veterano dell’acido e sosteneva come Timothy Leary che «oggi perseguire una vita religiosa senza l’ausilio delle droghe psichedeliche sarebbe come voler studiare gli astri a occhio nudo». Gli piaceva raccontare che un giorno Leary gli aveva telefonato dalla stanza d’albergo di John Lennon, in Canada, dove i Beatles erano in tournée. Sì, ripeteva con aria solenne, rallegrandosi del brivido di incredulità e di ammirazione che suscitava nel suo interlocutore: proprio dalla stanza di John Lennon! I due, completamente fumati, avevano appena finito di leggere Le tre stimmate di Palmer Eldritch e ne erano entusiasti. Era così! Esattamente così!, biascicava Lennon strisciando sulla moquette. Parlava già di farne un film, il film psichedelico, l’equivalente cinematografico del disco a cui stava lavorando:
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Preso alla sprovvista, Dick non aveva avuto il tempo di pensare a un test che gli permettesse di verificare se Lennon e Leary fossero davvero Lennon e Leary e non due mattacchioni che si facevano passare per quegli dèi dell’Olimpo, ma un anno dopo, quando l’album uscì, riconobbe sia il titolo del disco sia quello di una canzone che inneggiava all’acido di cui Lennon gli aveva parlato: Lucy in the Sky with Diamonds.
Da quel momento cominciò ad avere un debole per il name- dropping e si convinse di esercitare sugli altri una sorta di influenza sotterranea, quasi occulta. In effetti, in alcuni ambienti, l’aggettivo dickiano iniziava a essere usato per indicare certe situazioni particolarmente strane e un modo complicato ma preciso di rappresentare il mondo. Stava diventando una specie di parola d’ordine. Giovani non necessariamente appassionati di fantascienza, critici musicali, come Paul Williams, per esempio, o autori di fumetti, come Robert Crumb o Art Spiegelman, nelle loro riviste stampate alla bell’e meglio parlavano di lui come di uno dei geni misconosciuti del loro tempo. [...] Ma non era affatto così spregiudicato come voleva sembrare. In lui l’eresiarca letterario coabitava con il parrocchiano scrupoloso spaventato dall’inferno, di cui aveva gustato un assaggio grazie all’acido. Se in sua presenza qualcuno riduceva le varie apocalissi bibliche a mere allegorie che, proprio come la Genesi, non andavano prese alla lettera, scuoteva la testa con l’aria afflitta di uno a cui sia toccata la sfortuna di sapere e di sapere che gli uomini si nutrono di vane illusioni. Voleva amare Dio, ma più ancora temeva il diavolo. Questa sua religiosità gotica, quando gli capitava di parlarne apertamente, gli veniva perdonata volentieri: era considerata una divertente provocazione, una delle sue tante stravaganze. E in quell’ambiente di agnostici vagamente attratti dal buddhismo non ci voleva molto a sembrare stravaganti; non c’era alcun bisogno di essere pelagiani o albigesi: bastava essere cattolici. Neanche Nancy capì subito che Dick non scherzava quando diceva di essere dispiaciuto perché vivevano nel peccato, visto che il suo matrimonio religioso con Anne non era stato annullato, e non poteva accostarsi alla Sacra Mensa. Gli sembrava che, più che per il divorzio, l’esclusione dall’eucarestia fosse una punizione per il sacrilegio di cui si era reso colpevole mettendola in ridicolo nella sua «messa nera» e che ciò lo privasse della sola protezione efficace nella guerra in cui era impegnato. La nostalgia della vita sacramentale lo spinse a inventare diversi sostituti, fra cui il più curioso, il solo che non sia legato alla droga, è la «scatola empatica» merceriana, intorno alla quale ruota la vicenda secondaria di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (tutto si può dire di Dick, tranne che mancasse di fantasia).
IL LIBRO Io sono vivo, voi siete morti di Emmanuel Carrère Adelphi, pagg. 350 euro 19
Corriere 28.5.16
L’annuncio in Grecia: «Ecco gli indizi che portano alla tomba di Aristotele»
di Ida Bozzi

Nessuna prova, ma «forti indicazioni»: potrebbe essere la tomba monumentale del filosofo Aristotele (Stagira, 384 o 383 a.C. – Calcide, 322 a.C.) la struttura ritrovata tra le rovine della città arcaica di Stagira. La cautela è d’obbligo, ma gli indizi portati dall’archeologo greco Kostas Sismanidis, che ha annunciato la scoperta durante un convegno a Salonicco, sono numerosi. Sismanidis, che dirige gli scavi a Stagira dagli anni Novanta, ha spiegato che la costru-zione, con pavimenti in marmo e resti di un altare, è stata individuata 70 chilometri a est di Salonicco: si trattava di un monumento pubblico situato accanto a quella che all’epoca era la via principale della città. Dentro la tomba non sono stati trovati resti umani, ma ceramiche e monete risalenti al periodo di Alessandro Magno (allievo proprio del filosofo). Secondo l’archeologo, dopo la morte di Aristotele le sue ceneri sarebbero state riportate nella città natale: a rafforzare l’ipotesi, tre biografie e altre testimonianze. Per il momento le autorità greche restano caute: «Gli scavi — è stato reso noto — sono stati condotti da un’équipe di archeologi indipendenti, non collegati ad alcuna università. Aspettiamo maggiori dettagli per valutare». (  )
La Stampa TuttoLibri 28.5.16
Cassola e Calvino
La letteratura, religione dell’invisibile
di Bruno Quaranta

Fra le voci con cui Carlo Ossola dialoga in Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove manca Geno Pampaloni. Ma subito, accostando questo esercizio di ammirazione del professore torinese, il «critico giornaliero» torna alla memoria. In particolare, la sua recensione di Palomar, sistemato «nello scaffale dei libri de religione», perché vi si testimonia «anche se tacitamente che la religione dell’ateo è la religione dell’assenza di Dio».
Assenza come inesistenza? A offrire un barlume di risposta è lo stesso Calvino lettore di Tolstoj, nella specie il racconto I due ussari, citato da Ossola: «Come nel narratore più astratto, ciò che conta in Tolstoj è ciò che non si vede, ciò che non è detto, ciò che potrebbe esserci e non c’è».
Non c’è, ossia non sussiste? Non c’è, ossia è invisibile? Non è, la parabola di Calvino, un’interrogazione infinita, ininterrotta? Che potrebbe riconoscere come divisa il «quaesivi et non inveni», ho cercato e non ho trovato, o non ho definitivamente trovato di derivazione - per contrasto - pascaliana? Non ebbe occasione, Carlo Ossola, di definire lo scrittore «matematico» di Ti con zero «esemplare nell’onorare pascalianamente la ragione eroica che sa descrivere i propri limiti mai rinunciando a essere ragione»?
Italo Calvino «sa» dove è l’«invisibile», non esita a riconoscerne la dimora (contribuendo ad arredarla, a inverarla, financo a sacralizzarla, antidoto contro il caos, il disordine, la blasfemia, ovvero la parola sfregiata): la letteratura. Il luogo per eccellenza del possibile, dove, per esempio, può assurgere a personaggio un «cavaliere inesistente».
La letteratura, l’ubi consistam dell’invisibile. Non a caso, forse, Carlo Ossola abbozza la lezione americana che Calvino non riuscì a «fare», «consistency», la coerenza delle «cose difficili, eseguite alla perfezione», giustificate nella loro pertinenza, nella giustezza, «secondo un disegno perfetto».
La perfezione, la «Terra Promessa», a cui non può non anelare chi denuncia la «peste del linguaggio», nella letteratura («e forse solo nella lettearatura») identificandone gli anticorpi. Perché, sa lo scrutatore della nostra Babele, «anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta». De religione.
Corriere 28.5.16
L’America e la Bomba
«Atomico» divenne subito sinonimo di «nuovo»: proiezione della potenza Usa
Poi tutto cambiò
di Massimo Gaggi

NEW YORK «Prima una serie di piccoli incendi. Poi una tempesta di fuoco che succhiò tutto l’ossigeno dall’atmosfera: 125 mila giapponesi uccisi in un solo bombardamento». Non è la cronaca dell’apocalisse nucleare di Hiroshima né di quella di Nagasaki, ma il racconto di un precedente attacco «convenzionale»: un bombardamento a tappeto a Tokyo con bombe incendiarie come quelli che distrussero altre città giapponesi (da Osaka a Kobe) e tedesche (da Dresda ad Amburgo).
L’abitudine alla brutalità e ai massacri nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale con nazisti e giapponesi decisi a combattere fino all’ultimo uomo e gli Alleati che cercavano di ottenere la resa a furia di bombardamenti, spiega perché, nell’immediato Dopoguerra, l’atomica non fu vista dagli americani con orrore ma, anzi, sembrò a molti un positivo simbolo della modernità, oltre che una garanzia della superiorità militare e politica degli Stati Uniti.
Meno micidiale dei bombardamenti incendiari, l’atomica aveva posto fine alla guerra evitando «Operation Downfall», l’invasione del Giappone che (secondo le stime di Truman, poi contestate) sarebbe costata la vita di almeno 250 mila soldati Usa e di milioni di giapponesi. Perché non festeggiare? La sera di Hiroshima al bar del press club di Washington già veniva servito un «atomic cocktail»; nei teatri cominciarono a esibirsi atom bomb dancers .
«Atomico» divenne sinonimo di nuovo, innovativo. I conservatori ci vedevano la proiezione della potenza Usa, una versione dell’eccezionalismo americano. I progressisti erano più dubbiosi, ma si diffondeva l’utopia di un mondo che, toccata con mano la potenza spaventosa dell’atomo, avrebbe considerato impensabile un’altra guerra. Hollywood e gli scrittori tacevano con poche eccezioni (come il Kurt Vonnegut di «Ghiaccio-nove»). Le cose cambiarono progressivamente. Sul piano strategico già dal 1949, quando la prima atomica sovietica rese evidente che era iniziata una corsa agli armamenti nucleari. Con l’equilibrio del terrore la psicologia americana passò rapidamente dal trionfalismo nucleare alla nevrosi: rifugi atomici ovunque, addestramento nelle scuole, prove di evacuazione. La gente si abituò a vivere nel precario equilibrio garantito dalla capacità di Usa e Urss di distruggersi reciprocamente. «Mutually assured destruction» divenne l’espressione-chiave della Guerra Fredda: richiamata nelle conversazioni con l’acronimo M.A.D., che in inglese significa «pazzo».
E sicuramente pazzo era il Dr. Stranamore portato sullo schermo da Stanley Kubrick nel 1964: il generale dell’Air Force che scatena l’apocalisse nucleare. Con questa ed altre pellicole di quel periodo e l’inizio di un ripensamento storiografico, l’America rivede le sue certezze. L’arma nucleare che non sembra più così efficace (è iniziato il conflitto in Vietnam dove l’atomica non serve mentre gli americani cadono nella giungla) né eticamente accettabile: avrà anche salvato la vita di molti soldati che altrimenti sarebbero morti sulle spiagge dello sbarco in Giappone, ma la bomba sganciata sulla popolazione civile è pur sempre in violazione di tutte le norme internazionali. Il linguista radicale Noam Chomsky definisce Hiroshima «uno dei più indescrivibili crimini della storia», mentre il filosofo Michael Walzer parla di «terrorismo di guerra» per il tentativo di costringere un governo alla resa con i massacri dei civili. E lo storico «patriottico» Robert Newman arriva a sostenere che, così come ci sono guerre giuste, ci può essere anche un terrorismo giustificato. Negli ultimi anni tutto è cambiato ulteriormente con la tecnologia che, consentendo lo sviluppo di piccole armi nucleari tattiche, ha inserito nelle dottrine strategiche la possibilità di conflitti atomici limitati. Un dibattito che ha coinvolto anche i Paesi europei (e le sinistre europee) negli anni del dispiegamento degli «euromissili». Più di recente è subentrata la preoccupazione del terrorismo nucleare e della proliferazione in Medio Oriente (tamponata per ora con l’accordo con l’Iran) e in Asia dove il regime nordcoreano continua a muoversi in modo minaccioso.
A Hiroshima Obama ha invitato i Paesi dell’area, quelli oggi più tentati dal riarmo nucleare, a non ripetere gli errori del passato e a promuovere un risveglio morale. Ma non si è scusato: difficile farlo quando il bombardamento nucleare del Giappone è stato giustificato anche da un imperatore giapponese e da Fumio Kyuma, un ex ministro della Difesa nato a Nagasaki.
il manifesto 28.5.16
Vaticano, Bergoglio riceve Hebe Bonafini
Incontro privato del papa con la «pasionaria» delle Madri di Plaza di Mayo, a Santa Marta. La leader delle proteste contro Videla fa autocritica per l’iniziale diffidenza verso il pontefice argentino
di Rachele Gonnelli

I due argentini più popolari nel mondo, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco I, e la leader delle Madri di Plaza de Mayo, l’ottantottenne Hebe Pastor de Bonafini (nella foto), si sono stretti la mano ieri per la prima volta a Roma.
Si è trattato di un incontro privato, il pontefice ha ricevuto la più agguerrita avversaria della dittatura di Videla nel suo appartamentino di Casa Santa Marta, la residenza dove Bergoglio ha scelto di abitare in Vaticano, snobbando lo sfarzo cardinalizio della curia romana, le prebende papali e, in questo caso, i flash e le telecamere della sala stampa.
La stretta di mano tra i due ha dato moltissimo fastidio in Argentina, dove ha provocato reazioni urticanti in special modo tra i sostenitori del nuovo presidente Mauricio Macri e sulla stampa moderata del paese, che ha dato scarso risalto allo storico incontro e ha messo soprattutto in evidenza come la stessa Hebe Bonafini avesse salutato l’uscita del nome di Bergoglio dal conclave del 2007 con una fumata bianca come quello di un personaggio invischiato nelle sporche e sanguinolente malefatte del dittatore Videla, accusandolo in particolare di essere «rimasto in silenzio quando portavano via i nostri figli».
Poche settimane fa la stessa Bonafini ha rettificato in modo netto, sostenendo di essersi «sbagliata». Del resto non era la prima volta che riconosceva l’errore: già nel 2013 aveva scritto una lettera al santo padre, chiamandolo semplicemente «don Francesco», nella quale ammetteva di non conoscere prima «il suo lavoro pastorale» e nella quale poi si rallegrava «infinitamente» per l’impegno di Francesco nella battaglia volta a sradicare la povertà nel mondo e nel dare impulso al rinnovamento in Vaticano. Hebe Bonafini è rimasta invece – e lo è tutt’ora – una fiera oppositrice del presidente Macri, che con la sua solita prosa che non va per il sottile, definisce semplicemente «un fascista».
Così, pochi giorni fa, alla vigilia dell’incontro con il papa, è stata bollata dal capogabinetto della Casa Rosada, Marcos Pena, come «aggressiva» e «offensiva». Il quotidiano più letto in Argentina, che è anche il più importante dell’intera America Latina, il Clarìn, ha rimarcato come papa Bergoglio abbia aperto le porte della sua casa a lei dopo aver riservato tutt’altro trattamento alla sua principale rivale, Margarita Barrientos, sessantaquattrenne, alla guida di una associazione scissionista delle Madri di Plaza de Mayo, definita dal sottotitolo «linea fundadora».
La Barrientos tre anni fa aveva chiesto di essere ricevuta dal pontefice argentino, ma l’udienza le era stata negata, per altro senza dare alcuna spiegazione. Entrambe, sia la Bonafini sia la Barrientos, sono state negli anni accusate dalla magistratura di essersi arricchite utilizzando il nome delle madri che reclamavano la verità sui figli desaparecidos, entrambe però sono state alla fine prosciolte dalle accuse. Non è dunque questa la ragione della diversità di trattamento.
Per trovare una spiegazione il Clarìn ieri ha scomodato Loris Zanatta, ordinario a Bologna di storia delle relazioni internazionali, che tra l’altro ha una collaborazione con il giornale argentino di linea ancora più moderata, La Naciòn, ed è autore di un discusso saggio sulla rivista bimestrale del Mulino diretta da Michele Salvati nel quale sostiene che papa Bergoglio è peronista, avendo aderito alle idee populiste di Peròn e Evita in età giovanile e quindi segnerà il suo pontificato da un «antiliberismo viscerale».
Nell’intervista, Zanatta, conclude avanzando il sospetto che il papa incontrando «un personaggio discusso e discutibile» come la Bonfini «voglia riconciliare non tanto gli argentini quanto piuttosto i peronisti», legandosi in questo modo a chi non solo è ostile a Macri ma considera illegittimo il suo avvento al potere spodestando Cristina Kirchner nel dicembre di tre anni fa. Comunque tutta un’altra storia rispetto a quella del pastorale abbraccio a chi lo ha diffamato.
il manifesto 28.5.16
Cuba, un altro passo verso la proprietà privata
Cuba. La proposta di legge è apparsa in un documento di 32 pagine
Dovrà essere approvata dall’Assemblea del potere popolare
di Roberto Livi

L'AVANA Nuovo passo a Cuba verso la caduta del tabù della proprietà privata. Il governo intende infatti legalizzare le piccole e medie imprese per dare un impulso alla debole economia e favorire maggiori investimenti esteri.
La proposta di legge è apparsa all’inizio della settimana in un documento di 32 pagine che illustra una serie di iniziative approvate dal VII° Congresso del Pcc a metà aprile. In particolare la nuova apertura nei confronti dell’impresa privata viene dal comitato incaricato della «concettualizzazione del socialismo cubano»: per trasformarsi in legge, dovrà essere approvata dall’Assemblea del potere popolare, il parlamento cubano, che si riunirà a luglio.
Solo fra qualche mese dunque si sapranno i dettagli e i tempi di attuazione di tale apertura al mercato, anche se tutti gli osservatori concordano che si tratti di un importante segnale di cambiamento. E di un rafforzamento della linea pragmatica di Raúl Castro che, fin dalla sua nomina a presidente nel 2008, ha puntato su una drastica riduzione dell’inflazionato e improduttivo settore statale a favore di «nuove forme di gestione economica», cooperativistiche e private. Secondo il documento, il governo cubano ammetterà «piccoli negozi realizzati dal lavoratore e dalla sua famiglia» e «imprese private di piccola, media e micro scala».
La misura deriva dalla «necessità di mobilitare risorse non statali…per aumentare la produzione di beni e servizi e per la modernizzazione delle infrastrutture e del sistema produttivo, indispensabili per lo sviluppo». Date queste premesse, «il riconoscimento delle forme non statali di proprietà e gestione contribuisce alla liberazione delle forze produttive». Però, il più giovane dei Castro ha messo in chiaro che si tratta di riforme economiche e che non implicano sostanziali riforme politiche, visto che il socialismo rimane la base politica di Cuba e che la proprietà statale resterà la spina dorsale dell’economia dell’isola.
Attualmente nell’isola vi sono poco più di 500.000 cuentapropistas, lavoratori per conto proprio, eufemismo coniato a suo tempo per evitare la parola privato, aborrita dalla corrente dogmatica del partito comunista. Assieme a quasi ottocentomila piccoli contadini privati e ai poco più che 100.000 lavoratori del nascente settore cooperativistico non agricolo fa sì che circa un terzo della forza lavoro del paese ( composta da circa 5 milioni di lavoratori) è impegnata nel settore privato.
La legalizzazione dello status di piccola e media impresa concederà diritti legali alle imprese, oltre a quelli già stabiliti per gli individui. Il mezzo milione di cuentapropistas, sono già in pectore impresari con una piccola o micro impresa – bar, cabaret, ristoranti, pensioni, trasporti- che impiega personale. Però le loro attività non sono riconosciute giuridicamente come imprese. Dunque, i piccoli imprenditori cubani non hanno il permesso di importare i prodotti di cui hanno bisogno, ma devono comprarli nei negozi di stato o al mercato nero.
La fine del tabù sulla proprietà privata dovrebbe facilitare lo sviluppo del settore privato, minato dalla burocrazia e dall’assenza di un mercato all’ingrosso che ne garantisca la redditività; un passo che, per molti osservatori, era impensabile prima del disgelo diplomatico con gli Stati uniti iniziato nel dicembre del 2014. Nella sua visita all’Avana lo scorso marzo, il presidente Obama ha messo in chiaro che le misure prese dalla sua amministrazione per allentare l’embargo erano rivolte soprattutto a rafforzare la società civile cubana. Una delle più forti contestazioni a tale linea, espressa soprattutto dai politici repubblicani legati agli anticastristi della Florida, si basa sul fatto che le aperture americane in realtà favoriscono lo stato, e dunque «il regime», cubano, visto che più del 70% dell’economia dell’isola è statale. La nuova proposta di legge cubana contribuisce dunque a rafforzare la linea di apertura di Obama che, secondo recenti inchieste, gode del favore della maggioranza della popolazione e sta guadagnando spazio anche nel Congresso. Giovedì, la coalizione statunitense contro l’embargo Engage Cuba ha pronosticato che la
«Legge per la libertà di viaggiare a Cuba», presentata congiuntamente nel gennaio del 2015, «potrebbe essere approvata entro i prossimi due mesi», visto che « ha già l’appoggio di 51» dei 100 senatori della Camera Alta del Congresso.
La Stampa 28.5.16
Dal Brasile al sogno americano
Boom di haitiani al confine di Tijuana
Centinaia di immigrati fuggiti dall’isola dopo il sisma del 2010
di Francesco Semprini

Giungono senza sosta da diversi giorni, provenienti dalle «rotte della speranza» centro-americane, senza soluzione di continuità. Si accalcano davanti alle cancellate del porto di ingresso di San Ysidro, non lontano da Tijuana, uomini, donne e bambini: dormono per terra abbracciati e avvolti in coperte donate dai volontari. In attesa di compiere il grande passo, l’ingresso negli Stati Uniti, la terra promessa, per raggiungere la quale - temono le autorità doganali - potrebbero essere pronti a tutto, anche alla rivolta. È l’esercito di haitiani che sta assediando il tratto più ad Ovest della frontiera tra Messico e Usa. Scene che ricordano quelle di Lesbo e Calais, ma con una connotazione etnica del tutto nuovo. Mai prima d’ora le frontiere americane erano state prese d’assalto da cittadini provenienti da Haiti, drammatica realtà caraibica che il terremoto del 2010 ha piegato definitivamente. Tra gli accampati di San Ysidro c’è Cedric (così dichiara di chiamarsi al San Diego Tribune), un ragazzone di 25 anni che dopo il terremoto ha deciso di lasciare il cuore di tenebra haitiano per far rotta in Brasile. «Ho cercato di iniziare una vita migliore come molte persone del mio Paese». La sua storia è quella di tanti altri connazionali, a cui il Brasile ha offerto ospitalità e lavoro subito dopo il 2010, sulla scia della sua spinta economica emergente. Ed invece oggi il Paese sudamericano è in una crisi acuta, economica, politica e di costume, e per gli haitiani non c’è più spazio né opportunità. Ecco allora che i disperati di Port-au-Prince e dintorni si sono rimessi in marcia attraverso Ecuador, Colombia, Panama, Nicaragua, Honduras, Guatemala e quindi Messico, «sulle rotte percorse mediamente da 25 mila persone al giorno», spiegano le autorità della Custom and Protection Border (Cpb) di Usa e Messico. «Dalla scorsa domenica ne abbiamo visti arrivare centinaia - racconta Yuleni Perez, giornalaio di Tijuana -, alcuni non hanno nemmeno una coperta». Le autorità del Cpb vogliono capire se ci sia dietro un nuovo racket del traffico di esseri umani. Le autorità americane nel frattempo valutano caso per caso chi possa essere accolto, nessuno infatti chiede asilo politico. Gli altri rimangono nei centri di accoglienza, ma col rischio che l’afflusso senza sosta di haitiani trasformi San Ysidro in un teatro di tensioni come quelli dall’altra parte dell’Atlantico.
La Stampa TuttoLibri 28.5.16
La moneta di Keynes darebbe fiato alla Grecia
La proposta di creare il “bancor”, una valuta artificiale che puniva gli eccessi dei debitori ma anche dei creditori
di Mario Deaglio

Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno sempre marciato a braccetto sui tormentati campi di battaglia della seconda guerra mondiale e non hanno neppure, come vuole una visione stereotipata, progettato in armonia il nuovo ordine economico del dopoguerra. Tra il 1941 e il 1944 giocarono invece una durissima partita a scacchi sul futuro assetto economico-finanziario del mondo che si concluse con la vittoria dei primi e la riduzione, sia pure graduale, della seconda a potenza di secondo piano.

È su questo sfondo che deve essere letta una selezione degli ultimi scritti di John Maynard Keynes, l’economista «eretico» che rivoluzionò la «scienza» economica nel secolo scorso, dal titolo: Moneta Internazionale. Un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario. Il volume è pubblicato da Il Saggiatore nella collana delle Silerchie con una bella ed esauriente introduzione di Luca Fantacci.
Per quanto trasgressivo e anti-convenzionale, Keynes era un difensore dell’«essenza» dell’Impero Britannico, uno stimato e influente consigliere delle massime autorità economiche di quell’impero, dal quale ricevette anche il titolo di Lord. Considerava l’Impero come un modello di libertà e di convivenza pacifica tra etnie, religioni, interessi politici ed economici diversi, realizzato - pur con alcuni punti neri, come la rivolta indiana del 1857 e le guerre anglo-boere a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento - nei lunghi decenni della cosiddetta «globalizzazione vittoriana», all’ombra non solo della superiorità militare e tecnologica inglese ma anche della sterlina britannica. Dopo le terribili distruzioni, materiali e umane della seconda guerra mondiale, i principi-guida dell’Impero avrebbero potuto essere estesi a tutto il pianeta anche grazie a una nuova moneta «artificiale», ossia non più legata a un singolo paese ma espressione di tutti - che Keynes chiamò «bancor» – pilastro di un nuovo, lungimirante ordine planetario.
Non si trattava di un’utopia bensì di un progetto politico-economico che fu prossimo a realizzarsi e che viene guardato ancor oggi con interesse da tutti coloro che mal sopportano la vacillante, incontrollata supremazia del dollaro, possibile fonte di instabilità e non fondamento di crescita armonica. Il sistema che Keynes illustra, soprattutto nella presentazione alla Camera dei Lord, il 18 maggio 1943, «non è un piano filantropico crocerossino, grazie al quale i paesi ricchi vengono in soccorso di quelli poveri. È un meccanismo strettamente necessario, che è utile al creditore quanto al debitore». Tale meccanismo, infatti, non «punisce» soltanto i paesi con un deficit eccessivo nei conti con l’estero, ma penalizza anche, sia pure in misura minore, i paesi creditori, scoraggiando l’accumulo eccessivo di crediti esteri. Tradotto in termini attuali, costringerebbe la Germania a una maggiore espansione della domanda interna e darebbe un po’ più di fiato all’Italia, per non parlare della Grecia.
Il progetto naufragò nell’atmosfera felpata della conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, dove Keynes ebbe un formidabile antagonista in Harry Dexter White, rappresentante del Tesoro degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, infatti, volevano eliminare la possibilità di un terzo conflitto mondiale semplicemente stabilendo la propria supremazia, e quindi anche il primato del dollaro. Keynes probabilmente sottovalutò il forte pregiudizio negativo degli americani rispetto all’Impero Britannico, risalente agli anni della Guerra di Indipendenza.
Di conseguenza l’edificio finanziario mondiale fu costruito con i «mattoni» britannici preparati da Keynes ma disegnato da White e dal Tesoro di Washington: la Banca Mondiale, che Keynes vedeva al centro del nuovo sistema finanziario, in grado di dare un impulso decisivo alla crescita mondiale, ebbe invece un ruolo secondario rispetto al Fondo Monetario Internazionale che per Keynes avrebbe dovuto occuparsi della gestione del giorno per giorno dei mercati finanziari. Il dollaro fu fermamente collocato al centro del sistema e ambedue le istituzioni ebbero sede a Washington.
Si giunge così all’ultimo documento, in un certo senso il più toccante: il breve discorso di un Keynes sconfitto alla riunione inaugurale del Fondo e della Banca, il 9 marzo 1946, poco più di un mese prima della sua morte (per «ferite di guerra», anche se non sofferte sul campo di battaglia, «minato nel corpo e nello spirito», con la delusione di vedere il suo progetto «stravolto e tradito», come scrive Fantacci nell’introduzione) Si augurò che alla festa non fosse stata invitata, oltre a molte «fate» bene auguranti, anche una «fatina cattiva» e che ogni decisione delle nascenti istituzioni venisse sempre presa in base al merito e non in vista di un secondo fine. Guardando a quanto è successo nei decenni seguenti, fino ai tempi attuali, si può concludere che a quell’inaugurazione una «fatina cattiva» forse c’era davvero.
Corriere 28.5.16
Timidi segnali di pace fra israeliani e sauditi
risponde Sergio Romano

Il premier egiziano al Sisi ha inviato un messaggio di pace all’omologo israeliano Bibi Netanyahu prendendolo di sorpresa. È vero che la cattività palestinese rappresenta un serio problema per tutto il mondo, in specie quello islamico ed è possibile che la mossa di al Sisi tenda a neutralizzare l’invadenza sciita fra i palestinesi, essenzialmente sunniti,che riceverebbero aiuti dall’Iran. Dietro la mossa potrebbe esserci la lunga mano dei sauditi che temono la strumentalizzazione dei palestinesi da parte dell’Iran, che finanzia la rivolta nel Sinai al confine con Gaza. Fra i due Paesi esistono «pourparler»?
Nerio Fornasier fornasier.nerio@yahoo.fr
Caro Fornasier,
L e sue supposizioni sarebbero confermate da uno scambio di battute, generiche ma apparentemente amichevoli, fra Turi Al Faisal, ex capo della Intelligence saudita, e Yaakov Amidror, un ex generale israeliano che è stato consigliere per la sicurezza del primo ministro Benjamin Netanyahu. Lo scambio, segnalato da Maurizio Molinari su La Stampa del 15 maggio, ha avuto luogo durante un pubblico incontro al Washington Institute sulla situazione del Medio Oriente. Alcuni osservatori, fra cui Molinari, pensano che i due vecchi avversari abbiano scoperto di avere interessi comuni. Hanno uno stesso nemico: l’Iran sciita degli ayatollah. Sono entrambi preoccupati dall’accordo sul programma nucleare di Teheran sottoscritto, insieme alla Germania, dai cinque membri del Consiglio di sicurezza. Guardano entrambi con diffidenza ad alcune tendenze della politica di Barack Obama nella regione.
Aggiungo, caro Fornasier, che l’Arabia Saudita, dopo decenni di ostentata spensieratezza, sembra avere improvvisamente scoperto di essere socialmente ed economicamente vulnerabile. In Oil , una rivista pubblicata dall’Eni, un analista, Paul Sullivan, ricorda che il Paese dipende dal petrolio per il 70-80% delle sue entrate e che la caduta del prezzo del barile sui mercati internazionali ha drasticamente diminuito le sue disponibilità finanziarie. Terminata la fase del benessere diffuso e garantito, il Paese sa oggi di essere afflitto da molte carenze e debolezze. La desalinizzazione dell’acqua marina (da cui dipende la sua agricoltura) consuma enormi quantità di petrolio che vengono sottratte all’esportazione. Ha un alto tasso di disoccupazione giovanile e, allo stesso tempo, un numero elevato di immigrati assunti per lavori servili e manuali. È circondata da conflitti, in cui è coinvolto direttamente o indirettamente, e ha un enorme bilancio militare. Qualsiasi cosa accada al prezzo del petrolio nei prossimi anni, l’esistenza di una nuova fonte energetica (il gas proveniente da rocce scistose) renderà le sue risorse petrolifere meno preziose e indispensabili.
Il passaggio di generazione (il nuovo re, al trono dal 2015, ha 79 anni, ma ha già designato i suoi successori) sembra avere avuto effetti positivi. Esiste una dirigenza che è consapevole dei limiti della ricchezza saudita ed è meno incline a pensare che il principale compito dello Stato sia quello di assicurare il benessere dei 5000 cugini di cui si compone la famiglia reale. Non è sorprendente, in questo quadro, che la classe dirigente saudita stia rivedendo il carnet degli amici e dei nemici chiedendosi se non sia utile fare qualche correzione.
l manifesto 28.5.16
Nuit Debout, l’interesse generale del movimento
Parigi. Il governo francese ha ancora una possibilità: rinunci a imporre questa riforma
di Marco Bascetta

Tra le fila dei manifestanti della Cgt a Parigi, Repubblica Tv, raccoglie la seguente parola d’ordine: «Che ci detestino pure, purché ci temano!» A prima vista può apparire come una contrapposizione piuttosto ruvida tra la forza e il consenso ( secondo la versione di Hollande che strepita contro «una minoranza» che blocca il paese e danneggia l’interesse nazionale), ma in realtà coglie un punto molto importante. Nessuna lotta è in grado, non dico di vincere, ma nemmeno di scompaginare o incrinare i giochi dell’avversario se non è nelle condizioni di incutere timore, di dimostrare concretamente che c’è un prezzo da pagare ed è piuttosto salato.
E l’avversario, naturalmente, non è l’eterna menzogna della Nazione, ma un padronato e una élite politica che vogliono guadagnare competitività insieme a una crescita sostanziosa dei profitti.
Il famoso articolo 2 della loi travail, quello che privilegia la contrattazione aziendale su quella collettiva, ha come posta in gioco sostanziale l’orario di lavoro, e cioè la tenuta di quelle sacrosante 35 ore settimanali conquistate con decenni di conflitti. È quasi superfluo ricordare che la lotta per la riduzione dell’orario è stata la costante più pura, meno ideologica e più aperta all’idea di libertà nell’intera storia del movimento operaio.
Il suo valore simbolico è grandissimo, tanto più nel momento in cui disoccupazione, sottoccupazione e precarietà fanno da beffardo contrappunto all’estensione del tempo di lavoro e all’ordinarietà crescente degli straordinari. Smentendo ripetutamente i benefici effetti sulla ripresa dell’occupazione attribuiti alle cosiddette «riforme». Le 35 ore, poi, contrariamente al nostro articolo 18, non riguardano uno strumento di difesa che si attiva in determinate (e rare) circostanze, ma la condizione permanente di vita quotidiana dei salariati.
Nonostante l’automazione e la massiccia contrazione del lavoro salariato esistono ancora settori di classe operaia (trasporti, logistica, energia) in grado di rallentare, se non di arrestare, la macchina produttiva di qualunque «sistema paese». Ronald Reagan lo sapeva benissimo quando diede il via alla riscossa del neoliberismo piegando con la forza lo sciopero dei controllori di volo.
In questi casi il gioco del potere consiste nell’isolare questi lavoratori in lotta, accusandoli di presidiare gli snodi decisivi nei quali operano in difesa di un privilegio corporativo contrapposto all’«interesse generale». Ma, in questo caso il gioco ha il fiato particolarmente corto. La riforma del lavoro non riguarda infatti questa o quella categoria produttiva, ma il rapporto tra capitale e lavoro en general. Si può sensatamente obiettare che una fetta crescente del lavoro è completamente escluso dalle tutele, dalle garanzie e dalla residuale forza contrattuale del lavoro subordinato.
Tuttavia anche questi soggetti si sono resi conto che la flessibilità imposta ai salariati, lungi dal rappresentare una possibilità di inclusione per loro, non farà che intensificare quel «dumping sociale» di cui già sono vittime. La ricattabilità del lavoro è una evidente reazione a catena. Non si spiegherebbe altrimenti una partecipazione così massiccia di studenti e giovani non certo provenienti dai ranghi del lavoro subordinato, né ad esso destinati, a una mobilitazione così lunga e tenace come quella cui stiamo assistendo in Francia.
La questione è ragionevolmente percepita come una questione politica, destinata a determinare il rapporto di forza tra soggetti subalterni e poteri dominanti, se non, addirittura, tra governanti e governati.
Temuti, ma detestati? La forza va forse a scapito del consenso? A guardare diversi sondaggi eseguiti nelle ultime settimane tra il 60 e il 70 per cento dei francesi si dichiarerebbe decisamente contrario alla legge così caparbiamente voluta da Valls e Hollande. E, del resto, il modo in cui la legge è stata fatta passare al primo vaglio dell’Assemblea nazionale, ricorrendo a una procedura che elude la discussione parlamentare, non sembra proprio dare un gran valore al consenso. Non vi è dubbio che la rappresentanza sindacale sia indebolita in tutta Europa e la sua presa sulla realtà sociale risulti allentata. Ma cosa dire allora della rappresentanza politica? Il gradimento del governo socialista è ai minimi storici, l’impopolarità del presidente Hollande è alle stelle e una sua rielezione nel ’17 fuori dall’ordine del possibile. L’incapacità di ascoltare la società francese assodata. Eppure l’esecutivo si pretende incarnazione indiscutibile della «volontà generale».
Se la destra avanza a grandi passi verso il potere non sarà certo dovuto a qualche disordine di piazza, a qualche vetrina infranta, ma alla politica impopolare e al tempo stesso arrogante condotta da ciò che (disgraziatamente) resta del socialismo francese.
Giunti a questo punto forse è fin troppo tardi per arrestare l’ascesa del Front National o di un’altra destra che concorra a sedurne l’elettorato. Ma se una possibilità c’è è quella di rinunciare a imporre questa riforma recuperando un qualche rapporto col mondo del lavoro. Sappiamo che questo non accadrà per intelligenza politica del partito di governo. Potrebbe accadere solo per la sua paura di perdere il controllo della situazione.
il manifesto 28.5.16
Loi Travail, guerra di logoramento governo-Cgt
Francia . Hollande "non demorde", per Valls "inaccettabile bloccare il paese". Cgt e Fo: "ampliare la mobilitazione", ci saranno "momenti forti di convergenza delle lotte", in vista della manifestazione nazionale a Parigi del 14 giugno. La battaglia è quella dell'opinione (per il momento, vince la Cgt)
di Anna Maria Merlo

PARIGI Il faccia a faccia continua, tra i sindacati contestatori (Cgt e Force ouvrière in testa, senza la Cfdt) da un lato e il governo dall’altro, come due eserciti schierati nel campo di battaglia in una guerra di logoramento.
Con un comunicato, i sette sindacati in lotta chiamano ad «ampliare la mobilitazione» e promettono, riprendendo il linguaggio della Nuit Debout, «tempi forti di convergenza delle lotte intercategoriali nei prossimi giorni», in vista della «giornata nazionale» con una grande manifestazione a Parigi il 14 giugno, giorno previsto per l’inizio della discussione della Loi Travail al Senato. Questa manifestazione sarà seguita da un altro «momento forte» nella seconda metà di giugno.
François Hollande, dal Giappone (dove partecipa al G7), assicura: «Non demordo», perché la Loi Travail «è una buona riforma». Il presidente mette in guardia chi protesta dal «non mettere a rischio l’economia che riparte». Il premier Valls conferma la strategia che mira a far pesare sulle spalle dei sindacati contestatori la responsabilità della tensione in corso: «Bloccare il paese è inaccettabile», ripete. Ieri però i 56 deputati che avevano presentato una mozione di censura di sinistra contro il ricordo all’articolo 49.3 della Costituzione per blindare il percorso parlamentare della legge, hanno inviato una lettera aperta a Hollande nella quale chiedono di «tenere in conto le aspirazioni del popolo» e in sostanza di abbandonare le riforme che dividono inutilmente la sinistra».
Dopo la giornata di manifestazioni del 26 maggio – tra 153mila e 300mila persone in piazza, secondo le fonti, polizia o sindacati – ieri è stato confermato lo sciopero del terminal petrolifero di Le Havre, 6 raffinerie su 8 restano bloccate, a Donges è stato dichiarato uno sciopero illimitato. Sabato Valls riunisce a Matignon i rappresentanti del settore. Bloccato il porto de La Rochelle e anche la strada per l’aeroporto di Nantes. I depositi di carburante sono stati tutti evacuati, salvo quello di Gargenville. Ma ieri solo il 10-15% dei benzinai era a secco, una situazione migliore dei giorni precedenti. In 10 centrali nucleari su 19 la produzione è calata. Da lunedì i sindacati raccoglieranno le firme per un referendum, nelle imprese, nelle amministrazioni e in licei e università, una «votazione cittadina» per rifiutare la Loi Travail. Hollande avverte la Cgt, avversario numero uno (mentre ci sono tentativi di spaccare il fronte, con contati con Force ouvrière): «Se il dialogo è sempre possibile, non è mai fondato su ultimatum, non si può accettare che ci sia una centrale sindacale, che ha la sua storia, che dice cosa è legge e cosa non lo è». Per Hollande, la legge andrà al Senato e poi tornerà all’Assemblea, «è in questo quadro che le discussioni devono aver luogo e da nessun’altra parte».
Guerra di posizione tra i due fronti. Il governo punta all’esasperazione della popolazione, all’effetto negativo che accompagna le manifestazioni (a Parigi ci sono stati 32 fermi, 77 in tutta la Francia, nella capitale c’è stato un manifestante ferito, 15 poliziotti feriti in tutto il paese). È l’opinione pubblica ad avere in mano la carta per condizionare l’esito dello scontro. Per il momento, la contestazione ha la meglio: il 69% dei francesi, secondo un ultimo sondaggio, restano ostili alle Loi Travail e ne chiedono il ritiro, il 59% ritiene che i responsabili della situazione di blocco siano presidente e governo.
Il governo ha poche carte in mano. La principale è una possibile mediazione, con una modifica del famigerato articolo 2 – quello dell’ «inversione della gerarchia delle norme», che dà la priorità agli accordi aziendali su quelli di categoria – senza però toccare «la filosofia» della riforma, ha avvertito Valls. Il governo punta anche all’effetto che può avere la discussione del testo di legge al Senato, dove domina la destra: nei programmi elettorali dei candidati alle primarie, le proposte sono molto più radicali della Loi Travail in discussione, corretta dalla Cfdt e da circa 8mila emendamenti accettati dal governo. Tra un anno ci sono le presidenziali e le legislative, quelli che vengono ormai designati nei cortei come «social-traditori» ricordano a chi protesta che con la destra sarà peggio. Ma questa strategia è rischiosa, ormai la spaccatura a sinistra è più che consumata.
La Stampa 28.5.16
Hollande non cede
Riaprono le raffinerie
di Paolo Levi

Non cede François Hollande, che nonostante la rivolta dei sindacati promette di andare «fino in fondo» sulla riforma del lavoro. «Tengo duro perché è una buona legge», ha osservato dal G7 in Giappone, mentre in patria praticamente tutti i depositi di carburante bloccati sono stati riaperti. «Il nostro primo dovere - ha continuato il capo dello Stato - è garantire i rifornimenti». In totale 15 depositi sul centinaio totali sono stati liberati senza incidenti da gendarmi e Police Nationale. La situazione è sempre difficile, invece, sul fronte delle raffinerie: sulle 8 del Paese, ieri ne sono state liberate solo due con circa un terzo delle stazioni di servizio ancora a secco. Intanto, a meno di tre settimane dall’Euro 2016, la Direzione generale dell’aviazione civile invita tutte le compagnie a fare il pieno di carburante negli aeroporti esteri. Ieri anche il premier Manuel Valls ha ribadito che non cederà alla rivolta di Cgt e Force Ouvrière. Ma secondo un sondaggio Odoxa la maggioranza dei francesi pensa il contrario: «il governo si vedrà costretto a gettare la spugna e il premier dovrà dimettersi».

La Stampa 28.5.16
I ferrovieri trascinano
il Belgio nella rivolta
di Marco Zatterin

Il Belgio è in tumulto. Mercoledì alle ventidue, i ferrovieri della Vallonia sono entrati in sciopero e, da allora, bloccano il Paese: protestano contro l’ipotesi di un taglio dei giorni di riposo compensativo. Ieri mattina nell’area di Bruxelles c’erano oltre 200 chilometri di auto accodate, la distanza fra la Grand Place e il Lussemburgo. Giovedì era andata peggio. Di buon’ora gli ingorghi coprivano 398 chilometri di strade federali. Traffico caotico nella capitale, tram in fila indiana, ritardi clamorosi. Un incubo vero, forse però solo l’antipasto di quanto accadrà martedì, quando scenderanno in piazza i sindacati dei pubblici per dire «no» ai tagli dei servizi decisi dal governo. Il paese è diviso, al solito. Si incrociano le braccia nel sud francofono e meno nelle ricche Fiandre. Ieri si sono fermati anche i secondini, in lotta per difendere lavoro e salario. Siamo all’orlo di una guerra sociale, suggeriscono gli analisti belgi. Ma forse è la classica insoddisfazione da crescita debole. Amplificata dai malumori di un paese che solo a fatica riesce a stare in piedi.

Repubblica 28.5.16
Il piano del governo saranno vendute le carceri storiche in periferia le nuove
Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale i primi istituti, poi altri nove
Li acquisterebbe la Cassa depositi
di Liana Milella

ROMA. Vendere San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale, le tre carceri storiche più famose d’Italia, in cambio di penitenziari nuovi, all’avanguardia, dove scontare la pena non sia – come invece molto spesso è attualmente – una punizione aggiuntiva per via del sovraffollamento e delle strutture irrimediabilmente antiche. Una tortura più che una rieducazione, soprattutto quando fa troppo caldo o fa troppo freddo e una piccola cella deve ospitare più detenuti di quanti ce ne potrebbero stare. Come dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando «c’è bisogno urgente di un modello di carcere diverso, che esca dall’attuale modello “passivizzante”, in cui stai in branda e non fai nulla in attesa che passi il tempo della pena, il presupposto giusto per la futura recidiva, mentre nei Paesi dove il carcere è studio, lavoro, sport la recidiva cala».
ALLA RIBALTA UN ANTICO PROGETTO
Alienare San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale e “guadagnare” strutture moderne. Un progetto più volte vagheggiato, ma che adesso, per mano del Guardasigilli Orlando, sembra poter diventare realtà. Da una parte via Arenula, dall’altra la Cdp, la Cassa depositi e prestiti, che si è già misurata con esperienze di questo genere, come a Torino con la caserma, ormai ex, La Marmora, 20mila metri quadri convertiti in residenze e spazi collettivi del tutto restituiti alla città.
ADDIO A I MOLOCH DELL’800
Al ministero della Giustizia ne parlano con il dovuto riserbo, perché il progetto sta muovendo adesso i primi passi e indiscrezioni errate potrebbero danneggiarlo. Ma Orlando ne dà piena conferma. «Sì, ci stiamo lavorando, perché l’esecuzione della pena, come dimostra il lavoro fatto durante gli Stati generali della giustizia penale, presuppone di poter superare i “moloch” ottocenteschi, strutture con costi di manutenzione altissimi per servizi come lo smaltimento dei rifiuti o il riscaldamento. Edifici che, anche fisicamente, con lo schema di un corpo centrale e dei “raggi”, puntano solo alla sicurezza attraverso una segregazione che spinge i detenuti alla passività, senza alcuna logica riabilitativa». Ma soprattutto, spiega ancora Orlando, «carceri di un’altra epoca, superate dal punto di vista della sicurezza, a fronte di gravi fenomeni di radicalizzazione che stiamo vedendo in altri Paesi europei». Una preoccupazione, quest’ultima, di una drammatica attualità dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles.
UNA DOZZINA DI CARCERI
Il progetto di cui si sta ragionando tra via Arenula e Cdp potrebbe riguardare una dozzina di penitenziari, ma prenderebbe le prime mosse concentrandosi su tre di questi, peraltro i più importanti per storia, persone ospitate, localizzazione all’interno della città. Il carcere di San Vittore a Milano che attualmente ospita 750 detenuti. Regina Coeli a Roma, con i suoi 624. E Poggioreale a Napoli con ben 1.640 ospiti.
NUOVI SINDACI INTERLOCUTORI
Dice Orlando: «Il progetto comincia a prendere forma adesso e dopo le amministrative credo ci saranno anche le condizioni politiche per un confronto con le prossime amministrazioni locali. Non appena i nuovi sindaci si saranno insediati partiranno i colloqui».
MURA PREZIOSE
Che cosa stanno studiando Orlando e Cdp? Partendo dalle motivazioni e dagli obiettivi. È fin troppo evidente che carceri assai antiche – San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più “moderno” Poggioreale realizzato nel 1914 – non possono rispondere alle attuali esigenze di una corretta detenzione. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono state in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi.
TEMPO LIBERO E LAVORO
Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla “decarcerizzazione” ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di veder calata la popolazione carceraria e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte di Strasburgo. Ma non basta qualche metro in più per ottenere una detenzione effetti-vamente rieducativa. Per questo servono strutture nuove, spazi per il tempo libero, zone per il lavoro.
IL CARCERE “DI TRANSIZIONE”
Spiega il ministro: «Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dicotomia del dentro- fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto “di transizione”, in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando ».
CDP E MANUTENZIONE
E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza di Cdp. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture. In cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. Cdp – cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e la conseguente ristrutturazione – potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche.
NO ALLA PRIVATIZZAZIONE
Un fatto è certo, come dice Orlando, «è del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestiti dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante ». Conclude Orlando: «Con il regime del 41-bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr.) abbiamo riconquistato il carcere, adesso non possiamo rischiare di compromettere la situazione».
Repubblica 28.5.16
Scuola, i presidi contro il maxi-ponte
Da Milano a Roma, protesta contro la chiusura dal 2 al 7 giugno: stop ai seggi negli istituti
di Ilaria Venturi

È UN loro cavallo di battaglia, ci provò senza riuscirci anche l’allora ministro Luigi Berlinguer che promise: «Usiamo le caserme e gli uffici postali per votare ». Ed ora, in vista del maxi-ponte elettorale a giugno, i presidi tornano ad alzare la voce: «Basta usare le scuole per le elezioni».
L’effetto delle amministrative — che coinvolgono 1.351 Comuni tra cui grandi città come Roma, Milano, Napoli, Bologna e Torino — porterà ad una lunga pausa, dalla festa della Repubblica, 2 giugno, al 7 giugno, che innervosisce i professori, mette in difficoltà le famiglie e danneggia gli studenti appesi all’ultimo recupero. Lezioni sospese per elezioni in migliaia di scuole. Dopo il lunedì del referendum sulle trivelle, il maggio di gite e due scioperi della scuola, le ultime prove del Concorsone degli insegnanti fissate lunedì e martedì, il calendario scolastico subisce un altro scossone. Il rush finale tra i banchi si trasforma in un percorso ad ostacoli, con l’onda lunga sugli esami estivi dei ballottaggi che cascano a cavallo tra la prova di terza media e la Maturità. Per questo il ministero è corso ai ripari annunciando ieri che lo scritto Invalsi per le medie, previsto a livello nazionale il 17 giugno, è stato anticipato al 16, vista la coincidenza con eventuali sfide a due tra sindaci.
«Un disastro», tuonano i presidi degli istituti romani, che riavranno le aule un giorno prima dell’ultima campanella l’8 giugno. Così in Lombardia, Campania, Veneto, Puglia. «Le chiusure per gli appuntamenti elettorali negano agli studenti il diritto all’istruzione» protestano i dirigenti scolastici a Napoli. Ci sono istituti a Milano dove c’è chi deve rientrare per un solo giorno, col disappunto delle maestre: «Gli ultimi giorni sono importanti per i bambini, così non viene rispettato il nostro lavoro ». Gli studenti dell’Emilia Romagna, dove la scuola finisce il 6 giugno, guadagnano tre giorni di vacanza causa urne. «Sia chiaro: le scuole sono un presidio della democrazia. Ma non è giusto, per garantire il sacrosanto diritto al voto, portare via il tempo all’insegnamento — afferma Lamberto Montanari, presidente dell’Associazione presidi dell’Emilia Romagna — Siamo stanchi: tutti straparlano di scuola, poi siamo considerati solo un contenitore». A Torino, ci sono istituti che hanno posticipato di un giorno la fine della scuola, per recuperare i giorni perduti, altri che hanno richiamato gli alunni in classe il venerdì del Ponte della Repubblica.
Corriere 28.5.16
Trentenni che scappano I nuovi single di ritorno
Sono tante le coppie che si lasciano proprio a un passo dagli impegni importanti
Abbiamo ricominciato  a pensare con il cuore?
di Alessandra Dal Monte e Martina Pennisi

Bastava tacere. Non mettere sul tavolo dubbi e frustrazioni. Aspettare. Ma si può aspettare quando non si è felici? Lasciarsi a 30 anni, o poco più, è un pugno nello stomaco. Perché le storie a quell’età sono cariche di progetti. E quando finiscono si sgretola anche un pezzo di futuro. Eppure sono tante le coppie che scoppiano a un passo dai passi con la P maiuscola: convivenza, mutuo condiviso, figli, matrimonio. Sono tanti gli uomini e le donne che scelgono di non tacere di fronte a quello che ritengono non funzioni nella loro storia, esponendosi al rischio di interromperla e di trovarsi «single di ritorno». Proprio nell’età in cui gli altri cominciano a costruire.
Simone e Dario non se lo aspettavano. Trent’anni, appena compiuti, il più giovane. Trentadue la sua metà. In nove anni hanno superato tutti gli — ancora inevitabili — ostacoli di un progetto di vita comune tra due omosessuali. Simone ha sentito a un certo punto il peso di un fardello di cui era solo in parte consapevole: «Avevo bisogno di leggerezza, di non avere la percezione di dovermi impegnare per far funzionare le cose. Per essere felice, banalmente». Maria di anni ne ha 29 e fino a qualche mese fa giurava di essere pronta ad avere un figlio con Giacomo, suo convivente da tre anni. «Lui non ne parlava mai e quando si menzionava il matrimonio diceva che non si sarebbe mai sposato. E non ha mai legato con la mia famiglia. Ho capito che avevo bisogno di queste cose per sentirmi davvero felice».
Ma che cos’è questa rivendicazione del diritto a essere felici? Un segno di consapevolezza, un esercizio di onestà di fronte a relazioni poco soddisfacenti oppure solo una fuga dai primi problemi di coppia? Margherita Serpi, presidente dell’Associazione per lo sviluppo psicologico dell’individuo e della comunità di Milano, non ha dubbi: «Oggi le persone hanno molto chiaro di cosa hanno bisogno per stare bene in una relazione. E se un tempo c’era più sudditanza, soprattutto da parte delle donne, oggi sono proprio loro a esplicitare l’insoddisfazione di coppia e ad aprire la fase della crisi». Per Giovanna, 31 anni, è andata così. Il rapporto con Mario, 33, sembrava solido e promettente. Lui però nicchiava sulla convivenza: «Con calma, prima o poi». Frasi che lei non ha più sopportato: «Dopo quattro anni avrei voluto vedere l’entusiasmo per un progetto comune, non la paura di portare la storia a un altro livello». Messo con le spalle al muro, Mario si è defilato. E ora Giovanna si chiede che cosa sarebbe successo se invece di impuntarsi sui suoi bisogni avesse provato ad aspettare.
Fabiola, 33 anni, a convivere ci era già andata. Ma qualcosa con Marco, 36, ha cominciato a incrinarsi quando lei ha trovato un lavoro più impegnativo: la quotidianità ne ha sofferto, lui ha recriminato la sua assenza e lei non si è più sentita sostenuta. Lo ha lasciato dopo 7 anni, tra mille tormenti. «Non lo riconoscevo più, sono stata onesta con me stessa».
Per lo psicologo Matteo Monego dietro a questa «onestà» ci sono in realtà coppie sbagliate in partenza: «Ci si mette insieme con approssimazione. Così non appena l’altro non corrisponde più a quello che ci piace, lo lasciamo. La tendenza è quella di scappare e non mettersi in discussione. Del resto la testa di un trentenne di oggi è quella di un ventenne di quarant’anni fa». O, forse, la testa di qualcuno che ricomincia a pensare con il cuore. E almeno il tentativo non ha età.
Repubblica 28.5.16
L’amore ai tempi di Sant’Agostino
risponde Corrado Augias

GENTILE Corrado Augias, il clero è costituito da persone che hanno scelto uno stile di vita diverso. A parte escludersi da gran parte delle comuni attività lavorative per dedicarsi al culto divino, non si sposano e non partecipano alla continuità della specie attraverso la riproduzione. Sono libere scelte, che nessuno contesta pur essendo relativamente anomale in una comunità umana attiva. Il clero però si sente legittimato a dettare regole per la società nella quale vive, con particolare severità e insistenza proprio su matrimonio e riproduzione. Per esempio i matrimoni omosessuali. Per la religione cattolica il matrimonio è un sacramento, ma per un laico è solo la registrazione pubblica di un rapporto. La società, riconoscendolo, stabilisce vantaggi e vincoli, per esempio la pensione di reversibilità, l’affidamento, l’asilo per i figli, l’eredità. Da un’unione omosessuale non nascono figli, ma non è il matrimonio a modificare in meglio o in peggio il limite di tale unione. È una sterilità come quella di chi si è votato al celibato. Non dovrebbe riguardare il clero il modo in cui la società decide di regolare la convivenza tra due persone. È la società che deve valutarne i pro e i contro e le motivazioni.
Franco Ajmar — Genova
LA RAGIONE sottostante a certi atteggiamenti da parte di uomini che non ne avrebbero in apparenza titolo, viene da molto lontano. Nella sua versione più antica la si vede nel famoso precetto di Sant’Agostino:
dilige et quod vis fac — cioè: ama e fai ciò che vuoi. Che significato ha amare nel senso usato dal primo, grande filosofo cristiano (354-430)? Con forte slancio poetico, un giorno Agostino disse ai suoi fedeli: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene». Non c’è film o sceneggiato sul vescovo di Ippona in cui questa poetica esortazione non venga mostrata. In realtà quei versi sono molto meno benevoli di quanto la parola amore li faccia apparire; il santo vescovo dice in sostanza che l’amore giustifica anche l’esercizio dell’autorità. Amare davvero qualcuno vuol dire volere il suo bene, il bene sommo, rappresentato dall’eterna salvezza. Lecito quindi, anzi doveroso, forzare per amore chi sbaglia a entrare nell’ortodossia; anche qui abbiamo un imperativo celebre “Compelle entrare”. Ancora più esplicito diventa l’invito quando Agostino chiarisce in cosa consista l’esercizio della carità: «Sia fervida la carità nel correggere, nell’emendare… Non voler amare l’errore nell’uomo, ma l’uomo; Dio infatti fece l’uomo, l’uomo invece fece l’errore. Ama ciò che fece Dio, non amare ciò che fece l’uomo stesso… Anche se qualche volta ti mostri crudele, ciò avvenga per il desiderio di correggere ». Quando dice che la carità «infierisce», Agostino usa il verbo latino saevire che vuol dire infuriare, incrudelire.
Saevus significa feroce; da saevire deriva “sevizia”. Il termine carità può avere questa valenza ambigua. Si sarà notato che papa Francesco ne usa uno più mite: misericordia.
Repubblica 28.5.16
Il modello di integrazione della Spagna
Molti stranieri, molti benefici

Ibenefici dei flussi migratori saranno presentati da Juan J. Dolando, docente del Department of Economics presso lo European University Institute di Fiesole, che parlerà della situazione della Spagna, Paese che è passato da 350mila stranieri nel 1991 a 6,3 milioni nel 2010. L’incontro, sabato alle 18, presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale (Aula Kessler) si intitola “Come trarre beneficio dall’immigrazione: lezioni dalla Spagna del XXI secolo”. L’ immigrazione siriana, e le sue ripercussioni sul mercato del lavoro, sulla crescita del Pil e sui trend demografici, sono l’argomento di “L’esplosione dei rifugiati in Europa: i cambiamenti economici”, conferenza di Antonio Spilimbergo del Fondo monetario internazionale e ricercatore del CEPR (Centre for Economic Policy Research), sabato 4 alle ore 12 all’Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza.
Corriere 28.5.16
Torino, sì dai giudici a due coppie di donne per l’adozione dei figli
Prima volta dopo la legge Cirinnà. Il centrodestra attacca
di Elena Tebano

Non sono le conseguenze pratiche, che pure «sono importanti», la prima cosa a cui hanno pensato Silvia Casassa e sua moglie Daniela Vassallo quando hanno ottenuto l’adozione incrociata delle rispettive figlie, Agata, di 7 anni, e Amalia, di 4. «Oggi ho guardato Daniela camminare in strada con Agata e mi sono detta: adesso nessuno potrà più togliergliela — racconta Silvia e la voce si incrina in un singhiozzo —. E adesso nessuno può togliere Amalia a me: è mia anche per la legge. Non potranno neppure più impedirmi di accompagnarla al pronto soccorso o di viaggiare da sola con lei, ma la cosa che cambia davvero tutto è questa sensazione di sicurezza».
Silvia e Daniela, entrambe 46 anni, sposate in Danimarca nel 2014, sono una delle due coppie lesbiche a cui ieri la Corte di appello di Torino ha concesso la stepchild adoption dei bambini partoriti dalla partner. L’altro caso riguarda una donna che ha adottato il bimbo di 5 anni avuto dalla moglie (le nozze sono state celebrate in Islanda nel 2015). È la prima volta che l’adozione cogenitoriale viene riconosciuta a un partner dello stesso sesso fuori da Roma, dove era successo già nel 2014 e ci sono stati oltre una decina di casi. Ed è la prima volta che accade dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili.
Anche se dal testo della Cirinnà sono state stralciate le parti originariamente previste sulla stepchild adoption e sulla questione ci si limita a rimandare alle «norme vigenti», la doppia decisione torinese ha risollevato le polemiche. «Lo avevamo detto e lo ripetiamo, la legge sulle unioni civili aprirà la strada all’adozione per le coppie gay, per questo continueremo il nostro impegno per raccogliere le firme per il referendum abrogativo», ha commentato il senatore di FI Lucio Malan. Sulla stessa linea il presidente della Commissione lavoro del Senato Maurizio Sacconi (Ncd) e il deputato della Lega Nord Marco Rondini, che pure sostengono il referendum. Soddisfatta invece la responsabile Diritti della segreteria nazionale del Pd Micaela Campana: «Si tratta di una decisione che consentirà ai minori di vedersi tutelati nella loro sfera familiare come soggetti di diritto. I giudici hanno messo al centro il supremo interesse del minore al di là dell’orientamento sessuale dei genitori».
I magistrati di Torino (presieduti da Carmen Mecca, mentre il giudice estensore è stata Federica Lanza) hanno appurato infatti che i bimbi stanno crescendo bene «ottimamente accuditi» dai relativi genitori e in un «clima sereno e positivo». E così hanno stabilito che andasse «assai semplicemente» riconosciuta una «situazione di fatto», applicando la legge del 1983 sulle adozioni in casi particolari. Le due sentenze richiamano inoltre pronunce della Corte europea dei diritti dell’Uomo e quella del 9 febbraio 2015 della Cassazione italiana in cui si afferma che il concetto di «vita familiare» deve essere «ancorato ai fatti» e «nessun rilievo può avere la circostanza che il nucleo sia formato da un’unione affettiva eterosessuale o tra persone dello stesso sesso». In entrambi i casi il pg presso la Corte d’appello si è espresso a favore della stepchild adoption. La Corte ha così ribaltato le sentenze di primo grado, che l’avevano negata.
«È una grandissima gioia — dice ancora Silvia Casassa —. Quando abbiamo deciso di avere la prima bimba ci siamo chieste chi sarebbe stata la “mamma di pancia” e chi la “mamma di cuore” e abbiamo deciso che sarei stata io solo perché per questioni di lavoro sarebbe stato più semplice» (Silvia è ricercatrice di chimica in università, Daniela impiegata). «La seconda l’ha partorita Daniela — prosegue — ma sono sempre state figlie di entrambe. Ora non sono più invisibili per lo Stato». Le bambine, però, per legge non sono sorelle, anche se figlie delle stesse due mamme (l’adozione in casi particolari prevede infatti una parentela limitata). «Cercheremo di far avere loro lo stesso cognome. A scuola già si firmano Casassa Vassallo, perché le maestre sono state meravigliose».
Corriere 28.5.16
Perché la festa del 2 giugno celebra un mito di fondazione ancora debole
di Dino Messina

Il settantesimo anniversario della nascita della Repubblica può essere finalmente l’occasione per una riflessione collettiva sui motivi di un debole mito di fondazione. La festa del 2 giugno è stata spesso vissuta come un’occasione di commemorazione ufficiale. Più sentita dagli italiani, pur nella sua connotazione divisiva, è la ricorrenza del 25 aprile 1945, giornata della Liberazione dal nazifascismo, che fu subito proclamata festa nazionale.
Il 2 giugno 1946, data del referendum istituzionale, non ha acquistato la stessa valenza che per gli statunitensi ha il 4 luglio 1776 o per i francesi il 14 luglio 1789. Né la donna turrita che simboleggia l’Italia repubblicana ha mai avuto la stessa popolarità della Marianna francese.
Tra le spiegazioni, ce n’è una legata all’atto di nascita. All’indomani del referendum istituzionale fu lo stesso governo di unità nazionale presieduto da Alcide De Gasperi a non voler enfatizzare i toni della vittoria. La Repubblica si era affermata con 12,7 milioni di voti contro 10,7 per la monarchia, con uno scarto di due milioni, inferiore alle attese. I risultati fotografarono un Paese spaccato in due: con il Centro Nord totalmente Repubblicano e il Sud e le Isole completamente per la monarchia. A Milano i voti repubblicani erano stati il 67,8 %, a Roma il 46,2 e a Napoli il 20,1. Nella metropoli campana tra il 6 e l’11 giugno c’erano state violente manifestazioni monarchiche represse nel sangue. Si temette una nuova guerra civile. Anche per questo De Gasperi volle che il primo presidente (provvisorio) della Repubblica fosse Enrico De Nicola, galantuomo napoletano di idee monarchiche.
Eppure il 2 giugno 1946 fu il primo grande passo in avanti dopo i lutti della guerra e i disastri del fascismo. La speranza aveva vinto sulla paura. Ma si preferì non riconoscere appieno tutto il significato di quella svolta.
Repubblica 28.5.16
Dalla storia una lezione per l’Europa
Migranti, una risorsa per far lievitare il Pil
di Giorgio Lonardi

Ce l’insegna la storia e lo confermano le analisi economiche: l’arrivo dei rifugiati in Europa potrebbe avere un impatto positivo sulla crescita. Gli esempi tratti dal passato, come spiega Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ci spingono a mettere in discussione una visione che giudica “l’opposizione identitaria” fra culture e religioni diverse incompatibile con la convivenza pacifica e lo sviluppo.
Gli esempi non mancano. A cominciare dalla vicenda degli Ugonotti, che all’indomani dell’abolizione dell’editto di Nantes (1685) che proteggeva le comunità calviniste fuggirono in massa in Svizzera e in Germania, dove costituirono una robusta comunità nella citta tedesca di Erlangen. Una migrazione “miracolosa” che pose le basi in entrambi i Paesi per la nascita dell’industria dell’orologeria. «Un altro caso interessante», dice Prosperi, «riguarda gli ebrei che nel 1492 fuggirono dalla Spagna per rifugiarsi a Livorno creando una rete commerciale vivacissima che fra il ‘500 e il ‘600 estese i suoi traffici fino al Giappone, apportando ricchezza e prosperità alla loro città».
Certo, si registrano anche esempi meno felici (e meno conosciuti), come quello dei “moriscos”, gli arabi musulmani che furono espulsi dalla Spagna nel ‘500 e vennero chiamati in Toscana per ripopolare le campagne della Maremma. Di loro, racconta Prosperi (che parlerà al Festival il 3 alle ore 11), dopo una trentina d’anni si persero le tracce. Probabilmente la comunità venne assimilata e non ci sono evidenze di un contributo positivo all’economia locale. Quando si parla di rifugiati è bene non farsi abbagliare dal pregiudizio. E ricordare che chi fugge dalla guerra oppure da persecuzioni politiche o religiose non si sposta per motivi economici. E dunque difficilmente “ruba” il lavoro ai locali. Anche su questo tema, come spiega Antonio Spilimbergo, economista del Fondo Monetario (la sua conferenza è il 4 alle 12), «ci sono ben poche prove che il lavoro dei rifugiati venga sottratto ai nativi». Al contrario: i rifugiati rimpiazzano i locali nei compiti che questi ultimi non vogliono più svolgere. Emblematico il caso dei 100mila cubani che negli anni ’80 furono invitati da Fidel Castro a lasciare il Paese e che si rifugiarono a Miami. «Non ci furono shock particolari», dice Spilimbergo, «eppure 100mila persone che si riversano in un’area relativamente piccola in un periodo di tempo breve avrebbero dovuto avere un impatto sensibile sulla realtà sociale. Non fu così e si integrarono abbastanza bene». Spilimbergo, dopo aver ricordato come l’immigrazione di un milione di ebrei russi in Israele sia stata all’origine del boom hi-tech registrato a Tel Aviv, spiega che uno studio del Fmi sugli effetti dell’arrivo dei rifugiati ipotizza una crescita aggiuntiva del Pil europeo dello 0,2%, che salirebbe allo 0,5% per la Germania che vuole accogliere un numero di profughi maggiore. L’analisi si basa sull’ipotesi che sbarchino 1,3 milioni di persone all’anno fra il 2015 e il 2017 e che il 40% siano rimpatriate. Ma anche che gli europei aiutino economicamente i rifugiati e che questi trovino un lavoro nel giro di 2-3 anni.
il manifesto 28.5.16
La ricchezza che i migranti offrono alla vecchia Europa
Immigrazione. L’Europa comincia a capire che non si tratta di emergenza ma di una questione destinata a durare nei decenni a venire
Guido Viale
Edizione del
28.05.2016
Pubblicato
27.5.2016, 23:59
La questione dei profughi è salita di livello, sbarcando in Giappone, al tavolo del G7, come questione centrale per il futuro del pianeta. Non poteva andare diversamente.
L’Austria ha mostrato una popolazione spaccata esattamente a metà tra chi vuole respingerli e chi accoglierli: una divisione che taglia verticalmente partiti, culture, religioni, classi sociali e divide tra loro gli Stati in tutta l’Europa. Una fotografia di umori presenti in tutti i paesi europei.
E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza?
La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito?
La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario.
Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze.
Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci.
La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo – unitamente a quella di partito – può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste.
In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di autorità.
Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa.
In più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340?
Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio.
La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd.
Repubblica 28.5.16
La mobilità è un diritto da difendere
TITO BOERI
Dal 2 al 5 giugno a Trento si parlerà di territorio, di come la crescita economica si concentra in alcune aree e della mobilità fra regioni e Paesi con livelli di reddito pro capite diversi tra di loro. Il tema di quest’anno è collegato a quello della passata edizione del Festival. Allora si parlò di mobilità sociale. In una geografia economica del mondo in cui la crescita è concentrata in alcuni Paesi e aree urbane, mobilità sociale e territoriale sono due facce della stessa medaglia. Chi ha la sfortuna di nascere nei Paesi del sottosviluppo spesso non può che spostarsi per cercare di realizzare le proprie aspirazioni. Anche nell’ambito di Paesi sviluppati mobilità sociale e territoriale sono fortemente interconnesse. Ho confrontato i contributi versati all’Inps, dunque le pensioni future, delle persone nate nel 1980 in Italia tra chi lavora nello stesso comune in cui è nato e chi, invece, ha cambiato residenza. Chi si sposta ha mediamente il 6-7% di montante contributivo in più di chi rimane nel luogo in cui è nato. Il “premio” associato alla mobilità è più forte per le donne e per chi è nato nel Mezzogiorno.
Questo è uno dei motivi che oggi rendono la libera circolazione delle persone e dei lavoratori in Europa così importante. I giovani, i lavoratori più mobili, la devono difendere coi denti di fronte agli attacchi dei populisti che vorrebbero tornare al passato erigendo muri tra Paesi dell’Unione. Ma la libera circolazione va governata, garantendo la piena portabilità dei diritti alle prestazioni sociali contributive da un Paese all’altro e prevenendo gli abusi. Per questo sarebbe importante introdurre in Europa un numero di sicurezza sociale che valga per tutti i Paesi. Quest’anno daremo particolare attenzione anche al modo con cui l’Europa sta affrontando (forse dovremmo dire non sta affrontando) il problema dei rifugiati. Può essere un’opportunità per meglio utilizzare il patrimonio abitativo e per arrestare il degrado di molte periferie. Come al solito ospiteremo non solo economisti, ma anche urbanisti, demografi e sociologi esperti di processi di agglomerazione. Daremo spazio a chi ha, o ha avuto in passato, un ruolo attivo nel governo di questi territori, consapevoli che la crescita rapida o il declino di un’area pongono complessi problemi di governance, non solo a livello locale.
La Stampa 28.5.16
L’ecatombe del Mediterraneo
“In tre giorni più di 500 morti”
Ieri nuovo naufragio. I soccorsi guidati dalla Marina: “Recuperati 45 corpi” Centinaia i dispersi. Al largo della Libia sedici interventi in un solo giorno
di Guido Ruotolo

Ancora un naufragio, e siamo a tre in tre giorni. Corpi imprigionati nelle stive delle imbarcazioni che si capovolgono o che affondano. Corpi che galleggiano in mare. I sopravvissuti parlano di centinaia di dispersi, di centinaia di migranti affogati. Decine le testimonianze raccolte dai funzionari della Polizia di frontiera: «Ero partito con mio padre. Non lo trovo più». «Io con mia moglie», «Dov’é mio figlio?».
Terribile il Mediterraneo, trasformato in un cimitero della speranza e di un possibile futuro per intere generazioni di migranti. Nonostante lo straordinario impegno dei nostri uomini di mare, solo poche salme sono state recuperate.
La notizia ha cominciato a circolare nel primo pomeriggio: a 35 miglia dalle coste libiche una imbarcazione è semi-affondata. Sono stati recuperati 135 migranti e 45 salme. I testimoni dicono che su quella imbarcazione erano saliti in 346. Insomma, i dispersi sarebbero duecento.
Le operazioni di soccorso sono state affidate alla nav Vega della Marina militare. L’ufficio stampa della Marina alle sei del pomeriggio ha twittato la notizia delle operazioni di soccorso di un natante semi-affondato, e che erano stati salvati oltre 130 migranti. Alle otto di sera, l’ufficio stampa della Marina faceva sapere che le operazioni erano ancora in corso.
Sono attesi stamani a Taranto (uno dei quattro hotspot funzionanti) 706 migranti, quasi la metà eritrei (302), seguiti dai nigeriani (239). In parte sono sopravvissuti ai primi due naufragi. Con loro sbarcheranno anche quindici salme.
C’è quasi un pudore da parte degli «uomini di mare» nel confermare le tragedie. Come se fosse un gesto di rispetto per i morti, per quelle vite diventate numeri. O di ammissione di colpa (ingiustamente) per non essere riusciti ad evitare le tragedie.
L’unico metro per capire l’entità dei naufragi sono le dimensioni delle imbarcazioni o dei gommoni che viaggiano sempre carichi all’inverosimile. Ieri, per esempio, su ogni gommone c’erano circa 120 migranti. E se da un barcone capovolto vengono tratte in salvo solo 77 persone (come è accaduto giovedì), «le vittime del naufragio potrebbero essere trecento, come ipotizzano alcuni sopravvissuti». E cento potrebbero essere i morti del naufragio di giovedì, quando decine di migranti sono stati salvati e gli uomini della Guardia costiera hanno recuperato cinque corpi senza vita.
Insomma, in tre giorni le vittime dei tre naufragi potrebbero essere state oltre cinquecento. «Purtroppo - spiega chi conosce bene la materia - i numeri dei migranti che occupano ogni gommone sono standard, da 100 a 120 a viaggio, come lo sono quelli dei barconi, da 400 a 600».
Quella di ieri è stata un’altra faticosa e sofferente giornata, per gli uomini di mare. Duemila o poco meno è il numero dei migrati salvati ieri. Che si aggiungono ai tremila dell’altro giorno e ai seimila dei giorni precedenti.
Nella sala operativa della Guardia costiera i tracciati di ogni imbarcazione danno una immagine di «sovraffollamento» Nello specchio di mare di fronte alla Libia. Si vedono gli assetti navali delle diverse operazioni militari e di polizia in corso (Frontex, Mare Sicuro, e il dispositivo europeo contro i trafficanti di migranti); le imbarcazioni della Guardia Costiera e della Finanza. E i mercantili e rimorchiatori civili. Tutti, in caso di emergenza, sono mobilitati per salvare vite umane.
E ieri, questa flotta arcobaleno salvavite è stata impegnata in sedici operazioni di soccorso. Quattro i mezzi della Guardia costiera, tre navi della Marina militare, tre rimorchiatori d’altura, due imbarcazioni di organizzazioni non governative (Ong). E anche un mercantile.
Dunque, stamani a Taranto sbarcheranno 706 migranti. Molti chiederanno la protezione umanitaria. E saranno così ospitati nei centri di accoglienza. Una rete di associazioni, comuni, organizzazioni no profit che ospita i richiedenti asilo. Oggi, complessivamente sono 115.985.
Il dato preoccupante è il numero delle domande di asilo bocciate. Solo a febbraio, il 67%, il 68% a marzo. Il 2015 si era chiuso con il 58% di richieste bocciate (41.503 immigrati). È vero che i bocciati possono presentare appello, conquistando almeno un anno di tempo. Ed è anche vero che vengono considerate bocciate le domande di chi non si presenta davanti alla commissione perché magari, nel frattempo, ha abbandonato l’Italia. Ma resta il dato che se queste percentuali venissero confermate noi ci troveremmo nei prossimi mesi con settantamila richiedenti asilo diventati migranti irregolari, clandestini.
In queste settimane si sono moltiplicati i voli charter diretti al Cairo (l’ultimo è partito venerdì). Migliaia di rimpatri forzati. Uno strumento necessario ma non sufficiente a garantire che sia la valvola di sfogo della «pentola a pressione» che rischia di diventare l’Italia se il flusso migratorio dovesse continuare ad avere questa dimensione (i numeri di quest’anno sono simili a quelli dell’anno scorso).