sabato 25 giugno 2016

il manifesto 24.6.16
Tsipras: «Colpa di austerity e muri»
Atene. Il leader greco punta il dito contro le politiche rigoriste e la gestione fallimentare della crisi dei rifugiati. Propone una nuova visione progressista «o sarà il baratro»
di Teodoro Andreadis Synghellakis

Alexis Tsipras dice con chiarezza che il processo di unificazione europea ha subito un duro colpo. Secondo il leader di Syriza, che ha parlato ai greci con un messaggio televisivo, il risultato emerso dal referendum britannico mostra che l’Europa sta affrontando una crisi di identità e anche una crisi più complessiva, di carattere strategico. Ritiene, in sostanza, che Bruxelles e alcuni grandi paesi dell’Unione non abbiano letto con l’attenzione necessaria i messaggi arrivati dall’aumento delle percentuali dei partiti nazionalistici e di estrema destra in Europa.
Secondo Tsipras «le scelte estreme dell’austerità hanno aumentato le differenze, tanto fra i paesi del Nord e del Sud Europa, quanto all’interno dei singoli stati membri». Dovrebbe iniziare, ora, un periodo di analisi, di assunzione di responsabilità e di ricostruzione. La Grecia, con il suo primo ministro, ricorda che siamo arrivati a questo punto anche «a causa di una gestione della crisi dei migranti à la carte, a causa della chiusura delle frontiere e di chi ha deciso di erigere muri invece di accogliere», invece di chiedere all’Europa una vera condivisione delle responsabilità. Atene sa benissimo – sulla sua pelle – che la crisi del debito è stata affrontata dando precedenza agli interessi nazionali e della finanza e non andando avanti tutti insieme, grazie a interventi realmente solidali, con la richiesta di riforme «umane», realmente sostenibili.
Proprio la Grecia, che lo scorso anno è stata stretta nell’angolo, costretta a firmare un accordo che contiene nuovi tagli, aumenti dell’Iva e che mantiene il totale della pressione fiscale a livelli troppo alti, questa Grecia segue ora gli sviluppi di Oltremanica con lo sguardo lucido di chi aveva profetizzato con saggezza, rimanendo inascoltato.
«Chi è responsabile per il rafforzamento dell’estrema destra e dei nazionalisti?», è la domanda che ha posto ieri Tsipras. Secondo il primo ministro di Syriza, la colpa è del deficit di democrazia, dell’imposizione ricattatoria di scelte antipopolari e ingiuste e degli stereotipi divisivi che descrivono il Nord Europa come produttivo e virtuoso e il Sud come scansafatiche. Ora, dopo la fase della denuncia, bisognerà vedere se l’Europa sarà capace di compiere qualche ulteriore passo, riconoscendo i propri errori e smettendo di scavare fossati. La Grecia, ovviamente, dice no all’isolazionismo nazionale che, secondo il governo guidato dalla sinistra, porta a un vicolo cieco.
Ad Atene, tuttavia, è chiaro che ci troviamo davanti all’ennesimo bivio, forse il più importante di tutti i precedenti incontrati nel corso del recente cammino europeo. Per dirla con le parole di Alexis Tsipras, « o il referendum britannico riuscirà a svegliare il sonnambulo che sta procedendo verso il vuoto, o sarà l’inizio di un percorso pieno di insidie per i popoli europei».
Il leader greco chiede un profondo cambio di rotta, con scelte che rafforzino il carattere democratico dell’Europa. Lo scopo, chiaramente, è riuscire a gettare delle nuove basi, cambiare molte delle politiche seguite sinora e porre un forte argine alle forze nazionaliste e ultraconservatrici. Il primo banco di prova, nei prossimi mesi, sarà la difesa dei diritti dei lavoratori da chi vorrebbe mettere definitivamente in soffitta i contratti collettivi di lavoro. Tsipras si oppone ed ha deciso di metterci la faccia.
il manifesto 25.6.16
«La working class si ritroverà beffata»
Intervista a John Dickie. «Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro - economicamente un ragionamento del tutto analfabeta»
di Leonardo Clausi

LONDRA Il professor John Dickie insegna Italian studies presso l’University College di Londra. È uno specialista dell’Italia riconosciuto a livello internazionale e i suoi libri sono stati tradotti in svariate lingue. Gli abbiamo chiesto una valutazione sugli eventi di ieri per i quali esprime subito «sgomento, sia a livello collettivo che personale, di studioso: lavoro in un dipartimento di lingue dove abbiamo il numero più alto di studenti dall’Ue. Per noi ci sono gravissime incertezze».
Non c’è stata una grave sottovalutazione dei possibili risultati durante la campagna?
Ci siamo fidati della City, che sembrava tranquilla. Ma si sono sbagliati pure loro. È un risultato in cui ci sono esigenze del tutto contraddittorie: da una parte ci sono i conservatori liberali che vorrebbero una Gran Bretagna aperta e libera e dall’altra parte il voto di una buona fetta di quelle che erano un tempo le roccaforti del laburismo: le zone deindustrializzate, che hanno interpretato il leave in senso opposto, cioè come modo per chiudersi, per fermare l’immigrazione e procurarsi maggiore accesso ai sussidi o forse anche solo vendicarsi. Perché c’è una metà di questo paese che non ha conosciuto i vantaggi della globalizzazione e dell’Ue.
Ma non è anche un voto concesso per beghe interne ai tories che attraverso l’errore tattico di Cameron sfascia due Unioni?
È vero. Ma anche Tony Blair ha fatto un errore tattico: quando fu eletto nel ’97 la prima volta, aveva la grande capacità di convincere proprio quell’elettorato laburista che ci ha mandato fuori dall’Europa. Voleva mettere la Gran Bretagna al centro dell’Europa e all’epoca gli si chiese se non voleva indire un referendum proprio per blindare questa proposta. Ebbene, scelse di non farlo. Indubbiamente questo è un voto popolare, e in quanto tale va rispettato. Dobbiamo guardare avanti.
Il paese è spaccato fra un ceto medio giovane globalizzato, prevalentemente londinese e nelle aree urbane, e il resto del paese di anziani e di una working class estromessi dalla narrativa dominante.
Si è parlato di una frattura fra élite e popolo, me se fosse così avremmo un’élite del 48%: dunque non dobbiamo concedere troppo a questa retorica populista. Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro – economicamente un ragionamento del tutto analfabeta. Per loro è stato un gesto senza costi politici e infatti ora stanno facendo marcia indietro. Proprio quell’elettorato a cui si sono rivolti è un elettorato laburista. Con il nostro sistema uninominale conta la concentrazione territoriale del voto e dunque i tories euroscettici possono dimenticarsi tranquillamente di questa working class che si ritroverà beffata nuovamente, con esiti difficilmente prevedibili.
Il paese dall’assetto sociale più solido dell’occidente, mai sconfitto, mai rivoluzionato, mai investito da fascismi o marxismi che diventa il laboratorio sociale dell’instabilità europea?
Vediamo quanto dura questa crisi. Ma ce ne sono varie. Quella costituzionale, per la possibilità che la Scozia se ne vada e che alzi una frontiera con l’Inghilterra mai esistita. Stessa cosa con l’Irlanda del nord. Poi ce n’è una politica. I tories hanno una maggioranza di deputati a favore del remain e dovranno regolare questa difficilissima transizione con una maggioranza che non voleva il leave. Dunque i tories anche se sono avvantaggiati sono spaesati, mentre il Labour sta candendo a pezzi. Ha una voragine che lo separa proprio dalla propria vecchia base che ha votato leave. Ci sono stati sondaggi incredibili durante la campagna secondo cui il 50% dell’elettorato laburista credeva che il partito e Corbyn fossero per il leave. Credo sia dovuto a incompetenza politica, una situazione dalla quale è difficile riprendersi.
Ma entrambi i leader dei due maggiori partiti sono in fondo euroscettici. Lo è Cameron che viene da un partito che ha l’euroscetticismo nel proprio Dna e lo era anche il labour pre-Blair da cui discende Corbyn… chi ora vuole abbattere Corbyn non lo fa per allontanare da sé la responsabilità di questo scollamento dall’elettorato?
È vero. Questo allontanamento del Labour dalla propria base elettorale è andato crescendo nel tempo ed è di vecchia data. Ha lasciato i perdenti al di fuori della modernizzazione e non l’ha inventato Corbyn. Che ora sarà difficile da rimuovere dal suo posto, visto che ha la base dalla sua parte. Sarà interessante vedere come reagirà a questo shock una base che è molto concentrata a Londra e filo-Ue, se sarà in grado di scuotere la credibilità di Corbyn. Il problema dell’immigrazione è una soluzione immaginaria a problemi reali e ha catturato la fantasia dell’elettorato popolare del centro e del Nord. Le ironie si sovrappongono, perché il voto per il leave si è concentrato in zone dopotutto a bassa immigrazione mentre è il contrario per il remain, impostosi a Londra dove ce ne sono molti. Se Corbyn propone vecchie soluzioni anni Settanta che per carità hanno un aspetto di validità, protezione del lavoro e della spesa pubblica, questo elettorato non le accoglierà perché se avesse sentito un discorso più economico pro-Ue avrebbe votato a favore del remain. Per cui ora temo una deriva populista, vedo l’elettorato di Trump del futuro.
il manifesto 24.6.16
Raggi, primo impegno: «Rafforzerò i centri contro la violenza sulle donne»
Campidoglio. La neo-sindaca di Roma riceve il movimento contro la violenza maschile sulle donne e a difesa dei centri-antiviolenza a rischio sfratto «Io Decido»: «Voglio rafforzare e incrementare gli sportelli aprendo percorsi di prevenzione sul piano sociale»
di Roberto Ciccarelli

ROMA Cinque giorni dopo l’elezione della prima sindaca della Capitale, e a due dall’insediamento di Virginia Raggi (Movimento Cinque Stelle), la prima manifestazione l’hanno fatta le donne della rete «Io Decido» in lotta contro la chiusura dei centri antiviolenza a Roma. Nati per tutelare e difendere le donne colpite da abusi, violenze e maltrattamenti, tra fine giugno e fine luglio saranno chiusi perché il comune commissariato – e alcuni municipi – si sono rifiutati di rinnovare le convenzioni e di rifare i bandi di assegnazione delle strutture. Violando la delibera 26 di epoca Rutelli, i commissari hanno imposto il pagamento dei canoni di affitti a prezzo di mercato chiedendo cifre astronomiche.
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Campidoglio, la manifestazione della rete “Io Decido” per i centri-antiviolenza a Roma, foto Attilio Cristini
Risultato: un servizio essenziale sarà chiuso perché mancano le direttive attuative del decreto legislativo 50 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione e sugli appalti pubblici. Tutto questo mentre 55 donne sono state uccide da mariti, compagni, figli o conviventi solo nei primi mesi del 2016 ed è ancora in vigore la decisione dei commissari che hanno lasciato da poche ore il Campidoglio di sgomberare 860 spazi sociali – tra i quali ci sono molte associazioni che svolgono servizi di cura alla persona – per rimetterli sul mercato come previsto dalla delibera 140 approvata dalla giunta di centro-sinistra Marino.
La liquidazione burocratica di questi servizi essenziali colpirà, tra pochi giorni, almeno nove centri attivi su 18. Si tratta di strutture rinomate come SosDonna h24 (che chiuderà lunedì); il centro dedicato alla memoria di Donatella Colasanti e Maria Rosaria Lopez, vittime delle violenze del Circeo nel 1975; La casa internazionale dei diritti umani delle donne, il Ceis-Don Picchi , e poi il centro Dalia, Ad Solei, Lucha Y Siesta, Cagne sciolte e lo sportello «Una stanza tutta per sé».
Il movimento ha chiesto un incontro alla neo-sindaca Raggi e, dopo ore passate in una canicola, l’ha ottenuto. Una delegazione composta da sei donne è stata ricevuta. La piattaforma di «Io Decido» è più ampia. Formulata in un’assemblea del 16 giugno, rivendica l’apertura di servizi antiviolenza in ogni municipio, obiettivo fondamentale in una città sconvolta dal blocco totale del welfare e della vita civile voluto dal regime commissariale che ha così pensato di rimediare alla corruzione prodotta dai bandi e dalle gare truccate nei servizi dal sistema di «Mafia Capitale». Il blocco sta invece provocando la liquidazione del welfare autogestito che supplisce alle carenze del pubblico in una città di 3 milioni di abitanti. Il movimento delle donne prepara una manifestazione nazionale contro la violenza maschile il prossimo 25 novembre.
«A fronte di tanti femminicidi ci troviamo di fronte ad un vero e proprio attacco da parte del Comune di Roma che sta inviando alle associazioni lettere per riappropriarsi di beni che ci hanno assegnato per la nostra funzione sociale. noi paghiamo 220 euro di affitto al mese e ne vogliono mille. Dal 2012, per un totale di circa 40mila euro» sostiene Dalila Novelli, presidente onoraria di Assolei operativa dal 1993. Questo caso è esemplificativo della situazione di progressiva privatizzazione dei servizi e della desertificazione sociale in atto nella Capitale.
Problemi intricati e stratificati che hanno mobilitato la parte più attiva della città alla quale ieri Virginia Raggi ha mandato un messaggio abile: si è impegnata nella salvaguardia dei centri che, ha detto alla delegazione, considera «prioritari e fondamentali».
Per le scadenze immediate ha chiesto di conoscerli per analizzarli nelle prossime ore. «È mia intenzione rafforzare e incrementare gli sportelli antiviolenza aprendo, al contempo, percorsi di prevenzione sul piano sociale» ha detto. «La Raggi è stata brava. Ha dimostrato di conoscere bene la situazione – hanno commentato le attiviste ricevute in delegazione – Non ha fatto promesse impossibili ed ha detto una cosa chiara: i centri antiviolenza non vanno chiusi».
Il Sole 25.6.16
Referendum costituzionale, dopo Brexit il nodo delle dimissioni di Renzi e del piano B
di Lina Palmerini

Dopo Brexit il referendum costituzionale prende una nuova traiettoria. Il rischio della sconfitta trasforma l’Italia nella prossima mina vagante per l’Europa e su Renzi ricade il peso di un destino non più solo nazionale. Da un lato il premier è più obbligato di ieri a vincere il referendum e dall’altro è costretto a riformulare l’ipotesi di dimissioni.
Quella che era una forte arma di pressione sulla vittoria dei sì, nella realtà, viene smontata da Brexit perché l’Italia non può più permettersi salti nel buio, per sé e per la tenuta dell’Unione. Non è più il tempo in cui Renzi può minacciare l’abbandono, lasciare il Governo senza che si sappia cosa accadrà il giorno dopo. Non lo consente l’alto debito pubblico, non la condizione assai complicata delle banche italiane, non i pericoli che correrebbe la moneta unica. Il crollo delle Borsa di ieri è un assaggio. Soprattutto dopo l’esperienza del 2011, è chiaro che in questi mesi – in Italia e fuori - si disegnerà un piano B per mettere in sicurezza le istituzioni e la finanza pubblica. Il punto è se Renzi vorrà partecipare - e collaborare - a costruire una via d’uscita in caso di sconfitta o se sarà scavalcato.
Queste infatti sono le situazioni in cui la politica italiana comincia a muoversi, incresparsi, prendere forme inattese: nel Pd si cominciano ad aprire discussioni interne sulle varie opzioni – dal voto a governi tecnici - e se ne parla tra le opposizioni. Ciascuno farà il tifo per il suo scenario ma è il premier che dovrà decidere se cercare di tenere in mano il pallino del gioco o restare sulla minaccia del salto nel buio. Questo è il cambio di schema dopo Brexit.
E’ chiaro che la spinta sarà vincere il referendum. E su questo primo scenario avrà un sostegno ai massimi livelli europei e non. Anche perché è una vittoria che avrà un peso vitale per l’Italia e sulla sua reputazione di essere “riformabile”. Ma, accanto a questo impegno si affianca quello di costruire anche lo scenario della sconfitta che Renzi pensava di poter sbrigare con il suo addio alla politica. Era il dicembre scorso quando nella conferenza stampa di fine anno mise sul piatto il suo azzardo più grande. Se non vinco lascio il Governo e la politica, disse. E la sfida fu declinata tutta in chiave di responsabilità personale, la presa d’atto necessaria di non avere dietro di sé un popolo in quella che è stata la riforma per eccellenza del suo Esecutivo. Bene da ieri è cambiato tutto il contesto e in modo drammatico.
L’uscita della Gran Bretagna mette l’Europa e la moneta unica su un crinale rischioso ma l’Italia, con il suo appuntamento d’ottobre, rischia perfino di buttarle nel burrone. Ecco perché oggi quella promessa di dimissioni va riformulata in un quadro istituzionale di maggiore protezione e garanzia sul dopo. Non possono più essere un gesto di responsabilità politica personale, così come le ha impostate lui, perché la responsabilità - a questo punto - si espande e varca i nostri confini. E da oggi il premier sarà obbligato a lavorare non solo sulla vittoria - più indispensabile di ieri - ma anche su un percorso che non lasci Governo e Parlamento in balia dell’incertezza. Di questo passaggio sarà chiamato a renderne conto alle massime istituzioni italiane ed europee. E su questa ipotesi si muoverà la politica italiana in questa estate prima del referendum.
Repubblica 25.6.16
Quell’opera d’arte che ha il nome di Costituzione
di Antonio Pinelli

Il saggio di Ainis e Sgarbi sui rapporti tra la nostra Carta e la bellezza
All’ampio ventaglio di pubblicazioni sulla nostra Costituzione, nate dalla “battaglia” che si concluderà a ottobre con il referendum, si aggiunge un elegante ed eccentrico volume riccamente illustrato, in cui un noto costituzionalista, Michele Ainis, e un arcinoto storico dell’arte, Vittorio Sgarbi, intessono un appassionato commento a due voci della nostra Carta, nell’intento di sviscerarne i significati normativi, ma al contempo di illustrarne la fitta trama di rimandi alla storia dell’arte e della cultura che rispecchiano il peculiare rapporto tra il nostro Paese e il culto (ma anche la produzione e la tutela) del Bello (Michele Ainis e Vittorio Sgarbi, La Costituzione e la Bellezza, La nave di Teseo, pagg. 346, euro 22).
Ai due autori non interessa schierarsi per il sì o per il no al quesito referendario di ottobre: Ainis, anzi, insiste sulla chiarezza, sobrietà ed esattezza lessicale del testo costituzionale, ottenuta grazie alla limatura stilistica di letterati del calibro di Concetto Marchesi, Pietro Pancrazi e Antonio Baldini.
Il volume affronta, articolo per articolo, solo la prima parte della Costituzione, quella che non viene toccata dalle modifiche in corso, ma se mai si richiama a un emendamento avanzato tempo fa da Serena Pellegrino, vicepresidente della Commissione all’Ambiente, che chiede di aggiungere al testo dell’art.1 «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro » il comma: «La Repubblica italiana riconosce la bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale, la conserva, la tutela e la promuove in tutte le sue forme materiali e immateriali: storiche, artistiche, culturali, paesaggistiche e naturali».
Anche se sono affezionato alla matrice ideologica di questa rivendicazione dell’”unicità” del Bel Paese, che affonda le radici in un libello antigiacobino di Quatremère de Quincy, di cui si servì Antonio Canova per far rientrare in Italia i capolavori razziati da Napoleone, ritengo che oggi sia rischiosa l’enfatizzazione che deriverebbe da questo emendamento (l’orizzonte estetico di Quatremère era, del resto, quello neoclassico; nell’era di Internet, tutela e sviluppo devono poter contare sulla pianificazione del territorio coniugata all’archeologia predittiva e alle ricostruzioni digitali).
La peculiarità del caso Italia è perfettamente salvaguardata dall’art.9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Il commento di Ainis a ogni singolo articolo, risultando illuminante nel chiarire la ratio giuridica e la matrice ideologica dei padri costituenti sfoggia talvolta una densità concettuale e una complessità di riferimenti degne dei migliori commentatori della Commedia dantesca. Come quando intraprende l’impresa di ricostruire la struttura aritmetica della Carta, calcolando il numero degli articoli, delle disposizioni transitorie e perfino la media dei commi per ogni articolo, con l’intento di rivelarne l’occulta radice musicale che la governerebbe. Sgarbi, dal canto suo, s’impegna generosamente nel chiosare i commenti del coautore anche sul piano giuridico, non rinunciando a denunciare l’anacronismo, rispetto ai nuovi e più liberi costumi, della famiglia intesa come società naturale, o a rilevare la problematicità della normativa sull’obbligatorietà del trattamento sanitario, di fronte all’eventuale rifiuto opposto da malati terminali. Non è un modello di sobrietà stilistica, ma non indulge nello stile da talk show con cui è spesso protagonista in tv e dà il meglio di sé nell’illustrare adeguatamente ogni articolo, attingendo al fornito arsenale della storia dell’arte nostrana, anche se non mancano le stravaganze (come la proposta di sostituire il tricolore con un capolavoro di Piero della Francesca), o le esternazioni contro l’architettura contemporanea, seppure a volte condivisibili, come nel caso, davvero deprecabile, del grattacielo di Fuksas in costruzione a Torino.
IL LIBRO La Costituzione e la Bellezza di Michele Ainis e Vittorio Sgarbi (La nave di Teseo pagg. 346, euro 22)
l’illustrazione Amore e Psiche, di Antonio Canova
Repubblica 25.6.16
La missione di Gide non rinunciare mai al coraggio di vivere
L’adesione al marxismo. L’opposizione a Stalin L’omosessualità dichiarata. Nei monumentali “Diari” dello scrittore la disciplina di un intellettuale
di Valerio Magrelli

Innanzitutto, onore alla Bompiani, un editore che, di questi tempi, osa pubblicare il “Diario” di André Gide in due tomi. Un’impresa del genere, inoltre, ha l’ardire di presentarsi armata di un imponente apparato critico. Curata da Piero Gelli (che firma la prefazione e i bei medaglioni sugli “Amici di Gide”), tradotta da Sergio Arecco, aperta da una Cronologia, l’opera segue l’edizione stabilita per la collana Pléiade da Éric Marty e Martine Sagaert (che introducono il primo e il secondo libro), recuperando molto materiale inedito e integrandolo con alcuni scritti
autobiografici. Ciò premesso, come affrontare l’immenso Journal dello scrittore che vinse il Premio Nobel 1947?
Sulle oltre tremila pagine del testo ci restano giudizi impressionanti. Albert Camus: «Il segreto di Gide è di non aver mai perduto, in mezzo a tutti i suoi dubbi, la fierezza d’essere uomo»; Ernest Jünger: «Io credo che il Diario sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca»; Alberto Moravia: «Forse il meglio del libro sta in quel continuo andar contro se stesso e contraddirsi dell’autore».
Il che dimostra come il Diario rappresenti l’opera “capitale” di colui che fu appunto definito il “contemporaneo capitale”, ossia l’autore più influente della prima metà del Novecento. Influente al punto che, quando lo intervistò nel 1928, Walter Benjamin lo paragonò a Wilde e Nietzsche: «Non c’è scrittore in cui energia produttiva ed energia critica siano state più strettamente legate che in lui». Strano ribaltamento, quello che vede Benjamin, considerato oggi fra i massimi pensatori del secolo scorso, accostarsi riverente a un romanziere quasi dimenticato. Infatti il punto è questo: perché mai, anche se nessuno oserebbe collocarlo all’altezza di un Proust o di un Céline, Gide resta imprescindibile?
Secondo Gianfranco Rubino, ciò è dipeso dalla pluralità di aspetti della sua personalità: narratore, saggista, diarista, autobiografo, perfino drammaturgo e infine mentore della Nouvelle Revue Française, il gruppo che svolse un ruolo chiave nella fisionomia nel Novecento. Insomma, a sancire il successo della produzione gidiana non è stato solo il valore estetico, ma anche la suggestione di un messaggio scandaloso, irriverente e liberatorio, teso verso «una decostruzione critica dei valori religiosi, etici, culturali, sociali comunemente ammessi e riveriti». Dunque, se negli anni del Nouveau roman lo scrittore venne ammirato come precursore del metaromanzo o dell’antiromanzo, a ben vedere il suo lascito oltrepassa la sfera estetica, per acquisire una dimensione morale e testimoniale. Possiamo allora intendere Gide come Pasolini?
Difficile arrivare a tanto. Come conciliare l’appartenenza a un’austera famiglia protestante, con il cattolicesimo dell’italiano? Come confrontare una vita di agi, all’estrema miseria vissuta a lungo dal regista di Accattone? Come avvicinare un’onorata vecchiaia, all’atroce omicidio di Ostia? In ogni caso, rimane il fat- to che pochi intellettuali ebbero un’audacia paragonabile a quella dello scrittore francese. E bene fa Gelli a indicare in lui il primo letterato capace proclamare la propria omosessualità come non aveva osato fare neppure Wilde, denunciare gli orrori del colonialismo in Africa e infine a rivelare i danni del comunismo sovietico (proprio lui, che dei valori comunisti era diventato la bandiera).
Tra esitazioni e contraddizioni, Gide dipingeva se stesso come una di «quelle creature che non possono crescere senza metamorfosi successive». Logico quindi attirarsi accuse di superficialità o eclettismo. «Il suo è uno spirito distaccato», notava Jacques Rivière, «che non si ferma su alcun possesso. Dà la propria adesione come si dà un bacio; un attimo dopo è pronto a ritirarla». Niente di più vero, e insieme di profondamente ingiusto. Poiché se Gide cambiò idea su molte cose, fu sempre nella direzione meno comoda, e il Diario lo dimostra di continuo. Inutile provare a svalutare il suo ardimento, attribuendolo ai capricci di un ricco alto-borghese. Anche se in forme velate, le sue crociate umanitarie iniziano molto presto, nel 1897, con il messaggio di liberazione lanciato dai Nutrimenti Terrestri («Famiglie, vi odio!»), poi, nel 1914, con la critica del sistema giudiziario affidata ai Ricordi della Corte d’Assise. Arriviamo così al Viaggio in Congo del 1917.
Impossibile liquidare un’esperienza come quella da cui nacque un libro simile, sorta di autentico
Bildungsroman. Per un autore di quell’epoca, cinquantenne, benestante e di successo, lasciare Parigi seguendo una spedizione di un anno in Africa equatoriale, non era cosa da poco, e infatti quel soggiorno lo condusse alla conquista di una nuova coscienza politica. Dal suo iniziale, ingenuo contatto con i misfatti del capitalismo, l’intellettuale mosse i primi passi verso la fede marxista. Come sottolineò Franco Fortini, il raffinato dilettante finì per imbattersi non soltanto nel compito di formulare una verità scabrosa, quanto in quello di trasmetterla a un gran numero di destinatari. A tutto ciò corrispose la trasformazione del diario di viaggio, che divenne documento pubblico: «Quale demone mi ha spinto in Africa? Ero tranquillo. Adesso invece so: devo parlare».
E più tardi, fu con lo stesso spirito, che rifiutò di fermarsi sulle proprie convinzioni, di ricevere gli infiniti omaggi dovuti alla sua nuova scelta di campo. Ormai era diventato un simbolo della sinistra. Nel giugno 1935 a Parigi, fu designato presidente d’onore del 1º Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura, davanti a 230 delegati, tra cui Aragon, Babel’, Brecht, Breton, Huxley, Malraux, Klaus e Heinrich Mann, Musil, Nizan, Pasternak, Salvemini e Tzara. Era questa la fama di Gide, quando, tornato dall’Urss, decise di rimettere tutto in questione, per criticare con forza il totalitarismo russo. Combattendo ogni tipo di ipocrisia, il romanziere, leggiamo nel Diario, non esitò ad affrontare la deprecazione pubblica in nome della propria verità.
Lo sterminato Journal parla di molte altre cose: amicizie e inimicizie, amori, letteratura e musica. Tuttavia, il filo conduttore rimane lo strenuo, indefesso processo di autoeducazione perseguito come una missione.
IL LIBRO Il Diario di André Gide esce da Bompiani in due volumi a cura di Piero Gelli e traduzione di Sergio Arecco ( Vol. I, 1887- 1925, pagg. 1558, euro 65; Vol. II, 1926- 1950, pagg. 1568, euro 60)
Corriere 25.6.16
La rivoluzione iraniana religione e nazionalismo
risponde Sergio Romano

I cittadini comuni conoscono poco o niente delle origini delle crisi iraniane del passato e del presente. Nei primissimi anni 50, con Mossadeq al potere, gli Usa entrarono pesantemente in scena cambiando la politica iraniana da filorussa in filoamericana. Sappiamo dello scià che da burattino sapientemente guidato volle emanciparsi e infine si bruciò con l’avvento di Khomeini. Come andarono effettivamente
i fatti? Possiamo ancora una volta dare la colpa al capitalismo e alla cultura occidentale che lo scià volle imporre?
Nerio Fornasier

Caro Fornasier,
Le rivoluzioni sono generalmente il risultato di guerre perdute o grande malessere sociale. Quella iraniana del 1979, invece, fu paradossalmente dovuta allo straordinario arricchimento del Paese negli anni precedenti. La guerra arabo-israeliana del 1973 ebbe per effetto una forte impennata del prezzo del petrolio da cui trassero enorme vantaggio tutti i Paesi produttori. A Teheran, per lo scià Reza Pahlevi, quella fu l’occasione per un gigantesco e dispendioso programma di modernizzazione. Furono costruiti nuovi porti e nuove strade. Furono firmati contratti con ditte straniere (molte erano italiane) per la fornitura di elicotteri, macchine utensili, armamenti, beni di lusso e di consumo.
Questa pioggia di denaro regalò ricchezza al mondo degli affari, ma creò anche forti scompensi sociali, inflazione e un tasso di corruzione molto più alto di quello che distingue generalmente i Paesi del Medio Oriente. La protesta cominciò nelle moschee e nelle piazze, si estese gradualmente all’intero territorio. La repressione delle forze dell’ordine e della polizia segreta la rese ancora più aspra e diffusa. A Teheran non esistevano uomini capaci di assumerne la guida, ma alla periferia di Parigi, in esilio, vi era un venerato ayatollah, autore di prediche registrate su videocassette che circolavano clandestinamente nella società iraniana. Quando lasciò Parigi per ritornare in patria, nel febbraio 1979, il vecchio Ruhollah Khomeini trovò all’aeroporto di Teheran tre milioni di connazionali. Due settimane prima lo scià, sconfitto e malato, aveva lasciato il suo Paese per cercare riparo in Egitto, dove morirà un anno dopo.
Caduta nelle mani degli ayatollah, la rivoluzione fu anzitutto religiosa e bigotta, ma anche nazionalista. In entrambi i casi il nemico era l’America. Per il clero, gli Stati Uniti erano il Paese che incarnava la modernità in tutte le sue demoniache manifestazioni, fra cui la licenziosità dei costumi. Per i nazionalisti era il Paese che aveva organizzato, insieme alla Gran Bretagna, il colpo di Stato del 1953 contro il governo di Mohammed Mossadeq e si era servito dello scià per fare dell’Iran una pedina geopolitica della propria strategia asiatica. Il risultato di questo clima antiamericano fu l’occupazione dell’ambasciata degli Stati Uniti nel novembre del 1979 e la detenzione di 52 impiegati che furono considerati merce di scambio contro le sanzioni finanziarie decretate da Washington, fra cui il congelamento di 11 miliardi di dollari dell’Iran depositati in banche americane. Dopo 444 giorni di prigionia e un tentativo di liberazione clamorosamente fallito nell’aprile del 1980, gli ostaggi furono restituiti all’inizio della presidenza Reagan. Una parte dei fondi iraniani in America, nel frattempo, era stata scongelata.
Corriere 25.6.16
E gli italiani portarono alla luce lo splendore sepolto dai secoli
di Paolo Conti

Il legame tra l’Italia e Persepoli è antichissimo e consolidato. Si deve a un italiano, il napoletano Luigi Pesce, arrivato in Iran nel 1853 come ufficiale istruttore dell’esercito dello scià Naseroddin della dinastia Qajara, la prima campagna di rilevamento fotografico dell’area archeologica.
Pesce fece foto tra il 1857 e il 1858, donando allo Scià tutto l’album che includeva anche immagini di Pasargadae, la prima capitale dell’impero achemenide fondata da Ciro il Grande, e di Naqsh-e Rosdam, l’altro sito archeologico a 12 chilometri da Persepoli. Quelle foto tuttora costituiscono un punto di riferimento per gli studi su Persepoli e rappresentano le fondamenta del lungo e profondo rapporto tra gli studiosi italiani di archeologia e i loro colleghi iraniani.
Un legame che prospera tuttora, come conferma il professor Carlo Giovanni Cereti, docente di Iranistica all’Università romana de «La Sapienza» e consigliere culturale dell’ambasciata italiana a Teheran: «Dagli anni Duemila lavora assiduamente a Persepoli la missione dell’Università di Bologna guidata dal professor Pierfrancesco Callieri che agisce accanto al professor Alireza Askari Chaverdi, dell’Università di Shiraz. Nella tradizione diplomatica culturale italiana, progetti importanti come questo prevedono una intesa paritaria e una direzione scientifica congiunta. È una metodologia che ci consente di organizzare mostre, come quella di Aquileia, in vista di future rassegne che l’Italia proporrà in Iran».
Il professor Cereti conferma ciò che, nel mondo accademico, è opinione diffusa: «L’Italia viene percepita, non solo in Iran ma in tutti i Paesi dotati di un retaggio storico, come una vera potenza culturale per le conoscenze che ha nel campo prima di tutto del restauro e delle sue tecniche, della tutela e della legislazione del settore, della stessa gestione dei beni. Non solo dunque per gli studi scientifici ma per un approccio complessivo verso il Patrimonio».
In Iran, spiega sempre il professor Cereti, agiscono sette diverse missioni archeologiche e culturali che dipendono o direttamente dal ministero per i Beni e le attività culturali o da singole università, come appunto quella di Bologna, o «La Sapienza» di Roma, o «L’Orientale» di Napoli. Un altro accordo, stavolta proprio del ministero, è destinato a studiare la pietra di Pasargadae, un’analisi preliminare in vista di futuri restauri, in particolare sulla figura del genio alato: un bassorilievo, spiega Cereti, «che riveste una fondamentale importanza per numerose ragioni storico-culturali». Un flusso di intese che non si interrompe ma aumenta, così come il turismo culturale italiano in Iran. Dice Cereti: «Non ho cifre precise, ma è ben percepibile un aumento sostanzioso legato soprattutto ai tesori culturali iraniani».
La principale presenza italiana a Persepoli è quella legata, tra il 1964 e il 1979 (l’anno della rivoluzione Khomeinista che interruppe un lungo periodo di scavi e studi) all’attività dell’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo Oriente, l’IsMEO, per iniziativa del grande studioso e viaggiatore Giuseppe Tucci con il contributo specialistico di personaggi del calibro di Guglielmo De Angelis D’Ossat, Giuseppe Zander e Domenico Faccenna. Altre due figure famosissime in quegli anni furono i coniugi Tilia: ovvero Giuseppe Tilia, direttore dei lavori dal 1965 al 1979, e sua moglie Ann Britt Petterson Tilia, che seguì l’indagine archeologica curando la pubblicazione dei risultati scientifici dei lavori di studio e documentazione preliminari ai restauri. Gli iraniani riconoscono che si deve a Giuseppe Tilia una particolare metodologia di intervento per i monumenti della Terrazza di Persepoli utilizzata poi da una nuova generazione di restauratori iraniani formati alla scuola italiana e che continuò a lavorare anche dopo il 1979. Una storia che prosegue.
Corriere 25.6.16
Rinascita di un impero
La gloria di Persepoli, una città-teatro sopravvissuta alle conquiste e all’obliodi Viviana Mazza

«Questa mostra è una novità assoluta per l’Italia», commenta Giovanni Curatola, professore di Archeologia e Storia dell’arte musulmana all’Università di Udine. Venticinque opere provenienti dal Museo archeologico di Teheran e da Persepoli saranno ospitate al Museo archeologico nazionale di Aquileia. La mostra Leoni e tori. Dall’antica Persia ad Aquileia è dedicata alle dinastie achemenide e sasanide che regnarono dal VI secolo a.C. al VII secolo d.C.
Solo una volta dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 c’è stata in Italia una mostra sull’antica Persia, con 177 pezzi esposti a Roma. Era il 2001, venne Mohammad Khatami: prima visita in un Paese occidentale di un presidente della Repubblica Islamica. Quest’anno Hassan Rouhani ha ripetuto il viaggio, dopo l’accordo nucleare con l’Occidente e la fine delle sanzioni. E così torna l’arte persiana «anche se, da un punto di vista culturale e archeologico — nota Curatola — una chiusura netta non c’è mai stata».
Almeno un pezzo è comune alle due mostre: una base composta da tre leoni in bronzo proveniente da Persepoli, forse destinata a sostenere un braciere. Curatola si augura che la prossima volta arrivino pure opere d’arte islamica, «perché anch’essa ha avuto un apporto storico decisivo».
Il tema che lega bracciali, pugnali, lamine, capitelli in mostra sono le forme del leone e del toro. Ci sono a Persepoli 27 scene di lotta tra questi animali, scrive nel catalogo l’iranista Carlo Cereti, attaché culturale dell’ambasciata italiana. «Non c’è concordia sull’interpretazione: raffigurazione astrale del Nouruz, il capodanno iranico, che cade il giorno dell’equinozio di primavera? Simbolo dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce diurna e le tenebre notturne? O semplice rappresentazione del potere del sovrano, identificato con il leone?».
È interessante comunque — osserva Curatola — che «nel discorso del mondo zoroastriano, questa è una lotta sanguinaria che si rinnova sempre. Il leone abbatte il toro, le cui corna ricordano il crescente lunare, ma non si tratta di una sconfitta assoluta, è un ciclo. Il Bene prevale, ma il Male non viene del tutto annientato».
Persepoli è dedicata alla celebrazione dell’impero, «è una parata del 2 giugno permanente», spiega Curatola. E fu distrutta da Alessandro Magno nel 330 a.C. «Nella sala delle cento colonne, fu trovato un metro di cenere. Noi conserviamo l’ossatura di Persepoli ma le rifiniture in legno, gli arazzi, i tappeti, tutto è scomparso. Ci fu un saccheggio spaventoso in questo luogo, che, secondo gli specialisti, non è una città ma un teatro. Le città erano Susa, Ecbatana, Pasargade. Persepoli invece era una vetrina rispetto agli altri popoli. Sull’Apadana si svolgevano la cerimonia del Nouruz e altre feste. Arrivavano le delegazioni a deporre omaggi. Il momento della celebrazione del potere coincideva con il patto con la divinità solare, della primavera e del rinnovamento, nell’ideologia zoroastriana». La costruzione iniziò nel 520 a.C. sotto Dario I: nelle tavolette ritrovate, sottolinea di averla edificata con i materiali migliori d’ogni parte dell’impero, dalle coste del Mediterraneo al subcontinente indiano. Sembra che tutta la manodopera fosse altamente specializzata: anche i capitelli, benché collocati a 30 metri d’altezza, sono lavorati con precisione assoluta.
Un frammento di capitello achemenide mostra un volto umano con tratti taurini. La barba è resa con un motivo a piccole spirali e sulla testa porta una corona con una fascia a tre, entrambi tratti assiro-babilonesi. «L’arte persiana pescava da elementi artistici limitrofi, assiri ma anche egiziani — spiega Curatola —. D’altronde questa civiltà si trovava in una zona di cerniera e nasce policentrica. Si rifà a ciò che c’era prima e sarà importante per ciò che venne dopo. Il dittatore iracheno Saddam Hussein riprenderà il motivo della corona assiro-babilonese, facendo passare in maniera subliminale l’idea di continuità. L’ultimo Scià di Persia, Reza Pahlavi, 2.500 anni dopo Ciro, scelse Persepoli per riallacciarsi alla gloria del passato».
In mostra ci sono pezzi d’epoca sasanide (l’ultimo impero iranico prima della conquista islamica) come un piatto d’argento che raffigura una scena di caccia al leone. «I Sasanidi — nota Curatola — si rifanno al mondo achemenide, mentre distrussero ogni segno dei 4 secoli di dominazione dei Parti. Una damnatio memoriae . Anche durante la rivoluzione di Khomeini, si sparse la voce che un gruppo di Pasdaran era a Persepoli ritenendolo un luogo pagano da distruggere, ma gli operai iraniani difesero il sito. Passato quel momento di fanatismo, non è successo niente».
Corriere 25.6.16
L’ansia che fa bene
di Maria Teresa Veneziani

Tempo di permanenza 25 secondi, poi abbandoniamo quello che stiamo leggendo sul web e passiamo ad altro; 5 i secondi per un video. L’ansia continua a mordere e travolge anche i sistemi di comunicazione oltre a condizionare le nostre vite. L’ansia è l’emozione che influenza l’esistenza, più dell’amore, come ricorda Joseph LeDoux, famoso neuroscienziato americano, nel suo nuovo saggio Ansia : come il cervello ci aiuta a capirla (Raffaello Cortina ed.). L’ansia è il problema psicologico più diffuso: ne soffre una persona su cinque, ci ricorda il libro, ma non è soltanto un valore negativo. È una condizione fisiologica normale: attiva le nostre risorse per poter affrontare le situazioni difficili nel migliore dei modi. Tutti siamo esposti nell’ «età dell’ansia », come già la definì nel 1948 il poeta Wystan Auden.
«Le ultime ricerche hanno rivalutato l’ansia mettendone in evidenza anche gli aspetti positivi — interviene il professor Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli—Sacco di Milano. Non va associata soltanto a quella preoccupazione che ci disturba quando dobbiamo affrontare qualcosa di impegnativo o che ci agita quando temiamo possa accadere qualcosa di negativo».
Un giusto livello di stress può aiutarci a lavorare meglio e a pensare più velocemente e in modo più efficace, così come migliorare le prestazioni, soprattutto durante gli esami: sono anche le conclusioni del quotidiano inglese Guardian che ha condotto un’inchiesta sullo stato crescente di ansia tra le adolescenti dovuto all’esposizione del loro corpo sui social network e al confronto vissuto dalla solitudine della cameretta. «Si tratta di quel valore adattivo che accende e attiva le performance fisiologiche e soprattutto cognitive. Ma il livello di intensità e il perdurare dell’angoscia – come accade con la febbre – deve rimanere entro livelli di normalità», avverte Mencacci.
«L’ansia fa parte della vita: c’è sempre qualcosa di cui preoccuparsi, avere timore, agitarsi o stressarsi. È normale. Ma non siamo tutti ansiosi nella stessa misura — rassicura LeDoux, direttore del Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety della New York University —. Alcune persone sono ipersensibili e si preoccupano di tutto, altre sono fredde come il ghiaccio e sembrano prendere tutto con distacco. Mia madre era ansiosa. Non in modo esagerato, ma capitava che fosse preoccupata e inquieta. A volte si lamentava di aver passato la notte insonne, e ne aveva motivo. Mio padre era più sereno; era il tipo d’uomo che sapeva mettersi alle spalle le giornate e addormentarsi subito dopo aver posato la testa sul cuscino. Se lei non si fosse preoccupata, la loro attività, un negozio a conduzione familiare, non avrebbe certo prosperato. Era lei che faceva funzionare tutto. Sia al lavoro sia a casa. E per quanto fosse amorevole e gentile, a volte la pressione si faceva sentire. Il mio temperamento è intermedio tra loro, e quando sento che lo stress della vita quotidiana mi spinge verso uno stato di ansia e preoccupazione, cerco di sfruttare quel po’ di carattere di mio che padre che ho per bilanciare le cose. Ma è una misura temporanea e tendo a tornare abbastanza rapidamente me stesso, con il mio livello di ansia». Ecco il segreto: cercare di capire i meccanismi e le radici profonde dell’emozione negativa, per addomesticarla, invece di volerla contrastare. La società della performance non aiuta, fin dall’adolescenza alimenta quel senso di inadeguatezza che condiziona anche la sfera più intima. Non si è mai fatto così poco sesso nell’età più erotizzata. «Come si suole dire, la passione vuole pochi pensieri. Altrimenti tutto diventa ostacolo e costante allarme», osserva Mencacci che ha presentato alla Camera dei Deputati i dati raccolti nel Libro bianco sulla depressione . In Europa soffre d’ansia il 14% della popolazione, oltre 61 milioni di persone. E sono donne le più colpite: «Il rapporto è di uno a due». Il motivo? «Le donne comprendono le cose del mondo e per questo piangono», scherza ma non troppo lo psichiatra. «Esiste una base biologica ormonale alla quale si aggiunge la prestazione: l’aumento delle ore per conciliare casa e lavoro e la performance multitasking, il dover passare da una funzione all’altra». Depressione, insonnia, ansia si contagiano a vicenda.
«L’ansia genera paura quando richiama alla memoria esperienze negative o di fallimento che impediscono di leggere la positività che c’è in ogni occasione». E infatti l’ansioso-pauroso funziona meglio nello stato d’emergenza. «Nella disperazione è costretto a fare la scelta, si libera da un tormento che altrimenti genera tutti quei dubbi che normalmente lo paralizzano». L’ansia è un valore positivo fino a quando non diventa un ostacolo di costante allarme. Bisogna imparare a controllarla. Come? «La strada del farmaco non si è dimostrata efficace. Tampona il risultato, ma non risolve» scrive LeDoux. Meglio puntare a equilibrare emozione e ragione, lavorando sui ricordi che ci provocano angoscia, con l’aiuto di un terapista; ma anche yoga e meditazione sono efficaci. «Respirare in modo lento e misurato riduce l’influenza del sistema nervoso simpatico — dà l’accelerazione — e parasimpatico — che frena un po’ — coinvolti negli stati d’ansia e della paura. La meditazione tiene occupata la memoria a breve termine, impedendo l’accesso ai ricordi ansiogeni. Quindi uno stile di vita sano, un sonno riposante ed evitare uso eccessivi di stimolanti». E poi tenere a mente la massima di Michel de Montaigne «Un uomo che teme di soffrire soffre già per ciò che teme».
Corriere 24.6.16
L’urgenza di riconoscere che la tortura è un reato
di Donatella Di Cesare

Com’è possibile che un giovane cittadino europeo, residente per motivi di studio in un Paese amico, venga torturato per giorni, subisca una violenza assoluta e sistematica che, prima di ancora di uccidere, intacca la dignità umana?
Com’è possibile passare, d’un tratto, da cittadino a vittima inerme di sevizie indicibili? Quel che è accaduto a Giulio Regeni ha sconvolto profondamente l’opinione pubblica italiana. E ha riportato la questione della tortura all’ordine del giorno.
Sarebbe tuttavia un abbaglio credere che la tortura sia prerogativa solo dei regimi dispotici o dittatoriali. Come mostra l’ultimo rapporto 2015-2016 di Amnesty International, nel mondo sono oltre 140 i Paesi in cui si denunciano casi di tortura.
Si tratta, dunque, di una crisi globale. Benché sia universalmente stigmatizzata, la tortura continua ad abitare il paesaggio contemporaneo.
E in Italia? Anche quest’anno si deve constatare, con grande amarezza, che la tortura non è stata ancora riconosciuta come reato. Il che esclude il nostro Paese da quelle democrazie occidentali che almeno, nei loro codici, hanno da tempo dichiarato illegale la tortura. Approvata dalle Nazioni Unite nel 1984, la Convenzione contro la tortura è stata ratificata dall’Italia già nel 1988. Da allora, però, quelle attese sono state tradite. Anche quest’ultimo anno si è concluso con un nulla di fatto.
Il 9 aprile 2015 la Camera dei deputati ha apportato modifiche a un disegno di legge che non è stato poi approvato dal Senato. Le difficoltà nascono dalla definizione della tortura. Ad esempio: è necessario che la violenza sia «reiterata», affinché ci sia tortura? È difficile crederlo.
Se si guarda più in profondità, appare evidente che la legge vada configurandosi come una sorta di compromesso tra le forze dell’ordine, preoccupate di essere poste sotto accusa, e l’opinione pubblica, sempre più sensibile ai crimini perpetrati dietro le quinte.
Come dimenticare i misfatti della Diaz di Genova, per i quali l’Italia è stata condannata il 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo? E che dire dei troppi casi di pestaggi crudeli, di morti brutali e inspiegabili, da Aldrovandi a Cucchi, da Magherini a Uva? La speranza è che non si debba attendere ancora a lungo e soprattutto che la norma non sia vaga e ambigua, non avalli furtivamente quel che dovrebbe con chiarezza proibire.
Riconoscere la tortura come reato è una esigenza, etica e politica, inderogabile. Tanto più che il fenomeno oggi dirompente è una sorta di democratizzazione della tortura, il suo sopravvivere, cioè, in forme e modalità diverse, nel contesto democratico. Una volta criminalizzata, la tortura ha cercato infatti riparo nell’ombra: nei campi di internamento per stranieri, nei luoghi di detenzione e nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei centri per disabili e anziani, ovunque un inerme si trovi nelle mani del più forte.
La «guerra al terrore» provoca, attraverso la politica di emergenza, una riabilitazione inedita della tortura che, in particolare negli Stati Uniti, viene tollerata come misura straordinaria, ma utile. Non meno allarmante è un fenomeno connesso: il dissimularsi della tortura grazie a metodi sempre più raffinati. È la «tortura bianca», che salva le apparenze e fa implodere il concetto stesso di tortura: dalla privazione del sonno al disorientamento spazio-temporale, dall’immobilizzazione all’isolamento, dalle violenze sessuali alle sevizie psicologiche.
Ecco perché la vigilanza dei media e dell’opinione pubblica è l’unico antidoto contro questa violenza che resta a offuscare il nostro presente.
Repubblica 25.6.16
I leader di domani
di Eugenio Scalfari

SI DISCUTE molto in queste ore su che cosa accadrà all’Inghilterra e che cosa accadrà all’Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit. E mettiamo da parte il crollo dei mercati di tutto il mondo, la sterlina al punto più basso degli ultimi trent’anni. Non è questo il problema.
IL PROBLEMA lo segnalò Winston Churchill in due discorsi rispettivamente del 1952 e del 1955. Disse: «L’Inghilterra ha due sole strade: o diventa la cinquantesima stella della bandiera americana oppure sceglie l’Europa e provvede a costruirne la nascita insieme a tutti gli altri Stati del continente».
Con il voto di ieri il risultato non è stato né l’uno né l’altro. Sfortunatamente l’Inghilterra è diventata (come avevamo già previsto domenica scorsa) una isoletta che la globalizzazione sconvolgerà, che l’America tratterà con gentile indifferenza e l’Europa tenderà a dimenticare salvo che come piccolo mercato di libero scambio. Ha vinto Farage e il suo movimento populista e xenofobo e questo è il risultato.
Naturalmente Farage trasmette l’effetto del voto inglese su tutti i populisti europei: Le Pen in Francia, Salvini in Italia, i paesi baschi in Spagna e poi gli interi Stati la cui fede europea c’è stata soltanto per liberarsi dalla minaccia post- sovietica di Putin: Polonia, Ungheria, Bulgaria, Balcani.
Il Brexit è una bomba a orologeria: distrugge l’Inghilterra, mobilita i Paesi fuori della moneta unica a rivendicare la propria indipendenza, mobilita i populismi dovunque, eccetto lo scontro americano tra i repubblicani di Trump e i democratici della Clinton. Peggio di così era difficile immaginare.
Ho già scritto più volte che, operando su livelli totalmente diversi, c’erano soltanto due persone che avevano le stesse finalità: Papa Francesco e Mario Draghi. Altri francamente non ne vedo. Ci sono, anzi dicendolo al condizionale, ci sarebbero, ma ancora non hanno deciso. C’è da augurarsi che lo facciano al più presto perché il tempo a disposizione è pochissimo. I nomi sono tre: Merkel, Hollande, Renzi. Il terreno sul quale costruire è l’Eurozona. Non più i 28 Paesi della Ue che dopo il Brexit inglese sono diventati 27, ma soltanto i 19 dell’Eurozona.
***
Finora l’attenzione dell’Impero americano aveva una duplice angolazione: l’Inghilterra e la Germania. Ora c’è soltanto la Germania e, secondo le mosse che farà, l’Italia. Non sembri una supervalutazione patriottica da parte mia: da tempo la mia Patria è l’Europa. Ma l’Italia può diventare un interlocutore importante per l’Impero americano. La Germania, altrettanto consultata prima continuerà ad esserlo sempre che la Merkel esca dall’immobilismo pre-elettorale che sembra averla paralizzata. Renzi ha deciso di incontrarla oggi. Mi auguro che sia convincente e possa parlare anche a nome dell’America.
La Cancelliera non può aspettare le elezioni, deve muoversi subito adottando una politica di crescita e di flessibilità economica. I destinatari principali sono la Francia, l’Italia, la Spagna, la Grecia e l’immigrazione. E poi, come tutti, la guerra contro il terrorismo dell’Isis.
L’incontro con la Merkel è il compito principale di Renzi nelle prossime ore. Mi permetto di suggerire che non passi ad altre cose, che pure ci sono e lo riguardano direttamente; pensi a convincere la Cancelliera di Berlino. Tutto il resto viene dopo.
Dopo, ma a poche ore di distanza; in situazioni così eccezionali il tempo corre alla velocità della luce e il dopo riguarda appunto la flessibilità e la crescita economica che direttamente ci riguardano. Dovrebbe rinascere un Keynes, ma si può imitarlo non scavando buchi nella terra ma creando nuovi posti di lavoro. Ci vuole un taglio nel cuneo fiscale di almeno 30 punti. Non è granché, ma aiuta. Ci vuole un taglio della pressione fiscale che sta crescendo di continuo. Inutile pensare al debito pubblico, quello verrà dopo, ma la pressione fiscale no, quella viene subito e si attua combattendo troppo stridenti diseguaglianze. Lo dice Papa Francesco, lo vuole la gente, quella che vota i Cinque Stelle oppure non vota.
E poi c’è il referendum, quello che può rischiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo simile? Io personalmente, e l’ho confermato persino nel colloquio che ho avuto con lui all’Auditorium di Roma lo scorso 11 giugno, voterò “No”. Lo faccio perché trovo inaccettabile per la democrazia italiana l’attuale legge elettorale. Se Renzi modificasse in modo adeguato quella legge, io voterei il “Sì”. Perché dunque non la cambia, e come dovrebbe cambiarla?
Basterebbe che invece di una lista unica come adesso è previsto, con un premio del 55 per cento per chi arriva al 40 per cento dei voti degli aventi diritto, Renzi prevedesse una coalizione di liste distinta ma precostituita: un partito di sinistra che si allea con formazioni di centro moderato. Partiti che portavano voti come erano quelli che seguirono De Gasperi alle elezioni del 1948: erano liberali, repubblicani, socialdemocratici. La Democrazia Cristiana ebbe circa il 40 per cento dei voti, i tre partiti minori un otto-nove. Il sistema era proporzionale, non c’erano premi ma liste pubblicamente apparentate. La Dc governò per 12 anni con questo sistema. Poi compì un salto in avanti e si alleò con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963. Quando De Gasperi si era ritirato e alla presidenza del consiglio furono messi un primo ministro all’anno o poco più. Ma la linea di fondo fu immutata: un partito di centro che guarda a sinistra.
Questa è la mossa che Renzi dovrebbe fare. Prima del Referendum del prossimo ottobre. Ormai non deve più rottamare, deve allearsi a sinistra e tra i moderati, trasformando il sistema tripolare in un sistema bipolare, che ottenga voti dal centro moderato, dalla sinistra più radicale e tra gli indifferenti ex Pd fondato da Veltroni del Lingotto. E apra la sua squadra, italiana ed europea, a persone come Prodi, Veltroni, Enrico Letta, Fassino. Non è più tempo di rottamare ma di ricostruire. Impari dal passato per costruire il futuro in Italia e soprattutto in Europa.
La Stampa 25.6.15
Romano Prodi
“Decisivo il vertice di Berlino, l’Ue può rinascere o fallire”
L’ex presidente della Commissione: i cittadini odiano l’Europa “burocratizzata”
intervista di Fabio Martini

Al primo piano di via Gerusalemme 7, nella casa bolognese di Romano Prodi, telefoni e telefonini squillano senza sosta, politici, accademici e media di mezzo mondo cercano il Professore, l’ultimo presidente di Commissione di un’Europa «felice», o quantomeno proiettata sul futuro. Prodi lasciò Bruxelles alla fine del 2005, in una stagione nella quale l’Europa era in crisi di crescita, mentre oggi c’è una crisi di identità: cosa è accaduto in questi 10 anni? «Da allora ad oggi all’Europa della speranza è succeduta l’Europa della paura. Ed è intervenuto un processo di ri-nazionalizzazione. Con l’uscita di Kohl, si sono l’avvicendati leader per i quali il prevalere degli interessi nazionali non si è accompagnato con una forte visione europeista».
Ma oramai le alchimie dei leader non lasciano più il segno: come spiega queste folate di opinione pubblica sempre più incontrollabili?
«I cittadini non odiano l’Europa, odiano questa Europa, la gestione di questi anni: una politica che non capiscono, che li danneggia. Una politica che ha distrutto il ceto medio».
Ma ora la palla torna ai leader: il futuro dell’Europa si decide più nel vertice a quattro di Berlino o nei giorni successivi al Consiglio europeo di tutti i capi di governo?
«Non ci sono dubbi: nell’incontro di Berlino».
Lei ci crede?
«Lo spero. Confido che la nuova Europa possa nascere lunedì a Berlino. Sennò l’Europa finisce».
Gli altri Paesi seguiranno?
«Di solito, nei grandi passaggi politici, funziona così: l’accordo lo fanno i Paesi “guida”. L’ultima volta accadde con l’euro. Furono decisivi, anche nella fase finale, i contatti diretti tra Germania e Francia, tra Germania e Italia. Se c’è una forte regia, il Consiglio segue. Al massimo può bloccare, ma le decisioni le prendono i Paesi più forti».
In queste ore i mercati ballano e lo spread sale: sarà escalation?
«No. Tutto questo mi preoccupa fino a un certo punto, credo che le turbolenze finanziarie dureranno poco, perché non c’è una forte sostanza che possa alimentarle. Anche se lo spread in queste ore è salito non poco».
Ma l’anello debole delle banche? Gli italiani potrebbero mettersi molta paura, non pensa?
«Gli italiani - e non solo loro - è naturale che siano angosciati, ma rischiano di mettersi paura più per il tambureggiare dell’allarmismo che per motivazioni reali. Ma occorre dire a tutti quel che è vero: che esiste un piano “B”, governo e Banca d’Italia faranno bene a ripeterlo. Naturalmente occorre vigilare onde evitare che il sistema bancario entri in crisi, a quel punto rischiando di andare in pezzi».
Ma se la crisi finanziaria sui mercati dovesse perdurare, non pensa che la spinta a rompere il patto di Stabilità diventerebbe una tentazione per Paesi come l’Italia? E a quel punto non si rischierebbe la rottura con la Germania?
«In questi giorni nessuno può rischiare di rompere il patto di Stabilità. Bisogna cambiare politica, ma attenzione, io non toccherei i Trattati. Non è quella la strada. Perché occorre evitare di tornare a politiche di bilancio senza controllo. Al tempo stesso però urge una svolta. Avviando una politica economica di espansione, che cambi la direzione e la quantità della spesa».
Serve una svolta anche nella governance dell’Europa?
«E’ vero che la Commissione fa spesso cose del tutto inutili, ma sono le sole cose che le lasciano fare. È ovvio che non potendosi occupare del futuro dell’Europa, perché è passato in mano agli Stati, finisca per occuparsi anche del rosmarino».
Finora la Germania ha resistito alle richieste di cambiare dottrina economica e oltretutto la Merkel ha l’appuntamento elettorale del 2017: un circolo vizioso?
«Fino a due sere fa pensavo che quella scadenza potesse essere condizionante e dunque che nessuna decisione potesse essere presa prima di quella data. Ma a questo punto è diventato troppo rischioso aspettare. Anche per la Germania».
Cameron?
«Alla base di tutto c’è stata una sua scelta sbagliata. Il referendum ha indebolito la posizione della Gran Bretagna a Bruxelles, ha confuso gli elettori, è stato impostato da Cameron solo per interessi personali. E in questo senso, si potrebbe dire: ben gli sta».
Nel 2005 Tony Blair mise il veto alla sua conferma a Bruxelles: c’erano già preannunci di un marcato euroscetticismo inglese?
«Tra me e Blair c’erano state divergenze sulla guerra in Iraq, ma nel suo atteggiamento c’erano anche tracce euroscettiche nel senso che una Commissione forte e indipendente non piaceva a nessuno!».
La Stampa 25.6.15
Enrico Letta
“Italia e Spagna pagheranno il conto dell’instabilità”
L’ex premier: Roma a rischio per il suo enorme debito pubblico
di intervista di Francesca Schianchi

Ex premier italiano, oggi direttore di Sciences Po a Parigi dove tiene lezioni in inglese a ragazzi da tutto il mondo, Enrico Letta è un concentrato di europeismo.
Per Juncker non è l’inizio della fine della Ue. E’ d’accordo? Lei nei giorni scorsi ha ammonito che senza Regno Unito la Ue non sopravviverà…
«Se l’obiettivo dell’Europa sarà solo sopravvivere, si decomporrà pezzo a pezzo. La strada presa negli ultimi dieci anni ci sta portando verso un burrone: l’unica possibilità è un rilancio che rimetta al centro i cittadini anziché le banche e le istituzioni».
Come si fa?
«Bisogna partire da progetti concreti su tre grandi problemi di oggi. La disoccupazione giovanile, coinvolgendo un milione di giovani europei in un Erasmus pro, un anno di apprendistato finanziato dall’Europa. La questione migratoria, con una polizia di frontiera comune. E la sicurezza, con una Fbi europea».
Se cose così non vengono fatte si va verso la fine dell’Europa?
«Sicuramente verso un ulteriore indebolimento. Bisogna agire subito: non possiamo aspettare le elezioni francesi e fra sedici mesi quelle tedesche, altrimenti non ritroviamo più nulla, bisogna agire subito dimostrando di aver capito la lezione».
Per cambiare l’Europa serve cambiare i trattati?
«No, gli strumenti ci sono tutti, serve la volontà dei Paesi membri di usarli non solo quando la casa è già bruciata, ma quando c’è il primo segnale di fumo. Per salvare la Grecia sono stati spesi 283 miliardi di euro, una cifra enorme: ma i greci l’hanno percepita come insufficiente, perché sono stati dati quando la casa era già bruciata, invece di intervenire quando si poteva ancora salvare la situazione».
C’è un problema di leadership europea?
«Ci deve essere una leadership collettiva coesa, che parli con una voce sola».
Come si gestisce il divorzio?
«Sarà un’operazione difficile, ma un’uscita ordinata è bene che avvenga il prima possibile. I due anni di cui parla l’articolo 50 del Trattato di Lisbona sono eccessivi: bisogna che in sei mesi tutti i dossier siano chiusi».
Altrimenti?
«Il rischio è una sequela di contenziosi giuridici che frenerà gli investimenti in Gran Bretagna e in Europa».
L’Italia corre pericoli economici?
«Sì. In caso di instabilità, i due Paesi nel mirino sono la Spagna, che da sei mesi non ha un governo, e l’Italia, perché ha un debito pubblico enorme».
Renzi però rassicura che l’Italia ha ritrovato stabilità. Possiamo stare tranquilli?
«Il problema principale è evitare di essere messi sotto esame. E l’unico modo per farlo è partecipare a un’iniziativa europea di rilancio della zona euro».
E’ l’unica cosa che il governo può fare per mettere al riparo il Paese?
«Bisogna soprattutto non perdere tempo. Vedo che sono già in programma alcuni vertici europei, mi sembrano buone iniziative».
C’è il rischio che altri Paesi lascino la Ue?
«Fino a un certo punto. Potrebbero farsi tentare la Danimarca o la Svezia, ma penso che il caos di queste ore spaventerà molti».
Cambierà qualcosa nella nostra vita quotidiana?
«Non domani mattina, ma nell’arco di due o tre anni sì. Chiunque abbia a che fare col Regno Unito si accorgerà quanto sia diverso fare parte di un mercato unico o essere trattati come Paese terzo: i miei studenti inglesi, per esempio, smetteranno di avere agevolazioni in base al reddito come hanno tutti gli europei».
Cosa cambierà per gli inglesi?
«Ci sarà una forte spinta centrifuga su Scozia e Irlanda del Nord. E Londra smetterà di essere la porta del mercato unico più ricco al mondo. L’Autorità bancaria europea lascerà Londra: sarebbe il caso che Milano si candidasse a sostituirla».
Cosa c’è alla radice di questa scelta inglese?
«Parole d’ordine come “torniamo grandi”, “riprendiamo il controllo” rappresentano idee nazionaliste che, anche se hanno vinto, vanno combattute. Sono la medicina pietosa per malattie vere come le disuguaglianze. Dinamiche che si possono modificare solo coi fatti, e stando attenti a un uso accorto delle parole: troppi annunci rischiano di avere un effetto boomerang».
Repubblica 25.6.16
Il reportage.
Hanno votato in massa per restare nell’Unione, ma ora si ritrovano tagliati fuori. “Ci prenderemo la nostra rivincita, terremo un nuovo referendum”
La rabbia degli scozzesi “Chiederemo l’indipendenza”
di Pietro Del Re

EDIMBURGO. «Siamo stati traditi dagli inglesi che con il Brexit ci trascinano fuori dall’Europa, ma ci prenderemo la nostra rivincita». La frase di John Muir, 43 anni e proprietario di un pub sulla Royal Mile, la via elegante dei quartieri medievali di Edimburgo, riassume il pensiero della maggioranza degli scozzesi. Muir si sente tradito perché assieme a due terzi dei suoi concittadini ha inutilmente votato per il Remain. Quanto alla sua rivincita, dovrebbe consistere in un secondo referendum per l’indipendenza, dopo quello perso un anno e mezzo fa dallo Scottish National Party, da tenersi appena possibile. Infatti, come ha dichiarato ieri la premier scozzese Nicola Sturgeon, «adesso una nuova consultazione è altamente probabile perché portare la Scozia fuori dalla Ue contro la volontà degli scozzesi è democraticamente inaccettabile». Alle parole della primo ministro e leader del partito indipendentista, ha fatto eco l’hasthtag #indyref2 (referendum per l’indipendenza2), lanciato su Twitter appena annunciata la vittoria del Brexit e presto divenuto virale.
La Scozia s’è dunque massicciamente schierata per rimanere nell’Ue, con una media di 63,4% su tutto il territorio e il 74,4% nella capitale. La mappa dei risultati del voto di due giorni fa è inequivocabile, perché non una sola macchia blu del Brexit intacca il giallo del Remain, di cui è uniformemente colorata. Ma sebbene tutte le 32 circoscrizioni abbiano in blocco scelto Bruxelles, la nazione si ritrova fuori dall’Unione, contro la sua volontà popolare. Quello che più scotta agli scozzesi è che nel 2014 in molti votarono contro l’indipendenza da Londra proprio perché la coesione al Regno Unito garantiva l’appartenenza all’Europa.
Perciò, all’ombra del castello della ricca Edimburgo, il malcontento si percepisce ovunque. E la disgregazione dell’Impero britannico potrebbe cominciare proprio da qui, dalla Scozia strappata all’Europa suo malgrado. «Oggi, se Westminster vuole evitare di perderci dovrà darci più poteri, e spero che i nostri governanti sappiano sfruttare a nostro favore la congiuntura perché uscire dalla Ue significa tagliare i ponti con il nostro più importante mercato economico, con conseguenze devastanti per il commercio, gli affari, l’occupazione e quindi i salari», dice con voce autorevole Michael Nett, avvocato di Edimburgo. «Quando si terrà il prossimo referendum? Quando gli indipendentisti saranno sicuri di vincerlo. E non è detto che un nuovo voto sull’autodeterminazione dia loro la vittoria». Già, perché se una Scozia indipendente dovesse rientrare a far parte dell’Ue, con un’Inghilterra che ne è fuori, le frontiere tra le due nazioni creerebbero una quantità di problemi logistici, a cominciare dalla libera circolazione.
Intanto, però, la Sturgeon ha chiesto un incontro urgente con il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. La premier indipendentista ha anche rassicurato i cittadini europei che risiedono in Scozia: «Siete i benvenuti e il vostro contributo è apprezzato».
Ironia del destino, a peggiorare l’umore degli sconfitti sono state le parole proferite proprio in Scozia, dal suo campo da golf di Turnberry, dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Nel pub di John Muir quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco.
Corriere 25.6.16
LA SCOSSA che ha CAMBIATO l’euroPa
Lo 0,008 % del pianeta ha scompaginato tutto

Poco meno di un anno fa, migliaia di greci in piazza Syntagma cantarono e ballarono tutta la notte dopo il grande «No» al referendum sul salvataggio europeo. Il mattino dopo il governo che li aveva chiamati alle urne, si arrendeva alla troika. Ieri mattina a Lombard Street, nel cuore dell’antica City di Londra, i sudditi britannici che a livello nazionale avevano appena scelto di divorziare dall’Unione Europea con il 51,9 per cento dei voti non si lasciavano sfuggire neanche un lampo di trionfo negli occhi. Ciascuno attendeva alla propria routine come se la notte prima non fosse successo niente, eppure tutti sapevano che questa non è la Grecia: nel Regno Unito quando il popolo vota non si torna mai indietro sulla sua volontà.
La strada verso le urne
Le differenze fra i due referendum, paradossalmente, finiscono qui. Come un anno fa Alexis Tsipras, così il suo pari grado di Londra David Cameron aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde. Il premier di Atene non sapeva più come resistere alla pressione degli altri governi dell’euro, quello di Londra doveva gestire una minaccia anche più insidiosa: i suoi alleati di partito; in nome loro, ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno pur di non rischiare una sfida alla propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier.
Nel 2013 Cameron incassò il sostegno di molti dei suoi stessi parlamentari per un secondo mandato a Downing Street, in cambio di una promessa che a molti allora parve poca cosa: il referendum di ieri. Così l’uomo che aveva trasferito fra i Tory lo stile e l’oratoria di Tony Blair pensava di aver ricacciato nell’ombra anche gli ultranazionalisti dello Ukip.
Proprio come Tsipras, Cameron ha sottovalutato le implicazioni dell’ingranaggio che aveva innescato. Forse è solo colpa della legge delle conseguenze impreviste, capaci di generare effetti perversi milioni di volte più grandi dell’atto alla loro origine. Forse invece è solo un battito d’ali di farfalla nella foresta amazzonica, da cui parte lo spostamento d’aria capace di diventare uragano sulla Cina.
Con il referendum dell’altra notte le croci sulle schede di 638 mila persone o lo 0,008% dell’umanità — la differenza decisiva fra Remain e Leave — ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta e sulle risorse di miliardi di persone di centinaia di Paesi.
Dov’è caduto il Remain
Cameron non avrebbe mai immaginato in che labirinto si stava cacciando. Forse è stata la sua educazione patrizia da discendente di Re Guglielmo IV a ottundergli il sesto senso grazie al quale i veri leader avvertono gli umori del Paese. Dopo aver passato un decennio a distruggere, interdire e disprezzare tutto quanto sapeva di Europa (fino a bloccare nel 2011 l’inclusione del «fiscal compact» nei trattati europei), Cameron di colpo ha dovuto cambiare ruolo in campagna referendaria. Non è mai suonato credibile. Si è ridotto al «Project Fear», cercare di impaurire i suoi stessi elettori con le conseguenze economiche della secessione europea, incapace com’era di fornire una spiegazione positiva, plausibile e anche solo minimamente sentimentale sul perché anche gli inglesi hanno un destino europeo.
Né lui né i suoi si erano accorti di un rancore più profondo che stava mettendo radici nelle provincie del Regno. Dal 2004 sono cadute le clausole della Ue che limitavano la libera circolazione dei alcuni degli ultimi arrivati nel club: polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi. Il centro studi Migration Watch in questi anni ha documentato, smentendo gli impegni del governo, una crescita dell’immigrazione che sta mettendo a nudo l’inadeguatezza di un sistema di welfare britannico martoriato dai tagli di Cameron e del suo ministro delle Finanze George Osborne.
Ai ritmi attuali nel Paese stanno entrando 330 mila stranieri all’anno e di questo passo nel 2018 due terzi delle autorità locali avranno carenza di posti per i bambini nelle scuole elementari. Per fare posto ai nuovi immigrati bisognerebbe costruire un appartamento nel Regno Unito ogni quattro minuti (anche colpa di politiche che limitano l’offerta per far crescere il valore delle case esistenti).
Dunque l’immigrazione è diventata l’arma contundente del fronte del Leave. Chi ha votato così, voleva soprattutto chiudere le frontiere. Eppure è successo qualcosa di strano: si sono schierate in massa con la Brexit soprattutto aree del Regno dove la presenza di stranieri è nettamente sotto la media: il Northumberland o Carlisle nell’Inghilterra del Nord o Boston e South Holland a Est (secondo il Migration Observatory di Oxford); al contrario si sono schierati molto di più per la permanenza nella Ue i distretti ad alta densità di immigrati, fra i quali tutta l’area centrale di Londra, Oxford e Cambridge. È una strana dissonanza. Fa pensare che il voto per il Leave contenga soprattutto un messaggio di malessere economico e di paura di chi si sente lasciato indietro, isolato in regioni un tempo industriali, mentre la Gran Bretagna si apre all’Europa e al mondo.
Dopo il divorzio
Il paradosso è che questo voto finirà per impoverire ancora di più chi già è più vulnerabile, e rischia di trattarsi di uno spreco drammatico. L’anno scorso per esempio il Regno Unito è tornato al record di 1,6 milioni di auto prodotte, raggiunto dieci anni fa, ma ora il settore rischia di crollare. Se Londra è fuori dal mercato interno europeo, le sue auto dovranno pagare un dazio del 10% per entrarvi e questo le metterà fuori mercato. L’indiana Tata ha già fatto capire che chiuderà degli impianti, Bmw rischia di fare altrettanto con le fabbriche della Mini.
Del resto lo sfondo è fragile: il debito totale dello Stato, delle imprese non finanziarie e delle famiglie in Gran Bretagna supera ancora il 300% del Pil e non è in calo malgrado una ripresa ormai nel suo settimo anno. Il Paese riesce a mantenere il suo tenore di vita solo prendendo in prestito dall’estero somme pari quasi al 5% del proprio reddito nazionale, ma con una sterlina ormai in caduta libera la Gran Bretagna troverà sempre meno creditori disposti a farle ancora fiducia. Per i ceti deboli, quelli che hanno creduto alle promesse del fronte del Leave, si prospetta una fase ancora più dura. Uscire dalla Ue significa per loro rinunciare anche ai requisiti minimi di protezione sociale sul lavoro che in Gran Bretagna prima non c’erano.
Il rapporto con l’Europa
È su questo sfondo che il nuovo governo dovrà ricucire un rapporto con l’Europa, qualunque esso sia. Il governo di Parigi e ancora più quello di Berlino non sono disposti a fare sconti. Se vorrà mantenere l’accesso al mercato unico da mezzo miliardo di consumatori, anche dall’esterno, Londra dovrà accettare il menù completo: inclusa la libera circolazione dei lavoratori dagli altri Paesi, proprio ciò che il referendum ha bocciato. Per questo adesso la Germania le offre solo un «accordo di associazione». Significa che la Gran Bretagna rischia di trovarsi tagliata fuori dal suo unico vero mercato di sbocco, con le banche della City e i fondi d’investimento privati del «passaporto» per operare con il resto d’Europa.
Nessuno se ne può rallegrare. È anche questo un sintomo di disintegrazione della struttura fondata con il Trattato di Roma nel 1957. È soprattutto un precedente destinato a creare nei mercati attesa per la prossima secessione di un altro Paese. Forse potrebbe convocare un referendum per l’uscita il leader populista olandese Geert Wilders, forse potrebbe farlo il governo nazionalista polacco. Di certo questa sindrome da declino colpisce in primo luogo i Paesi più fragili come l’Italia, soprattutto nei titoli azionari del settore finanziario che la Banca centrale europea non può proteggere. Non è un caso se nei corridoi di Bruxelles e nei mercati sia tornata l’ipotesi che l’Italia chieda prima o poi un sostegno leggero del Meccanismo europeo di stabilità per ancorare le proprie banche: ma è uno scenario che nessuno a Roma contempla.
La Stampa 24.6.16
Perché l’occidente non può fare a meno della Russia

«Temo che sarò abbastanza isolato». Me lo dice con un filo di ironia Henry Kissinger, appoggiandosi al suo bastone, mentre si prepara a parlare di Russia in un recente foro euro-atlantico. Il vecchio protagonista della politica estera americana, e ancora oggi fine saggista sulle questioni internazionali, non ama certamente lo Zar di Mosca, Vladimir Putin.

Ma ritiene - come ha detto e scritto già varie volte - che la Russia sia comunque un interlocutore indispensabile di un mondo occidentale che dovrà gestire, nei decenni a venire, problemi assai più impegnativi: dalla competizione economica e geopolitica con la Cina alle varie declinazioni del terrorismo jihadista. Del resto, l’evoluzione della crisi in Siria dimostra che la Russia è già - per un’Europa vulnerabile e per un’America distratta - un interlocutore importante nello spazio mediorientale, segnato dalla crisi terminale dello Stato arabo. Ma questa stessa Russia, partner almeno potenziale sul fronte Sud dell’Europa, appare invece, sul fronte Est, quale una potenza revanscista e da contenere: in particolare per Polonia e Baltici, che puntano a rafforzare le misure già prese dalla Nato dopo la guerra in Crimea e la crisi Ucraina. Partner globale da coltivare o rivale regionale da dissuadere? Gli europei sono formalmente uniti sulla gestione del problema Russia; ma la realtà è che Paesi come la Germania e l’Italia sono più «kissingeriani» di altri. La Russia, come sempre, divide. E gioca a dividere: per quanto Putin abbia sostenuto, nel foro con Matteo Renzi a San Pietroburgo, di auspicare una Europa forte, la realtà degli ultimi anni è andata in senso diverso. Se non altro per l’appoggio offerto da Mosca a vari partiti nazionalisti ed euro-scettici del Vecchio Continente; tutti affascinati, non a caso, dal «neo-autoritarismo» di una Russia al tempo stesso post-sovietica e nostalgica del passato imperiale.
Tutto questo spiega il contesto, certamente non facile, della «campagna di Russia» avviata dal premier italiano. Quale ospite speciale del Forum di San Pietroburgo, l’Italia aveva l’onore ma anche l’onere di guardare al di là dei soli interessi economici del nostro Paese, che pure esistono e sono quanto mai rilevanti. Matteo Renzi lo ha fatto, ricordando che la vera questione strategica in discussione è il futuro stesso della relazione fra la Russia e l’Europa. La tesi del premier italiano è che la costruzione di una relazione di «buon vicinato» con il nostro vicino euro-asiatico risponda agli interessi strategici del Vecchio Continente e richieda uno sforzo preciso: per la necessaria applicazione (da parte di Mosca ma anche di Kiev) degli accordi di Minsk sull’Ucraina, per una valutazione politica (e non solo burocratica) delle sanzioni e per la riaffermazione dei principi messi a dura prova nello spazio grigio comune fra l’Europa e la Russia. Costruire un dialogo con Vladimir Putin ha senso, del resto, solo a queste condizioni: difendere gli interessi europei (o di larga parte di loro) senza sacrificare valori irrinunciabili (per tutti gli europei); consolidare il fronte Est dell’Europa senza perdere di vista il ruolo della Russia come potenziale partner globale (Siria, Isis, forniture energetiche). Sembra una difficile quadratura del cerchio. E lo è. Ma non è sbagliato tentare.
Renzi si è schierato così con una scuola di pensiero internazionale abbastanza precisa, quella che appunto potremmo definire «kissingeriana». Ma vi ha aggiunto una tradizione tutta italiana: la vecchia e abbastanza rituale vocazione del nostro Paese a proporsi come «ponte» verso interlocutori non facili. Perché una scelta del genere sia utile e credibile, e non vuotamente dichiaratoria, l’Italia deve tenere fermi alcuni principi essenziali, riferiti anzitutto alla crisi ucraina. Per quanti errori possano essere stati compiuti nella gestione del rapporto con la Russia, dal 1991 fino al varo della «Eastern Partnership» - e di errori ne sono stati compiuti parecchi - resta che le pulsioni di Mosca nel cosiddetto «estero vicino» non possono essere accettate o premiate. Il «ponte» con Mosca ha senso, insomma, se l’Italia non giocherà una partita solitaria (non sembra sia questo il caso); e se invece servirà a chiarire i termini di una relazione fra l’Europa e la Russia che ha bisogno di essere profondamente ripensata. Da entrambe le parti.
Per l’Europa non è un tema certo secondario: al di là dello schermo delle sanzioni (che verranno ancora prorogate), il «che fare con Mosca» divide appunto gli europei sull’asse Ovest/Est; e può dividere l’Atlantico. Al vertice di Varsavia della Nato, nelle settimane prossime, l’obiettivo sarà di evitare nuove frizioni del genere.
Per la Russia, diventare europea è sulla carta un destino: «Al russo - scriveva Dostoevskji - l’Europa è altrettanto cara della Russia: gli è cara ogni pietra di essa. L’Europa è la nostra patria, altrettanto che la Russia». Ma il destino va meritato, piuttosto che conquistato. E sono indispensabili i valori, assieme agli interessi, perché quella fra Europa e Russia diventi una storia comune. Per ora non è così: a suo modo, del resto, Putin rivendica un proprio «eccezionalismo». In realtà, la Russia è molto più debole di quanto non voglia apparire: l’orgoglio patriottico dello zar del Cremlino fa da contrappeso a una condizione economica difficile, anche come effetto del declino del prezzo del petrolio.
Che la Russia accetti i suoi limiti - in politica interna e in quelle che ritiene sue tradizionali aree di influenza - è una delle condizioni per un rapporto migliore con l’Europa. Da parte loro gli europei devono trovare, verso la Russia, un terreno di intesa: cosa niente affatto facile ma necessaria, per evitare un’altra fonte di fragilità strutturale del vecchio Continente. E per avere in Mosca l’interlocutore di cui abbiamo effettivamente bisogno.
La Stampa 25.6.15
Per Putin è una vittoria
Ora spera che si sgretoli il fronte delle sanzioni
I media del Cremlino: l’Unione europea ha fallito
di Lucia Sgueglia

E finalmente Putin si pronuncia su Brexit. Negando di provare «gioia» per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, come sostengono molti a Occidente: la Russia «non ha mai interferito, né influenzato» il voto, e a David Cameron che ha agitato lo spauracchio dello zar per sventare il Leave, ribatte: «Una manifestazione di basso livello di cultura politica».
Ma se dare alla Russia la colpa dell’esito del referendum è fuori luogo, non v’è dubbio che Brexit sia una «felice sorpresa», un successo strategico di Putin: perché insinua un cuneo tra Europa e Stati Uniti, indebolendo la coesione atlantica. Lo dimostra la pacata euforia dei media di Stato russi ieri mattina: la Ue ha «fallito la propria missione», scrive la Tass; «La Gran Bretagna ha scelto l’indipendenza, una lezione per la sete di potere di Cameron», apre Radio Vesti24.
Un «regalo» per la propaganda del Cremlino e i suoi capisaldi: un’Europa più debole e meno compatta sulle sanzioni (di cui Londra era tra i più strenui sostenitori), lo sprint dei movimenti euroscettici appoggiati anche finanziariamente dai russi. Ma soprattutto un’Europa più lontana dall’influenza Usa. «Non è l’indipendenza della Gran Bretagna dall’Europa, ma dell’Europa dagli Stati Uniti», esulta Boris Titov, imprenditore consigliere di Putin. Persino l’ex ambasciatore Usa a Mosca Michael McFaul, ammette: «È una vittoria per la politica estera di Putin». Spera il sindaco di Mosca Sergey Sobyanin: «Senza il Regno Unito nella Ue non ci sarà nessuno a difendere con tanto zelo le sanzioni contro di noi». Per Dmitri Trenin, direttore del Centro Carnegie a Mosca, «Brexit significa l’indebolimento del fronte russo-scettico nella Ue: Baltici, Polonia e Svezia». «Dopo la Gran Bretagna, la Nato, Schengen, e l’euro crollerà», s’infuoca il nazionalista Zhirinovsky.
A fine maggio, l’ambasciata russa a Londra aveva lanciato una campagna su Twitter, #WhatBritainLost, per ricordare agli inglesi i costi della «guerra delle sanzioni europee» contro la Russia sull’economia british. Mentre la tv filo-Cremlino in lingua inglese Russia Today, che trasmette anche da Londra, parteggiava chiaramente per Leave. Forse a questo si riferiva Cameron.
Ma il «soft power» conta pure su «Londongrad». Quei 150 mila russi residenti a Londra, molti ricchi oligarchi, ma anche dissidenti, per i quali Brexit potrebbe aprire «ottime opportunità», spiega Ben Judah sul «Moscow Times»: nell’immobiliare, approfittando del crollo della sterlina per far razzia di proprietà nel Regno Unito; o sfruttando la «opacità legale» che può seguire allo sganciamento dalle regole Ue per quanto riguarda riciclaggio e altri loschi affari.
Tuttavia, le società russe quotate a Londra tremano. E alcuni temono che Brexit alla lunga possa ritorcersi contro la Russia. Rafforzando Angela Merkel e l’asse Germania-Polonia in Europa. Poi la Ue, nonostante le sanzioni, «è ancora il nostro principale partner commerciale - ricorda il senatore K. Kosachev –. Se cade a pezzi, peserà su di noi». Ieri il rublo è calato pesantemente sul dollaro, come le azioni di Gazprom, Rosneft e Lukoil; ma il ministero delle Finanze per ora esclude «rischi seri». Intanto la fuga dalla sterlina all’oro, che Mosca ha accumulato in enormi riserve a partire dal 2006, avrebbe fatto guadagnare 2,4 miliardi di dollari alla Russia in 24 ore.
La Stampa 25.6.16
E l’effetto-domino spaventa l’Ue
I nazionalisti: si voti anche da noi
di Emanuele Bonini

Adesso si teme il peggio e si prova a evitarlo. Sull’onda dell’esito del referendum britannico cominciano a essere in tanti, in Europa, ad auspicare un proprio voto popolare sull’Unione. Si ritiene che dopo l’uscita del Regno Unito si rischi l’effetto domino. Le istituzioni comunitarie sono decise a difendere il progetto a dodici stelle.
«L’Unione europea dei Ventisette Stati membri continuerà», hanno assicurato i presidenti di Commissione, Consiglio e Parlamento. Jean-Claude Juncker, Donald Tusk e Martin Schulz hanno preteso l’immediato avvio delle procedure di divorzio con Londra, per non dare agli euroscettici il tempo di organizzarsi, in nome della tenuta europea, non scontata.
La carica dei populisti
A guidare le file degli anti-Ue è Geert Wilders, leader del partito olandese di estrema destra Pvv. È stato lui il primo a chiedere di andare alle urne. «Il popolo olandese merita un referendum» da cui far scaturire «un plebiscito su una Nexit», una Brexit in salsa orange. «Sarebbe completamente irresponsabile», avverte il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte: «Non si può giocare con le persone, i servizi e i posti di lavoro».
Le pulsioni anti-europeiste sono però forti anche in Francia (si voterà anche qui, nella primavera 2017), Svezia, Austria, Germania e nella la stessa Italia. Da questi Paesi si sollevano contro la comunità a dodici stelle Front National, Democratici svedesi, Fpo, Afd e Lega. Variano formule e slogan, ma non i contenuti: tutti al voto e via dall’Ue, seguendo la scia britannica.
«Il rischio c’è ed è uno dei motivi per cui dobbiamo dare certezza ai cittadini oltre che ai mercati», ammette il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. «L’idea che si possa tenere un referendum senza che poi si capisca bene quale rapporto con l’Ue ne derivi - ha detto a Lussemburgo, a margine di una riunione del Consiglio - sarebbe irrispettosa dei cittadini britannici, capace di alimentare proprio l’effetto domino».
Niente sconti
«Siamo determinati a garantire l’unione come ventisette», assicurano Juncker, Tusk e Schulz in dichiarazioni volutamente congiunte e concordate per meglio trasmettere il senso di coesione e determinazione. I loro partiti europei erano stati chiari: in caso di Brexit niente sconti per Londra, e così sarà. I tre hanno chiarito che «una volta fuori si è fuori», intimando alla Gran Bretagna di avviare «il prima possibile» le procedure di uscita così da «non prolungare l’incertezza» che regna attorno all’Ue.
Il semestre slovacco
I vertici dell’Europa vogliono evitare che si pensi che un divorzio sia un gioco. Serve per arrivare al vertice chiarificatore di martedì. Al termine del quale, col primo di luglio, si aprirà il semestre di presidenza Ue della Slovacchia, Stato non tra i più convinti del progetto comunitario.
La Stampa 25.6.16
Traditi dai coetanei dei Beatles
di Massimo Gramellini

Per un ragazzo di Londra, l’Europa è la fidanzata spagnola con cui ha amoreggiato durante l’estate del corso Erasmus a Barcellona. Per la vecchietta di Bristol citata dal capo degli ultrà nazionalisti Farage, l’Europa è il migrante nigeriano che attraversa la Manica per togliere il lavoro al figlio inglese della sua vicina. Ha vinto la vecchietta di Bristol, perché ci sono più vecchiette che ragazzi, in questa Europa che non fa più bambini. Non è sconvolgente che a decretare la Brexit sia stata proprio la generazione dei Beatles e dei Rolling Stones, quella che voleva cambiare il mondo e oggi in effetti lo ha cambiato, ma nel senso che se lo è chiuso dietro le spalle a doppia mandata?
I giovani, i laureati e i londinesi hanno votato in larga maggioranza per restare. Gli anziani, i meno istruiti e gli inglesi di provincia per andarsene. La prova evidente che si è trattato di una scelta di paura, determinata da persone che, non avendo strumenti conoscitivi adeguati, hanno fatto prevalere la pancia sulla testa e la bile sul cuore. Di fronte all’incertezza del futuro, non hanno reagito con la curiosità ma con la chiusura. La retorica della gente comune ha francamente scocciato. Una democrazia ha bisogno di cittadini evoluti, che conoscano le materie su cui sono chiamati a deliberare.
La vecchietta di Bristol sapeva che il suo voto, affossando la sterlina, le avrebbe alleggerito di colpo il portafogli, dal momento che i suonatori di piffero alla Farage si erano ben guardati dal dirglielo?
Una parte di ragione però la vecchietta di Bristol ce l’ha. Molti di coloro che hanno votato «Leave» pensavano di non avere più niente da perdere. Nessuno fa volentieri la rivoluzione, finché avverte il rischio di rimetterci i risparmi o la sanità e la scuola gratuita per i figli. Il patto sociale su cui la Gran Bretagna e l’Europa si sono rette per sessant’anni garantiva a tutti una speranza crescente di benessere. Ma questa Europa con troppa finanza e poca politica non ha fatto nulla per frenare la caduta libera del lavoro, la smagliatura delle reti di protezione e l’impoverimento della piccola borghesia, che oggi la ripaga con la stessa moneta: disprezzandola.
Un maestro di tennis ti insegna che sul campo ci sono soltanto due posti dove stare: dietro la linea di fondo o sotto rete. Se traccheggi a metà, vieni infilzato. L’Europa è da troppo tempo a metà campo. O ritorna dietro la linea di fondo, come ha appena fatto la vecchietta di Bristol. Oppure decide di scendere sotto rete. Rimettendo al centro del progetto i cittadini, e non i mercati, e unificando il sistema fiscale, l’esercito e la politica estera. Il primo passo verso quegli Stati Uniti d’Europa in cui anche il ragazzo di Londra non vede l’ora di entrare.
Repubblica 25.6.16
Perché ora Trump diventa possibile
La sua candidatura appariva più che impensabile, risibile Esattamente come sembrava pochi mesi fa l’uscita inglese dalla Ue
di Vittorio Zucconi

«E NON finirà qui» gongola Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America fra sei mesi. E ha ragione.
In quella nazione che gli americani chiamano giustamente “The Mother Country”, la terra madre che ha dato agli Stati Uniti due secoli or sono il proprio Dna culturale, politico, istituzionale, si è alzato quello stesso vento che ha gonfiato la ribellione e alimentato il rancore di milioni di elettori americani in Usa e lo ha portato a una candidatura del partito che fu di Lincoln e Reagan che appariva, ancora pochi mesi or sono, più che impensabile, risibile. Esattamente come impensabile era apparsa la diserzione inglese dalla Unione Europea al premier britannico Cameron, quando ebbe la infelice idea di convocare il referendum che lo ha travolto.
Nella apparente diversità che separa i grandi eventi elettorali degli ultimi giorni nelle democrazie occidentali — il voto massiccio per la estrema destra in Austria, le importanti vittorie delle candidate di Grillo in grandi città italiane, il netto successo del Brexit (52 a 48 in un referendum non è affatto un risultato “risicato”) e l’atteso boom di Podemos in Spagna domani — c’è un segno comune che oltrepassa le personalità dei politici vincitori e le distinzioni ideologiche e i programmi, spesso rudimentali o embrionale. Ed è il rifiuto dell’esistente. È la sentenza di condanna politica contro chiunque sia in questo momento al governo di nazioni, di città, o di partiti tradizionali.
Una generazione dopo il crollo del Muro di Berlino, quell’evento che ha rimescolato l’assetto di un mondo che era rimasto immobile dalla fine della guerra senza proporne uno alternativo, altri muri stanno crollando, sotto le picconate di una crisi che va ben oltre le cifre dell’economia, le catastrofi e le truffe del “Big Money”, della grande finanza e del neo nomadismo che la fine dei blocchi ha rimesso in moto: la crisi di identità. Milioni e milioni di cittadini, abbandonati nella terra di nessuno fra la fine dello Stato Mamma, il welfare state socialdemocratico ormai insostenibile che aveva sorretto l’Europa e le promesse mancate di un neo liberismo che ha arricchito i ricchi e improverito i poveri tra delocalizzazione e speculazione, vagano come profughi di un’ansia che si coagula nel rifiuto del presente, troppo angoscioso.
Su questo bisogno divorante di ritrovare un’identità — che nell’estremismo fanatico e violento trova addirittura nei criminali dell’Isis un rifugio identitario — nasce il desiderio umanissimo, e impropriamente chiamato irrazionale di tornare al “default”, al passato della propria condizione, vista come i bei tempi antichi. I britannici che hanno scelto il salto nel buio sognano che in fondo al precipizio ci sia la mitica “Britannia” che un tempo dominava gli oceani e garantiva a tutti la pinta di “ale” al pub, la sanità pubblica e la pensione, mentre altrove si immagina il ritorno alla purezza etnica fra le valli delle Alpi, all’orgoglio della “Marianna” gallica o a un’immaginaria Arcadia del proprio villaggio. In circoli sempre più piccoli, sempre più provinciali, sempre più isolati e isolazionisti, i demagoghi coltivano l’illusione di tornare “padroni a casa propria”, mentre i governi in carica balbettano.
Questo è il percorso che Donald Trump sta compiendo, la strada che il Gps degli umori velenosi del nostro tempo gli indica e che potrebbe condurlo diritto alla Casa Bianca.
Chiunque, anche un Farage, anche un Boris Johnson, anche una LePen, anche un Hofer, anche un Putin, anche giovani, simpatiche sindache paracadutate alla guida di città ingovernabili, e dunque anche un Trump, sembra a molti migliore di chi governa al momento. Una metà della cittadinanza vota non “per” qualcuno, ma contro, per dare una lezione, per testimoniare la propria disperazione, per “provare”.
La forza di Trump è precisamente la voglia di chi è pronto a saltare da un edificio in fiamme, pur di sfuggire al presente, che in America sichiama Hillary Clinton. Non è tanto l’innamoramento per “The Donald”, quanto l’allergia all’establishment incarnato da lei e che anche Bernie Sanders aveva intercettato. Lei è vista dai Trumpistas, e dai Sanderistas, come l’erede e la rappresentante del potere in atto e come la campionessa di forze estranee, di stranieri — la finanza, le banche, le grandi aziende, le istituzioni sovranazionali, “loro” — che si sono impadroniti della nostra bella, pura, violata e mutilata Patria. «Io sono americano, noi siamo americani, ah, americani, americani, come vi voglio bene americani» ha ripetuto e intonato Trump nel suo ultimo discorso sul suolo americano prima di partire per la “Terra Madre”, le isole britanniche, «e io rifarò grande l’America, restituendole la sovranità», come se gli Usa fossero colonia e non, semmai, colonizzatori. Non è dunque un programma politico razionale, è un grido di disperazione identitaria che sempre, nei momenti di sbandamento e di polarizzazione velenosa, gli incantatori lanciano. Sapendo che niente è più efficace, per chi si sente smarrito, reso anonimo dal tempo in cui vive, del messaggio fondamentale del nazionalismo: la rassicurante certezza che i nostri guai siano sempre colpa di altri.