sabato 3 settembre 2016

CULTURA

Repubblica 3.9.16
Venezia, "Liberami" e il vero volto degli esorcisti: "Il Male è una condizione della mente"
Nella sezione Orizzonti il docufilm di Federica Di Giacomo, viaggio in Sicilia fra i riti di liberazione dal Maligno. A contatto con i preti che li praticano. "Un fenomeno in continua espansione, un combattimento spirituale visto in una chiave trasparente e laica"
di Antonella Gaeta

qui

il manifesto 3.9.16
L’impotenza della specie
Arnold Gehlen. «L’uomo delle origini e la tarda cultura» è l’opera in cui il filosofo tedesco presenta le istituzioni come lo strumento teso a garantire la riproduzione degli umani che non possiedono nessuna specifica specializzazione come gli altri animali
di Massimiliano Guareschi


L’antropologia può essere molte cose. Per esempio, un ramo delle scienze biologiche che si occupa della morfologia e della fisiologia del gruppo zoologico degli ominidi. Oggi, quando si introduce il termine, si ritiene scontato che si stia parlando di antropologia culturale nelle sua varianti strutturaliste e, soprattutto, etnografiche. In un’accezione ancora differente, l’antropologia si presenta come la parte della filosofia che si raccoglie intorno alla domanda «che cosa è l’uomo?» ponendo contestualmente la questione della sua differenza specifica rispetto agli altri animali o a esseri quali spiriti, dei, angeli, demoni. Se gli avi dell’antropologia culturale possono essere individuati in Erodoto e nei sofisti, con il loro gusto per la descrizione degli usi e costumi di popoli più o meno esotici, la perimetrazione dell’ambito problematico relativo alla specificità dell’umano risale ai primordi della filosofia, da quanto si può desumere da alcuni frammenti presocratici, per consolidarsi con Platone e, soprattutto, Aristotele.
L’antropologia viene così a costituire un tema con cui ogni filosofo deve fare i conti, da Tommaso a Kant, fino all’idealismo e ai suoi vari «superamenti» o «ribaltamenti». Nella prima metà del novecento, poi, in Germania, al crocevia di filosofia della vita, fenomenologia e interesse per le scienze sociali e naturali una serie di autori – Max Scheler, Arnold Gehlen, Helmut Plessner – attribuisce all’l’interrogazione sullo statuto dell’uomo una tale centralità da generare a posteriori l’abitudine di iscriverli a una comune corrente denominata «antropologia filosofica».
La specializzazione mancante
In genere la tradizione filosofica ha identificato la specificità dell’umano e ciò che segnava la distanza dall’animale in un quid positivo, in qualcosa in più che di volta in volta ha assunto la forma dell’anima razionale, dello spirito, dell’immaginazione o dell’autocoscienza. Una posizione opposta caratterizza Gehlen, per il quale l’elemento differenziale deve essere ricercato in qualcosa di meno, in una mancanza. In base a tale prospettiva, che molto deve a spunti riferibili a Herder e Nietzsche, l’uomo si presenterebbe come un animale privo di ambiente e, per ciò, aperto al mondo, biologicamente indeterminato, istintualmente carente, despecializzato. Si tratta di temi esplorati nell’opera maggiore geheleniana, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (Mimesis), uscita nel 1940 e profondamente rielaborata una decina di anni dopo. La carenza istintuale comporta il fatto che nell’uomo non si attivino risposte automatiche agli stimoli dell’ambiente. La sollecitazione suscita l’«esigenza di fare qualcosa», un «sentimento» la cui traduzione in azione resta indeterminata. La despecializzazione, inoltre, spinge gli uomini a ricorrere all’esonero (Entlastung) ossia all’esternalizzazione, tramite gli strumenti tecnici, delle funzioni (per esempio la difesa o il riparo dalle intemperie) che altri animali affidano a organi specializzati.
Tecnica e apocalisse
Gehlen è senza dubbio un autore reazionario. Ad attestarlo non è solo la sua adesione al nazismo ma anche il costante richiamo alle gerarchie e alle esigenze di disciplinamento di un corpo sociale in perpetuo eccesso pulsionale che segnano la sua produzione del dopoguerra. Nonostante tale posizionamento, tuttavia, il suo approccio ha suscitato nel corso dei decenni periodiche ondate di interesse all’interno di ambiti assai lontani dalla sua sensibilità politica. È stato così negli anni Settanta, quando all’ordine del giorno era la questione della soggettività. Nel clima di riflusso del decennio successivo, Gehlen non manca di essere chiamato in causa nelle discussioni innocuamente apocalittiche sul dominio della tecnica. L’approssimarsi del nuovo millennio riaccende l’interesse per l’autore di L’uomo in relazione alle tematiche del posthuman e del cyborg. Se si dovesse individuare un aspetto del pensiero gehleniano in grado di entrare maggiormente in risonanza con le urgenze teoriche e politiche dei nostri anni, invece, la risposta potrebbe essere: le istituzioni. Di conseguenza, si può guardare con interesse alla recente riproposizione, a cura di Vallori Rasini, del testo in cui Gehlen, nel 1956, si confronta in maniera più sistematica con tale tematica: L’uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (mimesis, pp. 286. euro 25).
Nonostante Durkheim non sia mai citato, la drammaturgia di L’uomo delle origini e la tarda cultura presenta notevoli affinità con Le forme elementari della vita religiosa. In entrambi i casi, si intraprende una spedizione virtuale nel tempo (e nello spazio) alla ricerca di uno strato arcaico che permetterebbe di svelare i segreti del presente. Detto dell’analogia, relativa al «viaggio in una stanza» per interrogare selvaggi e primitivi, completamente diverso è il registro teorico dei due autori.
Per il positivista Durkheim i riti, i totem e i tabu mostravano allo stato puro ciò che, man mano ci si allontana dall’origine, diviene sempre più opaco e indiscernibile ma non per questo meno presente. Diversamente Gehlen, come ogni buon filosofo tedesco, ha un’attrazione irresistibile per l’ineffabile. Ai suoi occhi l’uomo delle origini non ci è accessibile per immedesimazione in quanto nulla nella nostra esperienza rimanda al suo mondo. Di conseguenza, l’indagine acquisisce un valore soprattutto differenziale, per marcare la distanza fra una modernità incentrata sul razionalismo volontarista e il primato della soggettività individuale e un’origine di cui si è smarrito il senso passando per le grandi svolte del monoteismo e del disincanto del mondo.
Lo spirito oggettivo
L’uomo delle origini e la tarda cultura si propone l’elaborazione di una filosofia delle istituzioni. In proposito, Gehlen non esita a chiamare in causa Hegel, un classico a lui molto distante dal punto di vista teorico. L’analisi antropologica delle istituzioni, infatti, ci condurrebbe allo «spirito oggettivo», mostrando come «gli ordinamenti prodotti dall’uomo si rendono autonomi e si trasformano in una potenza che fa valere le sue leggi fin dentro i loro cuori». In tal senso, le forme di soggettività appaiono sempre indissociabili dai dispositivi istituzionali che le producono e che, a loro volta, da esse sono tenuti in vita. L’uomo, essere plastico e istintualmente indeterminato e, per questo, pulsionalmente in eccesso, necessita di stabilizzazione. E ciò può avvenire solo tramite esoneri, tramite le esternalizzazioni interiorizzate offerte dalle istituzioni.
La sequenza storico-tipologica che emerge dall’esperienza dell’uomo delle origini conduce dalla rappresentazione al rito, e da questo all’abitudine e all’istituzione attraverso un complesso gioco in cui la routinizzazione delle pratiche conduce alla loro autonomizzazione dai fini originari e all’emergere in primo piano di effetti secondari.
Varie sono oggi le motivazioni che spingono a un rinnovato interesse per la tematica delle istituzioni. In primo luogo si potrebbe citare la crisi del «portatore» per eccellenza delle istituzioni della modernità nazionale-internazionale, lo stato, che subisce la crescente concorrenza di fonti del diritto e principi di organizzazione/legittimazione dell’azione individuale e collettiva di carattere sub o sovranazionale, spesso private o di incerto statuto.
L’aiuto inatteso
Correlato appare il tema dell’incapacità di incidere sui processi e le dinamiche in atto della politica e del volontarismo giuridico incentrato sulla figura dello stato. A fronte di ciò, negli ultimi anni si è molto parlato, a partire da differenti prospettive, di governance, di istituzioni cosmopolite, di nuovo localismo, di diritto alla città, di istituzioni del comune. In sintesi, la crisi delle figure della rappresentanza politica e dei corpi intermedi pone all’ordine del giorno la questione della creazione di nuove istituzioni. In tale ottica, l’approccio antropologico-filosofico e il viaggio verso le origini di Gehlen, proprio per la sua distanza da ogni prospettiva filosofico-giuridica imperniata sulla sovranità, può senza dubbio offrire numerose suggestioni e sollecitazioni, al di là delle intenzioni politiche dell’autore.

Corriere 3.9.16
Stragi naziste: Milano ospiterà un convegno


S’intitola «L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 1943-1945» il convegno internazionale in programma a Milano presso la Casa della Memoria (via Federico Confalonieri 14) dal 14 al 16 settembre. L’incontro è organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione (Insmli) e dall’Anpi con il contributo dell’ambasciata della Repubblica federale tedesca e della struttura di missione per gli anniversari d’interesse nazionale della presidenza del Consiglio: lo scopo è tirare le somme del lavoro di ricerca compiuto in questi anni, che ha portato alla definizione dell’Atlante delle stragi e che ha fissato in 22 mila le vittime degli eccidi compiuti dalle forze occupanti del Terzo Reich, al comando del maresciallo Albert Kesselring (nella foto), e da quelle fasciste della Rsi. ( m.br. )

il manifesto 3.9.16
La chance di Bandinelli
«L’uomo che non cambiò la storia», sulla visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938
Il documentario di Enrico Caria presentato alle Giornate degli Autori

di Silvana Silvestri

Basta vedere sul piccolo schermo le immagini di Hitler ed ecco che aumentano vertiginosamente i numeri degli spettatori, questo ci dicono le statistiche. Questa volta Enrico Caria spiazzerà quel pubblico con un film costruito sui materiali dell’Istituto Luce a partire dal paradosso della storia costruita con i «se»: e se veramente fossero andati a segno i numerosissimi tentativi di eliminare fisicamente i dittatori dell’epoca?
Rinascono a nuova vita i reperti filmati, che si concentrano, dopo aver riepilogato i falliti attentati a Hitler, sull’avvincente vicenda di Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo chiamato a fare da illustre guida dei musei e delle antichità al seguito della visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938. Sembrerebbe impensabile dare una svolta umoristica a questi eventi, ma Enrico Caria è un vero esperto dell’humour noir, autore di film come 17, Vedi Napoli e poi muori, L’era legale, Carogne, sceneggiatore e autore di polizieschi (l’ultimo, Indagine su un mago senza testa).
Così ci accompagna con grande serietà lungo quel viaggio compiendo sterzate non in conflitto con l’epoca di cui si sta parlando: lo sono i disegni a fumetti che punteggiano le autentiche riprese, la stessa voce che commenta i fatti in prima persona (è Claudio Bigagli a dare l’intonazione fiorentina dalle pagine liberamente utilizzate del libro autobiografico di Bandinelli Il viaggio del Fuhrer in Italia, ed. e/o), lo stesso sorprendente andamento musicale (Pivio e Aldo De Scalzi, Daniele Sepe).
Lo studioso, come altri intellettuali dell’epoca (Bandinelli fu liberale crociano e poi comunista) possedeva grande senso critico e sapeva cogliere ogni aspetto grottesco e umoristico delle situazioni, non che ne mancassero, come i commenti del «grande artista» Hitler, contrapposto al disinteresse di Mussolini per la materia, con il suo fluente tedesco dall’accento romagnolo. Ma Caria parte sempre dalla notazione arguta per far esplodere poi il disastro annunciato (l’apprezzamento del Fuhrer sarà il preludio ai furti delle opere nei Musei di tutta Europa, i due personaggi da operetta preludono a immani ecatombi). Il film ci fa partecipi di quella contiguità del professore con Hitler e Mussolini, sempre accanto al loro nell’automobile o nelle sale dei musei e soprattutto ci accomuna nella domanda che potrebbe farsi chiunque: che svolta avrebbe avuto la storia se fossero stati eliminati entrambi in un sol colpo in quel 1938?
C’era lo scopo e la possibilità, Bandinelli fu sedotto a lungo da quell’ipotesi, la valutò per molto tempo, ma di fronte alla sua inazione, si rese conto che a niente vale l’iniziativa individuale, se non deriva da una politica strutturata.

Corriere 3.9.16
Appendino e Sala: «Salone del libro? Ne parliamo con i ministri»
di Ida Bozzi ed Elisa Sola


Si avvicinano giorni decisivi per molte delle questioni che ruotano intorno alla vicenda del Salone del libro, mentre ieri si sono incontrati i sindaci delle due città in gioco, Milano e Torino.
Intanto, è confermata ufficialmente la data di giovedì 8 settembre per l’incontro a Torino, al Circolo dei lettori, del gruppo degli editori usciti dall’Aie (i primi undici sono stati Add, Nutrimenti, e/o, Iperborea, LiberAria editrice, Lindau, minimum fax, Nottetempo, Sur, 66thAnd2nd, ObarraO) con gli indipendenti di Odei, di Fidare e altre associazioni di categoria, e con molti invitati tra editori e istituzioni. A cominciare dalla Fondazione per il libro, continuando con le istituzioni cittadine e regionali, per arrivare agli editori («abbiamo invitato moltissimi editori, non solo indipendenti», ha affermato Gino Jacobelli presidente di Odei). Altri attesi sono Giuseppe Laterza, che aveva già accettato l’invito in luglio, il direttore uscente del Salone, Ernesto Ferrero, e una rappresentanza dei librai.
Oltre alla questione della sopravvivenza del Salone del libro a Torino, dalla riunione torinese dell’8 dovrebbero uscire anche le decisioni sulla creazione di una nuova associazione di rappresentanza degli editori «ribelli» («in ballo, a questo punto, c’è la questione complessa della rappresentanza degli editori — ha affermato Andrea Palombi di Nutrimenti — e l’esigenza che molti editori sentono di creare un’associazione di categoria, anche a partire da quel che c’è già, Odei e gli altri indipendenti»). Inoltre sono arrivate a 541 le firme all’«appello dei professori» in favore del Salone di Torino, promosso da Gian Giacomo Migone, fondatore de «L’Indice». E un altro tavolo di lavoro è quello della Fondazione del libro: oggi, a Torino, in mattinata, è previsto un incontro tra la Fondazione, l’assessora alla Cultura, Francesca Leon, e il presidente indicato Massimo Bray.
Intanto ieri sera, all’inaugurazione torinese della rassegna musicale MiTo, al Teatro Regio, cui partecipavano i sindaci Chiara Appendino e Giuseppe Sala, si è parlato anche del Salone. «Per risolvere la questione del Salone del libro — ha affermato Sala — andremo a Roma. Ho appena sentito il ministro Dario Franceschini. Quello sarà il momento per lavorare insieme e per uscire da una situazione un po’ di impasse che nostro malgrado si è creata. Ho sentito Franceschini, io e Appendino siamo stati entrambi convocati a Roma. È giusto che anche i ministri si mettano a un tavolo, con gli assessori competenti e la Fondazione».
L’incontro sarà il 12 settembre, con i ministri Franceschini e Giannini. Ma c’è anche la volontà, ha concluso Sala, di rafforzare il rapporto tra le due città. Un punto su cui ha insistito anche Appendino, sottolineando la volontà di incontrarsi in altre occasioni: «Ci troveremo insieme e ne parleremo». La prima occasione sarà stasera, a Milano, quando Sala e Appendino inaugureranno la parte milanese di MiTo, al Teatro alla Scala.
Anche l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno, pur ribadendo che «non c’è un tavolo di trattativa», ha affermato che «non c’è mai stata nessuna contrapposizione fra Torino e Milano riguardo al Salone del libro. Il salone di Milano sarà un evento nuovo voluto dall’Aie e dalla Fiera. Il progetto non è ancora stato presentato, lo sarà a breve. Si tratta comunque di una iniziativa privata con la quale il Comune collaborerà».

Repubblica 3.9.16
Il misterioso frutto degli indios diventato delizia da fast food
Scoperto nel Cinquecento dai conquistatori spagnoli in Sudamerica il tubero approdò stabilmente sulle tavole europee solo tre secoli dopo
di Marco Belpoliti


Nel 1536, dopo essersi aperti un varco nella foresta della valle di Magdalena, i membri della spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada incontrano il villaggio di Sorocotá. Gli indigeni fuggono all’apparire degli spagnoli e questi, entrando nelle case, vi trovano fagioli, mais e “tartufi”. Nel suo resoconto Juan de Castellanos li descrive dettagliatamente: «piante con scarsi fiori viola opaco e radici farinose di sapore gradevole, un dono molto gradito
dagli indios e un piatto prelibato perfino per gli spagnoli». Pochi mesi più tardi la medesima spedizione conquista Bogotà e scopre che il mais e il “tartufo” sono la base della alimentazione della popolazione. Due anni dopo, nel 1538, Pedro Cieza de Leon, soldato semplice di un’altra spedizione, un erudito, descrive il vegetale sconosciuto in modo dettagliato. Il suo resoconto, pubblicato nel 1550, è la prima testimonianza scritta della patata. Ventitré anni dopo il “tartufo” fa parte del vitto dell’Hospital de la Sangre di Siviglia, città crocevia della sua introduzione. Tuttavia questo tubero, appartenente alla famiglia delle Solanacee, faticherà parecchio a imporsi come alimento in Europa, in particolare in Italia; occorrerà parecchio tempo infatti prima che diventi quello che è oggi: cibo sulle nostre tavole.
Gli spagnoli la chiamano papa, o papas, al plurale, parola peruviana di origine quechua. La sua classificazione è prima di tutto botanica; come pianta s’insedia nei giardini reali e negli orti botanici europei. Coltivata dagli indios ha una prerogativa preziosa: prospera sugli altopiani delle Ande, dalla Columbia al Cile. Lì, ai confini con le zone nevose, ad altezze oltre i 4000 metri crescono molte specie di Solanum selvatico da tubero, da cui derivano le nostre patate domestiche. Sostituisce il mais, che non prospera così in alto. Redcliffe N. Salaman, medico ebreo inglese, vissuto tra la fine del XIX secolo e la metà dello scorso, autore di
Storia sociale della patata, sostiene che gli uomini hanno incontrato la patata selvatica nei territori elevati come il Collao quando presero ad allontanarsi dalle foreste del Sudamerica: il terrore li aveva spinti a ovest, sempre più in alto, lontano dai pericoli nascosti nella fitta vegetazione. Il cibo giusto è lassù. Le specie sono diverse e coltivate contemporaneamente dalle popolazioni indios.
Oggi la maggior parte delle varietà appartiene alla specie Solanum andigenum. Nel 1939 una spedizione scientifica inglese raccoglie nel suo erbario centocinquanta varietà diverse della Solanum andigenum. L’importanza della patata nella cultura dell’antico Perù era tale, scrive Salaman, da essere tutt’uno con i riti sacrificali. Perché non si è imposta subito come alimento in Europa? La prima fondamentale ragione è che è un tubero; vi erano forti pregiudizi verso il fusto sotterraneo della pianta che confinano con la superstizione. Frutto ctonio, per alcuni, aveva però goduto del favore di almeno un ordine religioso: i Carmelitani scalzi. Nel 1584 un frate di nome Nicolò Doria fonda un monastero a Genova ed è probabile che in quell’occasione la patata arrivi in Italia; il suo ordine ne fa già uso quale prezioso dono della Provvidenza. Nel 1653 non risulta ancora coltivata in Inghilterra come alimento, e nella prima edizione dell’Encyclopédie (1751) di Diderot e D’Alembert la voce a lei dedicata non è per nulla lusinghiera: «è insipida e farinosa».
La prima difficoltà è che per piantare le patate non si usano i semi, ma i tuberi, cosa poco consueta nel mondo contadino del Vecchio continente. La seconda deriva dal fatto che all’inizio, e per lungo tempo, ridotta in fecola o pasta, viene proposta come componente del pane. In Italia, in particolare, i fittavoli temono che i proprietari usino le patate in sostituzione degli alimenti cui sono abituati: grano, mais o castagne.
Come nota David Gentilcore non era una questione di attaccamento alla tradizione; sostituire un alimento con l’altro «metteva in discussione il concetto di sussistenza per i contadini».
La loro dieta non era flessibile. Sempre in Italia, scrive Vito Teti, la coltivazione delle patate era incoraggiata dai proprietari che consumavano invece pane bianco e dai preti che predicavano ai contadini digiuno e rassegnazione. Nel Settecento la patata diventa essenziale nelle carestie, in particolare nell’Irlanda devastata dal conflitto con gli inglesi; inoltre si è già diffusa nei paesi del nord che ne diventeranno i maggiori produttori e consumatori nei secoli seguenti. In Italia, spiega Gentilcore, passano ben 300 anni prima che entri nell’alimentazione. Occorreranno tre tentativi successivi. Il primo dopo l’introduzione nel Cinquecento per merito dei Carmelitani. Se dal mais si può ricavare la farina, il peperoncino è spezia più a buon mercato del pepe e i fagioli americani sono accettati in modo entusiastico, la patata, come il pomodoro, richiede nuove associazioni culinarie. Nel Seicento non accade. La seconda volta è nella seconda metà del Settecento. Come alimento contro le carestie non ha rivali, tuttavia alla maggior parte degli italiani pare ancora strano ed esotico, persino ridicolo; è chiamata ancora tartufo, o tartuffolo, fino al XIX secolo inoltrato. Lo propagandano le élite laiche («migliorava la condizione dei poveri senza minacciare la vita dei ricchi»), mentre i preti si oppongono. Poi, a partire dalla metà dell’Ottocento, la patata si trasferisce in città e diventa una cultura redditizia nelle campagne. S’impone finalmente, con una conseguenza però non positiva, spiega Gentilcore: è la patata a creare lo spopolamento delle nostre montagne nel corso dell’Ottocento, la migrazione; grazie alla maggior disponibilità alimentare che produce, provoca una crescita demografica che l’ambiente montano non riesce a tollerare. Oggi la maggior parte delle patate non è destinata alla alimentazione umana, ma a quella animale, e all’industria che produce alcol e amido. Negli anni Cinquanta compaiono le “patatine all’americana”, mercato in cui è leader la San Carlo, multinazionale a conduzione famigliare; nei Sessanta è la volta delle patate surgelate fritte a bastoncino. Nessuna delle due però sfonda davvero. La patata postmoderna, conclude Gentilcore, ha varie e differenti identità contrastanti: tradizionale, futuristica, urbana, montana, locale, globale, fast food. Oggi la patata è oggetto di tradizioni “inventate” nonostante che il suo ruolo nell’agricoltura italiana continua a declinare. Un fatto curioso: a differenza nostra i cinesi hanno adottato rapidamente la patata. Che siano più recettivi anche nelle novità alimentari? Ipotesi da non scartare.
Cosa leggere per saperne di più I semi dell’Eldorado (Edizioni Dedalo) di Maurizio Sentieri e Guido N. Zazzu racconta la storia dell’arrivo delle piante dal Nuovo Mondo. Redcliffe N. Salaman con Storia sociale della patata (Garzanti, ristampata di recente da PiGreco) ha scritto il libro definitivo sulla sua origine e uso; David Gentilcore, Italiani mangiapatate (il Mulino) narra con dovizia di dettagli la storia della patata in Italia.
8. Continua
MONDO

il manifesto 3.9.16
La sinistra nella morsa del liberismo
Unione europea e euro. Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo, la sinistra rimane ai margini della storia e diventa complice di una spirale distruttiva della Ue, oltre che della moneta unica
di Stefano Fassina


Una serie di interventi ospitati da il manifesto nel mese scorso (da Ciocca a Lunghini) è ruotata intorno a un punto efficacemente sintetizzato da Valentino Parlato (11 Agosto): «l’attuale crisi, a differenza di quella del ’29, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura … Dobbiamo renderci conto, ed sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore». È una valutazione valida per tutte le sinistre al di qua e al di là dell’Atlantico, dentro e fuori il perimetro della esangue famiglia socialista europea. È utile, in particolare, per noi, Sinistra Italiana, avviati inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate.
Eppure sono evidenti le discontinuità di fase. Le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, i successi anti-establishment di Trump e Sanders e la virata a manca di Hillary Clinton negli Usa e, infine, la Brexit indicano l’insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo liberista. Un fatto enorme. A guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nel 1989 per il socialismo reale.
Per noi, nell’euro-zona, l’insostenibilità del liberismo reale è un dato politico ancora più rilevante poiché abbiamo «costituzionalizzato» la versione più estrema del paradigma oramai alle corde: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro delle politiche di svalutazione del lavoro iniziate in Germania dalle «riforme Hartz», l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto nella Ue nel secondo dopo guerra.
Nonostante i caratteri di fondo dei trattati europei e dell’unione monetaria, nella sinistra storica europea, riformista o critica, e nei giovani movimenti genericamente anti-establishment, la discussione rimane prigioniera di un astratto e impolitico europeismo alternativo. La «stagnazione della cultura» a sinistra oggi è il principale ostacolo all’affermazione di movimenti, sindacati e partiti orientati a ricostruire soggettività sociale e politica del lavoro, condizione necessaria per rivitalizzare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e riavviare l’economia all’insegna della riconversione ambientale.
Per aprire una discussione utile, in particolare per chi è in fase costituente, l’ultimo saggio di Joseph Stglitz, premio Nobel nell’economia e icona della sinistra, offre una preziosa opportunità. Il professore della Columbia University, difficile da scomunicare con l’accusa di moda di sovranismo o neo-nazionalismo, nel suo «The Euro. How a common currency threatens the future of Europe», ripropone un’analisi consolidata, da tempo espressa da tanti economisti eterodossi e mainstream, anche in Italia: l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile poiché determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione.
In altri termini, l’assenza o la prolungata anemia dell’economia non è soltanto conseguenza di risposte sbagliate a incidenti esogeni. La «stagnazione secolare» è la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema dell’euro-zona non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati e la politica economica mercantilista praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. In sintesi, l’euro è stato un errore politico di portata storica.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz si ritrova una rubrica di «riforme strutturali». Il problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è.
In tale quadro, data l’impraticabilità politica del Piano A, Stiglitz propone il «suo» Piano B: il superamento cooperativo dell’euro («amicable divorce») per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud o, scenario preferibile, all’uscita della Germania dalla moneta unica.
Alle medesime conclusioni di Stiglitz, sebbene con argomenti di superficie, era arrivata un’altra icona della sinistra critica italiana, Luciano Gallino, nel suo testamento politico, rimosso anche dai discepoli più intimi: «Come (e perchè) uscire dall’euro ma non dall’Unione europea».
Allora, che fare per salvare l’Unione europea dall’euro? Innanzitutto, una lettura fondata della fase, l’abbandono del miraggio degli Stati Uniti d’Europa e l’archiviazione della richiesta del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona (a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico). Quindi, l’avvio di una discussione ordinata, protetta dalla Bce, per un Piano B sulle linee raccomandate da Stiglitz. Immediatamente, l’innalzamento delle retribuzioni in Germania per consentire un significativo aumento degli investimenti pubblici nei paesi più in difficoltà dell’eurozona senza effetti dirompenti sulle loro bilance commerciali.
Invece, come fossimo negli anni ’90, il governo, supportato dall’establishment, ripropone ulteriori misure supply-side: tagli al welfare per ridurre le tasse sulle imprese e smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Svalutazione del lavoro per ridurre il gap di competitività e puntare alla domanda interna di qualcun altro. Una ricetta seguita da tutti i Paesi euro. Quindi, inutile a migliorare la posizione relativa della singola economia ma efficacissima a deprimere la domanda interna dell’eurozona, a incancrenire la stagnazione e spingere le classi medie verso la chiusura nazionalista.
Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo reale e della sua versione estrema incarnata dall’europeismo reale, la sinistra qui e oltre confine rimane al margine della storia e si fa involontariamente complice di una spirale distruttiva dell’Unione europea, oltre che della moneta unica. Il dibattito su il manifesto è una preziosa occasione per recuperare.

Repubblica 3.9.16
Badinter: “La Francia rischia una secessione islamica”
Dal burkini alle banlieu ai rischi per la laicità: intervista alla filosofa “Saranno le donne musulmane a ribellarsi, sta già accadendo”
di Anais Ginori


PARIGI «Dicano pure che sono islamofoba: non m’importa. Non possiamo rinunciare alla critica di alcune derive dell’Islam solo perché c’è il rischio di stigmatizzare i musulmani». Elisabeth Badinter ha appena finito un libro su cui lavora da anni dedicato a Maria Teresa d’Austria, sovrana di un impero con sedici figli, antesignana della sfida molto femminile della conciliazione tra pubblico e privato. La filosofa francese che ama passare le giornate negli archivi non rinuncia mai a intervenire nel dibattito intellettuale, soprattutto se in ballo ci sono la laicità e il femminismo, com’è accaduto quest’estate con le polemiche sui divieti del burkini. «Certo, non è un indumento che mi piace, dev’essere anche scomodo», premette Badinter nel suo appartamento parigino affacciato sui giardini del Luxembourg.
Le foto dei poliziotti di Nizza che costringono una donna in spiaggia a togliersi il burkini hanno fatto il giro del mondo. Anche lei è rimasta scioccata?
«Sono per la libertà di indossare ciò che si vuole, mi sembra un principio minimo ed essenziale, anche se la legge fissa alcuni paletti: non si può passeggiare nudi e neppure a volto coperto. È pur vero che mettersi un burkini può diventare una provocazione, soprattutto dopo un attentato come quello che ha vissuto Nizza».
Più che un abito, il burkini rappresenta ormai anche un messaggio politico?
«È chiaramente un’uniforme politico-religiosa. Alcune donne forse lo indossano seguendo convinzioni di virtù e purezza, ma diventano strumento di una cultura che vuole sottometterle. Resto comunque dell’idea che sia sbagliato varare dei divieti specifici. Esiste già il bando di indumenti religiosi in alcuni luoghi istituzionali come scuole, uffici pubblici. È quello che prevede la nostra legge sulla laicità approvata nel 1905 che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi ma garantisce anche la libertà di culto».
Una legge che oggi molti vorrebbero cambiare.
«La legge del 1905 ha permesso di secolarizzare la nostra società. All’epoca era stata adottata per i cattolici e ha funzionato. È uno dei fondamenti della nostra République. Dobbiamo vigilare ancora di più in questo momento. La Francia si trova in una situazione eccezionale, unica in Europa. Nessun altro paese ha vissuto l’orrore a ripetizione, con diversi attentati in successione nell’arco di un anno e mezzo. La reazione e il sentimento dei francesi stanno cominciando a cambiare. L’islamofobia sta montando, insieme al rischio che ci siano gesti estremi contro la comunità musulmana».
Per Michel Houellebecq è in corso un prepotente ritorno della religione in Occidente, e la laicità è superata. È d’accordo?
«Forse Houellebecq ha ragione quando parla di un ritorno della religione nelle nostre società. Non sono invece d’accordo sul fatto che il principio della laicità, dei Lumi, sia ormai desueto. Anzi: la laicità sarà la nostra arma per lottare non contro la religione, ma contro il fanatismo».
Perché molti dibattiti sull’Islam alla fine ruotano intorno alla donna e al suo corpo?
«Su questo tema la miglior riflessione l’ha fatta Kamel Daoud, che pure è stato travolto dalle critiche. Comunque il fanatismo islamico non offre un’immagine maschile migliore: le donne devono coprirsi perché gli uomini sarebbero delle bestie incapaci di poter controllare i loro istinti sessuali».
Per un intellettuale è difficile criticare l’islamismo, senza essere accusati di islamofobia?
«Questo genere di critica è un perverso ribaltamento dell’antirazzismo, usato per impedire agli altri di esprimere le proprie idee. È l’errore che fa oggi una certa sinistra. Bisogna saper distinguere: sono contro l’islamismo, e difendo l’Islam. Per troppi anni c’è stato chi ha voluto tacere l’ascesa dei salafiti nelle banlieue perché non bisognava mettere in difficoltà la comunità musulmana. Una scelta di quieto vivere che ha dato i risultati che vediamo oggi. In alcuni quartieri le giovani francesi non possono uscire di casa senza il velo, devono chiedere il permesso ai fratelli per muoversi, l’aborto è impossibile. Provate ad andare a Sevran (periferia di Parigi, ndr) per vedere come l’80% delle donne indossi il velo. Sono territori perduti della République. In alcuni quartieri c’è un separatismo con la società francese, direi quasi una secessione».
Una definizione forte. È così pessimista?
«Penso che possiamo ancora riconquistare questi territori. Non è una situazione definitiva. La mia speranza viene dalle donne. Sono in contatto con molte associazioni femminili che lavorano nelle banlieue. Ci sono sempre più ragazze che rifiutano di indossare il velo, che sfidano la cultura religiosa dominante. Hanno molto coraggio. Alcune scrivono libri, vanno in televisione. Ma sarà un ciclo lungo. Potrebbe durare anche una generazione».
È il segnale che l’integrazione sociale ed economica ha fallito?
«I primi algerini, marocchini, tunisini, che sono arrivati a partire dagli anni Sessanta non sono stati accolti bene. Eppure per almeno trent’anni non abbiamo mai avuto problemi di convivenza. Ricordo alcune signore tunisine che si coprivano i capelli con un foulard. Certo a noi pareva strano, ma sembrava più che altro una tradizione lontana. Adesso è diverso. Il burkini ci appare come una provocazione, un esplicito rifiuto della nostra società. La cesura è sempre più profonda e rapida. Ricordiamoci cosa abbiamo pensato quando abbiamo visto in televisione le donne afgane con il burqa. Era quindici anni fa. Era un’immagine allucinante ma lontana nel tempo e nello spazio. Mai avremmo pensato di doverne discutere qui, in Francia, in Europa».

Il Sole 3.9.16
Rajoy bocciato, Spagna verso il voto
Senza un’intesa entro ottobre, a dicembre terze elezioni in un anno
I socialisti e gli altri partiti di opposizione confermano il no al leader popolare, premier incaricato
di Michele Pignatelli


Mariano Rajoy non ce l’ha fatta a ottenere la fiducia per guidare un nuovo governo, come era ampiamente previsto: contro il leader popolare, primo ministro uscente e incaricato dal re Felipe VI, hanno votato 180 deputati, a favore solo 170: esattamente come mercoledì. Alla Spagna restano dunque meno di due mesi per scongiurare il rischio di nuove elezioni generali - le terze nel giro di un anno - anche se le speranze appaiono minime.
A Rajoy ieri non serviva più la maggioranza assoluta del Congresso, come nella votazione di mercoledì; per formare un esecutivo (di minoranza) sarebbe bastata la maggioranza semplice, ottenibile se almeno 11 deputati dell’opposizione si fossero astenuti. Ma le intenzioni erano apparse chiare già nel dibattito di metà settimana, quando il leader socialista Pedro Sanchez aveva espresso una netta contrarietà a un primo ministro accusato di aver avallato la corruzione di pezzi del Partito popolare e di aver fatto disastri anche in campo socioeconomico. Un premier definito ieri «il peggiore della storia». Così per Rajoy hanno votato solo i 137 deputati popolari, i 32 centristi di Ciudadanos e un deputato delle Canarie.
A questo punto la legge spagnola concede tempo soltanto fino al 31 ottobre prima che il Parlamento venga sciolto e siano convocate nuove elezioni, che peraltro rischierebbero di non avere un esito tanto diverso. Rajoy ha già detto di volersi ripresentare entro ottobre all’assemblea per un nuovo voto di fiducia, se il re conferirà ancora a lui, leader del partito più votato, l’incarico. Le sue chance però sono affidate a due sole possibilità: riuscire a convincere una parte dei deputati socialisti che un nuovo governo guidato da lui «è l’unico possibile» - come ha ripetuto ieri - e quindi ad astenersi; oppure portare dalla sua parte i cinque deputati del Partito nazionalista basco: operazione che potrebbe essere facilitata dal voto regionale in programma nel Paese basco e in Galizia il 25 settembre. Se infatti i nazionalisti dovessero avere bisogno dell’appoggio dei popolari per guidare la regione, potrebbero a loro volta sostenere un nuovo governo Rajoy. Ma ieri ha scricchiolato anche la fragile alleanza con Ciudadanos, con il leader Albert Rivera che ha chiesto al Partito popolare di proporre un altro candidato primo ministro.
Nello stallo generale con cui si è chiusa anche la giornata di ieri, una schiarita arriva sulla data delle eventuali nuove elezioni, ulteriore motivo di scontro nei giorni scorsi tra popolari e socialisti. I quattro grandi partiti- oltre ai due maggiori, Ciudadanos e Unidos Podemos - si sono dichiarati favorevoli a una riforma della legge elettorale che eviti di chiamare alle urne gli spagnoli il giorno di Natale. Si tratterebbe, stando alle anticipazioni di El Pais,di ridurre da due a una settimana la durata della campagna elettorale, consentendo di votare il 18 dicembre.
Nel frattempo il Governo Rajoy resta in carica solo per gli affari correnti, il che potrebbe complicare anche il rispetto degli impegni con l’Europa: Madrid ha infatti ottenuto dalla Commissione Ue due anni in più per riportare il deficit sotto il 3% del Pil (non più il 2016 ma il 2018), ma entro il 15 ottobre deve presentare il budget 2017 con le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi.

il manifesto 3.9.16
Alle primarie del Labour Corbyn vola in testa, «golpe» dei «blairisti» a un passo dal flop
Gran Bretagna
Ha tutti contro ma il leader di sinistra del Labour è il politico più popolare del regno. E nei sondaggi doppia il moderato Smith, fermo al 38%. Iniziato voto postale, i risultati il 24 settembre
di Leonardo Clausi


È stata l’estate più turbolenta per la Gran Bretagna dalla seconda guerra mondiale. Molto poté lo stress post-traumatico della Brexit, che ha catapultato Theresa May a Downing street dopo una breve e spietata resa dei conti fra i Tories e provocato nel Labour una lacerante frattura fra membri del partito – che avevano eletto leader Jeremy Corbyn – e i suoi colleghi deputati, che lo avevano sfiduciato a poche ore dall’esito referendario e dalle dimissioni di David Cameron.
Il voto postale per queste ri-primarie laburiste, volute a tutti i costi dai vertici del partito pur di liberarsi del proprio leader, è in atto. Ma per i centristi postblairiani, per i quali Corbyn è un pericolo peggiore di Theresa May, rischiano di finire peggio delle precedenti.
Secondo l’ultimo sondaggio YouGov, lo stesso Corbyn, impegnato in un secondo round contro il moderato Owen Smith, oggi vincerebbe il contest con una maggioranza ancora più lussuosa di quella – già ragguardevole – della prima tornata: 62% delle preferenze contro il misero 38 del rivale.
Un distacco umiliante, che dimostra a quanto poco siano valsi finora gli sforzi di tutto l’establishment politico, istituzionale e mediatico per sedare il sussulto democratico nel maggiore partito d’opposizione rappresentato dalla fulminante ascesa di Corbyn, con buona pace di Bbc e Guardian, schierati con precisione geometrica a fianco della stampa reazionaria nell’apparentemente impossibile compito di liberarsene.
Ma l’ex deputato di Islington North, una vita politica trascorsa al margine sinistro di un partito da tempo perfettamente integrato nella cogestione neoliberista dell’economia del paese e per questo deriso dalla stampa come dalla vulgata «modernizzatrice» blairista, non concede un millimetro. Sembra anzi trarre incessante energia da ogni attacco mediatico che gli viene puntualmente sferrato.
Il sondaggio, i cui esiti suonano un prematuro de profundis per la campagna di Smith, dietro la quale s’era arruolato più o meno per disperazione tutto il Parliamentary Labour Party, evidenzia anche un altro dato: la concentrazione dei corbyniani non è affatto prevalente solo nell’ecosistema sociale e politico londinese, si estende anche nelle aree del nord del paese, storicamente zoccolo duro elettorale laburista, dove il leader godrebbe del 63% contro il tremebondo 37 di Smith.
Né si tratta di millennials in preda a un pubescente sussulto idealista, come spesso sostenuto: benché Corbyn riceva il sostegno del 61% della fascia d’età 18-24 anni, in quella 40-59 supera comodamente il 60%.
Altrettanto controproducente si sta rivelando la vigorosa campagna mediatica volta a dimostrare che dietro Corbyn ci sia una cricca di residuati trotzkisti cripto-misogini.
Sebbene non passi giorno senza che qualche commentatore liberal non si stracci pubblicamente le vesti davanti alle pur ripugnanti ridde d’insulti ricevuti da alcune deputate centriste del partito sui social media, Corbyn gode di uno schiacciante 67% per cento del consenso delle iscritte al partito, contro il 33 dell’avversario.
Insomma, è un quadro talmente deprimente per Mr. Smith che viene legittimo chiedersi come abbia voglia di portare avanti una campagna tanto agonizzante contro un avversario che lo surclassa in ogni dipartimento quando l’esito del voto postale, messosi in moto nei giorni scorsi, si avvicina al galoppo il prossimo 24 settembre. Certo, la sua è stata una campagna irta di gaffe ed errori strategici: ma non è tanto l’immagine preconfezionata male e di fretta della sua candidatura a nuocergli, quanto il fatto, ormai inoppugnabile, che per una serie di fattori Corbyn è diventato l’uomo politico (non «antipolitico») più popolare di una Gran Bretagna che attraversa una fase cruciale della sua storia.
Altrimenti non si spiega l’inefficacia dei ripetuti tentativi di sabotarne l’ascesa da parte del Nec, il comitato esecutivo nazionale del partito laburista, che con l’introduzione di una clausola frettolosa quanto strampalata aveva impedito il voto a 130.000 membri iscrittisi subito dopo il coup orditogli dai colleghi deputati.
Inoltre, anche l’altro spauracchio cui si ricorre per minare quest’intollerabile Corbyn-consenso, quello della presunta sua «ineleggibilità», sta cominciando a perdere la sua efficacia. Il numero d’iscritti al partito nei pochi mesi dalla sua prima elezione è raddoppiato.  (Il totale degli iscritti, secondo il Guardian, ora arriva a 500mila persone, il Pd ne ha 385mila, ndr).
Una sua seconda vittoria a queste primarie, ravvicinata ma più schiacciante della precedente, significherebbe l’auspicata e fin troppo tardiva relegazione dell’ex maggioranza moderata a un ruolo marginale, raddrizzando la barra del partito verso il ritorno a una dignità socialdemocratica brutalmente liquidata dall’ex-rampantismo dei vari Mandelson, Brown e Blair.

Repubblica 3.9.16
Tra i nostalgici dell’Est tentati dall’Afd l’ultradestra vola nel feudo di Merkel
Domenica si vota in Meclemburgo-Pomerania, collegio della cancelliera. Ma nei sondaggi il partito populista di Petry la supera
“Qui abbiamo molti disoccupati. I politici si ricordano di noi solo per le elezioni”
La Ostalgie si combina con la rabbia contro le sanzioni a Mosca che ledono l’agricoltura
di Tonia Mastrobuoni


SCHWERIN SCHWERIN QUANDO BERND Böttger entra in acqua, sente un grido alle spalle che gli ferma il cuore: «Ehi, con questo freddo c’è ancora uno che fa il bagno!». È notte, non vede un accidente, il campeggio alle sue spalle è immerso nel buio. Per un momento, la paura lo paralizza. Ma ormai non ha scelta. La Stasi lo ha già beccato una volta, lo ha già sbattuto in carcere per otto mesi. Stavolta butterebbe le chiavi. Böttger stringe i denti, si immerge nell’acqua gelida del Mar Baltico, accende il motore del suo strano aggeggio e parte. All’alba, dopo ore che gli sembrano infinite, una nave danese lo issa dall’acqua. Böttger è stremato ma è riuscito a fuggire dalla Germania Est, è salvo. Lo strano aggeggio che l’ex studente di Ingegneria — buttato fuori dall’Università per insubordinazione al regime — ha assemblato con eliche di barche e pezzi di bici a motore si chiama Aquascooter (senza “c”). Farà il giro del mondo, immortalato persino dai film di James Bond. E quella di Bernd Böttger resta una delle più spettacolari fughe dalla Ddr.
L’avventura dell’”archimede ribelle” è partita oltre 40 anni fa dal Meclemburgo- Pomerania. Una regione che, di solito, non fa notizia. Se non per i vip che ci vanno in villeggiatura e finiscono nelle cronache rosa. Con i suoi 2mila chilometri di coste, vanta alcuni dei posti di mare più amati del Paese come Rügen o Usedom. Coste e isole che nei secoli passati attirarono pirati e ispirarono alleanze tra città anseatiche come Wismar, ma che di solito sono dimenticate. Il Meclemburgo-Pomerania è il Land più agricolo della Germania; puoi guidare per ore tra le sue enormi foreste di faggio e le pianure sconfinate incrociando pochissime case. Niente grandi città — la più grande è Rostock con i suoi 200mila abitanti. E nel Land vivono appena un milione e mezzo di tedeschi per un’area grande quanto la Lombardia. Domenica, però, rischia di fare molto rumore.
I sondaggi delle elezioni in Meclemburgo sembrano prefigurare scenari da incubo che stanno turbando i sonni a tanti. A partire da Angela Merkel, che ha il suo collegio elettorale qui. O Joachim Gauck: il presidente della Repubblica era un pastore protestante di Rostock, negli anni del Muro. La Alternative für Deutschland, la destra populista capeggiata da Frauke Petry, è al 23 per cento nei sondaggi. Ha superato persino con la Cdu, è a un filo dalla Spd. Secondo alcuni, potrebbe diventare il primo partito. Sarebbe la prima volta nella storia e una grana immensa per la cancelliera. Il governatore socialdemocratico, Erwin Sellering è talmente nervoso che negli ultimi giorni l’ha accusata apertamente di aver alimentato il voto della destra populista, con la sua politica sui profughi.
«Lo chieda a Merkel, che fine hanno fatto i “paesaggi in fiore” che ci aveva promesso Kohl», ci sibila una signora che vende aringhe e anguilla affumicata al porto di Wismar. «Qui abbiamo molti più disoccupati che nell’Ovest e i politici si ricordano di noi solo quando si vota». Nel Meclemburgo il tasso di disoccupazione è una volta e mezzo quello nazionale, circa il 10 per cento, ma in alcune zone della Pomerania, vicino alla frontiera polacca, tocca il 20 per cento. Soprattutto, in una regione contadina, è ovvio che la Ostalgie si combina con la rabbia contro le sanzioni contro la Russia che sta provocando molti danni all’agricoltura.
Nonostante una percentuale di migranti ridicola — appena il 2 per cento ha un passaporto straniero e sono soprattutto polacchi — la propaganda anti-profughi, il mito oscuro dell’invasione islamica, ha attecchito. Anche per il lavorìo sotterraneo di una destra neonazista che è ancora forte. Il partito di riferimento dei “bruni”, la Npd, pare abbia perso un punto e mezzo di elettori. Ma tutti a favore dell’Afd. E i cartelli dell’estrema destra infestano comunque tutti i villaggi dell’entroterra, soprattutto nella cosiddetta “Svizzera del Meclemburgo”, con slogan xenofobi.
Anche a Lalendorf, un villaggio di 900 anime in piena campagna, quei cartelli hanno invaso le strade. Il sindaco, Reinhard Knaack sorseggia un caffè all’americana nella piccola cucina del suo ufficio. Sei anni fa il suo nome è finito su tutti i giornali perché si è rifiutato di consegnare una medaglia e 500 euro per il settimo figlio di Petra Müller, una neonazista del suo villaggio. Qualche facinoroso lo ha minacciato, lui è finito sotto scorta, ma oggi è più arrabbiato con la cancelliera che con i teppisti neonazi che infestano la sua zona. «Tantissime famiglie di questa regione vengono dall’Est Europa. Vogliono un rapporto normale con quei Paesi e con la Russia. Molti si ricordano la promessa del 1990 di non allargamento della Nato a Est, che poi è stata violata. Vogliono rapporti normali con Putin, anche per motivi economici, per i danni che stanno facendo le sanzioni alla nostra agricoltura». E, aggiunge, «l’unico partito che insiste su questo punto è l’Afd».
Knaack è sindaco dal 1994: ex membro della Sed negli anni del Muro, poi della Linke. A un certo punto si sporge in avanti, sussurra con un sorriso malizioso: «Vuole vedere qual è il monumento più visitato qui?». Usciamo dal suo ufficio, attraversiamo un paio di strade e, in mezzo al parco cittadino, scorgiamo un enorme carro armato sovietico. Uno di quelli arrivati a maggio del 1945 a liberare la Germania nazista. «Nel 1992 ho fatto fare un referendum per decidere se tenerlo qui. È stata l’ultima consultazione pubblica tra tedeschi che io ricordi», aggiunge polemico.
Tanti sembrano aver dimenticato l’avventura di Böttger, l’inventore dell’aquascooter e la sua ansia di libertà. O Hiddensee, un’isola popolata ai tempi del Muro da dissidenti e oppositori politici, tuttora amata da molti scrittori. Era il rifugio degli “esiliati interni”, dei naufraghi del comunismo, ha ispirato uno dei romanzi più belli degli ultimi anni, Kruso, di Lutz Seiler. Ma la Ostalgie, la nostalgia della Germania comunista, è un morbo che sta tornando a infestare tante teste.

il manifesto 3.9.16
Non è più Merkeland
Germania. Il Land settentrionale dell’ex Ddr, banco di prova per l’intero governo federale
Germania, la cancelliera Angela Merkel
di Sebastiano Canetta


BERLINO Germania sempre meno in formato Merkeland. Un anno esatto dopo il «Ce la facciamo» sull’emergenza-profughi e un giorno prima del voto in Mecleburgo-Pomerania la cancelliera sprofonda al minimo della popolarità. Per la tv pubblica Ard solo il 45% dei tedeschi si dichiara soddisfatto della sua politica, per Mutti è il record negativo degli ultimi 5 anni. Peggio di lei solo il vice Sigmar Gabriel, leader Spd, e Horst Seehofer, presidente della Csu, ovvero i suoi alleati-rivali. Come se non bastasse oltre la metà del Paese (51%) giudica negativamente l’eventuale ricandidatura della cancelliera al quarto mandato.
Merkel non ha ancora ufficializzato la sfida (o la rinuncia) alle urne federali del 2017: lo farà all’inizio dell’anno prossimo e solo dopo l’appoggio ufficiale di Seehofer. In compenso il capo del governo si è già calata nella campagna elettorale con la consueta, tranquillizzante, promessa «La Germania rimarrà la Germania» che replica da oltre un decennio.
Eppure non tutto procede secondo i piani. Anzi, per la prima volta domani in Mecleburgo-Pomerania la Cdu rischia di essere sepolta dalla valanga di voti annunciati per Alternative für Deutschland. Secondo il sondaggio Insa-Ard del 1 settembre la destra populista nel Land ha superato quota 23%: ben tre punti davanti ai cristiano-democratici e appena cinque in meno dell’Spd che governa il Parlamento di Schwerin. Sorpasso in piena regola e choc anafilattico per Merkel che rischia la batosta nel suo collegio elettorale e la fine dell’era delle coalizioni rosso-nere.
Ma il voto nel Land settentrionale dell’ex Ddr si dimostra un banco di prova per l’intero governo federale a poco più di 12 mesi dalle elezioni per il Bundestag.
Il Mecleburgo-Pomerania rimane uno degli Stati più depressi con il più alto tasso di disoccupazione del Paese e decine di migliaia di residenti sotto la soglia dell’indigenza. Da queste parti Afd fa leva sulla guerra tra poveri parlando alla pancia (e non solo) degli elettori sempre più affetti dalla xenofobia.
Nella capitale Schwerin sono spuntati i cartelloni elettorali che ritraggono una ragazza bionda in bikini e la scritta «Turiste Sì, donne in burqa No» a beneficio di chi frequenta le località di vacanza sulle rive del Baltico.
Messaggi di bassa lega e alta demagogia, che però funzionano se è vero che Afd nell’ultimo mese è cresciuto di oltre 10 punti mentre la Cdu ha perso un ulteriore 2%. Problema comune per i partiti “istituzionali”, compresi i neonazisti di Npd (che vantano 5 deputati al Landtag) schiacciati a destra dai rivali di Afd e destinati a dimezzarsi dal 6% del 2011 a circa il 3.
L’unica vera opportunità in Mecleburgo-Pomerania è per la Linke pur congelata al 15%. Dopo la debacle alle elezioni regionali dello scorso marzo la Sinistra riparte da «benessere e lotta alla povertà» mentre prepara l’eventuale alleanza di governo con Verdi (6%) e Spd in caso di sconfitta dell’Union. Per tutti e in ogni caso il risultato di domani sarà comunque la disarticolazione del “sistema” che detta le regole nella Repubblica federale dal 2005 e nel Land dal 2008. L’esatto contrario dei piani di Spd e Cdu che mirano invece alla «continuità amministrativa». Del resto, i programmi sono più che sovrapponibili: i due maggiori partiti tedeschi a Schwerin fanno leva sull’insicurezza, proprio come Afd, con i socialdemocratici pronti a «norme più restrittive sull’immigrazione» (in aperta dissidenza con l’Spd federale) e il partito di Merkel che promette «più sicurezza interna».
Un po’ come a Berlino dove si vota il 18 settembre e Spd e Cdu proveranno a duplicare la Grande coalizione tutt’altro stabilmente ancorata al Municipio rosso. All’orizzonte si profila piuttosto l’alleanza alternativa tra socialdemocratici e Verdi che qui godrebbe del placet di entrambi i partiti.
Stando all’analisi Forsa del 28 agosto l’Spd a Berlino dovrebbe conquistare il 24% dei consensi mentre i Grünen il 21. La Cdu si attesa intorno al 17, come la Linke, forte nelle periferie dell’est e in risalita nei sondaggi.
Tuttavia, anche nella capitale si prevede il boom di Afd (tra il 10 e il 12%) e l’ingresso dei populisti nel Parlamento della Città-Stato finora immune dalla destra. Pronta ad azioni più che simboliche, come l’occupazione-lampo della Porta di Brandeburgo degli estremisti del «Movimento identitario», nuova “costola” di Pegida. Il 27 agosto hanno si sono arrampicati sulla quadriga e hanno srotolato un maxi-striscione inneggiante alla «Fortezza Europa», prima di venire bloccati dalla polizia. Esattamente il clima elettorale che Merkel avrebbe voluto evitare, il salto di vento che rischia di farla “scuffiare” prima della fine del mandato.
Tuttavia i tedeschi criticano Mutti ma molto meno il suo governo. Tra i politici più amati in Germania resiste il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd), preferito dal 73% degli intervistati Ard, ma salgono le quotazioni anche di Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze che ha imposto il «nero-zero» (nessun nuovo debito pubblico) perfino ai governatori dei 16 Land. La rigidità del falco non dispiace al 65% dei connazionali, mentre rimbalza sul tavolo della cancelliera Merkel forse l’unico dato in grado di restituire un minimo di speranza: il 56% dei tedeschi resta convinto che «l’arrivo dei profughi rinnoverà la Germania»; l’85%, nonostante il sex-mob di Colonia e gli attacchi Isis in Baviera, rimane ancora dell’idea che i rifugiati siano «persone con disagio esistenziale» come evidenzia l’ultimo studio dell’Istituto di scienze sociali della Chiesa evangelica pubblicato l’altroieri sulla Faz.

La Stampa 3.9.16
Dario Fo bandito in Turchia: “Per me è come aver ricevuto un secondo Nobel”
L’attore nella lista nera insieme a Shakespeare, Cechov e Brecht. Per il governo Erdogan le sue opere non incarnerebbero lo “spirito nazionale turco”
intervista di Fabio Poletti

qui

La Stampa 3.9.16
In Turchia nuove maxi-purghe, licenziati 51mila dipendenti pubblici
Intanto le autorità turche hanno rilasciato 33.838 detenuti nelle carceri del Paese per fare posto alle migliaia di persone arrestate per presunti legami con il fallito golpe

qui

il manifesto 3.9.16
Ankara spara: due morti a Kobane
Turchia. Idranti, gas e proiettili contro la protesta anti-muro al confine. Erdogan: «Non permetterò l’unità di Rojava». Altra ondata di purghe: oltre 50mila dipendenti pubblici licenziati. Bruxelles: «Modificate la legge anti-terrorismo»
di Chiara Cruciati


Il confine tra Kobane e Suruc, tra Siria e Turchia, come Gezi Park: ieri le autorità turche hanno mandato i temibili cannoni ad acqua per cacciare i manifestanti che da una settimana presidiano la frontiera per impedire ad Ankara la costruzione (già in atto) del muro in cemento che separi Rojava dal Kurdistan turco.
Idranti, lacrimogeni e proiettili e il bilancio finale è di due morti (tra cui un 17enne) e oltre 80 feriti, 7 gravi. I soldati turchi, raccontano da Kobane, hanno passato il confine con i carri armati: video e foto mostrano la gente scappare, portare via a spalla i feriti, ma continuando a sventolare le bandiere delle Ypg (le Unità di Difesa Popolari) in mezzo al gas dei lacrimogeni.
Da quando la costruzione del muro è iniziata, la comunità si dà il cambio alla frontiera per protestare contro quella che definisce «un’occupazione», una barriera che penetra per 20 metri nel territorio siriano. Diversa la versione turca: «Un gruppo si è avvicinato al confine e ha attaccato con le pietre macchinari, operai e soldati – dice una fonte dell’esercito di Ankara – Sono stati usati lacrimogeni e idranti, ma non proiettili».
Azioni che seguono alle parole di uno scatenato presidente Erdogan sugli obiettivi dell’operazione Scudo dell’Eufrate: i raid sulle Ypg continueranno a meno che non si ritirino verso est. «Dicono che sono tornati indietro, ma noi diciamo no, non è successo – ha detto da Ankara – Non permetteremo che sia creato un corridoio del terrore [riferimento all’unificazione dei cantoni kurdi di Rojava, ndr]».
Così si pone fine a qualche giorno di tregua effettiva, seppure non ufficiale perché aspramente rigettata dal governo turco.
Di pace comunque non si parla né nel nord della Siria né tanto meno nel sud est della Turchia dove il rinnovato conflitto con il Pkk entra nel suo secondo anno. La ripresa del processo di pace chiesta da più attori, a partire dal partito di sinistra Hdp, viene respinta in coro.
Una reazione ovvia in un periodo in cui Erdogan dà fondo a tutte le proprie energie per radicare i sentimenti nazionalisti necessari alle sue mire presidenzialiste. Una mano gliel’ha data il tentato golpe del 15 luglio, dopo il quale ha spazzato via oppositori veri e presunti in una campagna di epurazione senza precedenti (e già pronta all’uso, visti i tempi ristretti con cui ha fatto fuori i vertici dell’esercito e decine di migliaia di dipendenti pubblici e privati).
Ieri una nuova ondata di purghe ha investito il paese: con 109 giornalisti dietro le sbarre, ieri è stato revocato l’accredito ad altri 115 reporter, per un totale di 620 dal 15 luglio. Inoltre altri 50.589 dipendenti dello Stato sono stati licenziati: 28.163 erano impiegati del Ministero dell’Educazione, 2.018 della Salute, 1.519 della presidenza degli Affari Religiosi e 2.346 del Consiglio dell’educazione superiore.
E ancora, 7.699 agenti di polizia, 24 governatori centrali, 323 gendarmi e 2 ufficiali della guardia costiera. Tutti sono accusati di legami con il movimento Hizmet dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la creazione dello “Stato parallelo” e l’organizzazione del tentato golpe.
Ma la caccia alle streghe non si ferma al licenziamento: i nomi degli epurati sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, esponendoli al pericolo di rappresaglie. Dopotutto squadracce dell’Akp, il partito del presidente, hanno setacciato per settimane le principali città turche alla ricerca di “traditori” da punire.
Ai vertici i toni non sono meno accesi. A colpire chi tradisce sono stato di emergenza e legge anti-terrorismo, quella che almeno a prima vista preoccupa l’Unione Europea. Ieri è stato il presidente del parlamento europeo Schultz, di ritorno da Istanbul, a tirare di nuovo fuori la questione: «Gli incontri sono stati una buona opportunità per tenere una discussione franca e aperta. Ma la natura eccezionale delle misure e dello stato d’emergenza non dovrebbe fallire il test di proporzionalità e stato di diritto. In Europa la democrazia è molto più del semplice voto: pluralismo, stampa vivace, separazione del potere e parlamentari liberi».
Parole simili a quelle dette a Erdogan durante la visita: la Ue ha chiesto di nuovo il cambiamento della legge anti-terrorismo, ma senza apparenti precondizioni. Schultz ha precisato infatti che la previsione di ingresso libero dei cittadini turchi in Europa (parte del pacchetto “emergenza rifugiati” insieme a sei miliardi di euro) non è messa in dubbio.
In realtà lo è: la data entro la quale concludere l’accordo è il primo ottobre, ma le autorità europee e turche sono ancora distanti. Il premier Yildirim non ha aspettato un istante per rispondere: «Abbiamo detto chiaramente alla Ue che nelle condizioni attuali non possiamo modificare le leggi contro il terrorismo. Qualsiasi marcia indietro è fuori questione».

Il Sole 3.9.16
I ministri degli Esteri Ue: ricucire i rapporti con Ankara
di Beda Romano


Bratislava I ministri degli Esteri dei Ventotto vogliono cogliere l’occasione di una due-giorni di riunioni qui a Bratislava, tra ieri e oggi, per rasserenare il clima con la Turchia, a un mese e mezzo dal recente tentativo di colpo di Stato contro il presidente Recep Tayyip Erdogan. L’obiettivo, non facile da raggiungere, è di salvaguardare l’accordo firmato tra Bruxelles e Ankara per meglio gestire i flussi migratori da Est, mentre il nuovo rapporto del Paese con la Russia è anch’esso fonte di interrogativi.
I ministri degli Esteri avranno oggi qui in Slovacchia, Paese che detiene la presidenza semestrale dell’Unione, un incontro con il ministro turco degli Affari europei Omer Celik. Spiegava ieri sera un diplomatico durante una pausa dei lavori ministeriali: «Vogliamo normalizzare il rapporto (…) Vi è la volontà da entrambe le parti di avere un nuovo tono nel dialogo bilaterale». Le ultime settimane sono state segnate da critiche reciproche e da nervosismi crescenti.
Durante l’estate, le diplomazie europee hanno fortemente criticato il giro di vite sull’ordine pubblico dopo il tentato colpo di Stato in luglio. Da Ankara, il governo turco ha risposto stizzito, minacciando di non applicare l’accordo con Bruxelles in assenza di una liberalizzazione dei visti, così come previsto dall’intesa. Per ottenere il viaggio senza visti in Europa per i suoi cittadini, la Turchia deve introdurre modifiche alle leggi anti-terrorismo, che finora non ha voluto cambiare.
Nella prima giornata della riunione ministeriale, ieri il ministro degli Esteri slovacco Miroslav Lajcak ha spiegato: «Dopo il fallito colpo di Stato esprimemmo la nostra forte solidarietà ai leader eletti della Turchia. Da allora, ci siamo allontanati anziché avvicinarci. Non è normale». Ha aggiunto il suo omologo ungherese Peter Szijjarto: «Chiunque attacchi la stabilità della Turchia attacca la sicurezza dell’Europa perché in questo momento la Turchia è il Paese che ferma l’arrivo di migranti in Europa».
Al tempo stesso, non mancano i Paesi – come la Germania, ma anche la Francia e l’Italia - che ricordano insistentemente i dubbi sul rispetto dei diritti umani in Turchia. Oltre a voler salvaguardare l’intesa sui rifugiati, c’è il timore di assistere a una lenta deriva della Turchia, importante paese membro dell’Alleanza Atlantica, verso la Russia dopo che Erdogan ha voluto allacciare i fili di una alleanza con Mosca, incontrando il presidente russo Vladimir Putin.
Dal canto suo, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha spiegato che alla Turchia «dobbiamo dare due segnali: sostegno senza equivoci dopo il colpo di Stato» ma anche «un invito molto chiaro» a «contenere la reazione nel rispetto dei diritti fondamentali». Sempre ieri, i ministri hanno parlato del futuro delle sanzioni contro la Russia. L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini ha confermato che «l’abolizione delle misure è legata alla piena adozione in Ucraina dell’Accordo di Minsk».

La Stampa 3.9.16
“Questo è il paradiso in terra”. La grandeur cinese per il G20
Slogan, prelibatezze e fabbriche chiuse: così Pechino vuole impressionare il mondo
di Cecilia Attanasio Ghezzi


«A good host, a better G20», un buon ospite, un G20 migliore. Lo slogan del primo G20 ospitato dalla Cina è onnipresente. Campeggia su sfondo azzurro sin dall’ingresso in aeroporto. Hangzhou, la metropoli cinese che per antonomasia unisce tradizione e modernità, è pronta a mostrare l’immagine della Cina che Xi Jinping vuole offrire al mondo. Sono pochi ad essere rimasti in città, il traffico scorre veloce su arterie a tre corsie e sopraelevate che costeggiano grattacieli. Vetro e cemento, illuminazioni e pavimentazioni nuove fiammanti. I leader mondiali saranno ospitati sulle rive del Lago occidentale descritto e cantato da decine di poeti durante i secoli delle raffinate dinastie dell’impero che Mao Zedong aveva voluto cancellare. È questa la vera zona rossa della città, il patrimonio Unesco che attrae milioni di turisti ogni anno è completamente chiuso al pubblico. Sulle sue sponde anche i luoghi destinati alle sessioni plenarie e agli incontri bilaterali di questo G20, compreso il mastodontico centro conferenze da 850mila metri quadrati. Edifici costruiti negli ultimi due o tre anni che diventeranno il simbolo del nuovo skyline cittadino.
Pechino vuole mostrarsi in tutta la sua grandezza e si fa forte dei suoi oltre due millenni di storia e cultura. Gli uomini più potenti del pianeta degusteranno le prelibatezze locali, gamberetti cotti nel rinomato tè che cresce nelle vicinanze, il Longjing, maiale brasato Dongpo e una varietà di spuntini locali da far impallidire anche i buongustai più curiosi. Intorno all’area destinata agli incontri ufficiali c’è la «nuova città» che ha spazzato via le polverose e disordinate case a due piani tipiche della zona. Oggi ci sono solo grattacieli destinati a uffici e centri commerciali le cui facciate, di notte, si popolano di personaggi della Disney e panda vari disegnati con giochi di luci colorate. Prada, Apple, Dior, Fendi e Cartier sono solo alcune delle centinaia delle scintillanti vetrine destinate all’upper class cinese che impressioneranno gli ospiti stranieri. Peonie ovunque. Lanterne rosse a decorare i platani che costeggiano gli show room di Ferrari e Aston Martin.
La propaganda è ovunque. Tabelloni enormi a ricordare che Hangzhou «è la più bella città del mondo», striscioni rossi che invitano la popolazione locale a «contribuire al summit spazzando via i quattro flagelli», ovvero - come Mao ha insegnato alla fine degli anni Cinquanta - mosche, blatte, zanzare e topi, e avvisi all’interno dei condomini che offrono ricompense in denaro a chiunque denunci crimini o comportamenti sospetti. Ma queste ultime, esclusivamente in cinese, non verranno nemmeno notate dagli importanti dignitari che già cominciano a confluire in città. Questo «è il paradiso sulla terra» recita uno slogan a lettere cubitali che parafrasa i versi di un’antica poesia Song.
Ma il paradiso non è per tutti. Intere parti della città sono state interdette al traffico. C’è un milione di volontari in divisa nei centri nevralgici della città e poliziotti impeccabili ad ogni incrocio. I veicoli della polizia e i taxi sono dotati di telecamere a circuito chiuso per evitare che anche la più piccola stranezza sfugga all’occhio del Grande fratello. Metal detector e controlli anti esplosivi precedono l’ingresso a qualsiasi luogo sensibile. La popolazione, dimezzata da controlli casa per casa e capillari divieti giustificati con le misure di sicurezza, è spaesata. Quasi impossibile trovare un posto dove mangiare al di fuori degli asettici centri commerciali. Chiusi i mercati e cacciati i venditori ambulanti di cibo. Vietata la vendita di bombole del gas che ancora alimentano la maggior parte delle cucine della città. Bandite le consegne a domicilio, fatta eccezione per i documenti. Rimangono le catene di ristoranti locali, gli Starbucks e i MacDonalds.
Una settimana di «vacanza» forzata per dipendenti statali e studenti e un «invito» alla chiusura di tutte le fabbriche della zona. Pena controlli certosini e giornalieri. I proprietari delle pochissime aziende rimaste aperte hanno dovuto firmare un foglio in cui accettavano di finire in galera per qualunque «problema» o «inadempienza» si fosse riscontrata. Di contro chi arriva può godere di un cielo blu che i pochi rimasti non ricordano aver visto negli ultimi mesi. Il Truman show è appena cominciato

Il Sole 3.9.16
Il summit di Hangzhou
G20, Pechino punta allo «scambio»
Flessibilità su commercio e investimenti, acque più calme nel Mar cinese meridionale
di Rita Fatiguso


Nella West Lake State Guest House di Hangzhou, che rivaleggia per sfarzo con quella della Capitale, è iniziata la sfilata dei Capi di Stato e di Governo davanti al Capo supremo del partito e dello Stato cinese nonché anfitrione del Summit B20/G20, Xi Jinping.
Filtrano già voci di un possibile “accordo” in cui la contropartita cinese a fronte di acque più calme nei Mari del Sud della Cina, con gli Stati Uniti più defilati anche grazie alla transizione inevitabile per l’uscita di scena di Barack Obama, potrebbe essere l’impegno di Pechino sul fronte delle regole del commercio, con una maggiore apertura agli investimenti stranieri – una pecca sulla quale il nuovo position paper della Camera di commercio europea in Cina non ha riservato critiche.
Ma anche un drastico impegno sull’overcapacity, a partire dall’acciaio, tema che gli Stati Uniti sono riusciti a infilare nell’agenda del G20 cinese in occasione della tappa preliminare dei ministri del Commercio a Shanghai. Dicono i testimoni delle trattative che non è stato semplice catturare quella parola e inserirla nei dossier da presentare al Summit che oggi apre i battenti. Da quel momento in poi sarebbe stato impossibile non occuparsene più.
La leadership cinese – questo è certo - ha bisogno di più tranquillità, chiede che tutti i tasselli vadano a posto, per mare e per terra – come non guardare con ansia al dopo Islam Karimov, padre padrone dell’Uzbekistan stroncato da un malore, snodo islamico sulla nuova via della seta, laddove passano Silk road fund, New development bank, Asian infrastructure investment bank, insomma i tools voluti dalla Cina per creare un ponte euroasiatico? Elementi di destabilizzazione sono in agguato, dietro l’angolo, meglio prendere fiato per poter affrontare meglio anche i problemi interni.
Apre il B20 e anche i temi del G20 entrano nel vivo, grazie al battage dei vice, da Yi Gang di Pboc, a Zhu Guangyao, vice ministro delle Finanze, perché in Cina sono loro, i numeri due, a dover affrontare l’arena, almeno in prima battuta.
A distanza ci sono e si mantengono i presidenti di Cina e Usa, pronti ad affilare le armi del dialogo, con Obama in scadenza e Xi Jinping impegnato sin d’ora ad affrontare il cambio di pelle generazionale del Congresso del partito, il 19esimo, in calendario a fine 2017.
Un calo della tensione farebbe un gran bene a tutti, l’East Asia summit e l’Us-Asean leadership summit di Vientiane, nel Laos, darà un contributo. Per non parlare del codice di condotta che Cina e Paesi Asean hanno appena sottoscritto sui Mar cinese meridionale, in vista del Cae-Expo del prossimo 11 settembre, dove i conti si faranno sui rapporti e i pesi economici.
Brucia la decisione negativa sull’arbitrato attivato dalle Filippine, ma spira aria di riavvicinamento con il nuovo presidente Duterte, meglio allora mettere la sordina ai dissapori nella penisola coreana e superare gli attriti sulla Terminal high altitude area defense (Thaad) con la Corea del Sud. Tokyo e Pechino stanno lavorando alacremente da giorni a un nuovo incontro dopo quello, storico, dell’Apec nel 2014 tra Shinzo Abe e Xi Jinping. E anche l’ombra della ribelle Tsai della ancor più ribelle provincia di Taiwan è bene che resti confinata oltre lo Stretto.
Quando il premier Li Keqiang ha detto in sintesi «non contate su di noi come unico traino della ripresa», si è capito che la Cina allungava la mano al mondo. Schiacciata da una montagna di acciaio, la metà di quello prodotto nel globo, la Cina sta alimentando le tensioni commerciali in tutto il mondo voci si sono levate negli Usa per chiedere con fermezza al presidente Obama di imporsi proprio ad Hangzhou, in occasione del G20. Per questo il Mar cinese meridionale sarà in agenda. Xi Jinping ha ordinato tagli annuali fino a 150 milioni di tonnellate, pari a circa il 13% della capacità produttiva in eccesso, ma queste politiche nel complesso restano inefficaci mentre i margini dei produttori cinesi sono sprofondati nel baratro. Politiche di stimolo, anche se ripetute e non di dimensioni colossali come quella, famosa, del 2008, anno della crisi planetaria, hanno lasciato altre ferite, mentre il debito del Paese sul Pil corre a livelli un tempo impensabili. In questo contesto mostrare i muscoli non è difficile, è pericoloso. Ma per quanto l’idea di riavvicinare le posizioni sia forte, bisogna salvare le apparenze e quindi forse è per questo che gli orari delle conferenze stampa dei due leader in calendario lunedì si sfiorano fino quasi a coincidere. Chi va a sentire dal vivo le ragioni di Obama non potrà, a ruota, seguire quelle di Xi.

il manifesto 3.9.16
Impeachment Dilma, un golpe senza carri armati
di Aldo Garzia


Impeachment riuscito, golpe a Brasilia senza carri armati. Del resto, siamo nel 2016 e non nel 1964, o nel Cile del 1973. La destra ha rialzato la testa nominando presidente fino al 2018 Michel Temer, incolore centrista del partito Pmdb, senza investitura popolare. L’unico precedente brasiliano di impeachment risale al 1993, quando fu destituito con la stessa procedura il presidente Fernando Collor de Melo. Ma se tutto questo è stato possibile, capovolgendo i rapporti di forza in Parlamento e mettendo i minoranza Roussef e il Partito dei lavoratori non è responsabilità solo dell’imperialismo yankee e della destra liberista che fanno il loro mestiere. Un groviglio di contraddizioni ha avvolto pure la politica del governo. E a preoccupare sono le difficoltà che incontrano altre esperienze progressiste latinoamericane: dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia all’Ecuador. Tanto da far temere lo stop del ciclo progressista degli ultimi anni. L’analisi deve essere perciò attenta e non superficiale.
Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale. Gli strabilianti risultati economici erano stati raggiunti dalle presidenze della Repubblica dell’ex leader sindacale Lula, alias Luiz Inácio da Silva, (2002-2008) e da Dilma Vana Rousseff Linhares (in carica dal 2011), entrambi dirigenti del Pt e dalla biografia segnata dalla lotta per il ritorno della democrazia dopo il golpe militare del 1964. Da qui le suggestioni positive che ogni osservatore di sinistra poteva trarre dai risultati raggiunti in poco più di un decennio dai governi progressisti del Brasile, pur sapendo che alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della Foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro.
Nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo, l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie. Massicce manifestazioni di massa si svolgevano nelle principali città brasiliane svelando l’insoddisfazione popolare per le politiche del governo di sinistra. La composizione sociale di quelle manifestazioni era un dato su cui riflettere: non masse di sottoproletari di periferia (come spesso avviene in questi casi in altri paesi dell’America Latina), bensì giovani studenti e in generale giovane classe media che non ce la faceva a tenere il passo – per salari e consumi – della locomotiva economica Brasile di quel periodo.
Grazie alle politiche orientate da Lula e Roussef, 35 milioni di brasiliani hanno però lasciato la povertà e sono diventati classe media. Le statistiche made in Brasilia parlano di una composizione del paese fatta di 50% di classi medie impegnate soprattutto nei servizi, di 27% di poveri in senso lato, di 20% di ricchi e 3% di inclassificabili. 28 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati negli ultimi dieci anni, tanto che gli osservatori più ottimisti parlavano addirittura di «piena occupazione» in divenire. Importanti investimenti sono stati fatti anche in tecnologia, ricerca e innovazione per migliorare i comparti dell’industria e dell’agricoltura. In più, debito pubblico e inflazione – tradizionali mine vaganti del Brasile – erano fino a poco tempo fa sotto controllo. Ma proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Roussef hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È il 50% di classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione (altro buon risultato innegabile delle politiche di Lula e Roussef). Inoltre il real, la moneta locale, forse era quotata troppo in relazione al dollaro, il che ha minato le capacità di esportazione mentre le infrastrutture restavano inadeguate per il programma di accelerazione della crescita scelto negli ultimi anni. I sondaggi infine indicavano nell’ultimo anno che la popolarità della presidente Roussef era scesa in pochi mesi dal 70 al 57%, e poi ancora sotto il 50. Intanto la crescita dell’economia brasiliana si è quasi del tutto bloccata per effetto della crisi internazionale che ha raggiunto pure l’America latina. Facile per la destra colpire Roussef con l’impeachment accusandola di aver falsificato i dati del bilancio statale.
Che conclusione provvisoria trarre dalle giornate brasiliane dell’agosto 2016? Diventare la nona potenza mondiale non è facile e reca con sé contraddizioni sociali che solo l’intelligenza e la saggezza della politica possono aiutare a sciogliere. Ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista e di sinistra apre nuovi scenari più ambizioni, soprattutto in una realtà che per più di vent’anni ha conosciuto un regime militare che spegneva ogni aspirazione sociale e di progresso. Sono così giunti al pettine i tradizionali problemi del Brasile: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle insoddisfazioni e sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno. Che poi sono le questioni assillanti quasi tutte le realtà dell’America latina. E che fanno temere il peggio dopo più di un decennio nel quale il vento soffiava da quelle parti decisamente a sinistra.
ITALIA

il manifesto 3.9.16
La decrescita infelice
Pil a zero, il governo è fermo
Crisi. L’Istat conferma la crescita zero nel secondo trimestre del 2016 e ritocca a +0,8% il dato annuo. Male l'industria, i servizi insufficienti. Il governo smart si ritrova in una palude. Per Renzi l’Italia prosegue una «lunga marcia» nella stagnazione: «Il Pil va meglio, ma non significa che va bene»
di Roberto Ciccarelli


Il cavallo è stremato e si rifiuta di bere: la crescita nel secondo trimestre del 2016 (aprile-giugno) è zero anche se ieri l’Istat ha rivisto al rialzo la stima di crescita del Pil del secondo trimestre 2016 rispetto al secondo trimestre 2015. In base ai nuovi calcoli, la crescita acquisita per il 2016 è salita allo 0,7 per cento (era stimata allo 0,6). Sull’anno il Pil è allo 0,8% e non allo 0,7% indicato in via preliminare il 12 agosto scorso. La revisione al rialzo non è tuttavia bastata a far scattare il segno più nella variazione congiunturale. In euro il Pil è salito rispetto alle stime diffuse il 12 agosto scorso di 213 milioni: passando da 389,022 miliardi a 389,235 miliardi. L’Istat ha ritoccato anche il livello del Pil relativo al primo trimestre, la base per calcolare la crescita (da 388,988 miliardi a 389,147 miliardi). Il guadagno ha assottigliato il margine di aumento registrato nel secondo trimestre. A questi calcoli è appeso il governo: ogni variazione millesimale è un colpo al cuore. Solo ad aprile aveva previsto nel Def la crescita all’1,2 per cento del Pil, ora è allo 0,8 come nel 2015. E c’è una cattiva notizia: con questo ritmo la crescita dell’1,4% preventivata per il 2017 sarà una chimera. Le previsioni del governo sono tutte sbagliate, la sua corsa sta finendo in una palude.
Nelle ultime tre settimane, tra palazzo Chigi e viale XX settembre, c’è stata la danza del decimale per allontanare questo spettro. Il ritmo è stato così indiavolato che martedì 30 agosto dal ministero dell’economia hanno anticipato di 72 ore la stima dell’Istat. Stima che di solito resta segreta fino alle 10 del giorno in cui viene comunicata. L’impazienza, per non dire il nervosismo, del governo sono arrivati al punto da prevedere una crescita di segno positivo nel secondo trimestre capace di raggiungere l’agognato 1% sul Pil annuo. Nelle slide presentate da Renzi tre giorni fa per illustrare i risultati dei suoi primi 30 mesi compariva una crescita all’1%, immancabile. Aneddoti che vanno oggi ricordati come un tentativo di ipnotizzare la realtà. I dannati fatti economici continuano a non rispondere al premier. Un tempo Renzi aveva la passione per l’ornitologia fantastica. Ieri ha lasciato in pace i gufi e ha parlato di ciclisti che si rialzano in coda al gruppo che corre verso il nulla.
Le previsioni del Mef sono state smentite dall’Istat e la crescita non allieterà gli spiriti a Natale. Il saltino dello 0,1% è dovuto all’aumento congiunturale del fatturato dell’agricoltura e dei servizi. Quest’ultimo è stato evocato dallo stesso Renzi per dare una ragione al suo slide-show. Purtroppo c’è stata una controspinta: i servizi finanziari e assicurativi si sono mossi in direzione opposta a quella auspicata sia a livello congiunturale, -0,6%, che annuo, -1,8%. La flessione ha sminuito l’apporto dovuto dai servizi vagheggiato dal Mef il 30 agosto. Ancora più chiari i dati sui consumi fermi e il calo degli investimenti. Nel secondo trimestre 2016 si sono registrati contributi nulli per i consumi delle famiglie e delle istituzioni sociali private e per gli investimenti fissi lordi e un contributo negativo (-0,1 punti percentuali) per la spesa della pubblica amministrazione. Variazioni negative ci sono state anche nell’industria in senso stretto (-0,8%) e nel settore degli altri servizi (-0,1%). Gli investimenti delle imprese «in macchinari, attrezzature e prodotti vari» sono diminuiti nel secondo trimestre 2016 dello 0,8% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% rispetto allo stesso periodo del 2015. Gli investimenti in costruzioni sono fermi su base congiunturale e aumentano dell’1,2% su base tendenziale. Nel complesso gli investimenti fissi lordi sono diminuiti dello 0,3% rispetto al primo trimestre e sono aumentati del 2,1% rispetto al secondo trimestre 2015.
Dal Forum Ambrosetti a Cernobbio ieri Renzi ha riscoperto Mao e la rivoluzione cinese: «L’Italia prosegue la sua lunga marcia. Il fatto che il Pil italiano vada meglio degli altri anni è un dato di fatto – ha detto Renzi – Andare meglio non significa andare bene». Anche perché chi vuole fare meglio, spesso fa peggio: un detto che si adatta a questo esecutivo. «La crescita c’è, anche se è debole» ha detto Padoan che si è impegnato a usare le risorse «in modo selettivo», a sostenere «gli investimenti e la produttività», «con un occhio alle esigenze dei pensionati». Reazioni surreali per le opposizioni, ieri scatenate: «#RenziValeZero, come la crescita del Pil» ha scritto in un tweet Beppe Grillo che deve far dimenticare il caos romano. «A ottobre gli italiani subiranno una Legge di Stabilità lacrime e sangue per tappare i buchi di Renzi» sostiene Brunetta (Forza Italia). «Economia ferma, governo immobile» sostiene Scotto (Sinistra Italiana). Ma anche la surrealtà avrà un ruolo da oggi fino all’autunno: in ballo c’è la nuova flessibilità da ottenere a Bruxelles e la necessità di sembrare normali nel paese in cui i cavalli non bevono.

il manifesto 3.9.16
Pil, la danza comica dei decimali
Crescita. Renzi ha solo una fortuna: al momento non ci sono candidati alternativi, né di destra, né di sinistra. Vedremo nelle prossime settimane il DEF e cosa accadrà negli incontri europei, ma rimane la sensazione amara dell’impotenza
di Roberto Romano


La notizia della crescita che passa da 0,6% a 0,7% nel 2016 mostra ancora una volta che il Pil italiano può solo cambiare i decimali, non il segno-contenuto dello stesso. La domanda interna è ferma (0,1%), mentre la spesa e gli investimenti pubblici diminuiscono dello 0,3%, facendo ridurre la crescita del Pil. Il taglio della spesa pubblica non doveva far crescere il PIL? C’è qualcosa da ricordare al presidente del Consiglio: il valore aggiunto (congiunturale) dell’agricoltura cresce di 0,5%, nei servizi di 0,2%, ma rimane l’evergreen negativo dell’industria italiana (Made in Italy?) del meno 0,6%.
Alla fine il PIL è fermo. Il governo manifesta certezze e sicurezze incomprensibili, confermando l’ignoranza del potere recentemente illustrata dal maestro Leon. L’analisi dello stato dell’economia italiana è sempre la stessa, con delle aggravanti: confondono produttività di struttura con gli incentivi alla produttività “contrattuale”. È concepibile che aumenti il valore aggiunto di un’impresa tessile, a parità di lavoro, solo per fare un esempio, in ragione della detassazione dei premi di produttività da 2 mila euro a 2.500 euro? È credibile che aumenti la produttività in ragione della riduzione programmata di 3 mld di euro dell’IRES? Vorrei solo sottolineare che stiamo trattando lo stesso valore aggiunto-profitto fiscalmente in modo diverso, non di una crescita del valore aggiunto. Padoan ha una scuola e una formazione sufficiente per spiegare all’ignorante potere che base imponibile, fisco e produttività fanno capo e principi e regole economiche molto diverse. In altri termini, il valore aggiunto e il profitto sono direttamente proporzionale al che cosa si produce e al come si produce in seconda istanza. Nel come si produce c’è l’utilizzo e l’acquisto di beni strumentali. Peccato che nel frattempo i beni strumentali dell’Italia siano tra i più vecchi tra i paesi europei, e quando le imprese rinnovano i beni strumentali il più delle volte sono importati. Oltre al danno anche la beffa del lavoro buono (giovane) regalato all’estero.
L’inversione delle aspettative è fondamentale. Vero, anzi verissimo! Se il cavallo continuerà a non bere, come si usa dire, anche il 2017 sarà un anno da zero virgola o qualcosa in più. L’inversione delle aspettative è decisivo, perché muta il clima di fiducia di consumatori e imprese. Vero, anzi verissimo! Proviamo allora a farci una domanda, e spero che il Ministro Padoan la rivolga alla compagine governativa: se le stime di crescita del PIL sono così basse; se il tasso di utilizzo degli impianti è ancora lontano dal normale utilizzo; se la domanda interna e internazionale scarseggia, con l’aggravante che l’Italia commercia con l’estero sulla base del costo e non dei beni e servizi prodotti; se i prezzi diminuiscono (deflazione), riducendo i margini di profitto, oppure non permettono la sostenibilità del costo degli investimenti fissi; perché l’imprenditore volenteroso e pieno di buone intenzioni dovrebbe aumentare gli investimenti? Dovrebbe farlo in ragione di una riduzione a margine della tassazione? Ministro Padoan, per favore, racconti le lezioni di Caffè, Graziani, Sylos Labini, Leon e Pasinetti, solo per ricordarne alcuni che hanno certamente frequentato, ai ministri del Governo. Altro che sgravi per i nuovi assunti e Jos Act; altro che decimali nel deficit pubblico e nell’avanzo primario. Il Paese è a terra, stremato e senza fiato. Se proprio il governo vuole rilanciare la crescita, almeno non faccia nulla. Ogni iniziativa intrapresa rallenta la crescita del Paese e lo indebolisce. Era difficile fare peggio di altri e illustri personaggi, ma non c’è mai limite al peggio. Renzi ha solo una fortuna: al momento non ci sono candidati alternativi, né di destra, né di sinistra. Vedremo nelle prossime settimane il DEF e cosa accadrà negli incontri europei, ma rimane la sensazione amara dell’impotenza.

La Stampa 3.9.16
L’Istat: l’Italia rimane a “crescita zero”. Renzi: “Risultati meglio del passato”

qui

Corriere 3.9.16
Il presidente Istat Giorgio Alleva, numero uno dell’Istituto di statistica:
«No pressioni dal governo. Niente ci può condizionare»

qui

Corriere 3.9.16
Realtà dei numeri e impegni
di Dario Di Vico


I eri abbiamo avuto due notizie, una cattiva e una buona. La prima è venuta dall’Istat che comunicando il dato definitivo del Pil del secondo trimestre 2016 ha purtroppo confermato le sue stime: crescita zero.La seconda è arrivata da Cernobbio dove il premier Matteo Renzi davanti alla platea di imprenditori ed economisti del tradizionale seminario Ambrosetti ha ribadito che abbasserà le tasse.Il verdetto sul Pil ha spiazzato il ministero dell’Economia che con scelta singolare e avventata aveva predetto solo tre giorni fa che la pallina non si sarebbe fermata sullo zero.Tirare l’Istat per la giacca è sbagliato dal punto di vista istituzionale e poi evidentemente non porta nemmeno fortuna.Onestamente un decimale non vale una guerra di comunicazione e alle prossime tornate il governo farà bene a non trasformare di nuovo i suoi economisti in aruspici.È vero che l’Istat ha anche corretto al rialzo (da 0,7 a 0,8 per cento) il dato del Pil anno su anno ma è il risultato di un arrotondamento tecnico legato alla destagionalizzazione e non ci dice nulla di nuovo sulla salute dell’economia reale.In parole povere saremo costretti ad attendere con il fiato sospeso anche i verdetti dei prossimi trimestri quando pur partendo da una crescita acquisita dello 0,7 per cento non è sicuro che riusciremo a raggiungere la fatidica soglia dell’1 per cento.
D el resto le immatricolazioni di auto non viaggiano più allo stesso ritmo dei semestri precedenti, i consumi si sono fermati di nuovo, le costruzioni non sono ripartite, l’indice di fiducia di imprese e famiglie è calato. E in più i venti neoprotezionistici che scuotono il globo non consentono ottimismo su un nuovo poderoso contributo delle esportazioni al Pil. Restano da vagliare l’andamento della produzione industriale e il contributo della stagione turistica in corso, sulla quale si fa molto affidamento in virtù dello spostamento delle destinazioni dalla Tunisia e dall’Egitto verso i nostri lidi. A metà del mese di dicembre sapremo.
Più in generale comunque non è certo tempo di illusioni, è chiaro a tutti che il dopo crisi si sta rivelando una bestia assai difficile da domare. I vecchi modelli interpretativi non funzionano più e il ministro Pier Carlo Padoan, sempre a Cernobbio, da economista con una robusta esperienza al Fmi e all’Ocse ha sottolineato che parlare di stagnazione secolare sarà un’esagerazione ma il malessere dell’economia planetaria è assai profondo. Ascoltando ieri in riva al lago di Como i guru delle previsioni, infatti, si è avuta la sensazione che anche loro vivano un momento di transizione: capiscono di dover adeguare la cassetta degli attrezzi, ancora però non ci sono riusciti e finiscono per usare quelli vecchi.
Torniamo però alla bella notizia. Renzi in un efficace botta e risposta con il pubblico ha affermato che, pur consapevole di dare un dispiacere a molti suoi compagni di partito «che vivono su Marte», abbasserà il tax rate ad iniziare dall’Ires, come del resto già previsto dalla scorsa legge di Stabilità. La domanda che sorge immediata è se/come il governo riuscirà a trovare le risorse per tener fede a un impegno che va considerato assolutamente corretto. Il ministro Padoan ha ricordato che 15 miliardi dovranno andare prioritariamente a evitare che scattino le clausole di salvaguardia e maturi addirittura la beffa sotto forma di nuovi aumenti tributari.
Per non finire quindi in un cul de sac l’unica strada che si para davanti a Renzi è accompagnare la scelta di ridurre le tasse con il rilancio delle riforme strutturali. Un’abbinata che Bruxelles in passato ha sempre apprezzato.

Repubblica 3.9.16
Camusso
“Una patrimoniale per finanziare il taglio delle tasse sui salari nazionali”
La leader Cgil Susanna Camusso boccia il piano dell’esecutivo che punta a rilanciare la produttività
Questa politica ha delegato il governo ai poteri economici e finanziari
Non si può affrontare questa crisi con le vecchie ricette anti-inflazione degli anni ‘80 e ‘90
Il vero drammatico problema dell’Italia di oggi si chiama disoccupazione giovanile
intervista di Roberto Mania


ROMA. «Una crescita generale dei salari accompagnata da un piano di investimenti pubblici e privati. Serve questo per uscire dalla stagnazione, combattere la deflazione, ridurre le diseguaglianze. Per voltare pagina rispetto alle politiche dell’austerità». È la ricetta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che boccia il progetto del governo di detassare gli aumenti in azienda legati alla produttività: «Riguarderebbe una minoranza di lavoratori. Vanno detassati gli incrementi dei contratti nazionali che interessano tutti».
Camusso, l’Istat fotografa un paese fermo. Com’è l’Italia vista dal sindacato?
«Un Paese nel quale bisognerebbe cominciare a raccontare la verità. Innanzitutto, il vero drammatico problema dell’Italia si chiama disoccupazione giovanile. Siamo un Paese che non sta costruendo per le generazioni future. Anche così si stanno accentuando le differenze e le diseguaglianze. Sul fronte produttivo c’è ormai più o meno un terzo delle aziende che hanno innovato, sono competitive nel mondo, hanno salari dignitosi, partecipazione, alto tasso di sindacalizzazione. Sono la nostra vetrina sul mondo. Poi c’è il resto: aziende dipendenti dalla domanda interna che però è crollata. Un Paese spaccato che avrebbe bisogno di un obiettivo condiviso, un’idea di Paese come fu per l’euro. Invece si va avanti con le politiche dei bonus».
Che c’entrano i bonus?
«C’entrano perché si affronta tutto con la logica dell’emergenza. Un po’ qua, un po’ là. Si è visto con gli 80 euro, la gente ha prima pagato i debiti poi si è rimessa a risparmiare. Meglio il bonus maternità o un piano per creare più asili pubblici? C’è un nodo irrisolto dalle nostre parti: continuare a farci governare dall’economia e dalle regole o affidare il governo alla politica?».
Perché la politica si sarebbe ritirata?
«Ha delegato al sistema finanziario e imprenditoriale di decidere le nostre prospettive. L’idea di fondo è: noi vi togliamo i vincoli, spetta poi a voi imprese decidere cosa e come fare. Renzi dice che il problema non è l’economia ma la politica. Ha ragione, il problema è questa politica che si fa governare dai seguaci di un’ideologia economica sbagliata. Pensi che abbiamo destinato agli sgravi contributivi per le assunzioni 17 miliardi, il risultato sono 585 mila assunzioni in quasi tre anni. Anziché assumere i giovani, sono stati assunti i cinquantenni. Bene, ma così è come invitare i giovani a comprarsi un biglietto aereo e andarsene. Non penso che si possa tornare, con un colpo di bacchetta magica, ai livelli occupazionali del 2007, ma quando vedo che i giovani medici dei pronto soccorso sono assunti o con contratti di collaborazione o come partite Iva, penso che sia una dichiarazione di resa. Questo governo ha promesso l’abolizione del precariato mentre oggi con i voucher rischiamo di avere una forma ancora peggiore di sfruttamento».
Il governo sta preparando un piano per estendere la detassazione del salario aziendale e rilanciare la produttività. Cosa ne pensa?
«Che bisogna smetterla! Ci siamo battuti, e continueremo a farlo, per la detassazione dei premi. Ma serve una misura per l’insieme dei lavoratori dipendenti, non solo per quel 20% interessato dalla contrattazione aziendale».
La risposta del governo, e della Confindustria, è che per quella strada, rendendo fiscalmente più favorevole il salario aziendale, si stimolano i contratti integrativi.
«È sempre la stessa litania. Abbiamo già provato e non ha funzionato. Non si può continuare a mettere in campo politiche anti- inflazione quando siamo in piena deflazione».
Propone di detassare gli aumenti a livello nazionale?
«È una strada possibile. L’obiettivo deve essere quello di rilanciare la domanda, di far ripartire gli investimenti, di una crescita generale dei salari. Detassarlo solo per una parte minoritaria delle aziende significa dire a tutte le altre: cercate di cavarvela competendo sui costi, abbassando qualità e retribuzioni. Una ricetta vecchia. Ma se ci mettiamo a guardare i numeri ci accorgiamo che gli investimenti sono drammaticamente scesi e che la contrattazione di secondo livello non è cresciuta».
Ma il salario in azienda è legato ai risultati, lei propone un aumento delle retribuzioni scollegato da qualsiasi parametro. Le retribuzioni tornano ad essere una variabile indipendente dell’economia? Non siamo fuori dalla crisi.
«Scusi, quella che viviamo non è forse una crisi da domanda? Si può affrontare in piena deflazione con le ricette anti-inflazione degli anni 80 e 90?».
Come fa un’impresa in difficoltà a pagare anche gli aumenti salariali?
«Esattamente per questo va cambiata la politica. Senza una ripresa della domanda quell’impresa è destinata chiudere. Sto proponendo di utilizzare la leva fiscale. Serve un concorso di tutta l’economia».
Servono soldi. Dove li prende?
«E per la detassazione del salario di produttività non servono i soldi?».
Ciò che propone lei costa molto di più. Avete delle stime?
«Pensiamo che con misure attente a non colpire il ceto medio si possano recuperare svariati miliardi l’anno».
Quindi rilanciate la patrimoniale? Non la vuole nessuno.
«Guardi che pensiamo di tassare solo i grandi patrimoni, non la casa dell’operaio che per comprarsela ha acceso un mutuo».
È realistico chiedere 7 miliardi per i rinnovi dei contratti pubblici?
«Quella cifra non è nostra ma dell’Avvocatura dello Stato».
Quanto ci vuole allora?
«Non faccio cifre. Dico, però, che, dopo anni di blocco, i salari nel pubblico impiego devono aumentare».

Il Fatto 3.9.16
Renzi salva il Gp di Monza e fa felice l’amico Marchionne
Emendamenti,sblocchi di fondi e trattative: così il governo con Luca Lotti è riuscito a trovare i 68 milioni di euro chiesti dalla Formula1. Pagano Aci e Regione Lombardia
Per il renzismo lo sport è propaganda, per la Ferrari il bisogno di correre in casa
di Carlo Tecce

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Il Fatto 3.9.16
Gruppo Agnelli, l’ultimo addio all’Italia
Exor va in Olanda Col trasloco della cassaforte tutte le società dell’ex galassia Fiat sono all’estero
di Marco Maroni

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Il Sole 3.9.16
Bersani: o cambia l’Italicum o voterò no al referendum


Nel giorno in cui Matteo Renzi da Cernobbio prova a depotenziare la portata politica del referendum istituzionale d’autunno (se «vince il no, non c’è l’invasione delle cavallette, non c'è la fine del mondo, resta tutto così» ha detto il premier - si veda l’articolo a pagina 2), Pier Luigi Bersani ribadisce la sua posizione: o l’Italicum cambia o voterà no. «Qualche errore di assetto istituzionale si può rimediare - ha detto ieri l’ex segretario del Pd e punto di riferimento della minoranza democratica - ma se si prende una strada sbagliata sul tema della democrazia, non si sa dove si va a finire. I senatori devono essere eletti e l’Italicum va cambiato. Altrimenti - avverte - non sono disposto ad appoggiare la riforma». Parlando a Ravenna dove era per l’inaugurazione di un circolo Pd, Bersani ha negato il rapporto tra referendum e durata del governo ma ha chiarito: «Non sono disponibile ad accettare che il Senato sia la risultanza di tavolini regionali nei quali tu fai l’assessore e io faccio il senatore perché mi serve l’immunità».
Alle dichiarazioni di alcuni giorni fa di Bersani («La gente non mangia pane e referendum»ha replicato intanto ieri il ministro della Giustizia e compagno di partito Andrea Orlando: «La Costituzione serve anche per fare il pane, non c'è la Costituzione da una parte e il pane dall'altra, chi lo sostiene fa un ragionamento agghiacciante», ha detto: « Se il Parlamento non funziona, la gente sta male , chi sostiene che non si mangia pane e Costituzione sbaglia».

Il Sole 39.16
Dopo Pannella
Al congresso dei Radicali è scontro sul patrimonio


«Gli iscritti ai soggetti radicali non hanno, ormai da molti anni, alcuna funzione di controllo sul patrimonio materiale, Radio e sede, su simboli e archivi storici. Venuta meno la garanzia di Marco Pannella va assicurata ai Radicali tutti la titolarità rispetto alle decisioni sugli strumenti utili all’iniziativa politica»: ad accendere la polemica al secondo giorno del Congresso dei Radicali nel carcere romano di Rebibbia - il primo dopo la morte dello storico leader avvenuta il 19 maggio - è Valerio Federico, tesoriere di Radicali Italiani, esponente della componente dei cosiddetti “quarantenni” vicina a Emma Bonino. Un tema che alimenta lo scontro politico con gli “ortodossi”, tra cui Maurizio Turco, tesoriere del Partito radicale. Di cui ieri è stato approvato il bilancio «a stragrande maggioranza». «Respinto - informava una nota - l’invito a votare contro di Valerio Federico, tesoriere di Radicali Italiani».
Ieri è stata anche la giornata della proposta, avanzata tra gli altri da Benedetto Della Vedova, di tenere “aperto” il congresso per una nuova sessione da celebrare in futuro: un tentativo di mediazione tra le due anime del partito che serve a scongiurare il rischio di una scissione. Dagli “ortodossi” è arrivato un no: «Non c’è logica in un rinvio del Congresso, il congresso già c’è, perché farne un altro? Decidono gli iscritti. Non è possibile pensare che domani non possa continuare ad esserci il partito Radicale così come voluto da Pannella».

La Stampa 3.9.16
Raggi cerca i sostituti dopo le dimissioni: “Diamo fastidio ai poteri forti, non ci fermano”
Fantasia nuovo amministratore unico Atac . Grillo annulla la “discesa” nella Capitale

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La Stampa 3.9.16
Virginia ha deciso: “No alle Olimpiadi”. Così la sindaca tenta il rilancio movimentista
L’annuncio a giorni, dopo che si sarà placata la crisi delle dimissioni. Ma il network-Alemanno su cui punta infastidisce Grillo
di Jacopo Iacoboni

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Corriere 3.9.16
Marra, da Alemanno ai 5 Stelle: io sono sempre qui
L’uomo scelto dalla prima cittadina su cui si gioca lo scontro. Potrebbe andare a lui la Sicurezza
di E. Men.


ROMA Le undici e mezza di sera di giovedì, sotto al Marc’Aurelio, sulla piazza del Campidoglio ci sono un paio di turisti e poco più in là, insieme ad un amico, uno degli uomini chiave della bufera-Campidoglio: Raffaele Marra, vice capo di gabinetto di Virginia Raggi, ex alemanniano, ex polveriniano, dirigente comunale «sopravvissuto» anche a Marino.
Anzi, è proprio sotto la sindacatura del «marziano» che Marra entrò in contatto con Daniele Frongia: Marra al Dipartimento entrate del Comune, Frongia a capo della commissione spending review. Non ha voglia di parlare, Marra, anche se la giornata che si è conclusa è stata la più lunga (finora) dell’amministrazione a Cinque Stelle e quando vede il cronista del Corriere , Marra si blocca. Lo sa cosa dicono? Che è stato lei a scrivere la lettera di richiesta di parere all’Anac, per far fuori Raineri e Minenna. Lui ci pensa un attimo: «Ma figuriamoci... È una str...ata. Una delle tante che dicono su di me». Poi saluta e se ne va, senza aggiungere altro. Su di lui, in effetti, se ne sono dette tante. E, tra gli attivisti del Movimento, il suo è il nome più discusso per il suo passato nel centrodestra. Marra, o «don Raffae’» come lo chiamavano all’epoca, era uno dei «fedelissimi» di Gianni Alemanno, dirigente prima Consiglio per la ricerca e sperimentazione in Agricoltura quando l’ex sindaco era ministro, poi all’Unire con Franco Panzironi, l’ex ad di Ama, ancora agli arresti per Mafia Capitale. Così, quando l’allora Pdl scalò il Campidoglio, Marra diventò capo del Dipartimento Patrimonio.
Ci rimase quasi due anni, quando andò via, a marzo del 2010, in contrasto col sindaco. Una rotta di collisione che, come Marra racconta ai suoi amici, sarebbe scaturita dai «numerosi esposti presentati alla Procura della Repubblica», in particolare sulle case popolari e poi sull’Arciconfraternita, quella che poi diventerà la Domus caritatis, una delle coop «bianche» del sistema Buzzi. Marra, in questi mesi, alle persone a lui vicine ha sempre ribadito la sua «verità»: «Fino a che c’ero io, Buzzi non ha messo piede al Comune». Motivo per il quale, forse, una volta si è vantato «di essere lo spermatozoo che ha fecondato il Movimento Cinque Stelle». Lasciato il Comune, Marra andò prima in Rai, poi alla Regione con Renata Polverini. Messo in un angolo da Nicola Zingaretti, si è rifugiato di nuovo a Palazzo Senatorio dove, dicono i bene informati, è uno che conta molto. Più di una volta, nei corridoi, hanno sentito dire la Raggi: «Marra ci garantisce». Così lui resta al suo posto, nonostante gli strali di Beppe Grillo, degli attivisti che sono andati a cercare se il concorso con cui Marra diventò dirigente è stato annullato (lui giura di no e dice di poter fornire le carte). Ieri Marra era in giunta e per lui si parla di una delega alla Sicurezza. Con qualcuno ha scherzato: «Chiedetevi perché sono sempre qua». Già. Perché?

Corriere 3.9.16
Una dolorosa metamorfosi
di Massimo Franco


Siamo al passaggio doloroso dall’adolescenza alla maturità democratica: la metamorfosi del Movimento Cinque Stelle è cominciata.
È cominciata la metamorfosi del Movimento 5 Stelle: il passaggio doloroso dall’adolescenza alla maturità democratica. E l’impressione è che il cambiamento sia subìto, non preparato adeguatamente. L’arrivo a Roma, prima annunciato e poi annullato, di Beppe Grillo, «il garante», per tentare di risolvere il pasticcio del Campidoglio, aggiunge un’ulteriore pennellata di confusione. Dice due cose, entrambe preoccupanti. La prima è che la crisi in incubazione nella giunta di Virginia Raggi è così seria da fare aleggiare l’intervento del mitico Direttorio. La seconda è che la sindaca non appare in grado di risolvere il problema da sola perfino agli occhi di chi l’ha candidata. E questo, di fatto, proietta di nuovo l’ombra di un suo commissariamento di fatto.
Gli avversari dicono che era già tutto scritto; che la caduta dell’Amministrazione-vetrina del M5S della Capitale è alle porte; e che il movimento di Grillo è minato dalle correnti e dalle loro lotte come e più degli altri partiti. Giudizi un po’ troppo affrettati, che mescolano i desideri degli avversari con la realtà. Forse è necessaria maggiore cautela. Puntare su un crollo rapido e fragoroso della Raggi non è solo un’illusione, ma un errore politico. Non certificherebbe affatto la sua incapacità di governare. C’è da scommettere, anzi, che offrirebbe alla dirigenza dei Cinque Stelle un grande alibi: quello del complotto dei comitati d’affari capitolini per non permetterle di governare, magari in combutta col governo nazionale.
La tesi permetterebbe di velare i contrasti interni che sembrano la principale ragione degli scricchiolii di questi giorni. E perpetuerebbe quella strategia del vittimismo che tanti voti ha portato ai seguaci di Grillo e Casaleggio. Anche perché non si può generalizzare. Roma risente di un’eredità disastrosa lasciatale dalle giunte di centrodestra e, in ultimo, di centrosinistra. E infatti nella Torino della sindaca Chiara Appendino, che è stata governata e non sgovernata, la situazione è diversa: l’esponente del M5S può tentare di amministrare con maggiori speranze di farcela. D’altronde, se cade la giunta Raggi che cosa sarebbero in grado di offrire i partiti e gli schieramenti tradizionali? Domanda senza risposta.
In realtà, per vedere cosa sa fare, o magari non sa fare il Movimento, bisogna dargli tempo. È necessario permettergli di misurare fino in fondo pregi e limiti del suo originalissimo modello di democrazia interna e di selezione della classe dirigente. E nel caso lasciare che emergano le ambiguità di una trasversalità così totale da moltiplicare i voti alle elezioni; ma anche così marcata da trasformarsi in contraddizione implosiva al momento di governare. Limitarsi a attaccarlo e liquidarlo è facile e insieme miope. Fa dimenticare che l’ affermazione di Grillo e della sua nomenklatura è il frutto della febbre del sistema e di una profonda crisi di credibilità. È questo che ha permesso al M5S di esasperare la cultura del nuovismo e di una diversità vissuta e trasmessa come superiorità morale.
Ma la democrazia rappresentativa è un’altra cosa. Certamente non ne offrono una versione encomiabile i partiti di oggi. La novità, però, è che anche quanto sta mostrando in questi giorni ai romani e agli italiani la nomenklatura Cinque Stelle non può né incoraggiare né far sperare troppo in un’alternativa: sia in termini di trasparenza che di capacità amministrativa. Grillo si è sempre vantato di avere codici culturali e un linguaggio diversi da quelli del «sistema». Per questo ha rivendicato orgogliosamente di non capire né essere capito dai mezzi di informazione. Non gli si possono dare tutti i torti. Solo che adesso i problemi di incomprensione promette di averli con interlocutori meno prevenuti e più esigenti: gli elettori che vogliono capire se il Movimento è all’altezza del grande consenso ricevuto anche nella capitale d’Italia.
Magari esisteranno anche degli oscuri centri di potere che vogliono abbattere la giunta. Ma i complotti esterni riescono quando trovano la complicità e si sommano alla fragilità e alle debolezze interne di chi viene attaccato. La «democrazia della Rete» è un grande fenomeno collettivo e suggestivo. Ma può velare la precarietà delle sue fondamenta solo finché la realtà, quella non virtuale ma dura del governo anche solo local e, presenta il conto.

Repubblica 3.9.16
Dario Fo
“Beghe da vecchi partiti, Beppe ora azzera tutto”
intervista di T. Ci.


ROMA. «Per spiegarle cosa è oggi il Movimento 5Stelle voglio usare questa immagine: è come un pittore che ha rovesciato tre colori sulla tavolozza, li ha mischiati. E adesso cosa può fare? Per tornare a dipingere non può fare altro che cancellare e ricominciare da capo. Ho parlato con Grillo e Di Maio, hanno deciso di farlo». Ecco i grillini secondo il premio Nobel Dario Fo. L’immagine è forte, perché racchiude anche il senso di un parziale fallimento del grillismo. Perché sentire ragionare in questo modo Fo, tanto vicino al Movimento da salire sul palco di Virginia Raggi alla vigilia delle amministrative che hanno incoronato la sindaca, fa un certo effetto.
Lei ha sostenuto apertamente Raggi. Consiglia spesso Grillo e il direttorio. Ne sposa alcune battaglie. E adesso, dopo gli scontri interni e le dimissioni, è deluso dalla performance romana dell’amministrazione grillina?
«Non so bene del problema romano, perché sono stato impegnato in altre vicende che, se vuole, le spiegherò».
Certamente, ma partiamo dalla Capitale. Liti, scontri, dimissioni, lacrime. Se l’aspettava?
«Ho sentito di queste beghe insensate. Non so molto di più, ma una cosa è chiara: nel Movimento bisogna che si cancelli tutto. Occorre che tutto torni ad essere come una pagina bianca. Poi si potrà tornare a fare i conti. E si potrà ripartire da capo».
Lei propone un reset del Movimento cinque stelle, insomma?
«Ma certo, perché non può più stare in piedi una struttura come la loro, così come l’hanno creata ed è diventata. Vedo le beghe di un classico gruppo politico. E invece loro devono essere altro, devono essere l’opposto. Hanno bisogno di distinguersi nettamente dalle altre forze politiche».
Pare però che la dinamica in atto sia opposta. Degna del più agguerrito correntismo di partito, non le pare?
«Leggo che sono uno contro l’altro. Vedo uno che tira in mezzo l’altro, l’altro ancora che decide di dimettersi. E poi c’è quello che si ritira perché il compagno di merende ha fatto in un altro modo… Comunque, molto presto ci sarà una cancellazione di tutto, glielo garantisco».
Lei dice che è in cantiere una rivoluzione nei cinquestelle?
«Senta, la settimana scorsa ci ho parlato. Ci siamo visti con Beppe e con il gruppo dei cinque del direttorio. Ho ragionato con Grillo e con Di Maio. Loro hanno capito che il punto è cominciare da capo. Così hanno deciso e così faranno, vedrete. Non hanno altra possibilità: serve cancellare tutto e ripartire».
Lei intanto ha sentito Raggi dopo averla sostenuta pubblicamente in campagna elettorale nella Capitale?
«No, non l’ho sentita».
Prima accennava alla difficoltà di seguire il caso romano perché si è dovuto occupare d’altro. Di cosa si tratta?
«Lo Stato turco ha decretato che nessuna compagnia teatrale straniera può mettere in scena Shakespeare, Brecht, Cechov e Dario Fo. Una circostanza che mi ha molto colpito».
Perché?
«Da una parte c’è naturalmente l’orgoglio perché hanno deciso di censurare me accanto a questi grandi autori, dall’altra parte c’è la preoccupazione per la gravità della censura e per la situazione delle compagnie che hanno dovuto chiudere e smettere di portare in scena le opere».

il manifesto 3.9.16
Raggi riparte in bus, nel gelo
L’ingegnere nucleare Manuel Fantasia è il nuovo amministratore unico di Atac
Grillo annuncia il suo arrivo a Roma, poi ci ripensa
Direttorio diviso: torna nel cassetto la lettera di sostegno alla sindaca. Stretta sugli stipendi
di Giuliano Santoro


ROMA «Vengo a Roma, anzi no». Doveva essere Beppe Grillo in persona a tentare di dipanare la matassa della crisi della sindaca Virginia Raggi. La trasferta romana del cofondatore del M5S viene annunciata in mattinata. Poi la smentita: tutto cancellato. «Se ne occuperà il direttorio», dicono dallo staff. Ma anche dall’organismo di direzione concepito da Grillo e Casaleggio ai tempi del «passo di lato» del comico genovese, non sanno come affrontare la patata bollente.
Dapprima si apprende che è già pronta una lettera con la quale si esprime totale sostegno alla sindaca. Poi il testo, come il biglietto per Roma di Grillo, finisce nel cassetto in attesa che la situazione si chiarisca. Il che conferma il dilemma: l’amministrazione romana è troppo importante per essere abbandonata al proprio destino ma non c’è concordia sulle ultime mosse. Prosegue la consegna del silenzio, almeno prima che i vertici incontrino Raggi. Qualcuno sostiene che tra Grillo e Raggi ci sarebbe stata una telefonata di fuoco. Dallo staff del sindaco giurano: «Tutto falso, nessuna comunicazione tra i due».
C’è il rapporto coi vertici nazionali, c’è quello coi parlamentari romani e quello coi consiglieri comunali. Paola Taverna e Roberta Lombardi intimano ancora una volta alla sindaca di tornare ai «principi del Movimento». Abbandonata la democrazia diretta e la trasparenza dello streaming, la speranza è che almeno si ponga un limite ai compensi dei dirigenti comunali. I consiglieri romani pongono da giorni questo stesso problema. Lo hanno detto a più riprese a «Virginia», ne parlano nei forum online e nelle chat riservate agli eletti. Tra gli attivisti circola un file contenente le retribuzioni di alcuni collaboratori della sindaca e del suo staff. Salvatore Romeo, il capo della segreteria politica della sindaca la cui retribuzione è lievitata da 40 a 120 mila euro l’anno, è costretto per la prima volta sulla difensiva: «Sono stati commessi errori, perché eravamo in ritardo, stiamo rivedendo l’intero corpo delle delibere», spiega. Interpellato sulle polemiche sul suo compenso, alla domanda se questo possa essere rivisto al ribasso risponde sarcastico: «Che possa essere rivisto verso l’alto mi sento di escluderlo».
Pietro Calabrese, vicepresidente della commissione trasporti, di primo mattino sta per inforcare la sua bicicletta per immergersi in una giornata che definisce «impegnativa ma non difficile», quasi a voler minimizzare la portata degli eventi. Raineri, Minenna e i dirigenti di Ama e Atac sono soprannominati dai grillini «i bocconiani». «Erano poco disponibili al confronto – dice Calabrese al manifesto – Ecco perché non riuscivamo a lavorare insieme, non avevano dimestichezza colle nostre modalità di lavoro». Come a dire: l’esperimento dei saggi al governo non ha funzionato. La versione di Minenna è diametralmente opposta: l’analista Consob ha rotto il silenzio diffondendo via Facebook una ricostruzione degli eventi degli ultimi giorni firmata da Sergio Rizzo del Corriere della Sera. L’articolo è introdotto da poche parole: «Per chi chiedeva i motivi delle dimissioni: buona lettura». Nel testo si sostiene la tesi del cerchio magico stretto attorno a Raggi, si parla senza mezzi termini di «guerra tra bande» e si sentenzia: «Non si ricorda un precedente simile neppure nei momenti più bui e durante le peggiori amministrazioni della città». Anche Minenna, insomma, punta il dito sul ruolo dell’ex alemanniano Raffaele Marra. Non è un caso che ieri il consigliere Enrico Stefàno abbia sentito il bisogno di precisare che difficilmente Marra, già vice di Raineri, diventerà capo di gabinetto. Chi sta vicino a Raggi sa che suonerebbe come una sfida a Grillo.
Coglie l’occasione per dire la sua, direttamente dal limbo della «sospensione» dal Movimento, Federico Pizzarotti: «Tempo fa, rilanciando l’idea di un’assemblea nazionale tra cittadini e portavoce, scrissi pubblicamente a Beppe Grillo queste testuali parole: ‘Ti chiedo: la volontà è quella di lasciare che le varie correnti del Movimento lo logorino dall’interno?’ – afferma il sindaco di Parma – Piaccia o no, lo accettiate o no, è quello che sta avvenendo».
Quel che rimane della squadra di Virginia Raggi dopo la bufera delle dimissioni a catena si è ritrovato ieri per una riunione di giunta. «Siamo determinati a lavorare per il bene della città, queste dimissioni non ci spaventano», ha detto la sindaca ai suoi assessori. «Adesso ci metteremo tutti insieme, consiglieri ed assessori, a valutare i curriculum per trovare i sostituti più adatti», spiega ancora il consigliere Calabrese ostentando serenità. In serata si stringe per la prima nomina: Manuel Fantasia, ingegnere e già dirigente di Almaviva oltre che consulente in mediazioni e conciliazioni, è il nuovo amministratore unico di Atac.

Repubblica 3.9.16
L’amaca
di Michele Serra

IL VERO problema dei grillini è avere deciso, e per giunta annunciato, che avrebbero riordinato il mondo daccapo, e tutto da soli (vedi “Bouvard e Pécuchet” di Flaubert), mondandolo dei suoi errori. La radicalità dei propositi, ovviamente, aumenta il clamore di un eventuale insuccesso. Si sa che la gente è cattiva. Se uno dice: farò quel poco che posso, quando sbaglia si è disposti a chiudere un occhio. Se dice: fatevi tutti da parte che arrivo io e sistemo tutto, quando inciampa il pernacchio è uno tsunami. Sono le regole, antichissime, della commedia, è strano che Grillo non le abbia tenute presenti nella costruzione della sua trama politica. Io, che cattivo non sono, coltivo nei confronti di quello spericolato esperimento un sentimento misto. Da un lato mi piacerebbe che qualcosa di buono e di utile ne sortisse, perché niente è più triste e meschino che godere dei fallimenti altrui e perché si sta parlando (per adesso) di Roma, dunque di noi tutti. Dall’altro, penso non sia ragionevole sperare che da presupposti così fragili (il settarismo è un sintomo inconfondibile di fragilità), nonché dall’idea balzana e pure pericolosa che “deve decidere il web”, possa scaturire un’Italia più seria e rispettabile. Il web è un pulviscolo che segue il vento, il settarismo è odioso sempre, l’onestà tanto vociata diventa, in politica, un labirinto pieno di avvisi di garanzia e di revoche dell’Anticorruzione. E dunque si aspetta di vedere come va a finire; ma con poche speranze che vada a finire bene.

Il Fatto 3.9.16
Olimpiadi, il k.o. finale di Roma al tappeto
di  Salvatore Settis e Tomaso Montanari

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La Stampa 3.9.16
Inchiesta sulla corruzione a Rieti, controlli su 56 tecnici e 12 imprese
Si cercano documenti importanti tra le macerie dei municipi di Amatrice e Accumoli
di Paolo Festuccia


Dodici imprese, 56 professionisti. Sono questi i primi numeri sul tavolo della Procura della Repubblica di Rieti. Nel disastro post sisma che ha distrutto i centri storici di Accumoli e Amatrice la cornice dei dati che il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza sta chiudendo indica ormai due direzioni investigative: la prima sugli appalti affidati a trattativa privata e le presunte omissioni per i lavori pagati con i soldi pubblici del terremoto del 1997, la seconda connessa ai «furbetti del contributo». ovvero quegli enti e quei cittadini che, pur avendo ricevuto erogazioni pubbliche per i danni del terremoto, non hanno ottemperato alle prescrizioni previste nella ristrutturazione degli immobili.
Soldi mal spesi
È da qui, dunque, che si parte per ricostruire minuziosamente tutti i passaggi del flusso di denaro che in due circostanze diverse (sisma 1997 e poi sisma del 2001) ha fatto piovere su Rieti e il suo hinterland circa 90 milioni di euro in due tranche diverse. Un lavoro lungo questo che la Guardia di Finanza e la Procura di Rieti stanno facendo anche perché si tratta di «ricostruire gli ultimi vent’anni di storia della provincia reatina», sia per quel che concerne il territorio sia per quanto riguarda il ruolo giocato dalle istituzioni: a cominciare da quello che hanno avuto in quegli anni (dal ’97 al 2007) i tre sub commissari per il terremoto che si sono succeduti nel tempo, gli uffici regionali, che proprio ieri hanno ricevuto la visita degli uomini della Guardia di finanza, i funzionari provinciali, quelli del genio civile, ma anche tutti gli uffici tecnici (lavori pubblici e urbanistici) che hanno «incamerato» consistenti finanziamenti per poi destinarli negli incarichi a una significativa schiera di tecnici e soprattutto a numerose imprese.
Conflitti di interesse
E proprio su quest’ultimo aspetto da ieri si stanno concentrando, in modo particolare, le attenzioni del Nucleo di polizia tributaria che contano anche di recuperare a breve – se non tutti – almeno una parte considerevole dei documenti urbanistici «custoditi» sotto le macerie dei comuni di Amatrice e Accumoli. Documenti importanti, fanno capire gli inquirenti, non tanto per quel che concerne le erogazioni individuali, che sono state già acquisite agli atti nel fascicolo dell’inchiesta, casa per casa, immobile per immobile quanto per ricostruire come i tecnici comunali abbiano messo in collegamento Enti attuatori, finanziamenti statali e regionali e imprese edili. Legami, insomma, e presunti conflitti d’interessi tra politica e imprese sui quali da ieri sono al lavoro anche cinque uomini del Ros che incrociano nomi con imprese, codici fiscali con partite iva, bonifici bancari ed erogazioni di consistenti somme di denaro pubblico nel corso di almeno un decennio.
L’inchiesta, dunque, sta procedendo a ritmo serrato. Se non altro sul fronte della strategia e dei mezzi messi in campo dagli investigatori laziali. «Ora, alle ipotesi investigative – si spiega negli ambienti giudiziari – si devono trovare conferme sulle carte». Sia per quel che concerne le modalità di incarico e la concessione di appalti nel settore pubblico, sia anche nelle concessioni ai privati che subirono danni.
Le 12 aziende
Per ora è certo è che almeno sulle imprese impiegate nei lavori, soprattutto tra Amatrice e Accumoli, i primi accertamenti sono già cominciati da qualche giorno. In tutto nel cratere sismico dei due centri montani ai confini con le Marche hanno lavorato 12 aziende (oltre al consorzio di imprese che ha svolto i lavori alla scuola di Amatrice, crollata nella notte delle prime scosse del sisma) che si sono divise circa tre milioni e mezzo di euro. Tutte le opere finanziate sono di nuovo crollate o inagibili: e così anche quelle collaudate (come, appunto, la scuola «Romolo Capranica») di Amatrice e quelle ancora da completare. Nella ricostruzione, invece, o se si preferisce negli interventi post sisma, hanno lavorato oltre cinquanta tecnici e cinque geologi. Ed è proprio su quei lavori e quei collaudi che da qualche ora si sta concentrando l’attenzione degli inquirenti, a cominciare da quei palazzi dove si sono registrate vittime.

Corriere 3.9.16
I pm chiamano un team di scienziati Decine di denunce anonime in Procura
L’inchiesta sui crolli. La rabbia della gente: lettere (inutilizzabili) con nomi di progettisti e imprese
di Ilaria Sacchettoni


RIETI L’incarico è ancora da formalizzare ma la domanda è già pronta. Si tratta di descrivere «l’andamento dell’onda magnetica e l’accelerazione» delle scosse della notte del 24 agosto. I magistrati Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Maruotti, coordinati dal procuratore capo Giuseppe Saieva, incaricheranno un gruppo di esperti di sciogliere il quesito. L’acquisizione di un parere scientifico è preliminare ad altre iniziative, incluse eventuali iscrizioni sul registro degli indagati. Avvisi di garanzia che potrebbero raggiungere progettisti, collaudatori, amministratori pubblici e, nel caso in cui il crollo della loro abitazione abbia causato vittime, anche i proprietari degli immobili se la loro casa non risulta in regola con le norme di sicurezza.
Proprio ieri i vigili del fuoco hanno individuato il cadavere di un’altra vittima, un pensionato che si trovava in vacanza, sepolto sotto le macerie di Casale, una piccola frazione a poca distanza da Amatrice: individuato dal nucleo Usar ( Urban search and rescue ) del Lazio è la vittima numero 294 di questa tragedia (244 nel Lazio, 50 nelle Marche). Gli uomini della forestale, assieme a carabinieri e polizia, hanno invece continuato le operazioni di sequestro. In qualche caso — come con la caserma dei carabinieri, la foresteria e la chiesa di Accumoli — sono stati confiscati interi complessi, ma pure edifici privati.
Nei giorni scorsi, in procura, sono state recapitate delle denunce anonime. Si tratta di esposti che invitano i magistrati ad approfondire nomi e curriculum di progettisti e collaudatori di opere, spesso allegando anche foto di avvisi di edificazione con numero di autorizzazione e soprattutto nomi. Se, dal punto di vista strettamente investigativo, si tratta di segnalazioni destinate all’archiviazione (proprio in quanto anonime), testimoniano però il clima che si respira in questi giorni. Angoscia, rabbia.
Dalle macerie di alcuni edifici affiorano anche vicende giudiziarie. È il caso della caserma dei carabinieri di Accumoli i cui lavori sono stati ultimati e collaudati fra il 2012 e il 2013. L’impresa che l’ha ristrutturata è la Impretekna della famiglia Leoncini. Negli stessi anni in cui ultimava i lavori ad Accumoli, la ditta finiva sotto accusa per un abuso d’ufficio. Secondo l’accusa aveva costruito senza permesso un nuovo edificio al posto dell’ex capanna Trebbiani al Terminillo (storica struttura ricettiva della zona). Un caso di speculazione che in primo grado è valso una condanna a Marzio Leoncini.

Corriere 3.9.16
Prof «in prestito»: la scuola al via con 100mila supplenti
Nonostante gli annunci, l’anno scolastico debutta con i consueti ritardi sulle assegnazioni delle cattedre
di Valentina Santarpia

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Corriere 3.9.16
Tra prof «con la valigia» e sostegno che manca. Sorprese (e guai) dell’anno che inizia
Ecco come sarà l’organico potenziato e come funziona la chiamata diretta, tra le principali novità. Ma sull’avvio dell’anno scolastico pesano molte ombre, a partire dall’alternanza scuola-lavoro, che non decolla e i disagi per la carenza di personale Ata
di Valentina Santarpia

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Corriere 3.9.16
De Mauro
«Docenti e didattica sono da ripensare Non scarichiamo le colpe sui presidi»
intervista di Claudia Voltattorni


Presidi con funzioni manageriali. Più insegnanti assunti. Prof scelti direttamente dalle scuole a seconda del bisogno. Premi a chi fa meglio il proprio lavoro. Studenti nel mondo del lavoro già durante l’anno. Professor De Mauro, il 2017 sarà l’anno in cui finalmente la scuola italiana farà un passo in avanti?
Linguista, ministro dell’Istruzione con il governo Amato, professore e presidente della Fondazione Bellonci, Tullio De Mauro sorride: «Oggi (ieri per chi legge, ndr ) è Sant’Elpidio, che, come dice il nome, è il santo della speranza. Dunque, si può sperare che il nuovo anno non sia peggiore dei precedenti. Ciò che chiamiamo scuola è dappertutto un organismo complicato e diversificato, tanto più in un Paese con realtà per conto loro altrettanto diverse ed eterogenee. Le norme della “buona scuola” erano e sono assai lontane dall’aver tenuto conto di questo. Vedremo i singoli interventi previsti e in parte ora in via di attuazione che rimbalzi avranno in concreto nelle diverse realtà».
Gli studenti italiani trarranno dei benefici reali da tutte queste novità? Cioè: avranno davvero prof più preparati, lezioni più interessanti, saranno più motivati?
«Gli studenti delle scuole dell’infanzia e delle elementari hanno avuto finora, e dagli Anni 80, una delle migliori scuole del mondo, come, per le elementari, dicono i risultati delle indagini comparative internazionali (e come troppi dimenticano). Per le scuole dei gradi ulteriori,in particolare per le superiori, avere insegnanti più preparati e lezioni più interessanti richiede un ripensamento radicale dei modi di formazione e di aggiornamento in servizio degli insegnanti in funzione di un altrettanto radicale ripensamento dei contenuti didattici e dei modi di farne oggetto di reale e durevole apprendimento. In Francia con modi più bruschi, in Finlandia con saggia cautela, si sta andando su questa via. Questo sforzo di chiamata a raccolta di esperienze pratiche e di studio è mancato ai provvedimenti governativi. Prima o poi dovremo deciderci a farlo».
In Italia l’immagine degli insegnanti continua a essere non all’altezza della sua importanza per la vita degli individui. Stipendi tra i più bassi d’Europa e scarsa considerazione dall’opinione pubblica. C’è un modo per cambiare tutto ciò in profondità?
«Cambierà se e quando il Parlamento e un governo decideranno di fare dell’istruzione scolastica e dello stato della cultura di adulte e adulti un oggetto specifico e periodico della loro attività e, come c’è ogni anno la discussione e definizione di una finanziaria, ci sarà annualmente una “culturale”».
I presidi sono uno dei nodi della riforma: hanno un ruolo sempre più centrale e manageriale. Farà bene alla scuola tutto ciò?
«In omaggio a Sant’Elpidio, si può sperare che non faccia troppo male. E che non si scarichi sui presidi la responsabilità di quanto non funzionerà nelle scuole».
Contro la dispersione scolastica la ministra Giannini pensa di aprire sempre più la scuola anche oltre l’orario di lezione. È d’accordo?
«Sarebbe, anzi è assolutamente necessario che l’Italia attivi, come fanno altri Paesi e come da anni ci chiede con insistenza l’Ocse, un sistema organico di educazione degli adulti che svolga le sue attività negli istituti scolastici, nei due terzi della giornata in cui sono un mausoleo vuoto e devono invece diventare, come è stato detto, “fabbriche della cultura”. Le condizioni della popolazione adulta italiana, in cui assai più di due terzi hanno difficoltà a leggere un qualunque testo scritto, non possono non riflettersi su ragazze e ragazzi e ostacolare gravemente il lavoro della scuola, oltre che pesare negativamente sull’intera vita sociale».
Cosa pensa dell’alternanza scuola-lavoro con studenti che trascorrono dei giorni di scuola nelle aziende o negli uffici?
«L’idea è buona, ad avviso di molti. Ma le modalità di attuazione richiedono di essere collegate a quel ripensamento cui ho accennato. Altrimenti rischia di far solo confusione. Anche qui, però, sarebbe stato e sarebbe necessario considerare quel che avviene altrove nel mondo e quel che di positivo si è realizzato in Italia in anni passati negli istituti tecnici».

il manifesto 3.9.16
Breve elogio della ribellione in salsa umanistica
Un’anticipazione dall’intervento di oggi al «Festival della mente» di Sarzana. Che cosa significa utilizzare il proprio cervello critico? Le giovani generazioni si trovano davanti a scelte difficili da decifrare. Occorre scommettere sulla «terapia» della scuola
di Lamberto Maffei


A Sarzana il Festival della mente 2016 apre il programma con alcuni versi di una poetessa che mi è cara, Alda Merini: «voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso/ della divina sapienza». Con desideri simili anche io auspico un piccolo spazio, quello della ribellione, contro la corruzione, la disonestà, le guerre, le ingiustizie sociali, l’uso del linguaggio per ingannare il prossimo, la vendita delle armi, e contro coloro che, come loro fossero superuomini dotati di cervelli e corpi diversi, sfruttano e riducono a servi altri uomini. La prima riflessione, banale ma necessaria è che gli uomini condividono gli stessi organi, la stessa organizzazione del sistema nervoso, gli stessi recettori: tu ed io siamo uguali a tutti gli altri.
Risultano perciò inaccettabili alla logica prima ancora che all’etica i privilegi di chi nasce ricco e ha goduto delle facilitazioni di un ambiente adeguato, ma anche di amicizie, di favori più o meno leciti. La loro condizione di privilegio si mantiene grazie alla esistenza dei molti che invece di privilegi non ne hanno e con la loro opera rendono possibile i loro salari stratosferici e perfino i loro comportamenti offensivi con cui ostentano la loro ricchezza per mostrare il loro potere e diversità, manifestazioni volgari che gridano vendetta davanti a Dio.
Ricordo a proposito alcune parti dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito (…) Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?»
L’onesto è relegato alla posizione di una sottospecie di fessi non degni di salire nella casta dei furbi. Il cervello, il buon senso, la critica, l’onestà sono in rivolta. La mia non è una ribellione violenta, perché la violenza genera violenza, ma è un richiamo all’uso del cervello pensante e critico, è la rivolta della ragione contro quel’1 per cento della popolazione che possiede più ricchezze del restante 99 per cento (rapporto Oxfam 2016). Ho raccolto queste riflessioni in un mio piccolo libro Elogio della ribellione uscito per Il Mulino.
In questo spirito di inquietudine e di rivolta rifletto su alcuni aspetti del mondo moderno, sulla globalizzazione, sul rapido invasivo sviluppo delle tecnologie che hanno procurato vantaggi ma anche problemi.
Le tecnologie della comunicazione hanno creato un nuovo tipo di solitudine, che possiamo chiamare paradossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.
La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.
Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.
La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.
La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.
Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.