sabato 27 agosto 2016

Repubblica 27.8.16
Il mio Dante primo umanista che voleva salvarci tutti
Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico
di Alberto Asor Rosa


È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, “Il viaggio di Dante” (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto. È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante — non è un mistero per nessuno che
la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria — episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito…).
Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante…). Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, — e anche nel senso più letterale del termine — la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale. Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè… Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?). Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani. Se uno rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione, non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue forme.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, — come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, — infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, — Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice — trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno. Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare. Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, — di tutto il mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, — quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, — senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre tutti, — non solo i pretesi o presunti specialisti, — un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.
Repubblica 27.8.16
Birra
Così il nettare delle dee egizie diventò un’icona proletaria
È la prima bibita creata dall’uomo, diffusa in tutte le antiche civiltà Ma è la rivoluzione industriale a trasformarla in consumo di massa
di Marco Belpoliti


La birra è stata la prima bevanda alcolica che ha bagnato le labbra umane. La prima bibita in assoluto, e anche la più facile da produrre. Nel 4000 a.C. c’era già. Segue la cosiddetta domesticazione dei cereali. C’è un pittogramma, proveniente dalla Mesopotamia, dove si vedono due figure umane intente a sorbire birra da un vaso di coccio munite di una cannuccia. La birra viene dalla zuppa che i nostri antenati sorbivano: orzo e frumento. Dalla fermentazione di questa pappa, dagli zuccheri che si trasformano in alcol grazie all’azione dei lieviti. Nel recipiente galleggiano chicchi, loppa e altri resti, da cui l’uso della cannuccia. Ha ragione Tom Standage quando scrive che questa bevanda alcolica non è
stata inventata, ma scoperta. Più a lungo si lascia fermentare il grano trasformato in malto, più è alcolica la bevanda.
Non c’è popolo della Mezzaluna Fertile che non la conoscesse. Gli egiziani producevano ben 17 tipi diversi di birra, per non parlare dei sumeri. Dalle Americhe all’Africa e all’Eurasia era conosciuta da molti popoli e civiltà. Le tecniche per filtrarla si diffondono ben presto, così come l’avvento della ceramica produce i bicchieri per berla singolarmente. Nel poema di Gilgamesh, poema sumerico (2600-2500 a. C.), viene narrata la storia di Enkidu, uomo selvatico, introdotto alla civiltà da una giovane donna. Lei lo conduce in un villaggio di pastori e gli fa assaggiare la birra: sette brocche beve Enkidu. Diventa allegro e canta con gioia; è alticcio, ubriaco, ma proprio così diventa umano: «Si spruzzò d’acqua il corpo irsuto/ si cosparse d’olio e diventò umano».
La birra è anche un prodotto delle mani femminili. Sono le donne che la realizzano. Non a caso sono dee che la proteggono. Hathor mandata da Ra, divinità egizia, a sterminare gli uomini, si ubriaca di birra e si addormenta: sarà la dea della birra e della sua fabbricazione. Ninkasi è invece quella sumera e Menget, egizia, protegge le donne che la preparano.
Non è ancora la birra che conosciamo noi, perché il luppolo non è entrato nella formula, ma costituisce uno degli elementi principali della alimentazione. Poiché conservarla a lungo era difficile, veniva bevuta prima della fermentazione, quando ancora gli zuccheri si stanno mutando in alcol, così che ha una bassa gradazione; tuttavia è ricca di lieviti in sospensione e questo aumenta di molto il contenuto delle vitamine e proteine, in particolare della vitamina B, che compensa il basso consumo di carne in un periodo in cui la caccia sta cedendo alla agricoltura. La cosa notevole è che la birra resterà per migliaia d’anni la bevanda alcolica più bevuta; il vino è più raro e complicato da produrre, a partire dalla coltivazione della pianta, la vite.
Nel Medioevo la birra è alla base della alimentazione, prima che il vino le contenda il primato. Ma i contadini, la povera gente, non avrà accesso al vino per lungo tempo, bevanda molto più costosa, genere di lusso, nonostante che sia già conosciuta dall’epoca del re assiro Assurnasirpal II (870 a. C. circa); il sovrano per mostrare la propria potenza e ricchezza ricorre alla “birra delle montagne”, ovvero al vino.
La birra, scrive Standage, permea le vite dei popoli dell’Egitto e della Mesopotamia dalla nascita alla morte. Nel Medioevo saranno i monaci a produrla, come certificano ancora oggi marchi e nomi di pregiate birre in commercio. Sono loro a introdurre il luppolo che farà della birra della Mezzaluna Fertile la bevanda che beviamo ancora oggi. Si distingue così tra cervogia, che è prodotta con grano, orzo, e birra, che è invece quella fatta col luppolo. Un medioevalista francese, Jean Verdon, sostiene che si parla di birra solo dal IX secolo; la parola stessa viene dal neerlandese, appare in fiammingo, bier, solo nel XII secolo e in francese nel XV. Bisognerà attendere la fine del Medioevo perché il luppolo trionfi davvero.
Sono le abbazie che la producono, lontano dalle città, e pertanto non in grado di commercializzarla: uso e consumo limitato ai monaci. Il più antico diritto di fabbricarla che conosciamo rimonta al 974, una chiesa di Liegi, concesso dall’imperatore Ottone II. In questo periodo la birra assume vari nomi: brumas, da Brema; homberg, da Amburgo; hoppe, di luppolo; hacquebart, birra leggera; brouquin, forte. Il Nord Europa preferisce la birra, mentre il Sud si orienta verso il vino. Resterà così per secoli. La birra avrà due concorrenti: il sidro che, sostiene Verdon, nel XV secolo ha la meglio; e il vino, che va affermandosi pian piano.
Tuttavia la birra resterà, come il tabacco, legata prima di tutto al mondo militare. Dall’epoca degli assiro-babilonesi ai soldati di ventura del Rinascimento, sino agli eserciti moderni, la birra sarà fondamentale per l’apporto energetico. Fino a che l’arrivo dello zucchero e del tè non la scalzeranno definitivamente dal desco operaio. In una famosa incisione di William Hogarth, Beer Street (1751) si contrappone a Gin Lane, all’epoca della “epidemia di gin”, quando l’acquavite sopravanza la birra moderatamente alcolica causando gravi danni in Inghilterra. Il proletariato lascia la birra per il distillato con conseguenze nefaste. La birra non è solo una bevanda, ma dall’epoca egizia sino al Medioevo è anche un modo di consumarla: bere alcol crea comunità. Karl Kautsky, il marxista tedesco, sosteneva che senza osteria «per il proletariato tedesco non solo non c’è vita sociale ma nemmeno politica». La birra è stato perciò anche un carburante politico oltre che energetico. Almeno fino a che non è diventata, come accade ora, una bevanda cool. Nessuno saluta più con l’espressione “pane e birra”, tuttavia si continua a brindare “alla salute”, retaggio della antica fede nelle qualità magiche di quei calici che s’alzano.
Sarà la rivoluzione industriale con le sue tecniche di pastorizzazione nel 1876 a cambiare il modo di produrla. Birra, e sai quello che bevi.

Per saperne di più
T. Standage in Una storia del mondo in sei bicchieri (Codice edizioni) vi dedica un ampio capitolo; J. Verdon ne racconta la storia medievale in Bere nel Medioevo (Edizioni Dedalo); W. Schivelbusch ne fa ampi cenni in Storia dei generi voluttuari (Bruno Mondadori); Giuseppe Vaccarini fornisce molte utili informazioni sulla birra del passato e del presente in Il manuale della birra (Hoepli).
6. Continua
La Stampa 27.8.16
Depressione e disturbi bipolari. Complice è la primavera
Il picco di chi tenta di togliersi la vita è tra marzo e giugno
Lo studio dell’Università di Torino: ricoveri legati alla stagionalità
di Noemi Penna


Maledetta primavera. Questa volta non c’entrano le pene d’amore: lo sbocciare della natura, almeno nel Nord Italia, pare essere collegato anche all’aumento delle patologie psichiatriche acute.
Il freddo, le giornate con poca luce, la solitudine e i problemi famigliari, a questa latitudine, non incidono sull’aumento delle patologie psichiatriche, tanto meno sui suicidi. Altro che depressione natalizia: il picco massimo di chi premedita di togliersi la vita o tenta di attuarlo è appunto in primavera, proprio come l’emergere di disturbi bipolari. Ad analizzare la stagionalità dei ricoveri psichiatrici d’urgenza, e a fare l’affascinante (e inattesa) scoperta, è uno studio nostrano che ribalta i precedenti. Gli unici sinora ad aver studiato su vasta scala la stagionalità sono i ricercatori del Nord Europa, dove l’inverno è molto più rigido che in Italia ed esiste un impatto diverso della luce e quindi della ciclicità dei sintomi psichiatrici.
Patologie e sintomi
Ad aver condotto la ricerca, analizzando le cause dei ricoveri psichiatrici in rapporto alla stagionalità, è stato il professor Giuseppe Maina dell’Università di Torino, primario al San Luigi Gonzaga di Orbassano. «Da sempre sappiamo che le patologie psichiatriche sono collegate al clima – spiega lo psichiatria –, ma finora non sapevamo come la stagionalità influisse sui sintomi dei malati psichiatrici alla nostra latitudine». Ed ecco la scoperta: «Il cambio delle stagioni incide sul numero delle psicosi, così come sui suicidi e sul numero dei trattamenti sanitari obbligatori, ma con risultati che ribaltano l’immaginario comune. I picchi sono fra marzo e giugno mentre a dicembre si ha il minor numero di accessi».
Cause inattese
Lo studio – realizzato con i dottori Andrea Aguglia, Marta Moncalvo e Francesca Solia e da pochi giorni pubblicato sull’International Journal of Psychiatry in Clinical Practice – si basa su un campione di 730 ricoveri eseguiti fra settembre 2013 e agosto 2015. Oltre alle cause del ricovero, per ogni paziente sono stati valutati età, sesso, livello di studio, occupazione e stato civile, creando così un’inedita fotografia dei malati psichiatrici, per valutare al meglio la stagionalità dei sintomi in base a dove vivono.
La prevalenza dei ricoveri non volontari è risultata del 15,4%: questi pazienti hanno un’istruzione di livello superiore alla media e gli episodi hanno avuto un picco nel mese di giugno, abbinato anche a tempi di ricovero più lunghi rispetto a episodi verificatisi in altri periodi dell’anno. Ad aumentare in estate è invece la schizofrenia, che si attesta una patologia strettamente collegata al caldo. «Questi dati confermano che la stagionalità ha un ruolo importante nella psicopatologia dei disturbi psichiatrici e influenza anche il numero dei ricoveri ospedalieri», afferma il professor Maina. «Questo ci conduce ora a creare un nuovo modello di cura stagionale, per la diagnosi e il trattamento dei disturbi mentali anche in Italia. E ci aiuterà soprattutto nella prevenzione, ovvero ad individuare e intervenire prima che si renda necessario un ricovero d’urgenza».
Prossima ricerca
Ma questa scoperta apre anche ad altre domande. «Le patologie psichiatriche appaiono strettamente collegate ai ritmi biologici, come il sonno e i cambiamenti ambientali - conclude lo psichiatra - e abbiamo fornito ulteriori prove sulla gravità dei disturbi in relazione alla vulnerabilità biologica, ma non sappiamo ancora il perché». Ora quindi si prosegue con la ricerca, «per analizzare i singoli fattori ambientali e sociali che accompagnano i cicli dell’anno».
Corriere 27.8.16
Nella città dei single fidanzarsi è una mission impossibile
di Maria Teresa Veneziani


Milano capitale dei single. Le mono famiglie sono più del doppio delle coppie: 379.035 contro 164.435. Il fatto è che qui il solitario vive bene, anche troppo. E il rischio è di lasciarsi sfuggire l’attimo e che la «singletudine» diventi la condizione cronica che incanalerà il nostro/vostro destino. Nulla di male, per carità. La solitudine per la maggioranza dei single è una scelta di libertà e indipendenza. Inebriante come una droga, soprattutto fra i 40enni, generazione in cui l’acceleratore interno preme sulla leva dell’ambizione. Alla lunga, però, finisce per pesare e anche il più incallito dei solitari si ritrova a sperare di incontrare qualcuno di interessante, capace di far cadere il muro impastato di diffidenza, paura, senso di inadeguatezza, insomma tutte quelle certezze granitiche nelle quali si conforta e un po’ si inganna il single. Per quello «di ritorno» è diverso. Lui ha più la sensazione di sentirsi bloccato in una stazione in un giorno di scioperi. Ma vivere a Milano per un single è un’arma a doppio taglio: nessuno farà caso a te. Qui sono arrivati i primi cibi monodose da mettere direttamente nel piatto perché a far da mangiare solo per se stessi prende la pigrizia. Nei ristoranti poi è (quasi) una pacchia. Nelle altre città l’attesa fa crescere lo sconforto, costretta/o a veder sfilare tutte le portate per famiglie e coppie. Qui no: un bel sorriso e via; così, semmai, lasci il posto a un altro single che sicuramente si sarà attardato a «laurà». Anche al cinema ti consoli: davanti o accanto a te riconosci subito un tuo simile. Insomma, nessuna discriminazione per chi vive in solitaria a Milano. Un fatto tanto normale che ti rende trasparente. E fidanzarti – just in case – diventa una Mission Impossible. Lo cantava già Memo Remigi nel 1965: Sapessi com’è strano/sentirsi innamorati /a Milano/ senza fiori senza verde /senza cielo senza niente/ fra la gente, tanta gente».
Corriere 27.8.16
I genitori e i super figli. Le radici del bullismo
di Silvia Vegetti Finzi


Grandi aspettative, richiesta di successi scolastici e sportivi: ecco come (e quando) l’agonismo di mamma e papà creano inadeguatezza. E quindi aggressività
Nel tempo della «paura liquida», il problema del bullismo sembra essere uscito dalle aule scolastiche per rivelarsi un fenomeno collettivo vasto e complesso.
Come sopraffazione frequente e ripetuta del più forte sul più debole, il bullismo è sempre esistito, ma le modalità con cui ultimamente si manifesta sono del tutto nuove. Nella famiglia patriarcale era l’esito di un’educazione autoritaria e punitiva, per cui i figli erano indotti, aggredendo i compagni, ad agire attivamente quanto avevano subito passivamente. Nell’attuale famiglia, permissiva e iperprotettiva, è difficile per i figli prendere le distanza dai genitori per diventare se stessi, magari diversi da come li avevano sognati. Nell’era dell’agonismo i ragazzi sono sottoposti a una pressione fortissima da parte delle famiglie che spesso pretendono l’impossibile: che siano i primi nella scuola, nello sport, che esprimano talenti. Sognando per loro il premio Nobel per la scienza e la medaglia d’oro alle Olimpiadi.
L’eccesso di aspettative rischia di scatenare un senso di inadeguatezza che può trasformarsi in aggressività nei confronti di se stessi o dei coetanei. Per i figli è difficile contrapporsi a genitori iperprotettivi, amorevoli e accudenti, che agiscono solo per «amore». Per la loro incolumità non gli permettono di affrontare rischi e pericoli, per renderli felici non gli fanno mancare nulla, per garantirgli un futuro di successo scelgono per loro le scuole, lo sport, gli amici, le vacanze, la facoltà universitaria, la professione. Con il risultato di crescerli fragili e insicuri, privi di anticorpi contro le inevitabili frustrazioni della vita. Non riuscendo a sottrarsi alle aspettative dei genitori, finiscono spesso per sentirsi irrisolti e inadeguati. E l’aggressività, potenziata dallo sviluppo sessuale, anziché essere utilizzata per emanciparsi dalla dipendenza infantile, è rivolta contro sé o contro gli altri. Nel primo caso i ragazzi, convinti di non potercela fare, si ritirano dalla competizione e, chiudendosi nella cameretta, s’immergono nel mondo virtuale, dove tutto sembra possibile. Nel secondo decidono di proiettare sugli altri le parti inaccettabili di sé. In questa prospettiva, ogni forma di diversità risulta persecutoria per cui si sentono autorizzati ad aggredire il compagno gay, oppure l’extracomunitario, l’handicappato, quello troppo grasso o troppo basso, il primo della classe o il «bravo bambino della sua mamma».
Il luogo privilegiato è la scuola, dove il bullo trova complici e spettatori pronti a partecipare e approvare i suoi comportamenti violenti. Poiché il bullismo finisce per coinvolgere tutta la classe, l’attenzione degli insegnanti deve estendersi alle relazioni che intercorrono tra gli alunni.
Così come non è possibile tracciare un identikit del bullo, anche la personalità della vittima non è facilmente individuabile. Si tratta per lo più di ragazze alle quali vengono sottratte immagini compromettenti da divulgare in Internet. Ma esiste anche un bullismo femminile che provoca lividi dell’anima ancor più dolorosi di quelli del corpo. Di fronte a quella che si presenta come un’epidemia sociale, occorre affinare la sensibilità, promuovere l’ascolto, cogliere e decifrare i segnali di malessere che i ragazzi ci inviano, come un improvviso calo del rendimento scolastico, l’isolamento, il mutismo, disturbi psicosomatici, la dipendenza da Internet. Ma per aiutarli davvero è necessario che l’ansia dilagante sia contrastata da dosi massicce di fiducia e di speranza e che,all’individualismo narcisista dell’Io, si sostituisca il Noi generazionale della solidarietà e della collaborazione.
Corriere 27.8.16
So chi uccise la famiglia Einstein
La regista Lorenza Mazzetti, sopravvissuta all’eccidio nazista
«Sul web ho riconosciuto l’uomo delle SS, killer dei miei parenti»
di Stefania Ulivi


«Ora so chi ha ucciso la famiglia Einstein, sono stata in Germania a metà giugno per denunciare alla polizia colui che ritengo essere il responsabile dell’eccidio di mia zia e delle mie cugine, Cicci e Luce». E anche della morte, successiva di qualche mese, dello zio. Robert Einstein — cugino di Albert, il Nobel per la fisica, ebreo, fuggito in Usa agli albori del regime di Hitler — si suicidò nel 1945 devastato dal dolore. La strage di Rignano sull’Arno del 3 agosto 1944 è un capitolo tragico della storia d’Italia. Lorenza Mazzetti — regista, scrittrice, pittrice, classe 1927 — l’ha vissuta quando era bambina. In quella villa in Toscana viveva con la gemella Paola. Gli Einstein le avevano adottate piccolissime, rimaste orfane di madre, e poi di padre. Una vita idilliaca finita brutalmente.
Un orrore da cui è fuggita e che ha poi ricostruito scrivendo ( Il cielo cade , premio Viareggio) e dipingendo come nelle illustrazioni di Album di famiglia che La Nave di Teseo ripubblicherà presto. E di cui ora, anche grazie a Internet, è convinta di aver scoperto i responsabili. Le SS. «È stato un assassinio politico per colpire Albert». Di quel giorno, racconta al Corriere , ricorda le uniformi scure, il volto del capitano che fece scendere la zia, Cesarina Mazzetti, sposata all’ingegnere Robert Einstein, e le figlie. «Occhi chiari sotto gli occhiali». Un uomo senza volto per decenni. Poi, passando in rassegna su Google con la gemella Paola le foto di criminali nazisti è certa di averlo riconosciuto. «Johannes Robert Riis, che usava anche il nome di Hans».
Un sergente delle SS che partecipò all’assassinio di 175 civili a Padule di Fucecchio il 23 agosto del 1944 e che, a 94 anni, vive libero in Baviera. «Quando arrivarono i tedeschi eravamo certi che ci avrebbero ucciso tutti, lo pensavano anche i contadini. Invece fecero scendere la zia, poi Luce e Cicci e sentimmo gli spari. Non fu una strage indiscriminata come Fucecchio. Volevano loro». Il massacro è tuttora senza colpevoli, l’ipotesi che fosse opera del 104 Reggimento Panzergrenadier della Wermacht in ritirata non ha mai convinto le gemelle Mazzetti. «Sono passati tanti anni ma mai abbastanza per smettere di chiedere giustizia. Non c’è rabbia ma il male non si cancella».
Una vita, un romanzo, quella di Lorenza. Anzi cento. Alcuni capitoli sono il cuore del documentario Perché sono un genio (che sarà presentato a Venezia 73 nella sezione Classici) di Steve Della Casa e Francesco Frisari. Del Novecento Lorenza Mazzetti ha patito gli orrori (la devastazione nazista su tutti) e incarnato favolosamente l’ansia artistica e creativa. Una vena tuttora inesausta che ha toccato cinema, pittura, poesia, letteratura. Una donna che ha «saldato i debiti con la vita ancor prima di viverla», come spiega con candore. Persero i genitori da piccolissime, le gemelle Mazzetti. Nella villa del Focardo con gli zii Robert e Nina e le cugine Cicci e Luce, praticamente delle sorelle maggiori, ricominciano a vivere. Poi la fine feroce.
Anni dopo, in fuga dal ricordo di quell’orrore, la troviamo a Londra, cameriera squattrinata e quindi tra i fondatori del Free cinema, regista di uno dei film manifesto, Together , premiato al Festival di Cannes nel 1956. Quindi a Roma, vincitrice nel 1961 del premio Viareggio con il libro Il cielo cade (protagonista una bambina, Penny, che con la gemella Baby assiste allo sterminio per mano tedesca della zia Katchen e le due cuginette e al suicidio dello zio) , pubblicato grazie all’interessamento di Cesare Zavattini e Attilio Bertolucci. Poi, ancora, pittrice, collaboratrice di Vie nuove , il settimanale del Pci, burattinaia a Campo de’ Fiori, pittrice.
Un’artista multiforme, anche se lei la fa più facile. «Non sono una scrittrice, ho scritto dei libri. Non sono una pittrice, ho dipinto dei quadri. Non sono una regista, ho diretto dei film». Il tutto costellato da incontri fuori dall’ordinario: gli amici del Free cinema (Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson) e i loro amici (Richard Harris, Malcom McDowell che con Bernardo Bertolucci e David Grieco, il figlioccio, la racconta nel doc veneziano). E, ancora, Pasolini e Rod Steiger, Marguerite Duras e Gian Maria Volonté...
Tutti a proprio agio nel favoloso mondo di Lorenza, dove lei si muove leggera («Nulla è importante a parte che tutto è importante»). Con una complice speciale: la gemella Paola, («il mio angelo, siamo come un’unica persona»). E una certezza. «Anche nei momenti più duri ho sempre cercato di seguire il desiderio di fare l’impossibile».
Corriere 27.8.16
L’ultimo Nenni difese Craxi
Nel 1979 contestò le «accuse ingiuste» rivolte al leader del Psi dai suoi rivali
di Paolo Mieli


Tutti gli appunti di un politico protagonista del Dopoguerra
Esce in libreria giovedì 1° settembre il volume Socialista libertario giacobino. Diari (1973-1979) , che raccoglie gli appunti del leader socialista Pietro Nenni (1891-1980) curati da Paolo Franchi e da Maria Vittoria Tomassi (Marsilio, pagine 512, e 25). I diari di Nenni che risalgono a periodi precedenti sono stati pubblicati negli anni Ottanta in tre volumi, a cura della figlia Giuliana Nenni e di Domenico Zucaro, dalla casa editrice SugarCo. Il primo volume, che copre il periodo 1943-1956, uscì nel 1981 con il titolo Tempo di guerra fredda e una prefazione di Giuseppe Tamburrano. Il secondo, intitolato Gli anni del centro-sinistra , include i diari scritti da Nenni tra il 1957 e il ’66: venne pubblicato nell’82 sem-pre prefato da Tamburrano. Il terzo riguarda gli anni dal 1967 al 1971: uscì nel 1983 con il titolo I conti con la storia e una prefazione di Leo Valiani.

A Capodanno del 1980, quando Pietro Nenni morì, un suo vecchio amico, Dino Gentili, raccontò che pochi giorni prima l’anziano leader socialista gli aveva confidato le sue perplessità circa la conduzione del Psi da parte di Bettino Craxi, in quel momento sotto il fuoco concentrico dei suoi compagni di partito (si salvò soltanto grazie alla defezione di Gianni De Michelis dalla sinistra lombardiana e dal campo dei cospiratori). Gentili raccontò che Nenni aveva lasciato un memoriale in cui argomentava punto per punto le riserve sul suo delfino. La figlia di Nenni, Giuliana, sostenne che tra le carte del padre non c’era traccia di quello scritto e lasciò intendere che la rivelazione fosse parto della fantasia di una persona ostile al segretario socialista. Adesso che vengono pubblicati (da Marsilio) i diari di Nenni tra il 1973 e il 1979 — con il titolo Socialista libertario giacobino — si è portati a dar ragione alla figlia dello statista, dal momento che in quelle pagine non c’è traccia di qualcosa che assomigli neanche vagamente al memoriale di cui aveva parlato Gentili. Anzi nell’ultima annotazione, quella del 21 dicembre 1979, si parla di «accusa ingiusta» rivolta a Craxi e si accusano i capi del Psi da Nenni incontrati in quei giorni — da Riccardo Lombardi a Giacomo Mancini a Gaetano Arfè a Mario Zagari — di essere «interessati prevalentemente alle beghe del partito più che allo stato drammatico del Paese». Per poi aggiungere: «Purtroppo così fu nel biennio rosso 1919-21 e in modo ancora più accentuato nel biennio nero 1921-22». Parole che non sembrano appartenere ad una persona intenzionata a condividere l’iniziativa per far fuori Craxi.
Certo, si potrebbe insinuare che ai due curatori, Paolo Franchi e Maria Vittoria Tomassi, quelle carte non siano state fatte vedere. Ma sarebbe bizzarro, dal momento che in altre parti delle memorie sono state rigorosamente conservate (e pubblicate) annotazioni critiche nei confronti dello stesso Craxi. A partire da quella del 16 luglio 1976, quando il leader socialista, a coronamento della manovra che spodestò Francesco De Martino, fu eletto segretario del Psi. Quel giorno Nenni scrive che avrebbe meritato maggior attenzione la «candidatura» di Antonio Giolitti. Poi un’annotazione severa: «Craxi, per parte sua, arriva dove voleva senza imbrogli, anche se non per la sola via che conta, quella di un confronto politico di fondo… Infatti al Comitato centrale non ha neppure parlato». Colpa del fatto che, scrive Nenni, «attendere la propria ora non è più una virtù». Qui sì che Nenni prende le distanze da lui, rilevando come fosse «il candidato in primo luogo di Mancini, dei giovani della sinistra, di una parte dei demartiniani». I giornali, aggiunge, «lo dicono mio delfino; lo è stato nel 1969, quando io fui battuto in un Cc più drammatico di quello attuale, sulla questione della unificazione… In questi ultimi tempi faceva parte a se stesso». Però poi non gli farà mai mancare una nota di affetto. Ai tempi del sequestro di Aldo Moro apprezzerà la sua scelta di sottrarsi all’«isteria della ragion di Stato». E allorché nel luglio del 1979 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli affiderà l’incarico di formare il governo, lo paragonerà a Giulio Andreotti e scriverà: «Della generazione che ci ha sostituito è per certo il meglio preparato… Impossibile per me dargli l’appoggio che vorrei. Indirettamente gli serve un motto che circola per tutto il Paese: Nenni ha seminato, Craxi vendemmia. Così fosse!». «Ai numerosi apprezzamenti», rileva con acutezza Paolo Franchi, «corrispondono quasi altrettanti rilievi critici, spesso riferiti, i primi come i secondi, allo stile di comando dell’uomo». In generale, però, Nenni, prosegue Franchi, «sostiene, seppure con il distacco dettato dalla sua età e dal suo rango, il nuovo segretario, assai più di quanto avesse fatto con i suoi predecessori». Peraltro l’anziano leader si era da tempo allontanato dalla politica attiva. Non senza una punta di amarezza.
E gli uomini politici della generazione successiva alla sua? Nel febbraio del 1974 Nenni prende nota dei primi passi di Ciriaco De Mita, che sarà il rivale democristiano di Craxi. Lo fa in margine allo scandalo dei petroli e all’attività di quelli che furono chiamati i «pretori d’assalto». Riferisce che Giolitti ha sentito il «ministro De Mita» che diceva a Mariano Rumor: «Questi pretori sono dei banditi». Nenni non è d’accordo: «Sono semmai degli sprovveduti ma riflettono una volontà di pulizia morale e di onestà amministrativa che finirà per prevalere se tutto non dovrà essere sommerso e perduto di quanto fu creato trent’anni orsono». E sul finanziamento pubblico dei partiti scrive: «Un orrore, direi anch’io con Terracini». Simpatia per l’anziano comunista libertario Umberto Terracini oltreché nei confronti del giovane ancor più libertario Marco Pannella e delle sue campagne per divorzio e aborto.
Colpisce la sua diffidenza nei confronti dei sindacati. Affronta il tema del «carattere degenerativo e festaiolo della scioperomania». Un caso che riguarda il personale della Rai-tv: «lo sciopero doveva essere di quattro ore e si è risolto invece nell’abbandono del lavoro per tutta la giornata e in un ponte supplementare di tre giorni. Tre giorni di vacanza e non di lotta!». Ancora il 25 marzo del 1975: «Scioperi su scioperi. Oggi sciopero generale del pubblico impiego, ferrovieri compresi, direttamente rivolto contro il governo… nessuno sembra porsi il quesito: e poi? Eppure bisogna porselo, visto che lo sciopero è un mezzo, non il fine».
Resta in lui la delusione per le elezioni presidenziali del 1971, quando gli è stato preferito Giovanni Leone. Ma non nutre risentimento verso Leone, sul cui coinvolgimento nell’affare Lockheed manifesterà più di un dubbio. Piuttosto, riferisce, «non fui sostenuto quanto era necessario da Mancini, che era allora alla segreteria del Partito e forse neanche da De Martino». A decidere per Leone al Quirinale, scrive, «furono Saragat e La Malfa che gli portarono i loro voti». Si giustificarono «con l’argomento fasullo che io finivo per essere il candidato dei comunisti». Ma «in nessun caso io potevo essere eletto». Un’assemblea «moderata come il Parlamento non poteva fare di me, uomo della Settimana rossa, il capo dello Stato». Definisce una «posizione coraggiosa» quella di Enrico Berlinguer sul compromesso storico. Tiene però a precisare che «in verità si può governare con il 51 per cento dei voti; lo ha fatto e lo fa addirittura con il 47-48 per cento la socialdemocrazia svedese, lo ha fatto la socialdemocrazia tedesca». Critica i ritardi del Pci sulle società dell’Est e quando un gruppo di intellettuali comunisti si pronuncia contro la repressione in Cecoslovacchia, il suo commento è: «Alla buon’ora!» (13 gennaio 1977). Ai tempi del referendum sul divorzio, tra il 1973 e il 1974, segue la vicenda con grandi speranze attenuate da un qualche disincanto. Riferisce di un incontro con il comunista Paolo Bufalini che vorrebbe evitare il referendum ufficialmente per il timore di perderlo, in realtà per non far morire sul nascere la politica del compromesso storico. Apprezza, come si è detto, i radicali di Pannella. A referendum vinto racconta delle congratulazioni ricevute dal laburista britannico Harold Wilson e dal socialista francese François Mitterrand. Ma subito dopo, colti i segnali provenienti dalla politica, conclude sconsolato: «Il referendum? Due o tre giorni di entusiasmo, poi tutto finisce in scetticismo e scoraggiamento».
Poi quando Pannella entrerà in Parlamento, nel 1976, saluterà il suo come un «debutto clamoroso», prevedendo che saprà dimostrare «quanto può fare anche un piccolissimo gruppo se sganciato dalla ipocrisia delle concessioni tra governo e opposizione». Ma quando i seguaci di Pannella (assieme a qualche socialista) si batteranno per estromettere dal Quirinale Leone, sarà tra i pochi a vedere per tempo tutti i problemi dell’operazione: «Possibile che i radicali non se ne rendano conto? Possibile che ci siano socialisti accecati dalla demagogia al punto di non vedere a quale rischio esporrebbero la Repubblica?».
È critico nei confronti delle dichiarazioni comuni tra i segretari del Pci e del Psi. Come quella di Berlinguer e De Martino dell’agosto 1975 sulla crisi portoghese. «Se il giudizio di fondo dei due partiti è diverso non ha senso firmare delle dichiarazioni comuni». Si dispiace quando Giorgio Amendola scrive in un libro che sua figlia Vittoria, morta ad Auschwitz, era comunista. Ma Amendola gli chiede scusa e aggiunge ironico: «Non vorrei che tu vedessi anche in questo episodio una prova dell’espansionismo comunista».
Lungimiranti le sue considerazioni sull’Europa: «Gli inglesi restano con l’Europa», scrive il 7 giugno 1975; «nel referendum la percentuale del sì è stata del 68,9% una vittoria superiore al previsto per gli europeisti e per Wilson che s’era in definitiva unito ad essi. Una sconfitta per la sinistra laburista assai pesante, che l’accomuna alla destra conservatrice non ancora guarita dalle nostalgie imperiali. Un fatto importante per l’Europa e per il mondo». E ancora: «L’Europa, mi ha detto Giolitti di ritorno da Parigi, ci guarda con sarcasmo o addirittura con disprezzo. Nessuna fiducia in noi e nella nostra capacità di ripresa, nel che forse c’è un errore… Il giudizio di Giolitti è molto pessimista come del resto lo è sempre stato dal 1964 in poi. Il guaio è che con il pessimismo non si guida una nazione» (2 giugno 1974). Ce n’è anche per i partiti fratelli: «Rimane un mistero che i socialdemocratici siano in declino proprio nei Paesi più prosperi dell’Europa» (4 ottobre 1976).
Nei diari c’è anche la Cina di Mao. Nell’agosto del 1973, la «Pravda» accusa Nenni di «avvalersi persino del maoismo pur di attaccare l’Unione Sovietica». «Sciocchezze», è la sua replica con due punti esclamativi. Ma quando nel settembre del 1976 Mao morirà, lascerà sul suo diario parole di grande ammirazione: «È stato uno degli uomini più grandi del secolo. È stato qualcosa di più del capo della rivoluzione in Cina: l’interprete di un popolo sospinto dalla sua stessa storia millenaria a segnare un’impronta nei tempi presenti». Sorprendente la benevolenza del suo giudizio: «Per Mao la rivoluzione culturale è stata il mezzo per liberare la rivoluzione dalle incrostazioni burocratiche, militari, poliziesche che la soffocavano. Ciò che è stato caratteristico in Mao è la fiducia nell’uomo, è la prevalenza della politica sulla tecnica e sull’economia, è la nozione dell’uomo. Liberare l’uomo per liberare l’umanità… Se questo pensiero rimane alla guida della Cina, allora il dopo Mao non intaccherà la sua opera gigantesca».
Le Brigate rosse all’inizio provocano in lui un distacco tra l’ironico e il preoccupato. «Siamo tra la banda Bonnot che riempì di sé le cronache criminali e politiche francesi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento», scrive il 6 giugno 1975, «e le bande che Stalin mandava all’assalto dei furgoni che trasferivano da una banca all’altra l’oro dei feudatari russi». Poi, il 19 gennaio del ’76, qualcosa cambia. In polemica con il Pci si spinge a «comprendere» le Br: «Nei testi delle Brigate rosse è presente un certo pathos romantico e rivoluzionario. Ma i comunisti trattano il capo banda da provocatore senza peraltro addurre prove o sospetti validi. Staremo a vedere. Io credo che non si possa negare la buona fede a chi mette in gioco la propria pelle». In seguito però le pagine più toccanti saranno quelle dedicate al sequestro e all’uccisione di Moro. All’epoca Nenni ha 87 anni. Tra i suoi appunti, i ricordi di quando a fine ’63 lui e Moro avevano costruito il centrosinistra («Solo nel 1964, quando insorse il caso De Lorenzo, rischiammo una rottura»). E parole di autentico affetto. Trattenuto sarà l’8 luglio il giudizio sull’elezione di Pertini, pur salutata come un evento storico: «Con lui la Resistenza entra al Quirinale».
È un uomo della prima metà del Novecento. «Il poeta Montale», scrive in occasione del conferimento del premio Nobel all’autore di Ossi di seppia , «l’ho letto con interesse (il poeta Carducci lo leggevo con entusiasmo); l’uomo lo conosco appena (per quanto egli sia collega a Palazzo Madama, si vede ancora meno di me), ma la sua vita non ha le contraddizioni di quella di Carducci, e neppure le passioni. È cioè un uomo prosaico come prosaica mi pare la sua vena poetica». Si dice sconvolto al cospetto delle «oscenità degradanti» di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Nello stesso anno, 1973, va a vedere La grande abbuffata di Marco Ferreri: «Tutto è volgare», scrive, «soprattutto l’abuso del nudo femminile… Sono contro la censura, ma siamo noi gli spettatori che dovremmo boicottare pellicole del genere, nelle quali è assente ogni valore artistico». Aggiunge che anche la figlia Giuliana «era fuori di sé per l’indignazione». Quando muore Anna Magnani, la contrappone alle attrici dei primi anni Settanta: «era di una stoffa diversa dalle star, dalle dive, dalle spogliarelliste». C’è in lui una sorta di innocente e fanciullesco autocompiacimento. Gli piace moltissimo Alighiero Noschese: «Mi ha imitato come non si poteva meglio. Nelle battute si sentiva molta simpatia per me… Più perfido nelle imitazioni di Preti e La Malfa». Nel novembre del ’74, quando la tv manda in onda il De Gasperi di Ermanno Olmi, protesta: «Io non ci sono… compaio a lato del protagonista in un corridoio del Laterano». Stesso rilievo al film di Roberto Rossellini Anno Uno .
Nel 1980 Nenni morì. Trascorsero dodici anni e (quasi) scomparve anche il Psi. Nell’uragano che travolse il Partito socialista da qualche parte si tentò di coinvolgere la figura di Nenni. Tant’è che nella fase più infuocata di Mani pulite, ricorda Franchi con fine ironia, non mancò chi propose di cambiar nome alla piazza principale della sua Faenza. Piazza che, osserva Franchi, fortunatamente gli è tuttora dedicata.

Il Sole 27.8.16
Se anche la Fed diventa keynesiana
Constatati i limiti della politica monetaria per rivitalizzare l’economia, i banchieri centrali auspicano ora la crescita della spesa pubblica
Resta in auge lo strumento quantitative easing, s’appanna quello dei tassi d’interesse negativi
di Walter Riolfi


Siamo seri: ma come si può pensare che un rialzo di 25 miseri centesimi nel tasso Fed possa cambiare il mondo? Se a dicembre la banca centrale americana portasse il suo tasso di riferimento (medio) allo 0,625 (oggi è allo 0,375), la politica monetaria resterebbe ancora ultra espansiva: con un pil che cresce attorno al 2%, l’inflazione (core) al 2,3% e il paradosso di rendimenti di lungo periodo all’1,5%. I mercati, a sentire gli operatori nei giorni scorsi, sarebbero in preda alla costernazione, perché una Fed definita «falco», ossia aggressiva, cattiva (ma per chi?), creerebbe danni a un’economia che stenta a risvegliarsi da un letargo che dura da troppi anni.
In realtà provocherebbe danni solo ai mercati: a quella parte che per speculazione ha spinto talmente in alto i prezzi delle obbligazioni (dunque all’estremo ribasso i rendimenti) da causare enormi guai ai risparmiatori, ai fondi pensione, ai conti economici delle banche e delle assicurazioni e, in ultima, pure a tutti quelli che sono costretti a comprarsi un titolo a rendimenti negativi da consegnare come collaterale nelle operazioni di prestito e di protezione sulle valute. Forse creerebbe qualche momentaneo danno anche a Wall Street, perché l’insania di misurare la convenienza di un’azione in rapporto ai rendimenti obbligazionari ha spinto troppo in alto i listini di borsa.
In realtà qualche danno collaterale dovrebbe vedersi anche altrove: soprattutto nei debiti contratti in dollari dalle imprese dei Paesi emergenti, le cui valute soffrirebbero ancor più nei confronti di quella americana. Si può osservare che l’eccessiva euforia nei mercati del credito sia stata in passato alimentata proprio dalla politica della Fed. E s’è visto come i mercati abbiano agitato e suscitato ad arte quei timori nel tentativo, sempre riuscito, di condizionare la Fed. Sicché l’exit strategy, ovvero l’uscita da una politica monetaria di emergenza, s’è rivelata quasi impossibile.
Di tutto questo sarebbe sciocco incolpare i mercati che per natura badano solo al proprio interesse. L’anomalia sta semmai nel soggiacere al ricatto dei mercati, come ha fatto spesso la Fed, perché un rialzo dei tassi ventilato da almeno tre anni non s’è mai potuto fare: una volta perché crollavano le borse e le valute emergenti, un’altra perché pareva aggravarsi la crisi cinese, altre ancora perché stava rallentando l’economia americana o perché calava troppo Wall Street, o per i rischi della Brexit o perché, adesso, Donald Trump non può vincere le elezioni.
Ma dopo 7 anni di sperimentazione nelle più estreme, non convenzionali politiche monetarie, specie in Giappone e in eurozona, i banchieri centrali hanno maturato la consapevolezza che i soli strumenti monetari non possono risollevare le sorti di economie che non vogliono ripartire. Se una banca presta poco denaro o se qualcuno non può o non vuole indebitarsi nemmeno con un costo del denaro vicino allo zero, la politica monetaria dei tassi negativi finisce per creare più danni che vantaggi: nei prestatori, tra i risparmiatori e forse anche nella psicologia dei consumatori e degli imprenditori. Per queste ragioni si spiega l’enfasi posta da sempre più banchieri centrali sulla necessità di politiche fiscali che spettano, invece, ai governi: le sole, come hanno affermato nei giorni scorsi alcuni membri della Fed e come va da anni ripetendo Mario Draghi, capaci di stimolare gli investimenti e la crescita economica.
Va da sè che politiche fiscali espansive significhino anche crescita dei debiti pubblici, che sono mediamente a livelli record. È paradossale che banchieri centrali e mercati, che negli passati hanno semmai messo in guardia dall’esplosione del debito pubblico, si stiano adesso trasformando in fautori della spesa pubblica. In questo rifiorire di teorie keynesiane, starebbe maturando una irrituale alleanza tra governi che spendono e banche centrali disposte a monetizzare quei debiti attraverso il quantitative easing: che resterebbe lo strumento monetario preferito, come par di capire dalle parole della stessa Yellen. In ogni caso, uno strumento meno pericoloso dei tassi negativi.
il manifesto 27.8.16
Il senatore brasiliano Lindbergh Farias
«In Brasile, un golpe di classe»
Intervista di Geraldina Colotti


Con il Senatore Lindbergh Farias, del Partito dei lavoratori (Pt) di Rio de Janeiro, referente per i movimenti sociali, abbiamo discusso della procedura d’impeachment contro la presidente, giunta alle sue battute finali, e della crisi profonda che attraversa il paese.
Da senatore, come ha vissuto il processo d’impeachment a Dilma Rousseff?
La battaglia contro “il golpe dell’impeachment” è stata una delle più importanti esperienze politiche della mia vita. Abbiamo costituito un gruppo agguerrito di senatori del Pt e dei partiti alleati, ma la lotta è impari. Il presidente ad interim si è impadronito del potere e utilizza tutti gli strumenti di persuasione formali e informali di cui dispone lo Stato per usurpare in modo definitivo il mandato della presidente Dilma. La conclusione di tutto questo processo sarà tratta entro il 31 agosto, quando il senato, in plenaria, giudicherà la presidente Dilma per «crimine di responsabilità». Bisogna dirlo con chiarezza: si tratta di una farsa. Ho partecipato all’impeachment di Fernando Collor nel 1992, come presidente della Une (Unione Nazionale degli Studenti). Posso testimoniare che la proposta si è sviluppata solo dopo che furono raccolte, da una Commissione di Inchiesta Mista del Congresso, prove relative a conti fantasma  e trasferimenti di soldi per coprire spese personali. Invece, il processo di impeachment in corso si configura come un golpe proprio per questo: non sono venute fuori prove relative al fatto che Dilma abbia commesso un crimine di responsabilià. Le cosiddette «pedalate fiscali» e i «decreti supplementari» sono meri pretesti, già screditati dalla nostra difesa. La cosa è così scandalosa che la prima parte del golpe, quella realizzata in aprile, è stata diretta dal ben noto Eduardo Cunha, presidente della Camera, che ha accolto, per vendetta personale, una assurda denuncia di crimine di responsabilità. Perfino Miguel Reale Júnior, uno degli autori della denuncia, ha definito il suo accoglimento «esplicito ricatto». A causa di questa buffonata, l’immagine del Brasile all’estero è scesa così in basso come non era mai successo dai tempi della dittatura. Gli organi più autorevoli della stampa internazionale hanno affermato all’unisono: un golpe parlamentare si sta realizzando in Brasile e la prima tappa è stata consumata domenica 17 aprile. Perché il golpe vada in porto, tuttavia, deve ottenere la complicità del Senato, e probabilmente la otterrà nei prossimi giorni. Ma noi cercheremo di resistere.
Quanto contano le forze legate alla dittatura militare?
La dittatura militare brasiliana è finita con un accordo politico egemonizzato dai liberali nel 1984, molto tempo fa. E’ bene che si dica che non ci fu una rottura, ma una transizione. La differenza, rispetto ad altri paesi dell’America latina, è che noi brasiliani siamo usciti dalla dittatura, ma il paese non ha fatto i conti con quanti uccisero e torturarono militanti politici. Si è preferito passare la spugna e amnistiare anche i torturatori. Questo tipo peculiare di transizione dalla dittatura ha fatto sì che il Brasile non andasse a fondo nel necessario lavoro di ricostruzione dei nostri problemi politici . Questo è uno dei principali motivi dei fantasmi del passato di destra che tornano, al punto che nella “famosa” sessione di voto sulla possibilità di impeachment, un leader della destra brasiliana, il deputato Jair Bolsonaro, ha avuto il coraggio di rendere omaggio a un torturatore, il Colonnello Brilhante Ustra, responsabile diretto delle torture alla presidente Dilma durante la dittatura. Anche se non abbiamo fatto i conti con la nostra memoria, è bene che si dica che, durante più di venti anni, la destra, per così dire, “è restata nell’armadio”, vergognandosi dei crimini della dittatura. Di recente, però, ha perso la vergogna e porta avanti, in Brasile, una lotta aperta contro le forze democratiche, popolari e di sinistra. Si tratta, come in altre parti del mondo, di una destra truculenta che ricorre ad atti di violenza. Rispetto a questo, come in altre parti del mondo, anche in Brasile assistiamo a uno spostamento della lotta politica nella società verso posizioni estreme.
Quali scenari si aprono dopo il voto finale?
Nel caso in cui il golpe dell’impeachment vinca e il governo usurpatore di Temer consolidi il proprio potere, la nostra tattica sarà quella di combattere senza sosta il programma neoliberista radicale che i golpisti vogliono realizzare. In realtà, questa resistenza è già cominciata. Un programma di neoliberismo selvaggio come quello di Temer non riuscirebbe a vincere un’elezione diretta del presidente della Repubblica in Brasile, per questo hanno ricorso a questa soluzione traumatica di un colpo di Stato. In Brasile, i fantasmi di un passato, che sembrava morto, sono riapparsi. Ha cominciato a pesare contro i governi di Lula e Dilma un veto simile – anche se il Brasile e il mondo sono diversi – a quello che pesò sui governi di Vargas e Jango. Non sopportano i diritti dei lavoratori, un’economia nazionale indipendente e una politica estera sovrana. Vargas ha creato la Petrobras dopo una grande campagna civile, irritando la nefasta combinazione degli interessi geopolitici degli Usa e delle multinazionali petrolifere. Di nuovo, come dimostrano abbondantemente i comunicati diffusi da WikiLeaks riguardo allo spionaggio nei confronti della Petrobras e perfino dei cellulari della Presidenza della Repubblica, interessi geopolitici inconfessabili si intrecciano nella decisione del processo di impeachment. Non ci sono stati molti commenti, ma uno dei comunicati diffusi da WikiLeaks ha colto in flagrante il presidente ad interim. Vogliono farla finita con l’eredità dell’ «Era Vargas» (leggi relative ai diritti dei lavoratori, ndr), della «Costituzione Cittadina» (come Ulysses Guimarães chiamava la Costituzione brasiliana del 1988, ndr) e con le politiche sociali di Lula e Dilma. Per realizzare questo programma del grande capitale, Dilma rappresenta un ostacolo, deve quindi essere allontanata dal Planalto perchè il potere possa essere assunto da un governo golpista non eletto. Per riassumere, con un unico esempio, l’offensiva borghese contro i diritti dei lavoratori, questa viene bene espressa, senza imbarazzo, nella dichiarazione di Benjamin Steinbruch, capo della Compagnia Siderurgica Nazionale (Csn) e vice-presidente della Fiesp (Confindustria brasiliana): per lui, il lavoratore brasiliano ha il «privilegio» di «avere un’ora per il pranzo». Questo è lo scenario e l’intrigo della crisi permanente in cui si è trasformato il secondo mandato della presidenta Dilma, fino ad arrivare al voto dell’ impeachment al Senato. Nel Brasile del XXI secolo, a volte un po’ a tentoni e più in maniera empirica che in base a una costruzione teorica, i nostri governi del Pt, i governi di Lula e Dilma, hanno promosso l’ascesa sociale di decine di milioni di poveri e hanno stimolato lo sviluppo nazionale. Sul piano delle relazioni internazionali, dopo gli anni di asservimento dei tucani (quelli del partito di Cardoso, ndr) agli interessi Usa, hanno messo in atto una politica estera indipendente. Per questo vogliono che Dilma la paghi molto cara. In realtà, si parla molto di Temer, Cunha e di altri protagonisti politici del golpe. Ma esiste anche un soggetto nascosto di questo movimento: cioè le nostre elite dominanti, in particolare la borghesia brasiliana, coadiuvata da strati della nostra classe medio-alta. Rispetto a questo, il golpe di oggi, come i golpe del passato, è un golpe di classe.
Lei è considerato un referente per i movimenti sociali. Come intendete muovervi per contrastare i piani neoliberisti di Temer e le leggi rigoriste che ha annunciato?
La nostra attività è stata e sarà intensa. Nell’ambito del nostro mandato di senatori, abbiamo molti legami con i movimenti sociali, come il Movimento Sem Terra, il Fronte Brasile Popolare e il Fronte Popolo Senza Paura che sono stati fondamentali nella lotta contro il golpe. Dalle manifestazioni del giugno 2013, gli ultimi anni sono stati anni di intensa mobilitazione in Brasile. Le lotte contro l’impeachment sono molto cresciute, particolarmente importante è stata la mobilitazione del 16 aprile in tutto il paese. Tuttavia, il movimento sociale non è ancora riuscito a raccogliere forze sufficienti a sconfiggere i golpisti.
Il governo Temer spinge per spostare il Mersosur verso gli Usa e l’Europa e per cacciare il Venezuela. Qual è la sua opinione?
Rispetto al caso assurdo per cui il nuovo governo golpista non vuole affidare la presidenza pro tempore del Mercosur al Venezuela, il nostro gruppo di senatori ha subito manifestato il proprio dissenso. Il governo Temer – e non poteva essere altrimenti – si è rivelato disastroso anche nelle relazioni internazionali. In realtà, vogliono distruggere il Mercosur e qualsiasi tipo di politica estera indipendente. L’obiettivo chiaro è di fare del Brasile una specie di “cortile” degli Usa.Al contrario, bisogna dire che la relazione commerciale con il Venezuela è molto positiva per il Brasile. Tra 2003 e 2012, le nostre esportazioni verso questo paese sono cresciute da 608 milioni di dollari a 5 miliardi. In questo periodo, il Venezuela ci ha permesso di ottenere un surplus commerciale accumulato di 29 miliardi di dollari. Abbiamo esportato in Venezuela dagli alimenti a prodotti manifatturieri sofisticati. Il Venezuela è vitale anche per lo sviluppo della nostra frontiera amazzonica a nord e svolge un ruolo fondamentale per la fornitura di energia elettrica ai nostri stati della Regione Nord.
(Ha collaborato Serena Romagnoli)
il manifesto 27.8.16
Margine Protettivo: Israele si autoassolve, di nuovo
Gaza. La magistratura militare ha chiuso senza esiti 13 delle 31 inchieste su crimini di guerra commessi due anni fa durante la sua ultima offensiva militare
Saeb Erekat (Olp): l'unica strada è la Corte penale internazionale
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Mercoledì scorso le agenzie di stampa italiane riferivano, con ampio spazio, anche con filmati, della conclusione «nel migliore dei modi» della ”Operazione Safari”, ossia il trasferimento in Israele e in altri Paesi degli animali del malandato zoo di Gaza. Hanno oscurato l’ultimo capitolo di un’altra operazione di cui, nello stesso giorno, hanno riferito le principali agenzie di stampa internazionali come la francese Afp e l’americana Ap. L’Operazione “Margine Protettivo”. A due anni dalla conclusione dell’ultima offensiva israeliana contro Gaza – circa 2300 palestinesi uccisi, migliaia feriti, decine di migliaia di abitazioni e strutture industriali completamente o parzialmente distrutte – i comandi militari dello Stato ebraico hanno annunciato la chiusura di quasi la metà delle inchieste interne che avevano avviato. Sulle complessive 360 denunce di crimini di guerra, i giudici militari avevano trovato «prove sufficienti» solo per 31 indagini e 13 di queste sono state chiuse. Tre soldati sono stati rinviati a giudizio per atti di sciacallaggio. Niente di più.
Eppure erano insistenti le accuse di crimini di guerra rivolte a Israele da vari organismi internazionali e centri per i diritti umani al termine delle operazioni militari, a cominciare dalle Nazioni Unite. L’Onu, peraltro, non mancò di puntare l’indice anche contro il movimento islamico Hamas e i suoi lanci di razzi verso il territorio israeliano dove fecero alcune vittime civili (dei 73 morti israeliani, 66 erano soldati caduti in combattimento). Le polemiche andarono avanti per mesi e la Ong “Breaking the Silence”, composta da ex militari israeliani, pubblicò a ridosso del primo anniversario della guerra, decine di rivelazioni di soldati e ufficiali (anonimi) su violenze, bombardamenti indiscriminati e altre violazioni commesse dall’esercito nei 50 giorni di “Margine Protettivo”. Per la magistratura militare israeliana al contrario l’operato dei comandi e dei soldati sul terreno avvenne nel quadro delle regole di ingaggio e delle procedure (israeliane) previste durante combattimenti e incursioni in territorio nemico.
Tra i casi in cui non è stato riscontrato alcun illecito, si legge in un rapporto di 21 pagine, c’è anche il bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite a Rafah, a sud di Gaza, in cui rimasero uccisi dieci civili. L’attacco fu condannato con forza dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e definito «vergognoso» anche dagli Stati Uniti, i principali alleati di Israele. Il presidente francese Francois Hollande parlò di un bombardamento «inaccettabile» e invocò un procedimento giudiziario contro i responsabili. Di altro avviso sono stati i giudici militari. Nel loro rapporto, a proposito di questo caso, si legge che erano stati individuati tre combattenti palestinesi in sella ad una moto. I comandi militari quindi avrebbero preso la decisione di colpirli con un missile a basso potenziale per minimizzare i danni intorno all’obiettivo. Tuttavia quando fu lanciato i tre combattenti presero «inaspettatamente» una direzione diversa da quella preventivata e il missile, che li seguiva elettronicamente, esplose proprio nei pressi della scuola. Fu un “errore” però legittimo, spiega la magistratura militare israeliana, perché l’attacco non era diretto contro civili.
Appropriata sarebbe stata la condotta delle Forze Armate per tutta la durata di “Margine Protettivo”, mai rivolta intenzionalmente, dicono gli israeliani, contro la popolazione civile. Non fu perciò un crimine anche la strage di sette membri della famiglia Ziyadeh durante un raid nel campo profughi di Bureij, nel centro di Gaza. Perché, l’edificio sarebbe stato utilizzato da Hamas e Jihad come un centro di comando. «Il fatto che dei civili siano rimasti coinvolti nelle ostilità è un risultato deplorevole ma non influisce sulla legittimità dell’attacco», hanno scritto i giudici israeliani. Legittima fu perciò anche la “Direttiva Annibale”, ossia il bombardamento a tappeto di una vasta aerea del “territorio nemico” per impedire la cattura di soldati, che Israele attuò ai primi di agosto del 2014 uccidendo circa 200 palestinesi a Rafah. Tra questi 15 membri della famiglia Zoroub. Anche in quel caso l’abitazione sarebbe stata usata da Hamas come un comando militare, quindi era un obiettivo “legittimo”.
«Non ci aspettavamo niente di meno della giustificazione di Israele dei propri crimini di guerra durante il suo ultimo massiccio attacco contro Gaza» ha commentato il Segretario del Comitato Esecutivo dell’Olp Saeb Erekat. «Questo mette in evidenza l’atteggiamento di Israele – ha aggiunto – che bombarda aree civili, edifici delle Nazioni Unite, ospedali e altre strutture protette dalle Convenzioni di Ginevra. Durante quell’attacco durato 50 giorni – ha concluso Erekat – Israele ha ucciso 487 bambini…La strada che seguiremo è quella di una indagine della Corte penale internazionale sui crimini di Israele».
La Stampa 27.8.16
Tsipras cerca un fronte comune sul Mediterraneo
di Marco Bresolin


Alexis Tsipras ha buttato lì la proposta, Matteo Renzi e François Hollande gli hanno fatto capire che si può provare. Nell’Europa che cerca di ridisegnarsi senza la Gran Bretagna, il Paesi del Sud puntano a fare fronte comune e gettano le basi per un asse mediterraneo e contrastare così un’Unione a trazione tedesca. Certo, soltanto lunedì il premier italiano e il presidente francese erano a Ventotene con Angela Merkel e la sintonia tra i tre sembrava reale. Però quando ci sono interessi comuni da difendere può essere utile fare cartello e così tra due settimane potrebbe nascere un nuovo club europeo dall’accento meridionale.
Dall’inizio di agosto, Tsipras sta lavorando per portare ad Atene prima del vertice di Bratislava (probabilmente il 9 settembre) i capi di Stato e di governo dei suoi sei potenziali alleati: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Cipro e Malta. Un «Club Mediterranée» (anche se in realtà il Portogallo si affaccia solo sull’Atlantico) che vuole arrivare al Consiglio europeo informale del 16 settembre con una linea comune su economia e immigrazione. Hollande ha già detto che ci sarà e anche Renzi – confermano fonti di Palazzo Chigi - nei giorni scorsi aveva deciso di partecipare (ma il terremoto nel Centro Italia potrebbe cambiare l’agenda del premier). Rajoy, impegnato nel tentativo di formare un governo, non ha ancora ufficializzato la sua presenza. Ma le informazioni che filtrano dalla Moncloa descrivono il premier in funzione desideroso di ritagliarsi uno spazio sulla scena internazionale, dopo la delusione per non esser stato invitato a Ventotene. Portogallo, Cipro e Malta pure saranno al tavolo.
Contrasto alle politiche di austerità, crescita e investimenti saranno le parole d’ordine. Alle quali si aggiungerà la solidarietà che il fronte del Sud chiederà ai partner europei per gestire il capitolo immigrazione (la redistribuzione dei rifugiati procede a rilento). Una sfida ambiziosa, ma a Bruxelles (e a Berlino) in molti sono convinti che il peso politico del Club Med non riuscirà a farsi sentire per le sue numerose debolezze: la Grecia resta sotto osservazione, la Spagna è da dicembre senza governo ed è stata appena graziata (con il Portogallo) sul deficit, il declino politico di Hollande è sotto gli occhi di tutti, così come il reale peso di Cipro e Malta. Matteo Renzi questo lo sa bene: sta a lui decidere se accettare la scommessa o se preferire il più rassicurante abbraccio di Merkel.
La Stampa 27.8.16
E il Blocco dell’Est punta i piedi contro la Germania
di Monica Perosino


Angela Merkel sapeva che non sarebbe stato facile, ma quello che ha trovato a Varsavia ieri è stato un fronte dell’Est unito e compatto nel suo «no» alle politiche tedesche ed europee sui migranti. Un «no» che a meno di un mese dal vertice di Bratislava boccia le quote di ridistribuzione dei profughi, condanna l’«egoismo» dell’Ovest a scapito dell’Europa Centro-orientale e si oppone all’accoglienza.
Dopo le tappe in Estonia e Repubblica Ceca, la Cancelliera ha incontrato i quattro leader dei Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), i più scettici sulle politiche comunitarie sull’immigrazione, per tentare di ricucire - forse troppo tardi - quello strappo causato dalle politiche di accoglienza europee, che secondo i Visegrad fanno in conti senza l’oste, è cioè i Paesi della rotta balcanica. A un anno da quel «ce la faremo» che prometteva sicurezza e integrazione, la contrapposizione da Est è arrivata forte e chiara: l’Ungheria di Viktor Orban, testa di ponte di Visegrad 4, ha annunciato una nuova barriera fortificata anti-migranti lungo la stessa frontiera meridionale del primo «muro difensivo» costruito al confine con la Serbia un anno fa. Il premier conservatore Orban ha detto di temere una nuova forte ondata di migranti, soprattutto se non dovesse funzionare l’accordo con la Turchia e ha esortato l’Ue a dotarsi di un esercito comune europeo: «Dobbiamo dare priorità alla sicurezza e quindi iniziamo a fondare un esercito comune europeo». Orban ha indetto per il 2 ottobre un referendum per legittimare il suo «no» alla politica della distribuzione dei migranti nei vari paesi Ue decisa da Bruxelles. «I confini non si possono difendere con i fiori e con peluche ma con poliziotti, soldati e armi», ha detto Orban alla radio nazionale. Dal canto suo la premier polacca Beata Szydlo, mossa dalle «stesse preoccupazioni», ha chiesto di creare una guardia di frontiera europea «per proteggere i confini esterni dell’Unione dai flussi di migranti illegali».
Merkel incassa, e tenta ancora la strada del dialogo: «L’Ue deve mantenersi unita e per questo è importante ascoltarsi gli uni con gli altri malgrado le differenze». E dopo il tour a Est la attende un altro incontro cruciale prima di Bratislava: la Cancelliera - unica tra i capi di Stato - incontrerà il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, il 2 settembre a Berlino.
Il Sole 27.8.16
Orbàn sfida la Ue: costruiremo un altro muro
Merkel in viaggio nell’Europa post-Brexit. A Varsavia la cancelliera incontra i leader del gruppo di Visegrad che ribadiscono la linea dura su migranti e quote obbligatorie
di Michele Pignatelli


Se il buongiorno si vede dal mattino, la tappa forse più difficile del tour diplomatico di Angela Merkel nell’Europa del dopo Brexit non è iniziata sotto i migliori auspici. Il premier ungherese Viktor Orbàn - uno dei quattro del Gruppo di Visegrad, che la cancelliera ha incontrato ieri a Varsavia - in un’intervista radiofonica ha annunciato che Budapest costruirà una nuova barriera, «più robusta» e tecnologica di quella già esistente, lungo il confine meridionale con la Serbia (174 chilometri), per far fronte al possibile incremento dei flussi migratori se la Turchia dovesse cambiare la sua politica. Sarà inoltre incrementato di 3mila unità il numero di poliziotti a guardia delle frontiere, che salirà a 47mila uomini. «I confini - ha aggiunto il leader nazionalpopulista - non si difendono con fiori e pelouche, ma con barriere, soldati e armi».
Sul fronte immigrazione, del resto, Budapest è il portabandiera dei “falchi” di Visegrad - gli altri tre membri sono Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - come conferma il referendum indetto per il 2 ottobre sul piano Ue di redistribuzione dei profughi tra gli Stati membri, dove è attesa una schiacciante vittoria del «no».
Sulla questione delle quote, però, a Varsavia la cancelliera tedesca ha dovuto registrare la netta opposizione di tutti e quattro i Paesi, che hanno piuttosto insistito sulla sicurezza - anche Orbàn, dopo il premier ceco Sobotka, si è espresso ieri a favore di un esercito comune europeo - e sulla necessità che la politica migratoria venga decisa a livello nazionale e non a Bruxelles. La Commissione la smetta «di fare politica» - ha detto ancora Orbàn - e ceda potere alle capitali; mentre la premier polacca Beata Szydlo (che ha incontrato Merkel prima del vertice a quattro) ha insistito sulla necessità di rafforzare i confini esterni della Ue e di affrontare l’emergenza migranti attraverso aiuti umanitari in Medio Oriente e Africa invece di consentire l’ingresso dei profughi.
In un contesto così poco malleabile, la cancelliera tedesca si è limitata a ricordare che «occorre conciliare il rispetto della legge con la necessità di fare qualcosa» per i rifugiati, ma ha poi preferito insistere, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, sulle questioni più consone alle sensibilità dei suoi interlocutori e sugli obiettivi più generali del suo viaggio, che punta a rilanciare e compattare la Ue prima del vertice di Bratislava del 16 ottobre, il primo senza la Gran Bretagna. Ha definito dunque sicurezza e crescita economica le sfide principali da affrontare, perché «i cittadini accetteranno l’Europa solo se questa mantiene la promessa di prosperità». Quindi ha sottolineato che la decisione britannica di lasciare la Ue evidenzia l’importanza di una migliore comunicazione tra gli Stati membri, «ascoltando gli uni le ragioni degli altri con riunioni a formato variabile». In questo senso, ha lodato la decisione di tenere il prossimo vertice a Bratislava e non a Bruxelles, perché - ha detto - avvicina un po’ i leader all’Europa reale.
Ieri sera, al rientro a Berlino, la cancelliera aveva in programma una cena di lavoro con i primi ministri di Olanda, Svezia, Finlandia e Danimarca; oggi concluderà il suo giro di consultazioni - 15 capi di governo da lunedì a oggi - ricevendo i leader di Austria, Bulgaria, Croazia e Slovenia. Infine, venerdì 2 settembre, sempre a Berlino, avrà un incontro con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
Corriere 27.8.16
Questa estate il muro di Berlino è caduto alla rovescia
di Jean-Marie Colombani


La nomina di Donald Trump come candidato del partito repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti; il voto a favore della «Brexit»; il terribile attentato del 14 luglio a Nizza; il fallito colpo di Stato in Turchia sfruttato dal presidente Erdogan per avviare una gigantesca purga: ognuno di questi eventi parla da sé. Sommati tra loro — in un combinato disposto di esplosione del populismo, ascesa dell’autoritarismo e amplificazione della minaccia terroristica — fanno probabilmente di questa estate una sorta di caduta del Muro di Berlino alla rovescia, la manifestazione più evidente di un possibile regresso storico: quello della democrazia liberale.
Il contesto è, in ogni caso, quello di una sfiducia profonda e inedita rispetto a quest’ultima, il più delle volte in nome del rifiuto della globalizzazione, che colpisce tanto le sue tradizionali terre d’elezione (gli Stati Uniti, dove secondo i sondaggi solo il 10% della popolazione si fida dei suoi rappresentanti, un dato inaudito; e la vecchia Europa, con la Gran Bretagna che registra il più alto livello di sfiducia di sempre) quanto le realtà conquistate più di recente (gli ex Paesi dell’Est fautori della democrazia «illiberale»).
Donald Trump ha ottenuto la sua investitura con una promessa: quella di erigere un muro per bloccare l’immigrazione, di rimandare «a casa loro» qualcosa come undici milioni di immigrati (latinos e musulmani, secondo lui). Un identico rifiuto dell’immigrazione, stavolta intraeuropea, ha alimentato la vittoriosa campagna dell’Ukip di Nigel Farage a favore della «Brexit». Allo stesso modo, l’afflusso di rifugiati è il pretesto scelto da quegli ex Paesi dell’Est (Ungheria, ma anche Slovacchia e Polonia) il cui ostentato «illiberalismo» maschera sempre di meno una tentazione autoritaria. Il ripiegamento e il rifiuto di ogni forma di immigrazione — sempre più spesso assimilata all’islamismo — sono anche il core business dell’estrema destra francese; la quale potrebbe ben avvicinarsi al potere: di fronte agli attentati, l’opinione pubblica è esposta alla tentazione di passare da una richiesta di «maggiore autorità» a un appello al regime autoritario.
Dopo tutto, agli occhi di una parte di quella stessa opinione il modello da imitare si incarna nella persona di Vladimir Putin, un leader che fa sempre piazza pulita attorno a sé.
La novità non risiede certo nel populismo in quanto tale: la tentazione del ripiegamento e del protezionismo è permanente. Sta piuttosto nella sua ritrovata popolarità, malgrado le lezioni della Storia, ovunque con lo stesso repertorio di argomentazioni: le istituzioni rappresentative, ostaggio delle élite, sarebbero l’ostacolo che si frappone all’applicazione di una volontà popolare che non accetta gli immigrati, né il libero scambio, né l’Europa, e ancor meno le garanzie accordate alle minoranze. Uno dei paradossi di questa situazione è che la sinistra, essendo esposta alla minaccia più immediata, dovrebbe schierarsi in prima fila e combattere con le unghie e coi denti. Ora, in Europa essa batte ovunque in ritirata; quando non è avviata al suicidio, come in Francia e in Gran Bretagna, succube in qualche modo dell’estrema sinistra.
Donald Trump dovrebbe perdere la sua scommessa, grazie all’eterogeneità dell’elettorato americano e al senso di responsabilità di una parte dei repubblicani. Tuttavia, per quanto brutale e caricaturale sia stato il suo messaggio, ne è scaturito un potente movimento d’opinione che lascerà tracce durature e ha già fatto presa in Europa.
Il successo della democrazia liberale, nella seconda metà del Ventesimo secolo, si è fondato sull’estensione del campo d’azione e della prosperità delle classi medie all’interno di società globalmente omogenee, nella cornice di un ordine mondiale stabile e trasparente. Viviamo in un’epoca in cui, in mancanza di crescita e di meccanismi di correzione delle disuguaglianze, le classi medie sono stagnanti e temono un declassamento, in seno a società sempre più eterogenee, e in uno scenario mondiale instabile e oscuro. Tutto questo mentre la rivoluzione digitale, fattore di accelerazione e dunque d’angoscia, cancella l’idea stessa di rappresentanza.
Ora più che mai, dunque, occorre fare di tutto per evitare che la demagogia abbia la meglio sulla democrazia.
(traduzione di Enrico Del Sero)
Corriere 27.8.16
Jean-Pierre Le Goff
«Ordinanze troppo emotive Resta da affrontare la difesa della nostra civiltà europea»
intervista di Stefano Montefiori


PARIGI «Dal punto di vista giuridico c’è poco da dire, la sentenza del Consiglio di Stato è corretta e del resto le ordinanze erano formulate male, scritte in modo precipitoso ed emotivo dopo gli attentati. Tiravano in ballo la laicità quando non è questo il punto». Jean-Pierre Le Goff, filosofo e sociologo, ha pubblicato pochi mesi fa il libro « Malaise dans la démocratie » (Stock) per parlare del malessere francese.
Perché la laicità non c’entra?
«Perché riguarda la separazione tra la sfera politica dello Stato e le religioni, non le spiagge. Anche la legge sul burqa si fonda non sulla laicità ma sul fatto che il velo integrale islamico turba l’ordine pubblico, perché nasconde il volto della persona, lo stesso vale per un passamontagna. In ogni caso, la sentenza del Consiglio di Stato lascia intatta la questione politica».
Come la definirebbe?
«Una questione di civiltà, culturale. Oggi una parte considerevole della popolazione prova un’insofferenza crescente verso atteggiamenti che vengono percepiti come una provocazione. Non bisogna negare questa realtà. I sondaggi sono molto chiari. Ed è inutile tirare in ballo il razzismo, la discriminazione, o addirittura una volontà di sopraffare la libertà delle donne di vestirsi o coprirsi come vogliono. Sono assurdità. Il punto è che certi abbigliamenti sono poco sopportabili a una popolazione che ha avuto centinaia di morti negli attentati. Le cose sono cambiate, nei decenni».
È aumentata l’esibizione religiosa?
«Certamente. Non si tratta di un semplice foulard, come se ne vedevano ogni tanto negli anni Ottanta. Anche se il burqa è vietato, oggi girano per strada donne coperte dalla testa ai piedi e con i guanti. È una constatazione. Anche se una parte della sinistra moralizzatrice parla di razzismo».
La sinistra a dire il vero è divisa e un suo esponente di notevole peso, il primo ministro Manuel Valls, ha detto di comprendere i sindaci.
«È vero, e ha fatto bene. Altri si rifiutano di riconoscere l’inquietudine dei francesi. Bisogna dare una risposta ragionevole a questa preoccupazione, invece di accusare di razzismo. Quando alla tv i francesi vedono le ragazze rapite da Boko Haram, come sono vestite? Non ricordano forse le donne che vediamo sempre più spesso nelle nostre strade? L’ex ministro socialista Jean-Pierre Chevenement (che Hollande vuole mettere a capo della fondazione dell’Islam di Francia, ndr ) ha ragione a chiedere ai musulmani più “discrezione” quanto ai simboli religiosi. Oppure possiamo ignorare questi problemi, e allora a quale percentuale arriverà Marine Le Pen al primo turno delle presidenziali? Se vogliamo fare salire ancora l’estrema destra non c’è modo migliore».
Anche Hollande e il governo parlano spesso delle questioni identitarie.
«Ma esiste un islamo-gauchisme di estrema sinistra dove si mescolano diritti individuali e tutela della donna con indulgenza verso gli islamisti, una confusione totale. La sinistra oggi è in difficoltà perché da trent’anni ha abbracciato una visione multiculturale estranea alla tradizione assimilazionista della Francia».
Che pensa delle critiche del mondo anglosassone?
«Non mi sorprendono, il loro modello multiculturale è appunto diverso dal nostro. Ma noi che vogliamo fare? Adottare quello? Molti francesi non vogliono, perché c’è un modo di vivere insieme che si è strutturato nei secoli e che va al di là della laicità. La domanda è: in quale civiltà vogliamo vivere? E quale ruolo della donna vogliamo difendere? Siamo a un bivio: o restiamo repubblicani, o diventiamo multiculturali come gli anglosassoni. Ma dobbiamo affrontare il problema, o rischiamo di assistere a manifestazioni di violenza».
Corriere 27.8.16
Azar Nafisi
«Vero, la legge non può limitare Ma oggi il velo è un gesto politico»
La scrittrice iraniana: ogni ortodossia religiosa vuole le donne invisibili
intervista di Viviana Mazza


Washington Il dibattito sul burkini è «una questione complessa, che non può essere limitata al modo in cui viene discussa in questo momento» e andrebbe capita nel contesto della discussione sul velo non solo in Occidente ma anche in Medio Oriente, spiega Azar Nafisi, l’autrice iraniana-americana di «Leggere Lolita a Teheran».
Seduta in un caffè di Washington, Nafisi si dice d’accordo con la decisione del Consiglio di Stato francese contro il divieto del burkini, perché crede nella libertà di espressione. Ma non vuole che passi l’idea che il diritto al velo sia il diritto cui ambiscono tutti i musulmani, «né che sia una libertà occidentale, perché l’Islam ha molte interpretazioni».
«Da una parte, non penso che la legge dovrebbe limitare la libertà di scelta e di espressione. Non critico mai le credenze altrui, dicendo agli altri cosa dovrebbero fare, perché la fede è slancio, è come innamorarsi. D’altra parte, ciò non toglie che il velo sia oggi una dichiarazione politica più che religiosa. La storia del burqa e del velo risale a tempi in cui le donne non avevano un ruolo pubblico e, fuori di casa, dovevano coprirsi dalla testa ai piedi. L’ortodossia religiosa, come dappertutto nel mondo, vuole che le donne siano invisibili. In Iran come in Egitto, in Libano, in Turchia, le donne illuminate - come in Italia, Francia e America - hanno conquistato la libertà di apparire in pubblico. La lotta contro il velo iniziò con l’istruzione femminile. Dobbiamo capire che le donne in quei Paesi come in Occidente hanno il diritto di dire che il velo porta via le loro libertà».
Lei appoggia anche chi vuole indossarlo?
«Sono d’accordo con chi dice di avere il diritto di indossarlo se difende anche le donne in Iran o in Arabia Saudita, dove per legge si viene frustate, imprigionate, e dove bisogna coprirsi. La questione del velo non è solo francese, italiana o americana. In Occidente si dimentica spesso ciò che accade altrove. Quel che voglio per la Francia lo voglio per l’Iran. Diciamo che l’Iran e altri Paesi non hanno il diritto di approvare leggi reazionarie sotto il pretesto della cultura? Di questo non si parla, e così quei governi ne approfittano. E se li critichi, replicano che sei contro le loro tradizioni».
In che modo il burkini è diverso dal velo saudita o iraniano?
«Non ha niente a che fare con il velo di una volta. E’ aderente. Puoi vedere il corpo. L’islam ortodosso pensa che si possa essere belle solo per il marito. Le donne in burkini sono molto attraenti, le guardo e penso: “Anch’io voglio vestirmi così”».
Quindi i governi più reazionari non lo permetterebbero?
«Non permetterebbero il burkini in Arabia saudita, ma ne approfittano per dire che questo è l’Islam, che le donne devono coprisi. Ma quello che dico io è che l’Islam ha molte interpretazioni. Mia nonna ha sempre portato il velo, era una musulmana ortodossa (e non usciva in strada in burkini). Mia madre non portava il velo, era moderna, ma si sentiva musulmana. La religione è una questione di libertà personale, non dovrebbe essere definita dallo Stato, dal padre o dal fratello».
Il concetto di laicità francese non è una interferenza?
«Il divieto in spiaggia è diverso dalla laicità nelle scuole pubbliche perché i musulmani ortodossi e i cattolici ortodossi possono avere le loro scuole. La laicità, se praticata nel modo giusto, è l’unico modo per garantire la libertà di religione. Nel modo in cui la intendo, in una democrazia, dà a tutti lo spazio per essere chi vogliono essere. Ma c’è anche la questione dei limiti nella libertà di religione. Alcuni mormoni credono nella poligamia: la permetti? Alcuni musulmani credono che, se le figlie si tolgono il velo o hanno il fidanzato, sono disonorate. Le democrazie prevedono limiti sul significato della libertà di religione, come pure su ciò che vuol dire essere atei perché non dà il diritto di molestare un musulmano, un cristiano o un ebreo. Ma non sono assolutamente d’accordo con l’uso della forza per cambiare le persone come con la donna costretta a togliersi il burkini in spiaggia. Le donne in burkini sono francesi, sono diverse rispetto alle loro nonne. Le loro figlie crescono in una società libera e potranno scegliere. Anziché costringerle per legge, bisognerebbe creare spazi pubblici di dibattito e spazi dove possano rifugiarsi se entrano in contrasto con le famiglie».
La Stampa 27.8.16
“Ancora oggi i segni religiosi
disturbano la nostra laicità”
di Leo. Mar.


Il burkini? A suo modo, in Francia, il frutto di una vecchia polemica. Almeno secondo Valentine Zuber, storica dell’École pratique des Hautes Études di Parigi, che nel suo ultimo libro scrive dell’«ossessione vestimentaria» dei suoi connazionali, riguardo alla manifestazione della propria religiosità negli spazi pubblici. «Dipende dall’influenza che ha avuto e ha ancora oggi una visione anti-religiosa propria della nostra tradizione repubblicana ottocentesca, in contrasto con una visione più liberale della laicità, più diffusa nel resto dell’Europa».
Insomma, una vecchia storia?
«Sì, pensi che all’inizio del ventesimo secolo, dopo la legge del 1905, sulla separazione tra Stato e Chiesa, qualche sindaco tentò di imporre il divieto di portare abiti religiosi a suore e preti negli spazi pubblici, anche per le strade. Quelle ordinanze vennero annullate dal Consiglio di Stato, già allora.»
Cos’è cambiato?
«Al posto dei cattolici, si prende di mira l’Islam. Anche perché in Francia c’è stata una secolarizzazione accelerata del mondo cristiano. Da noi sono scomparse dalle strade le suore con il velo o i parroci con le sottane, come se ne possono vedere ancora in certe città dell’Italia. Abiti che siano il segno di una religiosità disturbano ancora di più, non c’è l’abitudine. Restano, appunto, i veli delle donne islamiche».
Ma quegli abiti non compromettono la dignità delle donne?
«Questa è una delle mitologie create all’interno della sinistra francese dalla filosofa Élisabeth Badinter, per cui quelle che indossano il velo sono obbligate a farlo e che noi dobbiamo liberarle. Anche le dichiarazioni più recenti di Laurence Rossignol, ministra responsabile dei diritti delle donne, vanno nello stesso senso. Si parte dal punto di vista che una donna che porta il velo è obbligata dal marito o dal padre. È una visione paternalistica».
In che senso?
«La laicità francese si è costruita a lungo contro le donne. Esiste nei confronti del mondo femminile una diffidenza che deriva dalla stessa tradizione repubblicana, come se le donne fossero delle eterni minorenni, incapaci di avere un giudizio personale o di emanciparsi».
Non arriverà mica a giustificare il burqa?
«Ma quello è un problema diverso, risolto con la legge del 2010. Nel burqa la donna non mostra il viso. È stato proibito per ragioni di sicurezza. La laicità non c’entra nulla».
La Stampa 27.8.16
“Violata la libertà” La Francia boccia il divieto sul burkini
Il Consiglio di Stato sospende l’ordinanza di Villeneuve-Loubet Ma la politica si divide: ora serve una legge sui simboli religiosi
di Leonardo Martinelli


Nuovo episodio (e probabilmente non l’ultimo) nella polemica sul burkini, che arroventa quest’estate francese: il Consiglio di Stato, equivalente della nostra Corte costituzionale, ha annullato il provvedimento che aveva proibito il costume integrale (dal capo ai piedi, ma lascia il viso scoperto) sulla spiaggia di Villeneuve-Loubet, in Costa Azzurra. La sentenza dovrebbe fare giurisprudenza anche per gli altri casi in cui (una trentina finora) i sindaci hanno preso provvedimenti simili. Adesso, però, diversi politici sollecitano una legge anti-burkini. E che vada addirittura oltre, a proibire il velo in tanti spazi pubblici: è chiaro che la laicità e il rapporto con l’Islam saranno centrali nella campagna per le presidenziali, previste fra otto mesi.
Contro l’ordinanza di Villeneuve-Loubet avevano fatto ricorso la Lega dei diritti dell’uomo e il Collettivo contro l’islamofobia in Francia. L’ordinanza «ha rappresentato una violazione grave e apertamente illegale delle libertà fondamentali, che sono quelle di movimento, di coscienza e la libertà personale». Il divieto poteva essere giustificato «da rischi accertati per l’ordine pubblico». Ma non da esigenze legate al rispetto della laicità. Eppure, il sindaco di Villeneuve-Loubet, Lionnel Luca, non molla, e ha annunciato che non ritirerà il divieto il provvedimento del Consiglio di Stato. Trionfante Patrice Spinosi, avvocato della Lega dei diritti dell’uomo: «La sentenza farà giurisprudenza».
La pensano così in tanti, anche Florian Philippot, vicepresidente del Front National, che pure ha cavalcato la polemica anti-burkini, appellandosi «alla dignità della donna». E che ora rimanda la palla al legislatore: «Ci vuole una legge nazionale sui segni religiosi». Secondo lui, dovrebbe estendere quella del 2004, che già vieta il velo nelle scuole dello Stato, «a tutti gli spazi pubblici, ovvero per la strada o nei mezzi di trasporto». Il burkini divide anche la gauche, con il premier Manuel Valls a favore delle ordinanze e Bernard Cazeneuve, il ministro degli Interni, che, invece, cerca di calmare le acque, temendo «una stigmatizzazione dei musulmani». La polemica ha superato pure le frontiere francesi. Le foto di donne fermate e multate nelle spiagge di Nizza e Cannes, mentre indossavano solo il velo e una tunica (e non un burkini), hanno fatto il giro del mondo. E sono già state organizzate proteste davanti alle sedi diplomatiche a Londra e in Germania. Tanto per avere un’idea dell’aria che si respira in Francia, a Vitrolles, nel Sud, un giovane aveva dichiarato di essere stato assalito da quattro persone, perché portava al collo un crocifisso. Ma ha poi ammesso che si trattava di un’invenzione, creata per giustificare una rissa.
Repubblica 27.8.16
Dove porta il nuovo corso di Comunione e liberazione
di Agostino Giovagnoli


“CL NON ha bisogno né di un nemico né del potere”. Quest’anno Julian Carron, successore di don Giussani alla guida di Comunione e Liberazione, non ha partecipato al Meeting di Rimini, ma le sue parole sintetizzano chiaramente ciò da cui Cl vuole prendere le distanze. Questo movimento non sarà il baluardo del cattolicesimo veritativo e identitario come vorrebbero quanti oggi identificano nell’Islam il grande nemico dell’Europa e dell’Occidente. C’è chi (all’esterno) dubita ci sia una reale volontà di cambiamento e chi (all’interno) vorrebbe che non ci fosse. Ma le parole di Carron e il Meeting appena concluso mostrano che questa volontà c’è davvero. La contrapposizione al nemico e la ricerca del potere sono le cose per cui Cl è stata tanto criticata in passato. Ma se oggi questo movimento vuole davvero cambiare non è (tanto) per le critiche (quanto) per un motivo più profondo: il rischio di perdere la propria anima.
Naturalmente, per cambiare, non basta prendere le distanze da ciò che non si vuole essere: bisogna anche capire che cosa si vuole diventare. Ma ancora nessuno sa quale sarà il punto d’arrivo. Al momento si tratta di individuare il cammino e a tal fine due problemi appaiono più importanti: scegliere i compagni di viaggio e ripensare le proprie origini. Il Meeting di quest’anno — “Tu sei il mio bene” è stato il suo titolo — è stato caratterizzato da aperture inedite e da innesti inattesi. Hanno partecipato ortodossi, ebrei e musulmani, nonché personalità non particolarmente vicine al movimento, da Prodi a Cassese. Anche l’invito a diversi ministri del governo Renzi è stato segno di un’inedita apertura. Ma l’assenza di alcuni di loro a causa del terremoto non ha squilibrato il Meeting e anche questa è una novità rispetto ai tempi in cui la “cifra” dell’incontro era data dalla presenza di Andreotti, Craxi o Berlusconi. La chiave del nuovo rapporto con la politica di cui Cl è alla ricerca è stata messa in luce da una mostra suggerita da Luciano Violante: dedicata agli ultimi settant’anni di storia italiana, è stata incentrata sul “genio della Repubblica” inteso come capacità di incontro tra diversi, cattolici e comunisti, socialisti e liberali ecc.
Da un’altra mostra, dedicata a migranti e rifugiati, si ricava invece la chiave per nuovi rapporti con la Chiesa e gli altri movimenti ecclesiali: filmati e cartelli hanno illustrato positivamente l’opera di tante organizzazioni cattoliche per accogliere chi cerca in Italia il proprio futuro. Su questo terreno, particolarmente importante — lo ha sottolineato Giorgio Vittadini — è stato l’incontro con Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e assistente spirituale della Comunità di Sant’Egidio, che ha parlato a lungo “comunicando” papa Francesco circondato da consenso e simpatia. Sulla strada del cambiamento, oggi il principale compagno di viaggio di Cl non può non essere papa Francesco ed è inevitabile l’incontro con chi ne vive la proposta. In questo senso il Meeting ha confermato la straordinaria opportunità di rinnovamento che il papa argentino offre oggi alla Chiesa italiana ma che stenta ancora ad essere accolta.
Alla seconda questione — ripensare la propria storia — sarà probabilmente dedicato il prossimo Meeting. Lo lascia intuire la frase di Goethe scelta come titolo: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo”. Sulla strada del ripensamento del proprio passato ci sono le divisioni del cattolicesimo italiano di cui Cl è stata protagonista, ai tempi del referendum sul divorzio o nella contrapposizione tra cattolici della presenza e della mediazione. Ma c’è soprattutto un dilemma che oggi attraversa non solo Cl nel suo complesso ma anche ogni ciellino nel suo intimo: il cambiamento in corso è una ripresa o un tradimento dell’“anima” più profonda del movimento? Questo seconda possibilità suscita rifiuti drastici, come notava ieri Paolo Rodari su Repubblica. Ma non sempre continuità coincide con fedeltà e più che coltivare il “Giussani del mito” appare oggi importante interrogarsi sul “Giussani della storia”. Persino la memoria di un incontro che ha cambiato la vita, infatti, può diventare un’idolatria delle origini che le priva della loro forza più vera se non si accetta la sfida del presente.
Repubblica 27.8.16
Bersani: “Dal premier solo ammuina ha due mesi e mezzo per rimediare”
L’ex segretario: il mio voto dipende dalle modifiche all’italicum, ma da qui all’autunno non si parli solo di referendum
“Se si corrompe il meccanismo democratico è un disastro. Sulla Carta ognuno decide come crede”
intervista di Silvia Bignami


MONTICELLI D’ONGINA (PIACENZA). Insiste sulle modifiche all’Italicum e sferza Matteo Renzi: «Non vedo ancora un minimo segno di intenzione vera di modificare la legge elettorale. So capire benissimo quando si fa sul serio e quando si fa ammuina». Pier Luigi Bersani torna sul palco delle feste dell’Unità nell’Emilia rossa delle polemiche con l’Anpi sul referendum costituzionale, e proprio dalla piccola Festa Pd di Monticelli d’Ongina, a un passo da casa sua a Piacenza, rompe il silenzio estivo sul dibattito interno ai Dem.
Lo fa quasi di malavoglia, mentre il resto d’Italia è impegnato nei soccorsi per il terremoto e mentre a preoccupare è soprattutto l’economia. «Il referendum non è domani. È tra due mesi. E i problemi dell’Italia in questo momento sono tanti e sono altri, in primis appunto l’economia e il sisma», spiega Bersani. Ma poi, sulla consultazione che divide il popolo della sinistra qualche parola la spende. «Io sono fermo su un punto -- sillaba al tavolo con i dirigenti emiliani, davanti a un bicchiere di bianco, interrotto dai militanti che ogni tanto si fermano per una pacca sulla spalla e un saluto -- c’è un rapporto intimissimo tra la riforma Costituzionale e due cose: da un lato l’elezione o la nomina dei senatori, dall’altro la legge elettorale. Questo concetto non riesco evidentemente a spiegarlo: mentre un meccanismo istituzionale, se ha falle, si può aggiustare, se si corrompe il meccanismo democratico è un disastro».
Non arriva a minacciare il No, come ha già fatto il “delfino” Roberto Speranza, papabile per sfidare Renzi alla segreteria, ma avverte: «Ci sono due mesi e mezzo per rimediare al combinato disposto tra legge elettorale e riforma elettorale. Vedrò cosa si fa e poi dirò come voto». Di certo, per adesso l’impegno del premier segretario non appare sufficiente all’ex leader Pd. Tutt’altro. «Io sono per questi boschi da molto tempo -motteggia Bersani -- e so quando si fa sul serio e quando si fa solo ammuina». Come dire che la segreteria nazionale non sta dando ancora “alcun segnale” nella direzione di una modifica della legge elettorale: «Per ora non ho visto la minima intenzione di rimediare». Ne sono la conferma le parole del ministro Graziano Delrio, pure lui emiliano, ultimo ad allontanare l’ipotesi di una modifica all’Italicum.
Verrà il giorno di sciogliere la riserva sul voto: «Lo farò, ovviamente, per quel che riguarda me. Poi è naturale che davanti alla Costituzione ognuno è libero di decidere come crede». Fino ad allora però, «parliamo anche di problemi concreti delle persone, non solo di referendum».
Corriere 27.8.16
Vignaroli (Cinque Stelle): «A Roma noi scontiamo l’assenza di classe dirigente»
intervista di Ernesto Menicucci


ROMA «Le polemiche sulle nomine? Beh, a Roma scontiamo una mancanza di classe dirigente». Stefano Vignaroli è romano, deputato del M5S, compagno di Paola Taverna, l’uomo che ha preso il posto di Roberta Lombardi nel minidirettorio capitolino e che è stato anche tirato in ballo, l’altro giorno, dal post su Facebook di Francesca De Vito, sorella di Marcello.
Vignaroli, l’ha letto? «No, me lo hanno solo riferito. Che dice?». Criticava le nomine fatte dal vicesindaco Daniele Frongia e gli stipendi dati agli staff, anche quello della Raggi: «Mah — dice Vignaroli —, non mi appassiona molto questo argomento. Noi, come parlamentari, siamo quelli che alla fine prendiamo di meno, 3 mila euro al mese». Solo? Le retribuzioni dei parlamentari in realtà sono di molto superiori tra indennità e rimborsi vari: «Ma noi, come si sa e come si è visto, il resto lo restituiamo».
Già, ma anche questo era uno degli argomenti portati dalla De Vito: al nazionale si risparmia, a Roma si spende troppo, con stipendi definiti «esorbitanti». Non è così? «Io — insiste il deputato pentastellato — quel post non lo avrei fatto. E avrei mille motivi per lamentarmi... Preferisco che la gente lavori bene piuttosto che star lì a contare i centesimi di quanto guadagnano. E poi i professionisti, come nel caso della capo di gabinetto (il magistrato Carla Romana Raineri, ndr), vanno pagati».
Eppure a Torino, la sindaca Chiara Appendino, anche lei di M5S, si sta comportando in maniera diversa: «Ma Torino è un’altra realtà, Roma è molto più complessa. E noi non abbiamo una classe dirigente, la stiamo formando. E quando costruisci una casa nuova può capitare che ci sia qualche problema nella costruzione».
Nella Capitale, però, la «base» appare in fermento. Gli attivisti vogliono organizzare una convention, pensano addirittura al recall sul mandato della Raggi, il gruppo consigliare vorrebbe scrivere alla sindaca una lettera per chiedere maggiore condivisione sulle decisioni, l’azione amministrativa è praticamente ferma, su ogni nomina c’è una discussione. A cominciare da quella di Raffaele Marra, un passato col centrodestra di Alemanno e Polverini, come vicecapo di gabinetto: «Ma Marra — dice Vignaroli — è stato tolto». Veramente non è più vicario del gabinetto, ma è ancora al suo posto: «Adesso però andrà via». Sicuro? «Sicuro». E Frongia che ha preso come capostaff il suo compagno di stanza all’Istat? «Davvero? Non lo sapevo... Ma bisogna vedere se lo ha preso perché è bravo oppure perché è solo raccomandato. Mi pare comunque una questione marginale...».
Non è lo è per gli attivisti, che rimproverano alla sindaca di essersi circondata per la maggior parte di gente che nulla a che fare con M5S: «È inevitabile che sia così, specie nella giunta. Abbiamo scelto in base ai curriculum e questo dovrebbe essere apprezzato come scelta di coraggio. Dopodiché qualche nomina si può anche sbagliare ma la stessa cosa, sempre perché non abbiamo una classe dirigente, avverrà quando andremo al governo».
Il nodo è tutto lì: la sfida su Palazzo Chigi, quando ci sarà. Secondo alcuni rumors , Luigi Di Maio si sta spendendo per una sorta di pax su Roma, almeno fino al momento del voto. Vignaroli è realista: «Il destino di M5S passa per Roma, per noi questa è una prova generale». E i primi due mesi di Virginia Raggi come sono andati? «Vabbé, io non sono obiettivo. E poi è troppo presto. Certo siamo stati più lenti, ma abbiamo una giunta di grande spessore». In quella giunta, proprio il deputato e la sua compagna Taverna hanno indicato Paola Muraro, responsabile dell’Ambiente, finita anche lei al centro delle polemiche: «La Muraro ha un curriculum di tutto rispetto, sa dove mettere le mani. E poi la linea politica la dà il sindaco».