sabato 11 giugno 2016

il manifesto 11.6.16
L’Italicum è quasi tra noi: tre strade per fermarlo
Legge elettorale. Oggi e domani due giornate di mobilitazione per la raccolta delle firme. Referendum, minoranze e Consulta possono far cadere la colonna del progetto renziano. Il premier annuncia banchetti per il Sì invisibili, o fuori tempo massimo
di Andrea Fabozzi

Nelle feste dell’Unità ci saranno i banchetti per la raccolta delle firme per il Sì, spiegava ieri il presidente del Consiglio al Corriere della Sera. Problema: non ci sono le feste dell’Unità. Non fino all’estate, come da tradizione – prima di luglio in tutta l’Emilia Romagna ne sono previste solo alcune di quartiere. Ma Renzi ha annunciato che porterà in Cassazione le 500mila firme di sostenitori della riforma costituzionale (che però chiedono il referendum che potrebbe cancellarla) entro il 7 luglio. I banchetti arriveranno dopo. Serviranno non per le firme ma per la propaganda, e per quella basta il titolo della festa nazionale, che è lo stesso dell’anno scorso: «C’è chi dice Sì»; Bersani per questo si arrabbia. Le firme il Pd le starebbe raccogliendo adesso, al ritmo di 200mila a settimana a voler credere a quanto ha dichiarato il presidente del Consiglio, salvo che i suoi banchetti in giro per le città non ci sono. A Roma non risultano aver mai chiesto l’occupazione di suolo pubblico. Per chi volesse firmare, non c’è un solo appuntamento nel sito lanciato con la grancassa da Renzi a fine maggio – bastaunsì – e rapidamente lasciato languire come quell’altro che doveva aggiornare a ciclo continuo sulle riforme governative, passodopopasso (ieri pomeriggio nella home c’era ancora Renzi che faceva gli auguri per il 2 giugno).

Le firme invece, oggi e domani, continueranno a raccoglierle quelli del Comitato del No, due firma days nelle piazze italiane per cercare di arrivare a 500mila entro la scadenza. Che significa il 15 luglio per il referendum costituzionale e qualche giorno prima (il 9) per i due referendum abrogativi dell’Italicum. All’impegno partecipano anche Anpi e Arci con un’iniziativa parallela: Ballando sotto le firme. Negli stessi giorni saranno raccolte le firme anche per i referendum sociali (scuola, trivelle, inceneritori), che secondo i promotori hanno raggiunto quota 300mila sottoscrizioni – quelli dei referendum istituzionali non azzardano cifre nell’attesa dei moduli dalle città, dovremmo essere da quelle parti. E se il referendum costituzionale si terrà in ogni caso (perché lo hanno chiesto i parlamentari), quello contro l’Italicum è legato al successo della raccolta delle firme. Nel frattempo la nuova legge elettorale sta per entrare pienamente in vigore.
Malgrado sia stato approvato definitivamente il 4 maggio dell’anno scorso, infatti, l’Italicum diventerà applicabile solo il prossimo primo luglio. Trattandosi di una legge che riguarda solo la camera dei deputati (e temendo Berlusconi all’epoca le elezioni anticipate), il nuovo sistema di voto è legato alla riforma costituzionale, che abolirà il senato elettivo. Ma la riforma costituzionale, come si sa, è ancora in forse perché pende il referendum; nel caso venisse bocciata dai cittadini resterebbero le due camere elettive. Una, il senato, eletta con la legge attualmente in vigore che è proporzionale con soglie di sbarramento; l’altra, la camera, con l’Italicum, legge iper maggioritaria che mortifica la rappresentatività del voto. In questo caso la distorsione della volontà popolare sarebbe persino inutile, perché senza la riforma costituzionale il governo continuerebbe a chiedere la fiducia al senato e le leggi elettorali diverse non garantirebbero la “governabilità”. Le due proposte di referendum abrogativi mirano al cuore dell’Italicum: chiedono di cancellare il ballottaggio (il premio di maggioranza, comunque notevole, sarà a disposizione solo della lista che dovesse vincere con almeno il 40% dei voti) e di abolire le candidature plurime e i capolista bloccati.
Non ci sono però solo i referendum a minacciare la nuova legge elettorale che Renzi si dichiara indisponibile a modificare, per quanto lo chiedano sia la minoranza Pd che i centristi della maggioranza. Ci sono i ricorsi nei tribunali civili italiani, che furono decisivi per abbattere il Porcellum: di questi uno è già approdato alla Corte costituzionale e sarà discusso il 4 ottobre. E c’è infine una terza via che potrebbe portare l’Italicum davanti ai giudici delle leggi, quella prevista dalla stessa riforma costituzionale (referendum permettendo). 34 senatori o 158 deputati potranno infatti chiedere alla Corte costituzionale – e le minoranze lo faranno senz’altro – di pronunciarsi sulla legittimità complessiva della nuova legge elettorale. Sarebbe quasi una replica del famoso giudizio del 2014 che ha colpito il Porcellum. La nuova legge, attraverso il ballottaggio, lascia aperta la porta a quel premio di maggioranza «senza soglia» già dichiarato incostituzionale. Per salvarla la Consulta dovrebbe smentirsi.
Repubblica 11.6.16
Roma
Ecco “Letterature” un mese di incontri a Massenzio
Fino al 14 luglio torna nella sua sede storica, la Basilica di Massenzio al Foro Romano, il festival internazionale di Roma Letterature, che sarà inaugurato il 14 giugno da Claudio Magris e dallo scrittore turco Hakan Günday, con letture di Laura Morante e la musica di Rita Marcotulli. Dieci le serate, che avranno come filo conduttore le “Memorie”, tra cui quella speciale del 16 giugno in cui Andrea Camilleri festeggerà il suo centesimo libro in dialogo con Renzo Arbore. Per informazioni sul programma www.festivaldelleletterature. it.
Repubblica 11.6.16
La grande illusione della guerra giusta
Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo
di Massimo Cacciari

In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Rileggendo Eraclito
Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi,
appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice: «Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe (valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione). Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele – come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo. Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi.
Corriere 11.6.16
Francia
Tensione sociale e una crisi profonda Il Paese diviso in due non si godrà la festa
di Massimo Nava

Alla fine della giornata inaugurale degli Europei, gli incidenti di Marsiglia, con le solite provocazioni degli hooligans, sembrano poca cosa rispetto ad apprensioni e scongiuri che accompagneranno tutto il torneo. La Francia, almeno ieri sera, era in festa e da oggi coltiva la speranza che un nuovo successo di una nazionale multietnica e multiculturale, dopo il Mundial del ‘98, faccia dimenticare la drammatica sommatoria di problemi sociali e politici che attanaglia il Paese, dalla crisi delle periferie all’emergenza terrorismo, dallo scontro sindacale alla crescita dei sentimenti antieuropei, xenofobi, ultranazionalisti. Ma, al di là del valore della squadra, sicuramente forte e favorita, difficilmente le magie di Pogba e compagni basteranno a riportare il sereno, per quanto sia encomiabile lo sforzo fin qui compiuto per garantire sicurezza, efficienza, libertà di movimento e divertimento, che sono poi gli ingredienti indispensabili di una festa sportiva. La crisi è profonda ed evidente nella narrazione quotidiana degli avvenimenti. Gli Europei cominciano nel ricatto dei sindacati, soprattutto nel settore dei trasporti pubblici, da settimane in lotta contro il provvedimento di riforma del mercato del lavoro, che non hanno accettato una tregua nemmeno nei giorni del grande calcio. Anzi, l’appuntamento sportivo è diventato merce di scambio per ottenere di più e tenere in ostaggio cittadini e tifosi, al punto che il governo si prepara a eccezionali misure di requisizione e precettazione. La tensione sociale e sindacale mette a dura prova l’imponente apparato di sicurezza in un Paese colpito al cuore dall’offensiva terroristica che, proprio per la festa sportiva, avrebbe voluto riaprire serenamente le braccia al turismo e che, per garantirla, deve schierare quasi centomila poliziotti e soldati. Ma lo scontro sindacale è anche metafora di un Paese profondamente diviso, di due «France» in cui i valori di riferimento, le aspirazioni, i bisogni non sono più gli stessi. C’e la Francia che raccoglie la sfida della competitività, che vuole stare in Europa, che continua a vantare primati economici e scientifici. E c’è una Francia statalista, burocratica, iperprotetta e assistita che non vuole mettere in discussione nulla e affida la difesa di un modello costoso e obsoleto a un sindacato corporativo e minoritario. Lo Stato francese sta diventando il problema dei problemi anziché la soluzione, anche perché non riesce più a garantire il «quarto stato» dei poveri, degli immigrati, dei disoccupati, dei precari, di quanti non si sentono più protetti e nemmeno rappresentati. Anche il «quarto stato» in queste notti colorate e luminose affollerà gli stadi, si esalterà per un gol, sventolerà il tricolore e canterà la Marsigliese, ma l’euforia non sempre riuscirà a nascondere o a reprimere la voglia di fischiare, come già avvenuto in passato, o più semplicemente la sensazione che, dopo il calcio e al di là del calcio, i valori della Francia non sono più riconoscibili né riconosciuti da tutti i francesi.
Repubblica 11.6.16
Le impronte dei mandanti
Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni come voleva far credere la grottesca messa in scena di un conflitto a fuoco
Ritardare l’invio dell’ambasciatore è un messaggio Non possiamo tornare a un rapporto corretto in assenza di risposte
di Roberto Toscano

ALLA luce degli ultimi elementi contenuti nel “documento di Berna” — la denuncia anonima pervenuta alla nostra ambasciata nella capitale svizzera — il caso Regeni risulta sempre meno misterioso per quanto riguarda quanto è avvenuto ma anche sempre più difficile da affrontare sul piano della politica del governo italiano nei confronti dell’Egitto. Non sappiamo chi abbia scritto quel documento, e nemmeno perché lo abbia fatto.
SEMBRA però evidente, per i dettagli forniti e i meccanismi descritti, che l’ignoto autore operi all’interno dei servizi di intelligence egiziani, mentre risulta difficile attribuire la sua ispirazione a un impulso a favore della verità. Si tratta di un gioco tutto interno che riflette lotte fra diversi centri di potere, ambizioni contrastanti, strumentalizzazioni. Trucidando barbaramente il giovane ricercatore italiano qualcuno, all’interno del sistema repressivo del regime egiziano, ha commesso un errore sottovalutando le ripercussioni del crimine sia nei rapporti con l’Italia sia sul piano dell’immagine internazionale dell’Egitto. Come accade all’interno di tutte le burocrazie, si è allora scatenato un gioco allo scaricabarile. In questo senso — quali che siano le motivazioni della “gola profonda” egiziana — appare del tutto credibile l’elemento di fondo da cui il “documento di Berna” prende le mosse: la rivalità fra Sicurezza nazionale, dipendente dal ministero degli Interni, e Servizio segreto militare, sottoposto al ministero della Difesa.
Un nucleo di verità emerge con sempre più inconfutabile chiarezza. Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni, come voleva far credere la grottesca messa in scena di un “conflitto a fuoco” che ha prodotto cinque cadaveri con una pallottola in testa. Giulio Regeni è stato vittima di uno degli organi del regime egiziano. Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni, come voleva far credere la grottesca messa in scena di un “conflitto a fuoco” che ha prodotto cinque cadaveri con una pallottola in testa. Giulio Regeni è stato vittima di uno degli organi del regime egiziano.
Nel nostro paese abbiamo in passato dovuto affrontare, fra le minacce alla democrazia, il problema dei “servizi deviati” — deviati rispetto al rispetto alle norme contenute nella Costituzione e nelle leggi. Nei regimi dittatoriali i servizi sono sempre deviati, nel senso che operano senza alcun riferimento alle norme di uno stato di diritto peraltro inesistente. Il regime ne ha bisogno per mantenersi, e quindi dà loro sia risorse che impunità, ma nel fare questo finisce per trasferire a questi organismi un potere che può diventare pericoloso contropotere. Non solo, ma sarebbe illusorio ritenere che dittatura significhi ordine, controllo centralizzato, rispetto della verticalità del comando. Non potendo trovare sbocchi nelle istituzioni palesi, la lotta di potere si riversa per canali occulti, sviluppandosi in particolare sul terreno di lotte interne fra organismi repressivi. Non solo in Egitto: se a Teheran i servizi di intelligence dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran) arrestano doppi cittadini (l’ultimo episodio riguarda un’accademica irano-canadese) non lo fanno tanto perché davvero convinti di avere a che fare con spie, ma per contrastare la linea di apertura del presidente Rouhani, che controlla i servizi di intelligence governativi ma non quelli dei Pasdaran.
È qui che si profila in tutta la sua drammaticità il dilemma per il nostro governo. Data la natura del regime egiziano, nel caso Regeni non solo i depistaggi, ma anche gli elementi di verità finiscono per confondere le acque — e non è da escludere che anche le ultime rivelazioni siano animate da questa finalità. Certamente qualcuno scriverà che l’episodio è, come ha cercato di sostenere lo stesso Al-Sisi, una manovra dei nemici del generale/presidente. Ma non spetta a noi dare risposte sulle sinistre manovre dei vari servizi egiziani. Come ha detto la famiglia Regeni — sempre dignitosa nel suo dolore, sempre incrollabile nella sua richiesta di verità — tocca al governo del Cairo dire cosa è davvero successo. Ma che fare se, come purtroppo è probabile, non lo farà? Che fare se, sperando che finiremo per stancarci, qualcuno continuerà ad aggiungere vere o finte rivelazioni ai ripetuti tentativi di depistaggio?
Di fronte a questo stallo c’è chi chiede se abbia senso non inviare al Cairo il nuovo ambasciatore, nominato già il 10 maggio scorso, facendo rilevare che l’Italia non può certo interrompere i rapporti con un paese importante come l’Egitto: importante economicamente, importante strategicamente e anche importante come possibile punto di partenza (come sembra stia già avvenendo) per gli imbarchi di migranti verso le nostre coste. È vero, ma sarebbe opportuno chiarire un punto: l’assenza di un ambasciatore non vuol dire rottura di rapporti diplomatici, ma soltanto un abbassamento del livello del Capo missione. Per ben 16 anni, dal 1973 al 1989, l’ambasciata d’Italia in Cile — che non fu mai chiusa — venne retta da un Incaricato d’affari, e non da un ambasciatore.
Non si può ovviamente pensare che l’invio di un ambasciatore al Cairo possa attendere, come in Cile, il ritorno della democrazia. Ma non possiamo nemmeno partire dalla premessa che il livello dei rapporti italo-egiziani stia a cuore all’Italia e non all’Egitto, e non sbaglia quindi il nostro governo a trasmettere a quello egiziano, rinviando l’invio di un ambasciatore, il seguente messaggio: vogliamo andare avanti, vogliamo tornare quanto prima a un rapporto diplomaticamente e politicamente corretto, ma non potremo farlo se non ci saranno date risposte convincenti sul caso Regeni. I cinque disgraziati — forse davvero criminali, ma non quelli che hanno trucidato Giulio — non ci hanno mai convinto. Diteci chi è il vero colpevole: ormai è impossibile farci credere che sia esterno agli apparati del regime.
Repubblica 11.6.16
“Sgomento per i silenzi di Cambridge su Giulio vogliono nascondere le loro responsabilità”
Parla Federico Varese, docente di Oxford: “Non hanno intuito i rischi di quella ricerca e così non hanno sottratto un loro dottorando al suo destino”
intervista di Carlo Bonini

ROMA. Dopo l’omicidio di Giulio Regeni, in splendida solitudine, Federico Varese, criminologo e professore alla Oxford University, aveva avuto il coraggio di scuotere l’Accademia e le sue consuetudini felpate, accusando l’università di Cambridge, di cui Giulio era dottorando, di non aver saputo o voluto intuire il rischio della “ricerca partecipata” in un Paese come l’Egitto. Di aver in qualche modo abdicato alla sua responsabilità. Ora, dopo il rifiuto dei professori di quella stessa università di collaborare con l’inchiesta della Procura di Roma, quella provocazione civile, si fa indignazione. «Sono sgomento », dice.
Sgomento?
«Non saprei trovare un altro aggettivo di fronte allo shock per quello che ho visto e ascoltato. Dopo la morte di Giulio ero convinto di aver detto alcune scomode verità sulla responsabilità morale che in quella morte ha avuto Cambridge. Ma non pensavo di aver ragione più di quanto volessi averne. Come è possibile che di fronte alle parole di una madre che dice “Vi ho affidato mio figlio con sacrificio e con fiducia” si risponda con il silenzio? Come può stare insieme la richiesta formale avanzata da Cambridge al Governo Britannico e l’appello firmato anche dal sottoscritto e da migliaia di professori e ricercatori che chiedeva un’indagine accurata e indipendente sulle cause della morte di Giulio con la decisione di non collaborare con la Procura di Roma, riservandosi di decidere se e come consegnare atti utili all’indagine?» .
Lo chiedo io a lei che in un’università inglese lavora. Come si spiega?
«Il non rispondere genera sospetti. Ma io, per convinzione e metodo, mi tengo sempre molto lontano dal sospetto, perché è una categoria del pensiero che non avvicina mai alla verità. E dunque propendo per la risposta insieme più semplice e, a ben vedere, drammatica» .
Quale?
«Che il silenzio sia una scelta fatta dai legali che tutelano gli interessi dell’Università. E per loro la priorità è una sola: mettere al riparo Cambridge da possibili richieste di risarcimento danni per eventuali responsabilità nella mancata tutela della sicurezza del ragazzo. Ma questo, come dicevo, è persino peggio».
Perché?
«Perché di fronte a una tragedia come quella di Giulio Regeni non si possono delegare a degli avvocati decisioni che interpellano questioni cruciali che hanno a che fare con i diritti fondamentali. Perché questo, per un’università, significa delegare la propria autorità morale. E una volta fatto questo passo quell’autorità non può più essere invocata di fronte a nessuno. A quale titolo Cambridge potrà spendersi su questioni che interpellano il rispetto dei diritti umani se rifiuta di collaborare con la magistratura italiana in un caso di palese violazione di quei diritti? Per giunta di un proprio dottorando».
Cambridge si difende sostenendo che non vede a quale titolo debba rispondere di cose che esulano dalla sua sfera di responsabilità.
«È proprio questo il punto. Qui non si discute di responsabilità giuridica, penale o civile. Ma morale. E quella ha più padri. È evidente che i responsabili giuridici dell’omicidio di Giulio sono i suoi assassini materiali e i loro mandanti. Ma è pur vero che una parte di responsabilità morale la porta anche l’università che non è riuscita a sottrarre quel ragazzo al suo destino non intuendo che una “ricerca partecipata” aumenta il rischio. Perché il ricercatore entra a far parte della comunità che indaga. Con tutto quello che ne consegue. Anziché difendersi con il silenzio, Cambridge potrebbe lavorare a una riforma di questo tipo di ricerche sociali sul campo. Magari, come accade per le ricerche scientifiche, affiancando al dottorando un secondo tutor responsabile esclusivamente per gli aspetti connessi alla sicurezza ».
Può essere che in fondo l’Accademia è simile a tutte le latitudini?
«Temo di doverle dare ragione. Forse continuiamo tutti a dare troppo peso agli intellettuali, dimenticandoci che, dopo tutto, le università sono fatte di uomini, donne, burocrati, che, se in difficoltà, lottano per la propria sopravvivenza, anche abdicando alle ragioni della loro missione. Del resto, negli anni del ventennio fascista, quanti furono i professori delle nostre università che si rifiutarono di prestare giuramento al Regime? Pochi. Pochissimi ».
Non pensa che sulla decisione di Cambridge abbia pesato anche l’assoluto disinteresse mostrato dal governo inglese alla vicenda Regeni?
«Sicuramente il silenzio del governo inglese non ha contribuito a creare un clima di coraggio. Giulio, nonostante fosse un figlio adottivo dell’Inghilterra, continua ad essere considerato da Downing Street un semplice cittadino italiano morto in circostanze violente in un Paese terzo. E la cosa fa più impressione se pensiamo che Giulio era l’immagine del giovane cittadino dell’Europa. Dico di più. Fa ancora più impressione se pensiamo che Cameron sta provando a convincere il Paese a non staccarsi dall’Europa».
Repubblica 11.6.16
Dai congressi ai seminari ecco i medici con lo sponsor
Il 65% delle associazioni finanziate da case farmaceutiche. E Big Pharma ci guadagna
di Michele Bocci

La formazione dei medici con lo sponsor. Le aziende farmaceutiche finanziano la gran parte dei congressi, dei simposi e dei seminari delle società scientifiche, quelle che tra l’altro scrivono le linee guida per la cura delle malattie, decidendo quali medicinali e trattamenti vanno utilizzati. L’invadenza di Big Pharma quando si tratta di incontri scientifici è nota, ma ora è sancita da una ricerca uscita sul British Medical Journal. Un gruppo di giovani, specializzandi e specialisti, della società di igiene e medicina preventiva ha studiato i siti delle associazioni di specialisti. Il nostro Paese ha un numero record di queste realtà, così alto che non si è nemmeno in grado di quantificarlo con precisione. Secondo alcuni, compresa la federazione degli Ordini dei medici, potrebbero essere addirittura 500, ovviamente con una lunga serie di “doppioni”. Ad esempio ce ne sono almeno 3 di pneumologia, 6 o 7 di cardiologia, 4 di dermatologia. Se si valutano solo quelle più grandi, sono generalmente due per specialità, una ospedaliera e l’altra universitaria, con una impostazione tutta italiana, visto che in altri Paesi i numeri sono molto più bassi.
Per avere un dato certo, i ricercatori hanno preso in considerazione gli iscritti alla Fism, la Federazione delle società scientifiche. Delle 154 registrate, ne sono state valutate 131. Ebbene, i siti web rivelano come il 65% delle società hanno avuto una sponsorizzazione per l’ultimo congresso. Un dato che non dà certezza sul fatto che il 35% rimanente non abbia comunque ricevuto contributi, che per un congresso di medie dimensioni, da 300-500 persone riunite tre giorni, viaggia tra i 50 e i 100mila euro. I soldi servono a pagare i relatori e a dare vitto e alloggio agli ospiti. In meno del 5% dei siti valutati era pubblicato un codice etico dedicato anche al conflitto di interessi. Poca trasparenza, almeno sulla Rete, anche riguardo ai bilanci, pubblicati nel 6% dei casi. Lo studio sta facendo parecchio rumore nel mondo medico e la Fism annuncia di aver scritto al British Medical Journal per segnalare che contiene errori e imprecisioni.
«Abbiamo avviato questa ricerca perché ci siamo resi conto che quando volevamo organizzare i nostri incontri scattava l’automatismo della ricerca dello sponsor — dice uno degli autori, Alessandro Rinaldi — Si possono fare congressi con meno soldi, magari rinunciando a cene di gala e hotel costosi». Tra chi critica più duramente la ricerca c’è la Fism. Il presidente Franco Vimercati spiega che «ci sono varie imprecisioni nello studio. Riguardo alle sponsorizzazioni, è tutto previsto dalle norme sugli eventi di formazione. I soldi non possono essere usati per far parlare persone scelte dall’industria e più in generale il privato non deve condizionare i contenuti. Poi deve esserci trasparenza sui finanziamenti ». Per Vimercati un modo per avere meno bisogno delle case farmaceutiche ci sarebbe. «Il contratto dei medici prevede che l’1% del loro stipendio vada in un fondo per la formazione. Purtroppo le Asl spesso usano quel denaro per altro. Se ci dessero i nostri soldi non avremmo bisogno di sponsor». Riguardo alla gran quantità di società scientifiche, Vimercati spiega: «Se la pluralità è regolata ben venga, perché evita che comandino in pochi. Io parlo per gli iscritti alla nostra federazione, dei quali conosciamo caratteristiche e bilanci ». I quali sono sostenuti, quando si tratta di fare i congressi, da Big Pharma.
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In Italia è record di società scientifiche: 154 Sono loro a decidere i medicinali da adottare
Corriere 11.6.16
Contratto metalmeccanici, lo stallo non aiuta la ripresa
di Dario Di Vico

È sempre più probabile che il «rinnovamento» del contratto nazionale dei metalmeccanici venga rimandato a settembre. In questi giorni con una serie di azioni articolate sul territorio i sindacati di categoria stanno facendo sentire la loro pressione ma appare comunque più come una risposta dovuta che il tentativo di dare una spallata. Va riconosciuto a Fiom-Fim-Uilm di aver osservato finora una linea di grande compostezza, in un Paese dove ci si indigna e si sbraita per un tweet di un avversario politico, le organizzazioni sindacali hanno saputo tenere i nervi a posto e esibire la loro «forza tranquilla». Nei cortei si registra un’unità tra le componenti sindacali che era tutt’altro che scontata dopo anni di divisioni e comincia a farsi notare la presenza di diversi lavoratori extracomunitari con tanto di pettorina sindacale. Nella storia delle relazioni industriali italiane il contratto dei metalmeccanici ha sempre avuto un ruolo significativo, spesso ha anticipato soluzioni nuove o sperimentato format diversi, è stato poi sicuramente un valido termometro dei rapporti tra le parti.
Nel caso odierno siamo per certi versi ritornati ai fasti del passato perché questo rinnovo — per i contenuti che sono stati messi in campo — segna una forte discontinuità e può aprire una pagina del tutto nuova. Il rinvio a settembre di per sé non è drammatico visto che i rinnovi sono durati anche un anno in altre tornate e il numero delle ore di sciopero pur alto (16) è inferiore alle precedenti stagioni. Il guaio è che lo slittamento a dopo le ferie corrisponde a uno stallo e non si capisce come se ne possa venir fuori. La Federmeccanica ha spiazzato i sindacati presentando una piattaforma giudicata da molti innovativa e che sostanzialmente prevede concessioni in materia di sanità integrativa, il principio delle formazione garantita per tutti i lavoratori e l’erogazione di aumenti salariali legati ad effettivi incrementi della produttività. L’assenza di inflazione avrebbe dovuto rendere ancora più facile trovare un punto di mediazione perché di fatto, almeno inizialmente, toglie dal tavolo un elemento di forte contraddizione come il meccanismo dell’Ipca (inflazione programmata), che aveva portato i datori di lavori a erogare salario compensativo non giustificato da aumenti del costo della vita. Non è stato così.
Sul welfare sanitario e sulla formazione i sindacati hanno recepito positivamente la novità attribuendosene persino la paternità ideativa, sul salario però insistono che si debba prevedere un aumento nazionale uguale per tutti anche nel caso in cui il salario individuale fosse nettamente superiore. Su questa richiesta pesa la cultura tradizionale della contrattazione sindacale e in qualche maniera l’orientamento delle confederazioni Cgil-Cisl-Uil decisamente continuista. I metalmeccanici vantano un gruppo dirigente solido, imperniato su tre segretari generali (Maurizio Landini, Franco Bentivogli e Rocco Palombella) di cui sentiremo parlare molto negli anni a venire, ma finora è prevalsa la cautela. Condita da parole d’ordine imperniate sul blocco degli straordinari per cercare di dividere il fronte degli imprenditori. La verità, però, è che oggi gli scioperi colpiscono durante un 30% delle imprese che ha bisogno di produrre e di aumentare l’orario, per il restante 70% il danno è molto relativo. Anche per questo la base degli imprenditori meccanici è decisa ad andare fino in fondo e a non firmare mediazioni deboli come quelle siglate da chimici e alimentaristi. Vuole riconoscere aumenti salariali anche significativi ma solo a fronte di incrementi paralleli della produttività. Mai più sommatorie tra livello nazionale e paghe ottenute in fabbrica.
Il governo che aveva adombrato l’intenzione di intervenire sulla materia con un atto d’imperio, grazie al pragmatismo del sottosegretario Tommaso Nannicini sembra disposto ad attendere ma si sente la necessità di sbloccare il negoziato. Altrimenti la riforma delle relazioni industriali sarà ancora una volta rinviata alle calende greche delegittimando ulteriormente il ruolo del contratto nazionale. La debolezza della ripresa e dell’aumento del Pil dovrebbe spingere invece tutti a prendere decisioni coraggiose e utili, che per altro figurano nelle «raccomandazioni» arrivateci da Bruxelles.
Corriere 11.6.16
Dalla Zuanna: «Coppie senza figli per la paura della povertà»
intervista di Virginia Piccolillo

Gianpiero Dalla Zuanna, sono anni che censiamo un calo delle nascite. Da demografo, cosa vede di nuovo?
«La paura».
Cosa intende?
«Alle cause di scarsa natalità se ne è aggiunta un’altra. Le coppie hanno il timore di fare figli perché hanno paura che diventino indigenti. La povertà dei bambini è un dato drammatico».
Per la prima volta dalla fine della Grande Guerra ci sono stati più morti che nati. È solo per la scarsa natalità?
«No. Dipende anche dall’aumento della mortalità».
Dovuto a cosa?
«Noi studiosi lo chiamiamo “Harvesting” (“Effetto falciatura”). C’è stata un’epidemia di influenza a gennaio, refrattaria ai vaccini, e un’ondata di calore a luglio che hanno causato molte morti tra gli ultraottantenni. E non è solo questo».
Cos’altro?
«Il saldo migratorio con l’estero. Sono più quelli che vanno che i nuovi iscritti all’anagrafe. E parliamo di residenti, non rifugiati».
A cosa lo attribuisce?
«L’Italia non è più attrattiva come prima. Molte persone sono andate via. Anche gli stranieri residenti che si muovono agevolmente in Europa, come polacchi o rumeni, scelgono sempre più di frequente di andare in Germania o a Londra a cercare lavoro».
Se a questi dati aggiungiamo i richiedenti asilo?
«Il quadro cambia di poco. Nel 2015 sono stati circa 100 mila in più».
Cosa c’è di allarmante in questi numeri?
«Non tanto, o non solo, il calo delle nascite. Quanto l’invecchiamento della popolazione. Questo è un gran pasticcio: fa aumentare la spesa pensionistica e della sanità e calare il risparmio».
Da politico (lei è anche un senatore del Pd), cosa si dovrebbe fare?
«Integrare gli stranieri, che portano qui i bambini. E aiutare le coppie ad averne. Quando si decidono stanziamenti le famiglie arrivano sempre in coda. Ma credo che la timidezza nella lotta alla povertà abbia pesato nel voto. Servono misure chiare e universali. Subito».
La Stampa 11.6.16
Caporetto demografica, l’Italia si svuota
Poche nascite e picco di decessi, un calo così della popolazione non accadeva dal 1917 Gli stranieri sono l’8,3%, ma per la prima volta i migranti non hanno arginato il crollo
di Flavia Amabile

Un’Italia sempre meno italiana e sempre meno popolata emerge dagli ultimi dati pubblicati dall’Istat nel «Bilancio demografico nazionale». Durante il 2015 i residenti sono diminuiti come non capitava dal 1917, l’anno della disfatta di Caporetto, simbolo eterno di un’Italia in profonda crisi. In totale al 31 dicembre 2015 risiedono in Italia 60 milioni 665.551 persone. Fra di loro più di 5 milioni sono stranieri, cioè l’8,3%dei residenti in Italia e il 10,6% vivono al Centro-nord.
Ma tra questi 60 milioni e oltre di italiani ci sono 130.061 persone in meno rispetto al 2014. Il calo riguarda esclusivamente i cittadini italiani - 141.777 residenti in meno - mentre ci sono 11.716 stranieri residenti in più che, però, per la prima volta non riescono a compensare il calo costante degli italiani. La diminuzione è più rilevante per le donne (-84.792) rispetto agli uomini (-45.269).
L’Istituto nazionale di statistica pone in particolare l’accento sulla continua riduzione della popolazione con meno di 15 anni: al 31 dicembre 2015 era pari al 13,7%, un punto decimale in meno rispetto all’anno precedente. Vuol dire che quelli che dovrebbero essere i futuri italiani sono sempre meno numerosi, segno inequivocabile di una crisi che sembra senza futuro.
Il saldo naturale, determinato dalla differenza tra le nascite e i decessi, nel 2015 ha fatto registrare valori fortemente negativi, anche più negativi dell’anno precedente. Al costante calo delle nascite, nel 2015 si è affiancato un notevole aumento dei decessi.
Calano anche gli italiani attivi, quelli che hanno dai 15 ai 64 anni che nel 2015 rappresentavano il 64,3% della popolazione. Aumentano soltanto gli italiani che hanno 65 anni e oltre, vale a dire il 22% degli italiani.
Nel 2015 i nati sono stati meno di mezzo milione (-17 mila sul 2014) di cui circa 72 mila stranieri (14,8% del totale). I decessi invece oltre 647 mila, quasi 50 mila in più rispetto al 2014. Si tratta di un incremento sostenuto che - secondo l’Istituto di statistica - è da attribuire a fattori sia strutturali sia congiunturali. L’eccesso di mortalità ha riguardato i primi mesi dell’anno e soprattutto il mese di luglio, quando si sono registrate temperature particolarmente elevate.
Ci sono circa 133mila persone che hanno scelto di andare a vivere all’estero. Il movimento migratorio, un dato in flessione rispetto agli anni precedenti e che ha il suo peso nel saldo negativo finale.
Prosegue la crescita delle acquisizioni di cittadinanza come unico, profondo segnale positivo nella crisi demografica italiana: ammontano a 178 mila i nuovi cittadini italiani nel 2015. Sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese: per oltre il 50% (vale a dire oltre 2,6 milioni di persone) si tratta di cittadini che arrivano da un Paese europeo. La cittadinanza maggiormente rappresentata è quella romena (22,9%) seguita da quella albanese (9,3%).
Il Sole 11.6.16
Il fronte immigrazione. Non tutti i Paesi membri sono disposti a versare un contributo nazionale per il finanziamento delle misure destinate a frenare i flussi
Parte in salita il piano Ue per i migranti
di Beda Romano

LUSSEMBURGO È una partita lunga quella che si prospetta per il piano strategico presentato questa settimana dalla Commissione europea per meglio affrontare i flussi migratori provenienti dall’Africa e dall’Asia. I Ventotto hanno avuto una prima discussione sul progetto comunitario che prevede azioni di breve e di lungo termine. L’iniziativa è stata accolta con favore. Dubbi però sono emersi sul modo in cui finanziarla: non tutti i governi sono pronti a versare un contributo nazionale.
A livello diplomatico, una prima discussione questa settimana ha mostrato un ampio sostegno per il piano europeo. Il pacchetto di misure proposto dalla Commissione dovrebbe servire a rafforzare l’azione esterna, nel tentativo di frenare l’arrivo di migranti verso l’Europa, dissuadendoli dal lasciare il loro Paese. Esternalizzare la questione è anche un modo per evitare le tante tensioni provocate in questi ultimi due anni dall’arrivo di rifugiati sul territorio europeo.
Il piano prevede il negoziato di accordi bilaterali con 16 Paesi.Ieri il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos ha promesso una «rapida operatività». In buona sostanza si vuole accelerare i rimpatri e investire in loco per sostenere la crescita economica e lo sviluppo sociale. «Vi sono punti interrogativi – spiega un diplomatico -. C’è chi vuole privilegiare la collaborazione con i Paesi dell’Africa e altri che invece vogliono coltivare la cooperazione con l’Afghanistan o il Pakistan».
È già emerso il nodo del finanziamento. Ieri, qui in Lussemburgo dove si sono riuniti i ministri degli Interni, il ministro dell’Immigrazione olandese Klaas Dijkhoff ha spiegato: «Non tutti i Paesi sono entusiasti quando si chiede loro di spendere di più, ma se le azioni sono buone allora può esserlo anche l’investimento». Il suo omologo austriaco Wolfgang Sobotka ha aggiunto che tradurre l’impegno in intesa non sarà facile «specialmente quando si parla di finanziamenti».
Nel breve termine, il piano prevede un rafforzamento del Fondo fiduciario Ue-Africa con 500 milioni di euro provenenti dal bilancio comunitario e altri 500 milioni contribuiti dai Ventotto (si veda Il Sole-24 Ore di mercoledì). A lungo termine, la Commissione vuole creare un nuovo Piano d’investimenti all’estero che beneficerà di una base di 3,1 miliardi di euro provenienti dal bilancio comunitario, e altrettanti versati dai Paesi membri. Una leva finanziaria dovrebbe portare il totale a 61 miliardi.
È già la terza volta che Bruxelles presenta proposte legislative con formule di finanziamento che associano soldi comunitari a denaro nazionale. Così sono stati ideati il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e l’accordo tra Ankara a Bruxelles su una migliore gestione dei flussi migratori provenienti dal Vicino Oriente. Quanto al nuovo pacchetto, un prossimo cruciale passaggio sarà la discussione tra i leader a fine mese, che dovrebbe dare prospettive più chiare sul futuro dell’iniziativa.
Infine, sul fronte sicurezza, sempre ieri i ministri degli Interni dei Ventotto hanno trovato un accordo politico sulla modifica di una direttiva che deve servire a rafforzare la tracciabilità delle armi da fuoco. Il dossier passa ora al Parlamento europeo che dovrà dare il suo benestare. L’intesa tra i governi, voluta in particolare dalla Francia dopo i sanguinosi attentati del 13 novembre scorso a Parigi, è giunta nel giorno dell’inizio del campionato europeo di calcio, segnato dal pericolo terrorismo.
La Stampa 11.6.16
Aiuti all’Africa. l’Europa frena
di Emanuele Bonini

Niente assegni in bianco. Il consiglio Affari interni di Lussemburgo ha espresso le riserve degli Stati membri dell’Ue sul piano della Commissione europea per la gestione di lungo periodo del fenomeno migratorio attraverso una maggiore cooperazione con l’Africa per rimpatri e riduzione delle partenze. Prima di finanziarlo si vuole capire cosa si chiederà di sostenere. «Non tutti i Paesi sono entusiasti quando si chiede loro di spendere di più, ma se le azioni sono buone allora può esserlo anche l’investimento», ha sintetizzato Klaas Dijkhoff, ministro della Giustizia dei Paesi Bassi e presidente di turno del collegio ministeriale. Vuol dire che si contribuirà solo se ne varrà veramente la pena.
Il 7 giugno l’Alto rappresentante dell’Ue Federica Mogherini e il commissario responsabile per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, hanno chiesto agli Stati di aumentare di 500 milioni il contributo nazionale al fondo fiduciario per l’Africa (dove mancano ancora 1,7 miliardi sugli 1,8 miliardi già promessi dai governi). Dijkhoff ha chiarito che per ora non se ne parla. «L’attenzione è al piano, non al finanziamento».
Il ministro degli Interni, Angelino Alfano, si è detto ottimista. «É stato chiarito che si troveranno le risorse» per quello che a suo giudizio è un piano che non può che funzionare. «É la proposta più organica e seria che si potesse fare: se non si realizza è per mancanza di volontà».
Lo scarso impegno degli Stati allarma la Commissione europea. Avramopoulos è tornato a criticare i ritardi nella redistribuzione dei migranti arrivati in Italia e Grecia. Non bene, se si considera che da luglio la presidenza del Consiglio Ue sarà assunta dalla Slovacchia, contraria all’agenda per l’immigrazione di Bruxelles, e che Avramopoulos vede «ancora molto lavoro da fare visto che un’altra estate si apre davanti a noi». Attraverso il Mediterraneo centrale continuano ad arrivare migranti, tutti africani. Non ci sono né albanesi né siriani. Diventa quindi cruciale sostenere la strategia per l’Africa, che si scontra però con i nuovi dubbi dell’Europa.
La Stampa 11.6.16
Con i mercanti di uomini sulla rotta tra Mauritania e Canarie
Le piroghe, chiamate “Air Madrid”, partono ogni notte cariche di giovani senegalesi, maliani, guineani. Che prima vengono sfruttati e umiliati dai negrieri
di Domenico Quirico

I migranti li ho incontrati, quasi per caso, al mercato del bestiame di Nouackhott. I manzi muggivano, un coro lamentoso che sovrastava perfino il fracasso delle auto e degli uomini; e i belati di pecore e montoni erano come un brivido di quell’insistente, doloroso muggire. Pacchi di zampe erano ammonticchiati già in terra come lastre sudice, fegati sanguinanti e violacei, cuori di bue duri e staccati come campane al battaglio pendevano dalle lerce, innumerevoli bancarelle dei beccai. E poi brandelli sanguinolenti di carne, stracci lanuti di pelle ancora pendenti dalle carni vive, ciuffi di budella e poi sangue, sangue che colava ovunque, e polvere, polvere e odore che stordiva. É lì che mi avevano suggerito di cercarli: «Lavorano come garzoni per rastrellare qualche soldo, per pagarsi la traversata in mare…».
Il primo che ho visto è stato Souleymane, (ma non sapevo ancora che questo era il suo nome) giovane, smunto, spaurito in quell’animalesco carnaio a cielo aperto. Tirava un manzo sciancato, recalcitrante, gli occhi già pieni di una consapevolezza della morte inevitabile e prossima che avresti detto umana.
Un uomo alto, grosso passava di manzo in manzo, esaminava, palpava: portava alla cintola un lungo acuminato coltello. Un cane rossiccio lo seguiva annusando. Il beccaio, il padrone. Anche il ragazzo aveva un coltello. Lo ha impugnato, un po’ esitante, con una mano tenendo immobile per la corna la testa della bestia. Un piede puntato su una coscia per fare forza ha immerso il coltello nel collo, ha spinto dentro lentamente ritraendo la lama. Un fiotto di sangue è sprizzato, rigurgitava. La bestia si dibatteva, spingava. Poi la testa è ricaduta. Il ragazzo cercava invano di far fluire il rivo di sangue, ma il peso lo opprimeva. Il sangue dilagava su di lui. Rosse di sangue erano le braccia, le gambe. E l’aria, anche, odorava di sangue e di stabbio.
Allora il padrone si è avvicinato, la collera gli torceva la bocca che era come irrigidita in una smorfia. Si dimenava sussultava mandava urli di inferno, gli occhi sbarrati, vitrei, terribili. Tutti si scansavano spaventati. Ha abbrancato Souleymane per le braccia, lo scuoteva rabbiosamente, con furia lo ha colpito fino a farlo cadere a terra. E poi ancora, implacabile, lo ha fatto rotolare a calci. Adesso la gente, clienti e altri beccai, che si era scostata impaurita per quella furia, si è riavvicinata, ha fatto groppo e rideva, rideva della punizione inflitta al ragazzo colpevole di aver tagliato male la gola al manzo, in modo sbagliato, malaccorto.
Fu quando il giovane si rialzò e inciampando scivolando riuscì a fuggire che mi accorsi che altri tre ragazzi si allontanavano di corsa con lui. Altri giovani migranti. Li ho raggiunti in un vicolo di sabbia dietro il mercato: erano più giovani di quanto mi fossero apparsi all’inizio. Le facce erano macinate dalla fatica, le bocche contraffate da pieghe amare, e ancor più ti addolora perché son ragazzi e non dovrebbe esser così. Senegalesi tutti e quattro.
Seduti per terra, la schiena al muro di una casupola, scambiano di quando in quando una parola tra loro, ansando ancora per la fuga. Bestie di tiro, dannati della terra. Mi guardano sospettosi. Offro una bottiglia d’acqua, per iniziare. L’acqua e il pane: il modo con cui puoi aprire il cuore di qualsiasi uomo, il linguaggio umile dell’universo. Bevono avidamente, gli occhi sgusciati, le gote gorgoglianti si passano la bottiglia, cola, con l’acqua, dai volti il sangue raggrumato delle bestie. Si presentano, snocciolano i nomi. L’ultimo ha un modo strano di guardare e di parlare. «È niente… una notte, da bambino, si è sentito strisciare sulla faccia un serpente, la lingua sottile, fredda … da allora il suo cervello non funziona bene… ».
La Mauritania è una pista antica dei migranti, un’altra di quelle immensità del loro viaggio dove mille miglia sono una piccola distanza. Salgono a Nouadhibou, la seconda città del paese, a cercare l’imbarco per le Canarie, per la Spagna. Da Dhaka un porto più a nord in otto, nove ore si raggiungono le isole spagnole. Dieci anni fa erano migliaia che facevano la fila agli sportelli della Western Union: passavano cifre colossali in euro e in dollari. I soldi con cui venivano pagati, mille euro a viaggio, i passeur e i capitani delle barche. Era l’epoca in cui, per il traffico, si usavano i «cayucos», imbarcazioni grandi ironicamente soprannominate «air Madrid».
Che tempi, quelli! Ogni piroga era oro. Gli scafisti di quaggiù facevano soldi a palate, il denaro correva come sabbia. Avevi una ciabatta frusta buona per la demolizione? La tiravi fuori alla svelta, una risuolatura e via per il mare, a fare quattrini. Anche i naufragi e i morti si allungavano in liste lunghe a cui nessuno badava. Poi i controlli si sono fatti più serrati, i numeri si sono ridotti. Ma questa resta, con le piste nel deserto, verso la Libia, una via della Migrazione per senegalesi, maliani, guineani.
Guardo i miei senegalesi. Ecco. Con i migranti, ovunque li trovi, pensi: siete incollati a questa vita selvaggia, di profugo, senza possibilità di uscirne, nemmeno per un giorno, nemmeno per un attimo. Vita che senti attaccata a te, di continuo la vedi la tocchi, sempre quella, ogni momento. La piena continua del Male. E sai perché? Perché questi tuoi stracci di migrante ti vietano ogni illusione, non ti lasciano evadere, volar via, mai, e se un sogno accenna a sorgere, compiere la traversata arrivare laggiù, in Paradiso, subito questo vestito ti scaraventa le carte in aria. Ma forse Souleymane e gli altri, i mille e mille, che ho incontrato, non sono qui, sono straordinariamente lontani, hanno abolito le distanze, creato un giardino provvisorio di illusioni che è il solo modo di tenersi a galla quando il cuore pesa troppo. Raccontarli invece impone di semplificare, distruggere le illusioni, mostrare ogni cosa nella sua nudità.
Souleymane è chiaramente il capo del gruppo. Faceva il falegname a Port Louis. L’uomo è veramente eloquente soltanto quando parla del suo mestiere. Smanioso di raccontare, i suoi discorsi sono fatti del legno, dello sfrigolio della pialla, odorano di segatura. È un migrante singolare: è partito non per miseria come i suoi compagni ma perché non voleva più vivere con il padre. «L’esperienza degli altri non mi serve, per sapere cosa vuol dire il fuoco brucia bisogna metter il dito nel fuoco. Tutto ciò che costituisce l’orgoglio della generazione di mio padre per me non vale niente. Non voglio più sentir parlare dei loro modi di vestire mangiare divertirsi. Sì, i padri allevano i figli a bugie».
Già, le generazioni sono davvero in conflitto permanente ovunque. Tra una generazione e l’altra c’è la distanza infinita che Pascal dice esistere tra i corpi e gli spiriti. Abitanti di pianeti diversi. Ogni generazione scopre lei la vera scienza della vita e l’esperienza vale solo per chi la fa. Le mille ragioni della Migrazione: un fluido collettivo che risulta dallo scambio e dalla somma di singoli fluidi, un’aura fatta di forza e di infelicità, di paralisi interiore e di mobilità esteriore. Nessuna statistica è in grado di cogliere l’essenza di questo fenomeno per noi così inammissibile, che sfugge a tutti i calcoli. Povertà, guerre, oppressioni, certo: per quale ragione , dato che tutto è logico, l’equazione non torna? Non basta la consueta geometria per un materiale così classico come l’essere umano? Che tribolazione. Di che diavolo ha mai bisogno l’uomo?
Accompagno Souleymane e i suoi compagni verso il porto del nord. Hanno abbastanza denaro per tentare, ora. La strada dalla capitale è nuova, asfaltata di fresco, pronta per il vertice della lega araba in programma tra poche settimane: arrivano i re e gli emiri, mi annunciano giulivi nei caffè di Nouackhott e quasi pare ai mauritani derelitti di sentire tintinnare l’oro e i soldi di quei parenti ricchi dell’islam.
La spiaggia si chiama la Gouera, è il luogo in cui le piroghe, le «pateras», caricano i migranti per portarli al largo su navi più grandi. I pescatori seduti sulla sabbia, taciturni e sonnolenti, fumano e guardano l’acqua, le onde passare e attendono. Senza ansia attendono. Nessuno come il pescatore sa la parte che il Caso ha nella vita. Ogni tanto il più giovane tra loro trae da una reticella un grosso pesce verde nero, gli pianta il piede sulla coda, immerge un coltello nella testa, la butta in disparte in un piccolo mucchio. La loro piroga bianca con qualche antica striatura di azzurro sulla murata sembra gettata lì a racconciare le ossa, ammaccata scrostata tutte bugne, come levata fresca fresca dal fondo del mare. In mandingo le chiamano «samba lakara». Le barche che portano alla morte. La spiaggia è sterminata, con il lido bianco e l’oceano azzurro che si incurvano fino al più lontano orizzonte, assottigliandosi gradualmente in una sola linea vaporosa e indistinta. La dove il cielo pare confondersi col mare la sagoma remota di una nave, grande, sta sospesa nella luce del mattino con attorno un corteggio di minuscole piroghe.
Un pugno di altri migranti è già lì, pronto: tre uomini poderosi, ispidi, il cappuccio della felpa rovesciato sulle spalle e una donna, scostata. Stanno accovacciati, le gambe in croce, girano uno stecco di carne su una cassettina di ferro piena di brace, lacrime di grasso colano su quella larva di fuoco. Ci squadrano con una grinta agra, come timorosi per il loro cibo.
Il tempo passa senza che nulla accada. La oscurità sembra non venire. Poi a poco a poco conquista, qua e là, zone di cielo, preme, si pigia alacremente sforzandosi di salire. Finalmente a ponente il sole si è disfatto, lentissimamente; ma, come una sorgente inesauribile, continua a versare fiotti di luce sanguigna.
Notte. Un vento agile e fresco. Nell’aria grossa un segnale: una luce dalla nave al largo tremola là in fondo. Accompagnerò i migranti fino alla nave, al largo. Tutto avviene in silenzio, il motore pulsa lentissimo, sordamente. Onde lunghe, rotonde sopravvengono e silenziosamente passano senza frangersi. L’acqua fa ciac contro la prora, mollemente, pare uno strumento che suoni in sordina. Una voce dalla nave, un fanale che si accende. E’ il momento, per loro, di salire.
«Non hai paura Souleymane?».
«Io non ho paura di niente…».
La Stampa 11.6.16
Negazionismo, dal Parlamento legge corretta
di Vladimiro Zagrebelsky

La questione del negazionismo suscita forti contrapposizioni da quando diversi Parlamenti, tra cui quello italiano, hanno preso a definire in termini di genocidio l’uno o l’altro massacro subito da intere popolazioni. In Europa si tratta in particolare del genocidio ebraico, la Shoah, e di quello armeno. Al giudizio storico si è aggiunta la previsione di una sanzione penale per chi neghi tali genocidi. Vedere Parlamenti e maggioranze politiche decidere e per tutti stabilire la verità di fatti storici e la loro natura ha subito allarmato gli storici di professione e le loro associazioni.
Essi hanno messo in guardia contro le verità di Stato e il rischio che venga impedita la libertà della ricerca storica e negata la possibilità stessa della continua revisione dei dati e giudizi acquisiti.
La preoccupazione legata alla libertà della ricerca e della discussione storica, nonché delle valutazioni politiche che vi sono collegate, è giustificata, ma non è la sola. Si può negare un genocidio affermando che i fatti che lo costituirebbero non sono mai avvenuti (o non sono avvenuti nei modi e nelle dimensioni che si affermano), oppure ammettendo che i fatti sono veri, ma non costituiscono genocidio. Le stragi di cui un popolo è stato vittima sono genocidio, secondo i trattati internazionali che lo definiscono, se chi le ha commesse è mosso dall’intenzione di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Il primo caso è quello che riguarda coloro che negano la Shoah: evidente e provata essendo l’intenzione dei nazisti e dei fascismi loro alleati di distruggere il popolo ebraico, i negazionisti sminuiscono, mettono in dubbio, contestano i fatti. Il secondo caso è quello del genocidio armeno ove i negazionisti più accorti e le versioni ufficiali turche, non negano la realtà delle migliaia di uccisi, ma rifiutano l’intenzione di sterminare il popolo armeno. Non quindi di genocidio, ma di guerra tra popoli nemici si sarebbe trattato. Chiara è la differenza tra i due diversi negazionismi. Essa contribuisce a rendere arduo un problema difficilmente affrontabile con lo strumento della legge penale, invece che con il duttile ma non inutile mezzo della condanna e dell’isolamento etico e sociale di chi nega l’evidenza dei genocidi. Questa differenza ha recentemente richiamato la Corte europea dei diritti umani nel decidere che aveva violato la libertà di espressione la condanna penale di un attivista turco che in una serie di conferenze tenute in Svizzera, aveva sostenuto che le stragi di armeni erano state momenti di guerra e non strumento di intenzione genocidaria da parte delle autorità turche.
Stretto dall’obbligo di dare esecuzione alla norma europea che impone agli Stati membri dell’Unione di sanzionare chi neghi la realtà dei genocidi e dalla preoccupazione di non interferire con la libertà delle opinioni e della ricerca storica, il Parlamento italiano è ora giunto a una soluzione che evita forse i maggiori problemi. La nuova norma penale non punisce il negazionismo (la negazione della verità) in quanto tale, ma ne fa motivo di aggravamento della pena quando si presenti come modalità di quello che è il vero cuore del reato: la diffusione in modo concretamente pericoloso di idee di superiorità o di odio razziale o etnico, l’incitamento a commettere atti di violenza o di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e l’istigazione a commettere violenze o atti di provocazione alla violenza. E’ così fatta salva la libertà di espressione e di ricerca storica e la negazione dei genocidi diviene un modo e un’aggravante dell’istigazione alla violenza e alla discriminazione razziale, etnica o religiosa. La punibilità dell’istigazione dipenderà dalla concretezza dei comportamenti e dalle espressioni usate. Le forme e le argomentazioni sono importanti, così come l’incidenza della singola vicenda storica nel contesto. La negazione di una lontana tragedia storica che ha colpito un popolo, difficilmente suscita ora emozioni, capaci di spingere a discriminazioni o violenze razziali o religiose. Diverso è il caso di chi nega la realtà e la natura della Shoah. La negazione infatti si accompagna sempre a forme di antisemitismo e entra profondamente in conflitto con le radici etiche dell’Europa attuale, segnata dal crimine di cui è stata capace. Giustamente quindi il legislatore ha espressamente nominato la Shoah, non impegnandosi invece nell’elencare gli altri genocidi la cui negazione può diventare un modo di istigazione all’odio e alla violenza razziale o religiosa. Per questi altri genocidi la norma ora approvata rinvia alla definizione contenuta nello statuto della Corte penale internazionale, che fonda il crimine di genocidio sull’intenzione di distruggere un intero popolo. Saranno i giudici a farsi storici e a dover dire, volta per volta, se si tratta di genocidio e se negandolo si commette istigazione all’odio o alla violenza. Il che resta una non piccola difficoltà.
La Stampa 11.6.16
Hitler in edicola è un attacco alla memoria
di Manuela Consonni

Consapevolmente o meno, l’operazione editoriale messa in atto da un giornale italiano, che oggi in edicola insieme al quotidiano distribuirà urbi et orbi il «Mein Kampf» di Hitler, è un attacco alla storia e alla memoria del passato dell’Italia. Vendere il passato in edicola crea errori, vizi di forma insidiosi che, con la pretesa di «rivisitare» la storia, la appiattiscono in una semplificazione falsa e pericolosa.
Siamo tutti a favore della verità, ma da storica, la verità storica del «Mein Kampf» hitleriano può essere raccontata solo in sede storiografica e memoriale, dagli storici e dalle vittime.
Perché storici e vittime possono dirci esattamente quale fu la battaglia che il capo del Reich intraprese contro i nemici del Reich, i.e. gli ebrei, gli oppositori politici, i diversi tipi asociali, gli Untermenschen scelti per la deportazione e per lo sterminio. La riabilitazione del passato, forse più nero della storia umana, quello del XX secolo, il secolo breve, la pseudo-rottura della demonizzazione rituale contro il Nazismo e il Fascismo, attraverso un libro intellettualmente e moralmente ignobile, con il piglio di offrire una visione disinteressata e innocente del passato è mancanza di responsabilità civica e storica, è colpa assoluta come lo è l’oblio verso le vittime di questo passato e verso gli altri, che di esso, non sono stati né carnefici né collaboratori. «Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili», scriveva Primo Levi che aveva letto il Mein Kampf. Esso non rientra in nessuna delle due citate categorie. Condivido con lo scrittore torinese la stessa «diffidenza» per chi «sa» «come migliorare il mondo [...] innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi».
Il «cosa c’è di male», o peggio «vogliamo fare conoscere l’orrore perché non si ripeta più», o il protervo «bisogna avere il coraggio di essere afascisti per dare alla storia il suo giusto valore, correndo il rischio di essere chiamati filofascisti», «venduti» in edicola oggi, con cui sarà giustificata questa cinica operazione editoriale, sono di contenuto amorale, antietico e antidemocratico, insieme al loro concetto di razza superiore, a quello della conservazione della razza, e al delirante teorema delle minoranze agguerrite, come scritto appunto nel Mein Kampf: «Primo compito non è quello di creare una costituzione nazionale dello Stato ma quello di eliminare gli ebrei. [...] Come spesso avviene nella storia, la difficoltà capitale non consiste nel formare il nuovo stato di cose, ma nel fare il posto per esse», e da ultimo alla prassi politica del fare l’Europa Judenrein, insieme alla Rassenschande, tutte dichiarazioni intrise di delirio e odio etnico. L’operazione editoriale del quotidiano esprime nella sua sostanza una consensualità accomodante e bonaria, di compiacenza postuma verso questo passato. Hitler in edicola oggi è la prova, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, di un passato, quello nazifascista che in Italia non riesce a passare. In questo contesto, l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso un passato di guerra, di deportazione e di sterminio, e la politicizzazione della memoria continuano a determinare due alternative conflittuali e in competizione, caratterizzate dalla permanente tensione tra l’idea di aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non aver ancora iniziato a farli. Se ne ricordino, quindi, coloro che venderanno, oggi, insieme al giornale Hitler in edicola, che, anche se si taccerà, ancora una volta, l’antifascismo di pregiudizio, di ignoranza, di oscurantismo, di moralismo, l’aspetto più pericoloso dell’operazione revisionista di oggi, non è solo la banalizzazione di un passato tragico per la storia umana, ma la apoliticizzazione della coscienza storica.
* Direttrice del Centro Vidal Sassoon per lo Studio dell’Antisemitismo, Università ebraica di Gerusalemme.
La Stampa 11.6.16
Gli imprenditori promuovono le riforme del premier
“Bene il governo su lavoro e referendum, ma su tasse e giustizia deve fare di più”
di Giuseppe Bottero

Dopo un’ora di faccia a faccia con gli imprenditori si stupisce pure il premier: «Quando mi fate una domanda cattiva?». Risate. Ma l’affondo, a parte una frecciata sulla spending review, non arriverà.
Chi s’attendeva la replica dei fischi di Confcommercio resta deluso. Perché il feeling tra Matteo Renzi e gli industriali che lo aspettano con gli smartphone in mano sulla scalinata dell’hotel Miramare è quasi totale. A dettare la linea è il presidente dei giovani di Confindustria, Marco Gay: «Non faremo una lista della spesa», dice, e garantisce che la lunga relazione che apre la due giorni di Santa Margherita Ligure non si trasformerà in un cahier de doléances. Promessa mantenuta in parte, visto che, dal fisco alla banda larga passando per la giustizia e l’articolo 18 per gli statali, qualche sassolino da togliersi c’è. Ma è una partita che si gioca in un clima rilassato, «da vecchi compagni di scuola - sorride Francesco Palumbo, imprenditore salernitano del franchising - Parliamo la stessa lingua, se abbiamo la sponda della politica la strada è in discesa». I quarantenni in giacca e cravatta che riempiono la Sala Portofino promuovono la riforma costituzionale - «il referendum è una occasione da non perdere - spiega Gay -, le misure sul lavoro, e la battaglia con l’Ue sulla flessibilità. Diciamoci la verità: solo qualche anno fa ci sarebbe sembrato impossibile». Di sicuro, non è il momento di tirare i remi in barca: «In tanti hanno paragonato questi anni di crisi a una guerra. Oggi forse possiamo dire: la guerra è finita, anche se la pace è ancora da costruire». Come? «Ci aspettiamo serietà e coerenza per realizzare il taglio dell’Ires di 4 punti, come promesso», prosegue. E poi chiede «una svolta infrastrutturale», dalla banda larga alla Tav, e una «legge sulle lobby». Sono punti cerchiati in rosso anche sui taccuini degli altri capitani d’azienda, assieme al taglio dei tempi della giustizia e alla riforma della P.a. «Bisogna sburocratizzare il Paese - spiega Marco Lavazza, vicepresidente del gruppo del caffè -. Chi investe ha bisogno di sicurezza, dal punto di vista legislativo, giudiziario e amministrativo. Se decido di aprire un’attività non posso non sapere quanto tempo ci metterò». Altro? «Speriamo il governo non aumenti l’Iva e la flessibilità venga utilizzata per nuovi investimenti strutturali. C’è bisogno di guardare sul lungo periodo, non di interventi mordi e fuggi prima delle elezioni». Sono le certezze che chiedono le multinazionali: «Jobs Act e taglio dell’Ires sono passi avanti, è ora di accelerare sulla semplificazione - auspica Cristina Scocchia, ad di L’Oreal -. Per non penalizzare i grandi gruppi il credito d’imposta deve essere stabile e bisogna aumentare la produttività». E poi c’è da colmare il divario più grande con gli altri Paesi Ue: quello digitale. «Avere soltanto il 50% delle persone che utilizza la rete fa perdere competitività anche alle aziende» dice il country manager di Facebook, Luca Colombo. A tradire, però, non sono solo le autostrade di byte. «Ho fatto dei lavori infrastrutturali 18 mesi fa, e firmato il contratto con l’Anas ieri - dice a Renzi Gian Giacomo Gellini, imprenditore edile di Arezzo -. Prima di incassare, passeranno quasi due anni».
Corriere 11.6.16
La ragazza morta di overdose a sedici anni e il sottomondo che non vogliamo vedere
di Paolo Fallai

Sono passati sessant’anni dall’«Urlo» di Allen Ginsberg: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, trascinarsi all’alba in cerca di una siringata rabbiosa di droga». Oggi non urla più nessuno. L’eroina è confinata in un sottomondo che ci rifiutiamo di guardare, in quella sterminata periferia tutta uguale dove vivono non «le menti migliori» ma i nuovi miserabili della nostra società. Fino a quando la morte di una ragazzina di 16 anni non ci sbatte in faccia il colore livido della nostra indifferenza.
Il giovane corpo di Sara Bossi rannicchiato su una lettiga arrugginita all’interno di uno degli ospedali più grandi di Roma, non racconta solo la sua disperata adolescenza. Sua madre, Katia Neri, è stata interrogata per lunghe ore ieri dagli investigatori, sullo spaccio di stupefacenti, sui rapporti con gli amici afgani della figlia e su quello che succedeva nei meandri del Forlanini dove anche lei aveva dormito. E anche la nonna di Sara — è stata la stessa Katia Neri a raccontarlo agli investigatori — sarebbe morta anni fa per una overdose. Un gene di disperazione si è impossessato di tre generazioni della stessa famiglia. Ma noi dove eravamo quando succedeva tutto questo? E i servizi sociali di uno Stato che dovrebbe essere civile? Nessuno nelle peregrinazioni di quella ragazzina tra un centro di recupero nel Frusinate, da cui ha tentato di fuggire buttandosi da una finestra del terzo piano; l’ospedale Gemelli di Roma dove le hanno curato le fratture; e ancora un centro minori in provincia di Perugia, nessuno ha saputo o capito la sua storia. Sara si è aggirata in quei luoghi che sono a 50 metri dalle nostre case ma è come fossero invisibili, le stazioni come Termini, gli orli slabbrati di quartieri come Pigneto o Ostiense, fino all’ultima fermata: un ospedale mezzo abbandonato. Davvero non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi.
La Stampa 11.6.16
Così lo Stato dimentica le vittime di femminicidio
L’Ue impone risarcimenti per reati violenti quando il colpevole non lo fa Ma l’Italia e la Grecia sono inadempienti. Già venti i ricorsi aperti
di Lidia Catalano

Oggi si userebbe la parola «femminicidio» per raccontare la sorte di Rossana Jane Wade, una ragazza di 19 anni strangolata dal fidanzato e abbandonata in un casello ferroviario il 2 marzo 1991 a Fiorenzuola, nel Piacentino. Lo scorso 7 giugno, a 25 anni e tre mesi di distanza, la terza sezione del Tribunale di Bologna ha condannato il ministero della Giustizia e la presidenza del Consiglio a risarcire con centomila euro Letizia Genoveffa Marcantoni, la madre della ragazza.
Cosa c’entra lo Stato in questa storia? Per capirlo bisogna tornare ancora indietro nel tempo, questa volta al 2004, quando una direttiva europea ha imposto agli Stati membri di risarcire le vittime di reati violenti «nei casi in cui l’autore sia rimasto sconosciuto, si sia sottratto alla giustizia o non abbia le risorse economiche per risarcire la vittima o – in caso di morte – i familiari». Un obbligo verso cui l’Italia – unica in Europa insieme alla Grecia – risulta inadempiente. Così alle vittime (se ancora in vita) o ai loro familiari non resta che dare battaglia allo Stato per avere giustizia. Come ha fatto Letizia Marcantoni, che non ha visto un solo euro dall’assassino di sua figlia, Alex Maggiolini, all’epoca dei fatti studente di 20 anni e nullatenente.
Un episodio tutt’altro che isolato. «Nel 70-80 per cento dei casi gli omicidi volontari, le lesioni permanenti e le violenze sessuali non vengono risarciti dall’autore del reato», spiega l’avvocato Stefano Commodo dello studio legale associato Ambrosio&Commodo di Torino, da anni in prima linea per chiedere l’applicazione della direttiva del 2004. Fu lui, insieme all’avvocato Marco Bona, a difendere una vittima di violenza sessuale in un processo che si è concluso con la condanna – per la prima volta in Italia – al risarcimento da parte dello Stato. La ragazza era stata sequestrata, percossa e violentata per un’intera notte da due uomini che si erano poi resi latitanti. La sentenza emessa nel 2010 dal tribunale di Torino è stata seguita da pronunce analoghe del tribunale di Roma nel 2013, da quello di Milano nel 2014 e adesso anche dal foro di Bologna.
«Pochi cittadini sono a conoscenza di questo diritto. Ad oggi ci sono una ventina di contenziosi aperti con lo Stato, ma potenzialmente potrebbero essere molti di più».
La sentenza apripista del 2010 è stata confermata in Appello (con una riduzione del risarcimento da 90 mila a 50 mila euro) e ora la Cassazione ha disposto il rinvio alla Corte di Giustizia Europea. L’oggetto del contendere è l’interpretazione della direttiva del 2004. Che lo Stato ha recepito soltanto in parte, con leggi a tutela esclusiva delle vittime di terrorismo, strage e reati di stampo mafioso.
«Aspettiamo la pronuncia della Corte del Lussemburgo – commenta Commodo – ma la direttiva parla chiaro e non prevede alcuna tipizzazione dei reati risarcibili. Purtroppo ancora una volta ci distinguiamo in negativo rispetto agli altri Stati, già adeguatisi da anni alle richieste dell’Europa».
Con il risultato che ad oggi in Italia le moltissime vittime di reati violenti non hanno un fondo a cui rivolgersi e si trovano a dover affrontare anni di udienze in tribunale per vedere riconosciuti (forse) i propri diritti. «Così lo Stato viene meno all’obbligo di garantire la sicurezza e la libera circolazione dei propri cittadini. Chi ha subito un trauma grave - conclude l’avvocato Commodo - vorrebbe percepire vicinanza e solidarietà. E invece troppo spesso la vittima si sente sola e abbandonata a se stessa».
Repubblica 11.6.16
Il giudice e le donne che cosa ho imparato
di Giancarlo De Cataldo

DA QUANDO sono entrato in Magistratura, trent’anni fa, ho assistito a una lenta, costante, inesorabile e benefica evoluzione nell’atteggiamento del corpo togato verso la violenza sulle donne. La stessa natura dei processi è profondamente mutata. Non capita più, o accade assai di rado, di assistere a quegli umilianti contro-esami nel corso dei quali la vittima di abusi sessuali veniva sottoposta a domande incalzanti sulla sua moralità, a giustificarsi, in pratica, di non aver seguito l’esempio di Maria Goretti.
SEGUE A PAGINA 33 MARIA NOVELLA DE LUCA A PAGINA 21
MENTRE vecchi presidenti di tribunale indulgevano in particolari scabrosi, sottintendendo che, alla fin fine, ogni violenza si poteva pur considerare, secondo le antiche massime, “vis grata puellis”, niente più che l’espediente necessario a vincere la notoria ritrosia femminile.
Nel mondo giudiziario, tradizionalmente lento a recepire il nuovo, era accaduto, già da qualche anno, un fatto rivoluzionario. Alle donne, con una legge del 1963, era stato consentito di vestire la toga. Quindici anni prima, nel dibattito alla Costituente vi fu chi segnalò una “fisiologica” inettitudine delle donne al giudizio. Donne che avrebbero per giunta abdicato ai loro doveri familiari: chissà perché, da noi, i riferimenti alla famiglia sono costantemente ammantati di venature reazionarie.
Oggi le donne in toga sono la maggioranza. E hanno cambiato profondamente la giustizia. Hanno vinto le nostre resistenze. Ci hanno costretti a confrontarci quotidianamente, e in un modo diverso, con la questione di genere. E con la violenza di genere. È grazie alle donne — ovviamente, non solo alle magistrate — se oggi abbiamo capito che il femminicidio è transculturale, perché gli uomini che odiano le donne appartengono a tutti gli ambienti. Che è interclassista, perché gli uomini che odiano le donne appartengono a tutti i ceti sociali. E, infine, che il femminicidio è troppo spesso “cronaca di una morte annunciata”, l’atto conclusivo di una catena causale che si sarebbe potuta e dovuta spezzare prima della tragica conclusione. E tutto questo vale, a maggior ragione, per ciò che possiamo definire “violenza sulle donne” in generale. Anche quando non si traduce in una crudeltà definitiva.
Tuttavia, per quanto passi enormi siano stati compiuti su questo percorso di progresso, giudichiamo quotidianamente episodi di violenza e di femminicidio. Che seguono, di solito, uno schema quasi obbligato: lei mi ha lasciato, o è troppo indipendente, o comunque non è più “cosa mia”. La punisco. E, in tanti casi, immediatamente dopo sono “pentito”. All’evoluzione del costume, dunque, non corrisponde un’attenuazione di questo fenomeno criminale. E, come maschi ormai resi consapevoli dall’accrescimento culturale che dobbiamo alle donne, non riusciamo a farcene una ragione.
Fëdor Dostoevskij, non certo uno spericolato progressista, già nel 1873, riflettendo sull’atroce caso di un mužik, un contadino sadico che, a colpi di crescenti sevizie, aveva indotto la sua povera moglie al suicidio dopo che costei si era invano rivolta al tribunale del suo paese per ottenere giustizia, aveva stigmatizzato con parole di fuoco i luoghi comuni sulla violenza di genere, profetizzando il conseguimento di una reale parità fra i sessi: «È mai possibile continuare a negare a questa donna la piena eguaglianza di diritti con l’uomo nel campo della cultura, delle occupazioni, degli uffici, dopo tutto quello che essa ha fatto per il rinnovamento spirituale e l’elevamento morale della nostra società?».
Oltre cent’anni dopo, con la condizione della donna, nei paesi occidentali, molto cambiata, il mužik è ancora fra noi. Solo che non possiamo rifugiarci dietro la sua sagoma, in fondo rassicurante, di primitivo e prendercela con l’ambiente. E abbiamo pure perso l’alibi del progresso della condizione femminile. Le cose sembrano migliorare, ma la violenza resta identica, e il mužik continua a torturare e infierire.
Certo, ne siamo più colpiti, cerchiamo con maggiore consapevolezza di correre ai ripari, non nascondiamo la testa nella sabbia come i giudici di Dostoevskij. Ma i femminicidi, invece di calare, aumentano. E allora tutto il progresso del quale ci vantiamo — e che pure esiste — ci appare di colpo una costruzione precaria. La reazione di maschi arretrati alla “forza” delle donne; il risentimento per il crescente loro potere sociale; la gelosia come sentimento primordiale aggravato dall’evanescenza di rapporti dominati da un’intima fragilità; il revival degli integralismi sessuofobici... tutto questo spiega forse troppo, ma non tutto.
E restiamo inchiodati a una domanda alla quale nemmeno il genio di Dostoevskij aveva saputo dare risposta: perché quel mužik picchiava sua moglie? Perché continua a farlo? “Non lo sapeva neanche lui”. Non sapeva spiegarsi il perché della ferocia del maschio.
Il Sole 11.6.16
Il candidato di Fi ringrazia: un onore per me
Il «paradosso» di Fo: pronto a votare Parisi
di M.Per.

Dai grillini di Gianluca Corrado al centrodestra di Stefano Parisi. A ipotizzare il “salto” al ballottaggio di domenica 19 giugno a Milano è stato il Nobel Dario Fo, ospite a “Un giorno da pecora di Radio2”. «L’ho detto per paradosso, ma sono molto indeciso», ha precisato Fo. «La voglia è addirittura di andare a votare per la destra pur di levare di mezzo uno che ha fatto tutta la campagna senza dire come ha speso i soldi, come ha realizzato l’Expo e come è il debito e quanto si è perduto».
Parole che hanno contribuito a infiammare lo scontro tra Parisi e il rivale del centrosinistra Giuseppe Sala, evocando di nuovo lo spettro che spaventa il Pd: una saldatura tra i Cinque Stelle e la destra, a Milano come a Bologna, a Torino come a Roma. Il testa a testa del primo turno obbliga i due sfidanti a guardare agli indecisi, a chi domenica scorsa si è astenuto ma soprattutto a chi ha votato per altri, a cominciare dal M5S.
Parisi - che ieri ha liquidato come «chiacchiere giornalistiche» l’ipotesi di essere pronto a succedere a Berlusconi - ha incassato soddisfatto l’apertura di Fo: «Tutti quelli che vogliono modernizzare e rendere trasparente la politica sono certo che guardano a noi. Anche Dario Fo. Se Fo mi votasse sarebbe un onore ovviamente per me».
Sala, dal canto suo, ha scelto Facebook per rivolgersi «a chi ha votato Cappato, Rizzo e Corrado»: un appello in piena regola a Radicali, sinistra radicale e Cinque Stelle perché gli elettori notino i «molti temi di impegno comune». «Confrontiamoci a viso aperto», ha esortato l’ex commissario Expo. Oggi i Radicali annunceranno a chi chiederanno l’apparentamento. Un piccolo gruzzolo di voti che, salvo sorprese, dovrebbero essere dirottati proprio su Sala.
Duelli a distanza tra i due candidati si sono susseguiti per tutta la giornata di ieri. Parisi ha partecipato al convegno dei giovani di Confindustria a Santa Margherita Ligure, invitando il premier Renzi a «dare flessibilità ai comuni virtuosi» e giudicando la giunta Pisapia: «Non è stata un disastro ma ha bloccato tutto». Al vetriolo la battuta di Sala: «Io penso a Milano, lui è a Santa Margherita. Sono stato invitato anche io ma con rispetto ho rifiutato perché credo che in questi giorni il tema sia far sentire la nostra voce alla città».
È stato scontro anche sulla scelta di Sala di annunciare che, se sarà eletto sindaco, metterà l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo a capo del Comitato per la trasparenza e la legalità di Palazzo Marino. La replica di Parisi: «Io non uso nomi a fini elettorali. La mia squadra la comunico dopo il voto».
Corriere 11.66.16
Dario Fo: mi viene voglia di votare Parisi
di P. Lio

MILANO Il suo non è un endorsement , né un attestato di stima per Stefano Parisi. Quella di Dario Fo è piuttosto una tentazione: al secondo turno delle amministrative milanesi, votare il candidato del centrodestra per fare uno sgambetto al «renziano» Beppe Sala. È stato lo stesso premio Nobel, da tempo vicino a M5S, a confessarlo nel corso del suo intervento alla trasmissione di Rai Radio2 «Un giorno da pecora». «Tra Sala e Parisi non so chi voterò. Sono molto perplesso. Per paradosso, la voglia è addirittura di andare a votare per la destra pur di levare di mezzo uno che ha fatto tutta la campagna senza dire come ha speso i soldi, come ha realizzato l’Expo, come è il debito e quanto si è perduto». D’altronde, dopo l’uscita di scena del candidato M5S Gianluca Corrado, far perdere Mr Expo potrebbe essere un desiderio comune a molti simpatizzanti grillini. «Se Fo mi votasse sarebbe un onore», si limita a commentare l’ex dg di Confindustria, impegnato negli ultimi giorni in un corteggiamento serrato all’elettorato M5S. «Tutti quelli che vogliono modernizzare e rendere trasparente la politica sono certo che guardano a noi. Anche Dario Fo».
La Stampa 11.6.16
Ci sarà un effetto Berlusconi sul voto?
di Marcello Sorgi

In una vigilia elettorale così tesa come quella dei ballottaggi del 12 giugno, il dubbio è legittimo, oltre che presente: dopo l’annuncio del delicato intervento al cuore a cui dovrà sottoporsi nei prossimi giorni, ci sarà o no un “effetto Berlusconi” sul voto? E dove, eventualmente? A Milano, è ovvio, dove la partita tra Sala e Parisi è molto aperta (il candidato del centrosinistra è avanti, ma di meno di un punto), e a Napoli, dove il centrodestra è in corsa con l’imprenditore Lettieri, ma il largo vantaggio del sindaco De Magistris era considerato difficile da rimontare fino a prima del malore dell’ex-Cavaliere.
Che Berlusconi abbia nella sua Milano il pubblico più affezionato dei suoi sostenitori, è indubbio. Tra l’altro, Forza Italia come partito, perfino più di ogni previsione, ha avuto al primo turno un buon risultato, superiore a quello della Lega di Salvini. Basterebbe un piccolo ulteriore passo avanti per portare alla vittoria del tecnico Parisi, il candidato della grande rimonta. A Napoli la situazione è più complicata, e il destino di Lettieri, un moderato che gode anche di qualche simpatia a sinistra, è legato più all’affluenza, che potrebbe essere calante, e al voto trasversale da parte di elettori di partiti esclusi dal secondo turno. A Roma invece, dove il centrodestra s’è diviso tra Meloni e Marchini, l’appoggio dell’ex-Cavaliere non è stato di alcun aiuto al candidato civico.
L’intervento al cuore per Berlusconi è fissato per i primi giorni della prossima settimana, lunedì o martedì, appena saranno conclusi gli esami preparatori. L’inizio della convalescenza, in cui il destino dell’ex-presidente del consiglio sarà ancora a rischio, coinciderà con la vigilia e con la stessa domenica del voto. Molto dipenderà dalla gestione mediatica della malattia, che sarà l’interessato in persona a decidere. Giovedì ad esempio, in corrispondenza dell’annuncio dell’intervento, i figli dell’ex-Cavaliere non hanno gradito la dettagliata conferenza stampa del medico personale Alberto Zangrillo e hanno limitato l’afflusso delle visite dei politici di centrodestra: con Verdini s’è sfiorato l’incidente.
Dalla stanza del San Raffaele continuano ad arrivare messaggi diretti dell’illustre infermo, a dimostrazione che, come in altre circostanze (come quando fu ferito a piazza Duomo), Berlusconi vuol continuare a mantenere un filo con i suoi elettori. È anche questo un modo di far capire che, malgrado le raccomandazioni dei medici che hanno previsto almeno un mese di forzata inattività, l’ex-Cavaliere non considera ancora giunto il momento della successione.
La Stampa 11.6.16
Torino, la città divisa in due
È una sfida all’ultimo voto
La volata dei candidati tra mercati, nervosismo e polemiche I grillini: noi tranquilli, loro meno. La replica: cerchiobottisti
di Guido Boffo

«Non abbiamo sondaggi», dicono dall’entourage di Chiara Appendino. E se anche li avessero, non lo direbbero. Ma l’aria che tira a Torino, a poco più di una settimana dal ballottaggio, è quella del fifty-fifty. Cinquanta e cinquanta, la volata tra Fassino e la candidata grillina sarà probabilmente decisa da una manciata di voti. In compenso, quello che non ammetteranno mai nell’entourage del sindaco è che fossero convinti di vincere al primo turno, e questo voltafaccia di una parte della città (chiaramente non tutta) deve aver sorpreso anche Matteo Renzi, così pressante nel persuadere Fassino a ricandidarsi.
Il premier non si aspettava la replica della passeggiata di salute del 2011, quando il candidato di centrodestra venne doppiato (56 a 27), ma nemmeno la battaglia campale di questi giorni. E se a Roma il mezzo miracolo lo ha fatto Giachetti, il candidato del Pd, a restare in corsa; se a Milano era scritto sulle guglie del Duomo che Sala e Parisi se la sarebbero giocata all’ultima curva, in casa democratica la vera brutta sorpresa è la roccaforte di (centro) sinistra improvvisamente espugnabile. Torino, zitta zitta, potrebbe far pendere da una parte o dall’altra la bilancia delle amministrative, salvando la faccia o facendola perdere, con qualche contraccolpo a livello nazionale.
Espugnabile non vuol dire che sarà espugnata e la combattività di Fassino, a dispetto della cera, il suo infaticabile peregrinare tra mercati e bocciofile, non lascia trasparire cedimenti. Ha steso anche una contabilità spiccia di chilometri fatti (undicimila), persone incontrate (centomila), paia di scarpe consumate (due), ovviamente da aggiornare al rialzo. Ma il dubbio sì, quello si insinua, parente stretto del dubbio che scalfisce l’apparente e imperturbabile calma dell’Appendino, accolta da fiori e richieste di selfie nei mercati che anche lei frequenta ormai quotidianamente, perché le sorti del voto si decidono qui, tra un banco di frutta e verdura e uno di pesce.
In sintesi, sia Fassino sia Appendino sentono il successo a un passo e la delusione dietro l’angolo, sanno di poter vincere e temono di perdere. Questa è la novità. Il ballottaggio è la grande livella, e se un algoritmo potesse tradurre il sentimento diffuso in percentuali, sembrerebbe che i dieci punti di distacco del primo turno siano stati polverizzati in pochi giorni. Ma può diventare anche una grande macchina delle illusioni, soprattutto in una città che evoca la «rivoluzione» - perché la vittoria dei grillini altro non sarebbe - senza aver ancora deciso se abbracciarla o boicottarla.
Torino è sospesa, e il grande equilibrio si riflette nel nervosismo montante delle due squadre. La soglia di suscettibilità è altissima. L’altro giorno Piero e Chiara si sono incrociati per caso in un ristorante di San Salvario, il quartiere della movida. Fassino era lì per un aperitivo elettorale, lei è entrata, ha salutato, lui ha alzato la mano. Troppa freddezza. Dal fronte del sindaco è intervenuto qualcuno, ha raggiunto i grillini: perché non ve la stringete, la mano? Presto fatto. Fassino ai suoi, laconico: «È la mia avversaria». Come un incidente di percorso, un imprevisto.
«Noi siamo tranquillissimi, forse loro un po’ meno», abbozzano dall’entourage dell’Appendino. Ma le polemiche sui rimborsi elettorali all’azienda del marito in cui lavora non sono piaciute affatto e ieri c’è stata la risposta piccata al sindaco di Bollengo, un Comune dell’area metropolitana, che aveva scritto su carta intestata a 314 colleghi per invitarli a votare Fassino. Guai a confondere il «fair play sabaudo» con il laissez-faire. In fondo quella dell’Appendino è una lunga marcia, sette mesi e mezzo. C’era un gap di immagine da colmare: a novembre era «solo» una consigliera comunale che in pochi avrebbero riconosciuto per strada. Ora tutti sanno chi sia «l’alternativa Chiara», anche quelli - e non sono pochi - che non la voteranno. Per Fassino, in compenso, è diventata una «cerchiobottista», per la pretesa di tenere insieme centri sociali e leghisti. Così, sul crinale tra vittoria e sconfitta, la campagna elettorale scivola dalla camomilla ai toni ruvidi. E a Torino qualcuno, prima o poi, crollerà per una crisi di nervi.
La Stampa 11.6.16
Fassino-Appendino, lite in tv sui poveri
Il sindaco nega i dati della Caritas e rivendica i risultati. La sfidante: è ora di cambiare
di Andrea Rossi

Giudicatemi per quello che ho fatto. Giudicatemi per quello che sono, per le mie idee, per la mia squadra. Il duello tra Piero Fassino e Chiara Appendino forse è tutto qui: l’orgoglio di un sindaco «che lavora per una città all’avanguardia, sostenibile, giusta» contro l’orgoglio di «una donna, lavoratrice, madre, che in questi anni si è battuta, convinta che le cose sbagliate vadano contestate».
Il faccia a faccia televisivo su Sky si gioca di rivalsa. Lui ha l’aria stravolta di chi non si sta risparmiando; lei mostra un sorriso che tradisce tensione. Svanisce subito, dentro un’ora fitta, in cui ciascuno produce uno sforzo titanico per portare acqua alla propria causa. Fassino rivendica, Appendino piccona e rilancia. Il sindaco uscente incasella cinque anni di lavoro e costruisce l’immagine del buon amministratore. E allora, il debito «è sceso di 600 milioni dal 2011 a oggi senza intaccare i servizi ai cittadini che, al contrario, sono cresciuti», la crisi ha investito Torino ma non l’ha piegata: «Per il Consiglio d’Europa siamo la quinta città europea e la prima italiana per qualità delle politiche di integrazione e assistenza. Abbiamo speso 267 milioni l’anno in servizi, abbiamo istituito un fondo salva sfratti prima del governo».
Appendino contesta, smonta, riparte. «Il debito è stato ridotto svendendo le aziende partecipate contro il voto degli italiani ai referendum, con operazioni straordinarie che non potranno essere ripetute». Insomma, il futuro è stato ipotecato. E poi, la povertà, la crisi: «Nelle periferie crescono ansia e paure, il sindaco per cinque anni ha negato la povertà che si stava diffondendo e, secondo la Caritas, ha investito 100 mila torinesi». È l’attimo in cui il sindaco ha un moto di rabbia, alza la voce: «Non ho mai negato la crisi. E quella cifra, 100 mila poveri, è una invenzione». Invece è vera; almeno, è il dato diffuso dalla Caritas.
È una spasmodica corsa all’elettorato fluttuante. Fassino strizza l’occhio a quel 5% di consensi incassati da Roberto Rosso. Fa sua la proposta di una telecamera per ogni condominio per migliorare la sicurezza. Appendino si tiene in bilico tra destra e sinistra: «I torinesi, specie le donne, si sentono insicuri», i campi rom vanno chiusi ma le persone integrate e i bambini mandati a scuola. Anche qui Fassino rivendica: già fatto. Lei gioca in equilibrio: la Tav è una questione pragmatica, non ideologica, come si fa a spendere 10 miliardi quando il trasporto regionale è distrutto? Le olimpiadi? Un successo ma con troppi scheletri.
Entrambi svicolano spesso: sulle eventuali alleanze per il ballottaggio, su Renzi e Grillo, persino sugli scudetti della Juventus. Si tengono alla larga dai guai, cercano di scansare gli scivoloni. Non sempre ci riescono: Appendino attacca il sindaco sullo stipendio del suo portavoce, 180 mila euro, ma non dice che nel tempo è stato ridotto fino a circa 135 mila. Fassino attacca la giunta annunciata dalla candidata 5 Stelle. Lei ribatte: «Ho scelto persone competenti senza Cencelli. Non credo lui farà altrettanto». Lui punge: «Sei superficiale, non dici mai che cosa vuoi fare». Giudicatemi per quel che ho fatto; giudicatemi per quel che sono.
il manifesto 11.6.16
5 Stelle alla «volata finale»
Elezioni. Il direttorio lancia il «Cambiamo Tutto Tour» per la campagna dei ballottaggi. Raggi ospite con Giachetti degli industriali: «Qui mi sento a casa. Le Olimpiadi? È prematuro parlarne»
di Giuliano Santoro

Contro ogni scaramanzia, Virginia Raggi chiuderà la sua campagna elettorale il prossimo venerdì 17 ad Ostia, sul litorale di Roma, proprio nel municipio travolto maggiormente da Mafia capitale e commissariato, dove i pentastellati hanno raccolto il pieno di consensi. «Dal litorale romano annuncerà la sua giunta», si dice dalle parti del comitato elettorale. La campagna prosegue su un doppio binario: quello cittadino e quello nazionale.
Allora ecco che l’enfasi sulle faccende della vita quotidiana dei romani si accompagna all’interesse di tutte le opposizioni a Matteo Renzi, ecco il motivo delle indicazioni di voto dei Salvini e Zaia ma anche l’interesse manifestato da alcune reti sociali, da posizioni diametralmente opposte a quelle leghiste: «Già dai ballottaggi inizia la nostra campagna referendaria per far vincere il No al referendum/plebiscito del 2 ottobre voluto da Renzi per demolire la Costituzione italiana – sostengono ad esempio dalla Carovana delle periferie – così come richiesto dalle grandi banche d’affari come la Jp Morgan e dalle oligarchie dell’Unione europea».
I membri del direttorio a questo proposito hanno annunciato il «Cambiamo Tutto Tour», giro d’Italia a sostegno dei candidati M5S al ballottaggio che toccherà tutte e venti le piazze che andranno al voto. «Saremo presenti assieme ai nostri candidati sindaci con portavoce nazionali, europei e regionali nelle venti città che andranno al ballottaggio. È la volata finale. Saremo ovunque nelle piazze, tra i cittadini» annunciano i 5 Stelle: Beppe Grillo non sarebbe previsto in nessuna tappa. Gli impegni di Raggi proseguono a ritmi relativamente tranquilli: dopo che la giornata di giovedì è stata dedicata esclusivamente all’incontro coi possibili assessori, ieri Raggi ha concesso un’intervista al New York Times e poi con Roberto Giachetti è stata ospite degli industriali, al Palazzo dei Congressi dell’Eur. «Qui mi sento in casa pur non appartenendo al mondo dell’imprenditoria, sono una professionista, un avvocato, e comunque nel M5S ci sono degli imprenditori» ha detto alla platea di Unindustria.
E sulle Olimpiadi: «Adesso è prematuro impegnare la macchina amministrativa a lavorare su impianti e infrastrutture, quelle da risanare sono quelle di oggi». E le Olimpiadi successive? Raggi risponde: «Perché no? Quando Monti si è schierato contro andava bene, lo dice Raggi ed è levata di scudi».
Comunque vada, bisognerà fare i conti anche con l’«assemblea di autogoverno» convocata dalla rete «Decide Roma», che ieri al Tufello ha discusso un dossier sul debito del Campidoglio, invocando la necessità di «individuare quanta parte del debito si è formata allo scopo di assicurare diritti di cittadinanza e quanta parte, invece, sottende un vero e proprio trasferimento di reddito e di ricchezza alle istituzioni finanziarie». Se vincerà Raggi, se ne occuperà l’esperto che si sta cercando (si parla di un dirigente Consob).
Per ora la certezza nella squadra del governo romano a 5 Stelle è sempre solo una, e di peso: Paolo Berdini si occuperà di urbanistica e patrimonio. Si troverebbe a gestire anche la patata bollente dello stadio della Roma, edificazione che ieri Virginia Raggi parlando con gli imprenditori non ha escluso a priori: «Basta che sia compatibile con la legge e con il Piano regolatore», ha detto la candidata. La scelta di Berdini ha turbato la coscienza di Romafaschifo, il sito «anti-degrado» che da anni conduce battaglie securitarie a difesa del «decoro» prendendosela spesso e volentieri con migranti, spazi pubblici, centri sociali, che pure al primo turno aveva fatto endorsement per la candidata del Movimento 5 Stelle.
Alcune poltrone andranno a consiglieri comunali pentastellati al secondo mandato. Daniele Frongia è in lizza per la carica di vicesindaco. Marcello De Vito, il più votato dei M5S considerato vicino alla deputata Roberta Lombardi, potrebbe diventare anche il nuovo presidente dell’assemblea capitolina. Per i trasporti si fa il nome Marco Ponti, ex imprenditore e professore di economia applicata al Politecnico di Milano. Mancano ancora alcune caselle, che verranno riempite nel corso della prossima settimana. «Per la cultura, dopo il rifiuto di Tomaso Montanari la scelta potrebbe cadere su una donna», dicono sibillini dallo staff romano.