sabato 10 settembre 2016

Il Sole 10.9.16
Il Sole 24 Ore conferma la leadership digitale
Copie elettroniche a quota 112.577. Sono 37mila gli abbonamenti pagati al sito non rilevati da Ads
di
Andrea Biondi

A guardare tra i numeri delle diffusioni dei quotidiani italiani, mensilmente rilevate da Ads, il mese di luglio riporta qualche segnale che può anche essere letto positivamente. Il confronto sul dato della diffusione cartacea e digitale vede infatti tra un mese e l’altro una crescita del 2,38 per cento. Non è andata allo stesso modo sul versante delle copie digitali (replica su Pc, smartphone e tablet dell’edizione cartacea), scese invece di molto (-7,1%). In questo caso a pesare è stata però in particolar modo la forte flessione delle copie digitali di La Repubblica (-19.424 rispetto al mese precedente con numero sceso a 30.348). In questo contesto va però detto che, anche depurando i totali dai numeri del quotidiano del Gruppo L’Espresso, fra un mese e l’altro le copie digitali sarebbero scese del 2,2 per cento.
Allargando lo sguardo a un confronto annuale, il segno meno è inequivocabile da qualsiasi parte lo si veda, sia riguardo alle diffusioni complessive (-9,4%), sia per ciò che concerne le diffusioni delle sole copie digitali (-6,5%).
In valore assoluto i dati Ads resi noti ieri fotografano una diffusione complessiva (quindi comprensiva delle copie cartacee e di quelle digitali) di 3.498.793 copie di media giornaliere, anche in abbonamento, con 346.477 copie digitali (scese al 9,9% del totale). Questo dato, come anche i confronti riportati in precedenza, risente dell’assenza dal computo totale delle copie digitali multiple (quelle cioè che vedono un’unica transazione e un unico compratore di più copie) di cui Ads ha interrotto la pubblicazione e che renderà nuovamente disponibile fra qualche mese.
L’assenza di questo dato è sicuramente importante. Per dare un ordine di grandezza, per Il Sole 24 Ore la quota media di queste copie multiple è pari al 26,5% del totale diffusione carta+digital. Copie “pesanti” quindi (anche se l’incidenza varia da testata a testata), ma ancora con forti margini di crescita in termini di mercato. Ads non censisce neppure gli abbonamenti a pagamento ai siti, una voce che per Il Sole 24 Ore vale 37mila abbonati.
Andando a esaminare gli andamenti dei principali quotidiani italiani, Il Sole 24 Ore si colloca sul primo gradino del podio per diffusione di copie digitali totali (112.577) seguito da Corriere della Sera (71.525) e da La Repubblica (30.348). Rispetto a luglio 2015 il dato risulta in crescita per il quotidiano del Gruppo 24 Ore (+4,2%) che guida questa speciale classifica dall’avvio delle rilevazioni sulle copie digitali, avvenuto a partire dal dato relativo a gennaio 2013. Flessione, su base annua, invece per il quotidiano di Via Solferino (-0,6%) e ancora di più per La Repubblica (-43%). «Sono giunti a scadenza allineata una serie di abbonamenti, frutto di politiche di marketing aggressive, rivolte anche ai residenti all’estero. Abbiamo deciso di non rinnovarle perché non vantaggiose sotto il profilo economico», spiega in una nota Massimo Russo, direttore generale della divisione digitale del Gruppo Espresso.
Sempre sul versante digitale Il Sole 24 Ore ha la leadership anche nella vendita delle copie singole (quelle cioè vendute one-to-one, con transazioni singole da clienti unici) con 70.601 copie (in aumento del 16,4% annuo), seguito da Corriere della Sera (50.083; -0,5%) e da La Repubblica (30.348; -43%). I tre quotidiani di Gruppo 24 Ore, Rcs e Gruppo Espresso sono anche il terzetto di testa per le diffusioni complessive carta+digitale, con Corriere della Sera (328.494; -10,7%) in testa, seguito da La Repubblica (282.211; -17,5%) e da Il Sole 24 Ore (237.127; -8,1%).
Per quanto riguarda gli altri quotidiani posizionati nella nella “top ten” dei quotidiani italiani per diffusione, al quarto posto c’è La Gazzetta dello Sport (206.647; -8,5% annuo), seguita da La Stampa (189.107; -12,7%) ; Il Messaggero (128.804; -6,6%); Corriere dello Sport-Stadio (112.426; -13,5%); Avvenire (108.411; +16,7%); Qn-Il Resto del Carlino (107.907; -7,5%) e Qn-La Nazione (82.318; -8,8%).
Repubblica 10.9.16
Quel gusto rosso che cambiò il sapore del mondo
Coltivato dai maya e portato in Europa dai conquistadores, è diventato l’alimento simbolo della nostra dieta, accompagnando pizza e spaghetti
di Marco Belpoliti

Si conclude oggi con il pomodoro la serie sulla storia delle materie prime delle nostre tavole. Le altre uscite sono state: Lo zucchero (18 luglio); Il sale (23 luglio); La cioccolata (30 luglio); Il caffè (6 agosto); Il tè (13 agosto); Il tabacco (20 agosto); La birra (27 agosto); La patata (3 settembre)

Un mondo senza pomodoro? Niente sugo, niente pizza, niente insalate, niente salse e le innumerevoli combinazioni che si realizzano con questo frutto. Siamo i maggiori produttori di pomodoro in Europa. Come il mais, patate, maioca, patate dolci, fagioli americani, peperoncino, noccioline, girasole, zucca, cacao e vaniglia viene dall’altra parte dell’oceano; sono i “semi dell’Eldorado”, come li chiama Maurizio Sentieri. Eppure, alla stregua della patata, il po–
modoro ha faticato a imporsi. La specie selvatica cresce ancora oggi sulla costa occidentale del Sudamerica nelle montagne del Perù, Ecuador e Cile. Cortés lo trova in Messico durante la sua occupazione, dal 1519 al 1521. Nessuno sa come sia emigrato lì; i maya coltivano un frutto grande, che mangiamo ancora oggi, poi tocca agli aztechi. Cortés lo vede presso di loro. Arriva in Spagna attraverso coloni e missionari sotto forma di semi, quindi in Italia, ma solo come specie botanica. La parola azteca che lo designa è tomatl; in Italia pomo doro. Compare per la prima volta in un testo nel 1544 dell’italiano Pietro Andrea Mattioli: «Sono questi schiacciati come le mele rosse fatte à spicchi, di colore prima verdi, e come sono mature, in alcune piante rosse come sangue, e in altre di color oro». I conquistadores non lo identificano come un elemento fondamentale nell’alimentazione degli indios alla pari del mais. Viene inserito dai botanici nella famiglia dei solani con melanzana e belladonna; la prima è invece arrivata dalla Persia nel XV secolo. Sono entrambi frutti, come il cetriolo e altre cucurbitacee, ricorda David Gentilcore nella sua storia del pomodoro in Italia: i semi sono avvolti in una polpa sugosa. Perché il pomodoro si diffonda deve scemare l’influsso della medicina galenica con la sua teoria degli umori (il pomodoro è “freddo”), poi svilupparsi l’interesse delle élite, dei ricchi, sempre alla ricerca di “suggestioni alimentari”, ghiottonerie e cibi esotici, anche contro i pareri dei medici. Sono alla ricerca della “panacea” proveniente dal Nuovo Mondo: il farmaco salvavita.
Nell’ottobre del 1548 il sottomaggiordomo presenta al duca Cosimo de’ Medici un cesto di pomodori, ma non sembra che sua eccellenza li abbia mangiati. A Siviglia nel 1608 presso l’Hospital de la Sangre si registrano due acquisti di questo frutto insieme ai cetrioli. A metà del Seicento avviene il primo cambiamento nelle fortune del pomodoro. Si comincia a mangiarlo, quale condimento e salsa, insieme a zucchine, melanzane e peperoncino. La Spagna detta le regole culinarie: nei condimenti piccanti s’accompagna ai bolliti; si mescola con melanzana e cipolla; è aggiunto nello stufato di carne come sugo in cui cuoce. Sono i ricettari a determinare i cambiamenti, ma sempre a livello di classe dirigente. Nella Casa Professa di Roma dei Gesuiti – siamo nel Settecento – il venerdì viene servita una frittata in cui compare il pomodoro, mentre gli altri giorni è con il bollito di carne.
Si comincia a conservarlo per tutto l’anno. Prima che Nicolas Appert introduca il sistema di conservazione, si fanno seccare i pomodori al sole. Nascono in questo periodo le salse e le conserve di sugo, distinte tra loro, come spiega Piero Camporesi nella sua edizione dell’Artusi: siamo già nell’Ottocento. Il sugo si ottiene con pomodori cotti e passati al setaccio insieme a sedano, prezzemolo e basilico; la salsa si fa con il battuto di cipolla, aglio, sedano, poi olio, sale e pepe. Il giro di boa del pomodoro avviene con pizza e pasta. Nell’Ottocento i medici napoletani parlando del sostentamento dei poveri usano per la prima volta la parola “pizza”: condita con olio, formaggio, origano, aglio, prezzemolo; c’è anche il pomodoro, sebbene non sia l’elemento fondamentale. Lo si usa sopra i maccheroni nel desco del ceto medio. Tutto accade a Napoli. Quando Garibaldi si prepara alla annessione del Regno, si parla dei napoletani come “les macaronis”. L’anno fatidico è il 1839: Ippolito Cavalcanti scrive del segreto per cucinare i vermicelli con pomodoro. L’inchiesta Jacini nel 1885 certifica che è ora il condimento per elezione dei contadini. C’è la pappa con il pomodoro, quella del Giornalino di Gian Burrasca
di Vampa, anno 1907. Pizza e pomodoro sono ora inscindibili: a Re Umberto I viene intitolato un pomodoro dalla forma ovoidale e alla Regina Margherita la pizza.
La storia del suo successo continua con l’industria conserviera che s’afferma in Italia: dal concentrato di pomodoro ai pelati. Negli anni Venti del Novecento il frutto torna là da dove era venuto, sotto forma di prodotto d’esportazione. L’America acquista i pomodori lavati e scottati a macchina e poi sbucciati, inscatolati e sterilizzati. Trionfa il San Marzano, qualità che prende nome dalla cittadina vicino a Salerno. Prospera anche la vendita dei semi. I californiani cominciano a farci una grande concorrenza nel settore. Élite e popolo sono ora affratellati dal pomodoro. Gli spaghetti con il pomodoro diventano nell’immaginario americano, e non solo, il piatto italiano per eccellenza. Nel XX secolo la trasformazione del pomodoro per l’industria conserviera è redditizia e la tecnologia s’impone. Si usano varietà ibride; i nomi: Perfect Peel, Isola, Snob, Hypeel, Italpeel e Calroma. I pelati sono raccolti a mano, e in questo lavoro lo sfruttamento della manodopera degli immigrati è all’ordine del giorno.
Negli ultimi anni le multinazionali dei semi hanno tentato d’imporre il pomodoro transgenico, in cui un gene disattiva l’enzima che fa marcire il frutto. Oggi un sesto degli italiani si fa la conserva in casa, e le salse pronte coprono più di un terzo del mercato. Pur essendo botanicamente un frutto, viene usato come ortaggio. Si è scoperto che contiene licopeni dal potere antiossidante. Perciò tutti a mangiarlo. Persino le foglie, considerate sin qui tossiche, sono usate. Conterrebbero tomatina, che riduce la formazione del colesterolo. Da cibo a farmaco? Il futuro è questo: si ritorna alle origini.
Per saperne di più
David Gentilcore: La purpurea meraviglia (Garzanti); Franco la Cecla La pasta e la pizza (il Mulino); Piero Camporesi, La terra e la luna (Garzanti) 9. Fine
Corriere 10.9.16
«Lì è sepolto l’antico teatro greco»
La svolta archeologica di Agrigento
di Giovanni Taglialavoro

La sua esistenza era un mistero. A ottobre inizieranno gli scavi sull’area individuata
La notizia non è ufficiale, ma ormai ci sarebbero pochi dubbi: il teatro antico, greco-romano, c’è e tra un mese sarà portato alla luce. Almeno questa è la speranza del direttore del Parco archeologico di Agrigento Giuseppe Parello che fatica a tenere la bocca chiusa: «Ne riparliamo il 10 ottobre quando tutta l’area sarà scavata». Al suo nome e a quello dell’ assessore ai Beni culturali Carlo Vermiglio potrebbe essere legata la scoperta archeologica più attesa, più inseguita, quella del teatro che si annuncia grande e in una posizione che più bella non si può. È curioso che il sospirato teatro si faccia scoprire a due passi dagli uffici della sovrintendenza e dal museo: era lì, ma non verso il nord, dove si ostinavano a cercarlo, ma verso sud. Ma si sa, lo scriveva Edgar Alla Poe: se vuoi che nessuno trovi la tua lettera segreta, tienila in bella vista sul tavolo.
«La conca c’è, il primo gradone della cavea gira perfettamente... tutto sembra iscritto in un ordine urbanistico perfetto» ripete Parello. Sembra così avviarsi a conclusione una lunghissima «caccia al tesoro» che ha appassionato e contrapposto gli studiosi e indispettito gli agrigentini: era inaccettabile per loro che l’antica e gloriosa Akragas, definita da Pindaro «la più bella città dei mortali», non avesse avuto un suo teatro.
Contro questo beffardo contrappasso si sono invocate da parte dei cultori di storia patria le innumerevoli testimonianze letterarie che attestano direttamente o indirettamente la presenza di una cavea teatrale nell’antica città greco-romana. Si comincia con Tommaso Fazello che a metà del ‘500 scrive di notare i resti del grande teatro non lontano dalla chiesa di San Nicola. Agli anni Trenta del Novecento Pirro Marconi, finanziato dal capitano inglese in pensione Alexander Hardcastle, scava in una conca poco a nord di san Nicola, ma non trova nulla che somigli ad un teatro.
Da quel momento in poi negli ambienti accademici l’interesse per il ritrovamento del teatro diventa secondario, mentre in quelli semicolti assume i caratteri di una ossessione, di una sfida. A cavallo tra gli Anni 80 e 90 si torna a parlare di teatro e incautamente se ne annuncia l’imminente ritrovamento. Ma gli scavi escludono in quell’area la cavea antica; in compenso scoprono una grande piazza porticata dentro la quale si trova un tempio di età ellenistico-romana.
Niente teatro allora, ma una nuova visione di tutta la zona che sembra profilarsi sempre di più come la vera agorà . Nel frattempo la gestione del luogo passa nelle mani del Parco che dà incarichi di studio e di ricerca al Politecnico di Bari. Un’equipe di studiosi guidati da Monica Liviadotti del Politecnico di Bari e da Luigi Calio dell’Università di Catania con le archeologhe del parco Valentina Caminneci, Maria Concetta Parello e Maria Serena Rizzo cataloga tutte le immagini di questa zona prodotte negli ultimi decenni e le sottopone ad analisi raffinate.
«Durante queste analisi emergono delle anomalie in una particolare zona: anomalie nel gergo dei ricercatori significa che c’è qualcosa sepolta in questa porzione di campagna» racconta il direttore Parello. In particolare le anomalie segnalano la presenza di una struttura semicircolare in un punto molto vicino alla chiesa di san Nicola, direzione sudest. Si decide di fare un piccolo e veloce saggio di scavo per verificare l’effettiva presenza della struttura. Emerge subito quello che potrebbe essere il gradone semicircolare più alto del monumento. Si scava anche in corrispondenza dell’eventuale scena, anche qui si trovano strutture coerenti con la possibilità del teatro. L’età apparente della strutture emerse risalirebbe al periodo ellenistico-romano.
Ma non ci sono i soldi per continuare. Si chiude tutto in attesa di uno scavo totale e definitivo della zona. Si ricomincia il 10 ottobre .
il manifesto 10.9.16
Il ciclope Polifemo e Yuri Gagarin
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari

Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana – l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena – poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena – nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere – bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente. A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti – il terribile peccato della hybris – dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso – l’archetipo della vita indistruttibile – alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene. Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento – cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine – rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile. Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato. Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlano, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
il manifesto 10.9.16
Paura dell’esilio
Verità nascoste. La causa specifica del rigetto dei profughi è il vissuto di sradicamento di cui sono portatori
È un vissuto contagioso perché entra in rapporto con la dimensione psichica di “esilio” presente in ognuno di noi
di Sarantis Thanopulos

La cancelliera Merkel è stata sconfitta nel suo collegio elettorale dalla destra xenofoba. Le masse dei profughi ospitati dalla Germania hanno minato il suo consenso apparso, fino ad oggi, inossidabile. Il primo posto (in arretramento) ottenuto dalla Spd, con Linke e i verdi in netto calo, è magra consolazione. I partiti sconfitti si interrogheranno sulla convenienza di un ripiegamento su posizioni più prudenti. Nel fare questo perderanno l’ennesima occasione di preferire la strategia alla tattica.
La paura dello straniero non è necessariamente rivolta a colui che è di un’etnia diversa, di un’altra lingua. I greci della Turchia, in esodo di massa un secolo fa, hanno trovato nella “madre patria” un’accoglienza ostile. Utilizzati perlopiù nei mestieri più umili, sono stati a lungo confinati in baraccopoli nella periferia delle grandi città. Gli istriani hanno avuto un destino migliore, ma non proprio benevolo e i tedeschi dell’Est stentano ancora a integrarsi nella patria riunita.
Nell’opposizione ai profughi, si possono individuare due cause aspecifiche e una specifica. Le cause aspecifiche sono il sentimento di essere invasi, quando i senza terra arrivano in modo massiccio e rapido, e quello di essere derubati, quando non è possibile stabilire con loro relazioni vere di scambio. Il secondo sentimento è una costruzione puramente psichica: serve per allontanarsi da una posizione desiderante, quando questa comporta un investimento unilaterale, un atto di donazione a “perdere”. Più che la paura di un impoverimento reale pesa la ferita narcisistica. La rinuncia contingente è avvertita come diminuzione di sé permanente (in società opulente che fanno del loro benessere il centro dell’amor proprio o nei strati sociali più deboli).
La causa specifica del rigetto dei profughi è il vissuto di sradicamento di cui sono portatori. È un vissuto contagioso perché entra in rapporto con la dimensione psichica di “esilio” presente in ognuno di noi. Ci costituiamo come soggetti sociali attraverso una sequenza di esili da un’età all’altra, da un contesto affettivo-relazionale a quello successivo (a partire dall’esperienza fondamentale della separazione dalla nostra madre). E ogni nostra relazione con l’altro richiede la possibilità di un reciproco esilio: dell’uno nel modo di essere dell’altro. L’esperienza dell’esiliarsi, condizione necessaria del sogno, del lutto e della relazione erotica, viaggia pure a ritroso nel tempo, nel nostro passato e in quello delle generazioni che ci precedono.
Il sentirsi sradicati priva la dimensione psichica dell’esilio della sua natura isterica, antinomica: essere cittadini della propria terra e, al tempo stesso, abitare come apolidi l’altrove che appare all’orizzonte.
Al cospetto del rifugiato si attiva lo spettro dello spaesamento, sempre presente nel desiderio di esiliarsi, la preoccupazione di perdersi nel proprio sogno senza più ritrovarsi nella realtà. Il rischio è di espellere il migrante che sogna in noi.
Chi governa dovrebbe avere il coraggio di dire ai cittadini che fare spazio, donare in modo unilaterale, non è impoverimento né misericordia/sacrificio. È un investimento per il futuro loro e dei propri figli, crea le condizioni per essere ricambiati, quando lo scambio di doni sarà diventato possibile.
L’unico modo per rendere vivibile un mondo sempre più in movimento e irrequieto, proteggerlo da smottamenti catastrofici. Tuttavia, se non si affronta il nodo di una società sempre più arbitraria e ineguale, chi è disposto a scommettere un solo soldo sull’avvenire del dono unilaterale, sulla bontà dell’incontro fondato sull’esilio?
il manifesto 10.9.16
Una misoginia mai sconfessata
Festivaletteratura . Domani a Mantova Paolo Ercolani, autore di «Contro le donne» presenterà il suo libro insieme a Giuliana Sgrena
di Alessandra Pigliaru

Il termine «pregiudizio» è assai insidioso, sia nell’etimo che nelle sue ricadute teorico-pratiche. Produttore di danni, esclusioni e conseguenti ancorché legittime rivendicazioni, il terreno che precede il giudizio è infatti abbastanza articolato. Altrettanto dicasi a proposito della solida impronta dello stereotipo che, nella sua fissità, riporta all’immobilismo dei ruoli e delle relative sorti che avrebbe l’ardire di prevedere e traghettare. Di questo e molto altro è imbastito l’ultimo volume di Paolo Ercolani, Contro le donne (Marsilio, pp. 318, euro 17,50) che sostanzialmente si attesta nel piano intermedio di quel pensiero critico veicolato attraverso un linguaggio divulgativo, cioè leggibile da tutte e tutti.
Non si tratta quindi di un approfondimento esclusivamente scientifico (e questo è un bene), l’esercizio di Paolo Ercolani è invece rivolto soprattutto a quanti si potranno riconoscere, con un pizzico di divertito sadismo quando non di schizzinosa ritrosia, nelle osservazioni di filosofi del calibro di Aristotele o san Tommaso ma anche Hegel. E ancora più avanti, ça va sans dire, perché l’elenco come è noto a chi ha studiato o letto qualche classico inserito nel canone occidentale, è piuttosto generoso. Il pericolo in agguato è tuttavia insito nelle stesse modalità in cui l’odio maschile nei confronti delle donne ha preso corpo per poi storicizzarsi; perché pesca proprio da un immaginario, anche detto di sottocultura scadente – simbolicamente ed emotivamente – che a ripercorrerne la storia non sposta niente. Certo si può sistemare in un prima e un dopo in linea di una qualche utilità di «censimento critico» ma resta inerte, non scassina niente di quel pregiudizio a cui vorrebbe dare battaglia. A parte il tentativo di riaffermare, ce ne fosse bisogno, un desiderio paritario e automoderato per cui «le donne», bistrattate dalla storia e dall’altro sesso, sono delle svantaggiate da riabilitare e risarcire in tutti i modi possibili. E hanno pari dignità e pari libertà e sono pari in tutto, insomma. Come se cioè all’emancipazione facesse seguito di necessità la libertà ed esistessero «le donne» e «gli uomini», potendone discettare collettivamente quali appartenenti a una specifica categoria o macro-area di riferimento.
Da un punto di vista culturale è tuttavia molto utile sapere, soprattutto per chi non ha frequentato i decenni di produzione critica femminista, lo ha fatto maldestramente o in nome di un saccheggio più o meno consapevole, in che temperie ha attecchito la misoginia. Al centro è infatti quell’odio quasi senza rimedio che andrebbe decostruito rinunciando a una parte dell’esposizione mediatica «esperta» e praticando esperienze relazionali di senso. O decidendo di fare proprio di quelle narrazioni, a partire da sé, il tessuto di una discussione pubblica e quindi politica. Da un punto di vista cronologico, è pur vero che il baratro che si presenta è agghiacciante e il volume di Paolo Ercolani ha il merito di averlo messo in luce, con gli strumenti della collazione testuale e di un tragitto storico-culturale a cui tra l’altro viene allegata una vasta e utile bibliografia – in molti casi riportata all’interno del libro e in altri come sfondo teorico.
L’autore presenterà il suo libro al Festivaletteratura di Mantova domani, insieme a Giuliana Sgrena che parlerà del proprio «Dio odia le donne» (Aula magna dell’Università, ore 17)
il manifesto 10.9.16
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi

Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga.
il manifesto 10.9.16
Alle sorgenti del comunismo
L'eredità del Grande Timoniere . Quarant’anni fa moriva Mao. Come raccontare oggi il paese di allora?
Il Saggiatore ripropone Edgar Snow e il suo «Stella Rossa sulla Cina» per rintracciare la storia in presa diretta
di Simone Pieranni

Il 9 settembre 1976 moriva Mao Zedong. Oggi in Cina la data di morte del Grande Timoniere, così come quella di nascita, il 23 dicembre 1893, passa in sordina o viene per lo più celebrata in quei luoghi ancora agganciati alla sua eredità per questioni puramente nostalgiche (poche ormai) o turistiche (sempre di più). È il caso, ad esempio, di Yan’an divenuta nel tempo una sorta di «Disneyland rossa» o di Shaoshan, il luogo di nascita.
Questo ricordo ondivago di Mao da parte della Cina contemporanea riflette una discussione storica per la letteratura che affronta il Celeste Impero; in molte pubblicazioni che provano a fare luce sul gigante asiatico si presenta spesso la seguente domanda: quanto è rimasto dell’esperienza politica comunista, con Mao a capo, in questa «nuovissima Cina»? Quanto c’è ancora oggi di quel paese protagonista della rivoluzione? E quanto rimane dell’origine antica di alcuni fardelli sociali con cui dovette confrontarsi anche il «contadino» Mao? Le risposte a queste domande riservano il consueto senso di vertigine che si ha nel momento in cui si affrontano questi passaggi nella storiografia cinese. Mao è presente e completamente assente nella Cina di oggi, allo stesso modo. Resistono alcune caratteristiche, interne, sociali, politiche e internazionali, «segnate» dal passaggio del grande leader della rivoluzione, così come tutto è cambiato.
Cospiratori in caverna
La Cina è completamente diversa da allora e nel corso di questi quarant’anni dalla sua morte il feticcio di Mao è stato saccheggiato e svuotato, mentre il mondo circostante è diventato completamente diverso. E uno dei testi con i quali ancora oggi si fanno i conti è il capolavoro di Edgar Snow, Stella Rossa sulla Cina (euro 29) che nel 2016 il Saggiatore ha deciso di ristampare, con l’introduzione della prima edizione del 1965 di Enrica Collotti Pischel e arricchita da una prefazione di Marco Del Corona, già corrispondente del Corriere della Sera a Pechino e grande conoscitore del paese e della storia della Cina.
Il testo di Edgar Snow ha due grandi pregi: è un documento storico incredibile, perché Snow ha potuto vedere da vicino quanto nessuno in quel momento poteva vedere, ovvero l’organizzazione e l’afflato rivoluzionario e nazionalista di Mao e compagni. Una vicinanza non solo fisica che segna nettamente il libro, come ben si sa. La voce di Snow, la sua condivisione dei tempi, delle condizioni di vita e delle parole dei comunisti, rimane un dato emozionante che emerge anche in alcuni passaggi della lettura, come quello relativo all’infanzia e alla «formazione» di Mao, quando Snow scrive che «per molte notti nella caverna di Mao davanti alla tavola coperta dal tappeto rosso, scrissi alla luce delle candele tremolanti, sino a crollare per la stanchezza; sembravamo proprio dei cospiratori».
In secondo luogo, Snow ha partorito un testo di giornalismo narrativo che rappresenta ancora oggi un utilissimo esempio di scrittura reportistica di grande impatto stilistico oltre che di documentazione storica. In alcune passaggi, come ad esempio nel capitolo dedicato alle parti più «private» di Mao, Snow lascia la parola direttamente al protagonista, suggellando un ritmo narrativo a una vicenda la cui rilevanza storica ha finito per schiacciare l’importanza «editoriale» del volume.
Da un punto di vista storico, infatti, il libro restituisce completamente l’idea della complessità del processo messo in atto da Mao e dal partito comunista cinese, rendendo chiare le caratteristiche salienti e «proprie» della rivoluzione comunista. Compresi i miti e lo sciacallaggio che già all’epoca si faceva su Mao (dalle dicerie sul suo carattere, a immaginarie malattie, fino a dati più marginali e di colore, come la presunta perfetta conoscenza del francese, un rumor assurdo per un leader che all’epoca sostanzialmente non era mai uscito dalla Cina, e che, anche in seguito, andrà solo una volta fuori dai confini cinesi per un viaggio in Russia).
Tra campagna e città
Stella Rossa sulla Cina rappresenta ancora oggi uno snodo capace di rappresentare quale sarebbe potuto essere il destino della Cina senza la vittoria dei comunisti. Marco Del Corona nella sua prefazione coglie alcuni punti essenziali dell’opera di Snow. Innanzitutto, la sua strategia nel raccontare quell’ampio materiale raccolto durante la permanenza nelle «caverne» dove i comunisti hanno vissuto il biennio del 1936 e 1937; quello di Snow è un racconto in presa diretta, tra i membri della «banda di tisici» di Mao, come li chiama il giornalista americano.
Ci sono fonti, materiale storico, discussioni, interviste. Snow decide di presentare tutto questo al lettore con uno stile non dissimile da quello delle opere epiche e mitologiche. Non a caso Del Corona cita Il signore degli Anelli e il Flauto Magico e quella parte di letteratura cinese capace di muoversi tra «storia sociale» e la favola ribelle, che esalta proprio il concetto di «ricerca» e «iniziazione». Il giornalista del Corriere ricorda infatti il titolo in cinese del libro: Note a caso di un viaggio in Occidente, molto evocativo rispetto a Viaggio in Occidente, un classico della letteratura cinese.
Tornando alla rilevanza storica dell’opera e alla sua attualità: Snow a un certo punto scrive che «solo per la terra qualsiasi contadino in Cina sarebbe pronto a lottare sino alla morte». Per lui questa è la base della rivoluzione comunista, l’attacco alle città da parte dei contadini, così fomentato da Mao. Ma questa frase di Snow racconta molto anche della Cina di oggi: un paese che è diventato ormai urbano e che vede nella questione della terra uno dei meccanismi capaci di agitare lo spettro di uno scontro di classe e sociale. Il recente censimento in Cina ha suggellato la verità storica attuale: la Cina è un paese urbano.
L’urbanizzazione è proceduta prima a tappe forzate, con le grandi città, poi a tappe intermedie.
Il risultato è stato un’urbanizzazione letale che ha lasciato in campagna solo anziani (vittime di alti tassi di suicidio per solitudine e cattive condizioni economiche) e i cosiddetti «left behind», bambini abbandonati alle cure dei vecchi da parte dei genitori andati in città a cercare lavoro. E ha creato, anzi ha spezzato il sogno di Mao, creando due classi sociali molto ben definite: i cittadini con tutti i diritti, i migranti senza alcun diritto.
Analogamente il partito comunista per portare a compimento l’urbanizzazione ha dovuto affrontare l’amore e l’attaccamento alla terra dell’anima contadina dei cinesi. Degli oltre 180mila incidenti di massa che avvengono ogni anno, molti sono ancora oggi relativi a dinamiche legate all’espropriazione delle terre. Contraddizioni e scontri che neanche Mao fu in grado di redimere completamente.
il manifesto 10.9.16
Per il gigante asiatico si prevede un futuro di autoritarismo soft
di Simone Pieranni

L’approccio di analisi complessiva alla Cina contemporanea ha – nel suo complesso – un elemento di grande fascino nella sua mutevolezza. Le diverse riflessioni effettuate sul gigante asiatico, finiscono per colpire anche grandi protagonisti della letteratura contemporanea riguardo Pechino e il partito comunista.
Così uno degli studiosi della Cina più rilevanti, come David Shambaugh, può scrivere di avere probabilmente sbagliato analisi quando, in un libro precedente, attribuiva determinate caratteristiche all’attuale partito comunista cinese. Implicitamente oggi il dibattito sulla Cina nasce da una prima considerazione: nonostante la tanta pubblicistica che ritiene imminente un collasso di Pechino, questo non accadrà. Ci si domanda quindi, laddove si indaga il meccanismo che permette il funzionamento sociale del paese, quanto il partito comunista arginerà eventuali cambiamenti.
Se Shambaugh nel suo precedente «China’s Communist Party, atrophy and adaptation» riteneva il Pcc piuttosto saldo nella gestione di scenari interni ed esterni costantemente in mutamento, la presidenza di Xi ha spinto Shambaugh a rivedere, in parte, la propria posizione. In «China’s future» (Polity, 19 dollari), volume pubblicato di recente, il docente della Washington University si focalizza sulle necessarie riforme economiche e ritiene che la leadership cinese possa arrivare a nuove decisioni. Quello che secondo il professore è attualmente un «autoritarismo forte» (hard authoritarism), frutto della stretta del 2008 e della nuova leadership, dovrà diventare qualcos’altro. Le strade secondo Shambaugh sono varie: autoritarismo soft, semi democrazia sono due delle possibilità.
E per ogni eventuale «sliding doors» che potrà scegliere la Cina, Shambaugh prova a immaginarne le caratteristiche e le dinamiche socio-politiche. Ne emerge un volume che indaga le attuali problematiche legate a tre fattori, quelli economici, sociali e politici; un’opera che – come accade sempre con Shambaugh – pur avendo tesi chiare e ben delineate, lascia ampio spazio ad alte riflessioni e conclusioni sul futuro di un paese che è ormai centrale nel panorama globalizzato.
La strada che Pechino sceglierà, quand’anche scegliesse di mantenere quella attuale, costituita da un forte controllo su economia, politica e società, avrà in ogni caso un impatto storico. Delinearlo ora, favorisce la possibilità di coglierne già adesso i primi segnali.
Il Sole 10.9.16
La Cina rinuncia a trainare la ripresa globale
Presa d’atto inaspettata in occasione del recente G20: l’economia deve rimettere in ordine i suoi indicatori
di Rita Fatiguso

PECHINO La Cina si è letteralmente aggrappata al G20 che ha da poco chiuso i battenti ad Hangzhou nel tentativo di trovare una soluzione condivisa ai problemi della crescita globale. Una strategia utilissima ai cinesi per poter far fronte ai problemi interni con i quali sono alle prese quotidianamente.
Nel discorso alla Nazione del 5 marzo scorso, il premier Li Keqiang ha fissato, infatti, in un misero 6,5 la linea del Piave della crescita programmata per il 2016. Scendere al di sotto – cosa che molti addetti ai lavori ritengono più che probabile– provocherebbe ulteriori problemi a catena.
Sempre il premier Li Keqiang ha dovuto ammettere alla vigilia del G20 che, per la prima volta, la Cina non si candida a far da traino alla ripresa mondiale. «Dovrete fare a meno di noi»: questa è stata una presa d’atto inaspettata, un passo indietro rispetto a quello che siamo abituati ad aspettarci da Pechino, un mix di forza muscolare, dichiarazioni granitiche, dati poco trasparenti. Anche il G20 di Hangzhou ha portato frutti in settori soprattutto legati all’economia più che alla politica e si comprende il perché: la Cina in questo momento ha bisogno di raddrizzare i suoi fondamentali.
L’economia reale cinese, infatti, è sempre più sotto pressione. Certo, per riequilibrare le posizioni la Cina spinge molto all’esterno, tra Summit internazionali e Go global delle sue aziende, M&A a raffica, si ha l’impressione che la seconda potenza mondiale sia in forma smagliante.
Invece, le prospettive scarse di crescita sono il riflesso di un vero e proprio rallentamento reso ancora più grave dalle riforme che vanno a rilento, il che rende ancora più preoccupante il peso di alcuni problemi destinati a crescere di dimensioni: tra questi, senz’altro, rientra il debito pubblico ormai assestato oltre quota 260% del Pil. La Cina ripete che i margini ci sono per poter reggere il peso di questo debito galoppante, ma la natura dei diversi tipi di debito continua a creare scompensi.
Una misura importante da adottare sarebbe quella di ridefinire i rapporti finanziari tra il centro e le amministrazioni locali (ovvero l’80% delle spese contro il 50% di quota di entrate per i governi locali) per i quali l’anno scorso l’amministrazione finanziaria guidata da Lou Jiwei ha introdotto un tetto di spesa annuale. Ma il piano di Lou Jiwei di riforma fiscal-finanziaria trova sempre nuove difficoltà e anche l’internazionalizzazione del renminbi, fiore all’occhiello del ministero stesso, ha rallentato il passo dopo il crollo della Borsa di un anno fa. C’è chi insinua, addirittura, che si stia verificando uno stop vero e proprio.
La riforma dell’Iva, ormai finalmente partita, ancora non dà frutti e per il resto c’è molta strada da fare per riformare il sistema fiscale.
Nessuno sottovaluta le difficoltà, pratiche, politiche e culturali di introdurre in Paese come la Cina una tassa sulla proprietà, ma il fatto che queste tasse possano essere operative entro il 2020 sembra una pia opinione, come pure le imposte sul reddito.
Le imprese, d’altro canto, e non solo quelle pubbliche, sono oberate dai debiti. In un clima di scarsa liquidità gli swap impazzano, ovvero la banca sostituisce un prestito con un’obbligazione. Il che significa che un prestito di 10 milioni di Rmb è sostituito da un vincolo di finanziamento di 10 milioni di Rmb. Una spirale senza fine che sta ulteriormente vincolando soprattutto le amministrazioni locali. La banca acquista il vincolo, finanzia il Governo provinciale, che dovrebbe consegnarlo alla banca. Molti di questi progetti finiscono per foraggiare forme occulte di finanziamento di infrastrutture, proprio quegli stimoli all’economia che nel 2008 furono adottati sotto la pressione della crisi mondiale per lasciare dietro di sé un mare di problemi. In questo nuovo circolo vizioso anche le banche perdono il margine di interesse - le obbligazioni pagano meno dei prestiti. Così lo swap si trasforma in uno stimolo occulto all’economia. Questo meccanismo sta limitando anche l’operatività del sistema dei bond locali, soggetto invece alle condizioni di mercato. Si dice che in Cina il 76% delle obbligazioni, pari a 5,2 miliardi di yuan, finiscano per finanziare ancora i progetti dei governi locali, molti dei quali campati per aria. Un vero e proprio boomerang per un Paese che ha bisogno, invece, di finanziare in maniera sana e trasparente l’economia reale, cioè le imprese utili alla crescita.
Repubblica 10.9.16
Quanto ci fa paura l’atomica di Kim
di Vittorio Zucconi

CON l’onda sismica di magnitudo 5.3 causata dall’esplosione sotterranea di una bomba atomica da 10 kilotoni, il piccolo principe pazzo Kim Jong-un ha commemorato il quindicesimo anniversario dell’11 settembre e aggiunto un altro ingrediente micidiale alla miscela esplosiva dell’incertezza globale.
Mattone dopo mattone, l’edificio che per mezzo secolo aveva rinchiuso i continenti in stanze separate ma contigue e impedito che terremoti locali divenissero tsunami apocalittici sta franando. Se si alza lo sguardo dai problemi immediati e vicini e si osserva il panorama che il mondo presenta tre lustri dopo quel settembre, si vedono chiaramente le rovine di quello che le generazioni uscite dalla Seconda Guerra Mondiale avevano costruito. Non sempre idealisticamente, ma sempre con un obiettivo pragmatico e ossessivo: la stabilità.
Nuovi attori, nuove forze, nuovi protagonisti hanno fatto irruzione nel campo che due superpotenze opposte ma complementari come Usa e Urss avevano controllato e dominato. Ciascuno nei propri emisferi o continenti, giocando e scambiandosi pedine subalterne sugli scacchieri periferici in Africa, in Asia, in America Latina e Centrale, “aquile” e “orsi” non avevano mai sostanzialmente violato la legge della stabilità e del suo fondamentale corollario: la prevedibilità delle azioni altrui.
Colui che provò a sgarrare, il Kruscev dei missili a Cuba, fu prontamente rimosso.
Quando gli imperi si muovevano per riportare sotto il proprio tetto gli indisciplinati inquilini, l’altro condomino guardava e non interveniva. Washington non mosse dito per fermare l’invasione dei ”Paesi Fratelli”, come Mosca di fronte al rovesciamento del compagno Allende o alle ripetute disfatte degli alleati arabi nelle guerre con Israele, armato e puntellato dal garante americano. Anche in Vietnam, il Cremlino si limitò a dare agli Usa abbastanza corda per impiccarsi da soli.
Fu nel Natale del 1979, dall’insensata e disastrosa invasione sovietica dell’Afghanistan, che la scacchiera fissa del Grande Gioco cominciò a essere ribaltata. Ne sprizzò l’acqua tossica dell’islamismo militare dei mujaheddin finanziati e armati dalla Cia, divenuti poi il nucleo di Al Qaeda e la centrale strategica dei due attacchi alle Torri Gemelle, fallito un primo e mostruosamente riuscito il secondo.
Dunque, l’orrore dell’11 settembre non segnò un “Cambio della Storia”, come si disse di fronte all’enormità dell’offesa e alla scomposta, insensata risposta dell’Amministrazione Bush. Segnalò che la Storia era cambiata. E noi non avevamo voluto vederlo.
Quindici anni dopo, vediamo benissimo un’Unione Europea che nel XXI secolo avrebbe dovuto consolidare l’unificazione politica e finanziaria attorno al nucleo dell’euro, stravolta dall’iniquità sociale crescente, spezzata da forze centrifughe interne e scossa alla radice dalla immensa spallata delle migrazioni di massa che producono il terrore dell’incertezza, del quanti, e per quanto, siano le legioni macilente dei poveri della Terra che accorrono. Nessuno sa davvero che cosa voglia e fino a dove voglia spingersi il nuovo Zar di tutte le Russie tornato all’antica vocazione della marcia verso l’Ovest, quel Putin che sta cercando una formula per giustificare la propria rielezione nel 2018. Nazioni appena sfuggite ai fili spinati del Socialismo Reale alzano tristemente e per disperazione muri e fili spinati.
Si destabilizza l’America a sud della frontiera Usa, nel Messico in balia dei narcos, nel Venezuela alla deriva tragica della dittatura madurista sbriciolata da un’inflazione del 700 per cento all’anno, in quel Brasile che fino a ieri sembrava, con Russia, India e Cina, la sponda di quel sistema dei Paesi Bric, con ambizioni di soppiantare Stati Uniti ed Europa. Sono emerse prepotenti le economie di India e Cina, ma né l’India, ancora gigante economico e nano politico, né la Cina, condannata alla crescita senza sosta e tentata dalla sfida aeronavale alle flotte americane nei mari vicini, offrono prospettive di certezze e di prevedibilità.
Su tutto, si stende l’arco sinistro di una proliferazione nucleare fuori controllo forse arginata in Iran, ma che ha nel Pakistan sempre sull’orlo del fondamentalismo religioso e del doppiogiochismo una potenza già realizzata. E nello stato penitenziario nordcoreano ha il jolly deciso a sparigliare ogni tentativo di equilibrio e di razionalità, chiuso nella propria paranoia.
Non si tratta più di distribuire attestati di “buoni” e di “cattivi”, di “nostri” e di “loro”come nella vecchia partita del bipolarismo globale, che è finito, esattamente come sta finendo nelle democrazie occidentali il bipolarismo partitico. Non c’è più, o è sempre più labile, quel muro ideale, un tempo reale, che ci rendeva più sicuri stando “al di qua”, come disse Enrico Berliguer. Oggi noi, e ancor di più i nostri figli, siamo al di qua come al di là dei muri, a cavallo del tempo imbizzarrito, sentendoci profughi in casa nostra, stranieri in patria, orfani di vecchie certezze e figli di nuove paure.
In questo si annida il timore che in tanti suscita l’uomo che potrebbe assumere la guida dell’ultima democrazia ancora bipolare, gli Stati Uniti: Donald Trump. Non è il suo essere di destra, o xenofobo, o bugiardo, o istrionico a spaventare. È il suo essere imprevedibile e instabile in un mondo che ha disperatamene bisogno di prevedibilità e di stabilità.
Il Sole 10.9.16
L’atomica di Kim
La follia del dittatore, l’ambiguità di Pechino
La Cina condanna il test ma appoggia il regime in chiave anti-Usa
di Ugo Tramballi

Per il tono enfatico e lo sguardo trionfante dell’annunciatrice della tv di stato, sembrava un divertente remake del Daily Show di Jon Stewart. Invece c’era poco da ridere: la settantatreenne Ri Chun-hee, l’inaffondabile annunciatrice di tre Kim (il fondatore Il-sung, il figlio Jong-il e il nipote Jong-un, attuale leader), spiegava al mondo che la lunga marcia nucleare della Corea del Nord è inarrestabile, nonostante le minacce e le sanzioni.
L’ultimo dei cinque test nucleari sotterranei in dieci anni è stato il più potente di tutti: equivalente a una decina di kilotoni. Di gran lunga inferiore ai 15 dell’energia emanata dalla bomba su Hiroshima e nulla rispetto alla capacità distruttiva degli arsenali di oggi. Ma con questo esperimento la Corea del Nord si avvicina sempre di più all’arma assoluta: la bomba capace di stare nella testata di un missile che abbia capacità balistiche. Cioè intercontinentali, cioè senza limiti di gittata: oltre la Corea del Sud, il Giappone, fino alle coste pacifiche degli Stati Uniti.
Questa follia non sarebbe possibile senza l’ambiguità della Cina e quelle che ritiene siano le sue prerogative strategiche. «Forte opposizione» al test nordcoreano, hanno di nuovo ripetuto ieri a Pechino, ed è indubbio che siano preoccupati anche loro. Ma lungo la frontiera tra i due Paesi i commerci non sono stati interrotti, nonostante la Cina avesse aderito alle precedenti sanzioni. E ancora la settimana scorsa al G20 Xi Jinping aveva ripetuto a Barack Obama la sua forte opposizione al nuovo sistema anti-missilistico installato dalla Corea del Sud. L’obiettivo del “Thaad” (Terminal High Altitude Area Defense) è soprattutto creare uno scudo che protegga dalle eventuali tentazioni del giovane Kim. Ma per la Cina è una minaccia alla capacità di deterrenza del suo arsenale nucleare.
Poiché nessuna potenza atomica pensa seriamente di utilizzare le sue testate, da decenni il gioco fra di loro è fondato sulla capacità teorica di distruzione che ognuno possiede: a dispetto dei trattati internazionali contro la proliferazione, un Paese che ha questa capacità conta più di chi non ce l’ha. È per questo che la vuole anche la Corea del Nord, nonostante sia alla fame. In questa logica qualsiasi cosa rappresenti una deterrenza alla capacità distruttiva di un arsenale nazionale – come uno scudo antimissile – è una minaccia quasi simile a un attacco nucleare vero.
La Cina dunque preferisce una Corea del Nord con la bomba, piuttosto che una Corea del Sud capace di vanificare la bomba cinese. Non solo. Se Pyongyang non fosse così militarmente minacciosa, ora anche col nucleare, ci sarebbero più opportunità per far cadere il regime e riunificare la penisola in una Corea democratica guidata da Seul. Un’altra ipotesi che la Cina non tollera: gli Stati Uniti, garanti della sicurezza coreana del Sud, non sarebbero più al 38° parallelo, ma alle frontiere cinesi. Già nel 1950 Mao entrò in guerra accanto a Kim Il-sung per impedire che gli americani raggiungessero le sue frontiere.
Le preoccupazioni geopolitiche di Xi Jinping sono molto simili a quelle di Vladimir Putin da quando la Polonia e le repubbliche baltiche sono membri della Nato e le esercitazioni dell’Alleanza atlantica si fanno a pochi chilometri dai confini russi. Tutto questo ha come fondamento la convinzione cinese di poter controllare il regime coreano del Nord, il giovane Kim e la sua casta militare: potrebbe essere il punto debole del pensiero strategico cinese.
il manifesto 10.9.16
L’insostenibile leggerezza dei sondaggi americani
Presidenziali Usa. Tutto può accadere: una vittoria di Trump così come una vittoria a valanga di Hillary Clinton. Che trascinerebbe con sé un probabile successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo del Congresso
di Guido Moltedo

Qual è il grado di incertezza? «Molto più alto di quanto non si creda», risponde a se stesso Nate Silver, il mago degli algoritmi, sul suo seguitissimo e autorevole blog fivethirtyeight.com. A poco meno di due mesi dall’Election Day, la corsa presidenziale americana è aperta e tiene tutti col fiato sospeso. Soprattutto nel campo clintoniano.
Gli ultimi sondaggi non sono omogenei, sia quelli nazionali sia quelli eseguiti negli Stati in bilico, ma convergono su un dato che va preso sul serio: dopo la convention democratica, che aveva prodotto un tonificante rimbalzo per Hillary, dopo la sequenza di gaffe e passi falsi compiuti da Donald Trump che sembravano averlo messo fuori gioco, dopo un mese d’agosto privo di fatti di rilievo, e quindi un mese perduto per Hillary nella conquista di ulteriori punti di distacco, ecco, dopo tutto questo, che la distanza tra la candidata democratica e il candidato repubblicano si è assottigliata fino a configurare un sostanziale pareggio. Tanto che il magnate newyorkese può ragionevolmente ritenere di avere qualche buona chance di vincerle lui, le presidenziali.Si può dire in un altro modo, ma il senso è lo stesso: Nate Silver osserva che, accanto alle preferenze, c’è una quota di indecisi e di elettori inclini a votare per un terzo candidato, che è intorno al venti per cento, una cifra considerevole (alle scorse elezioni, di questi tempi, era del 5-10 per cento), cioè è così elevata da rendere poco credibili tutti i sondaggi che girano e quindi è tale da creare un paesaggio previsionale di fitta nebbia.
E allora? Tutto può accadere: una vittoria di Trump così come una vittoria a valanga (una landslide) di Hillary Clinton. Che trascinerebbe con sé un probabile successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo del Congresso.
Dunque, l’ultimo tratto di corsa, la sessantina di giorni di qui all’8 novembre, è quello che deciderà le presidenziali, non essendoci un candidato limpidamente favorito o nettamente in testa, come poteva sembrare solo un paio di settimane fa, quando si dava per scontata la vittoria di Hillary.
Che succede adesso? Ci sono i dibattiti in vista. Il 26 settembre e poi il 4 (vi partecipano i due candidati alla vicepresidenza), il 9 e il 19 ottobre. Duelli nei quali può accadere di tutto, considerando con chi dovrà vedersela Hillary, un avversario non solo privo di scrupoli ma del tutto imprevedibile. Come se non bastasse, il recente confronto a distanza condotto da Matt Lauer della Nbc tra i due candidati, sulla politica di difesa e di sicurezza, ha messo in chiaro un punto inquietante per gli strateghi clintoniani. I giornalisti-moderatori che attendono al varco i duellanti potrebbero rivelarsi – se sono come Lauer fino a ieri considerato equilibrato – tanto esigenti e abrasivi con Hillary quanto incredibilmente indulgenti con il suo avversario. Prospettiva fatale per Clinton, che finora, nel complesso, ha potuto contare su un sistema mediatico più simpatizzante con lei che con The Donald. Particolarmente insidioso l’ultimo dei quattro dibattiti, a Las Vegas, moderato da Chris Wallace di Fox News, la rete di Murdoch costituzionalmente, visceralmente anti-clintoniana, anche se non proprio amica di Trump, ma sicuramente interessata alla riconquista repubblicana della Casa Bianca.La lotta, come sempre, si concentrerà negli Stati in bilico e più in particolare nelle contee più in bilico di questi Stati.
Sarà uno scontro durissimo, all’ultimo voto. Nel quale conteranno molto anche i soldi. I fondi per acquistare air time, cioè spazi nelle tv locali. Da questo punto di vista, Hillary è notevolmente più dotata di Trump, potendo disporre di 127 milioni di dollari contro i 18 dell’avversario, già investiti per l’acquisto di spot televisivi fino all’8 novembre in sette cosiddetti battlegrounds, gli Stati «campi di battaglia» decisivi.
Importante, anche, l’impegno dei big dei rispettivi partiti al fianco dei contendenti. Resta evidente il divario tra Hillary – che può contare su pesi massimi come Obama, Sanders, Biden, Bill, Liz Warren e un vice come Tim Kaine – e Trump che continua ad avere un establishment repubblicano apertamente ostile.
Ma forse ancora più determinante potrebbe essere il voto di settori demografici considerati cruciali. Per citarne solo uno, quello cattolico, dove lo scarto tra Hillary e The Donald resta molto ampio a favore della prima e, per quanto si debbano prendere con le pinze questi numeri, la distanza è talmente grande (55/32 secondo il Public Religion Research Institute, 61/32 secondo Washington Post-Abc News) da non lasciar alcun dubbio sul fatto che la «scomunica» di Francesco dello scorso febbraio («una persona che pensa solo a fare muri, e non ponti, non è cristiana») non è rimasta inascoltata in una componente consistente di quell’elettorato bianco che è il principale serbatoio del trumpismo.
Questa però è «logica» politica, proprio quel modo consequenziale di leggere una dinamica elettorale in corso ormai da un anno con le lenti convenzionali, con la stessa ottica, cioè, con cui si leggevano le precedenti competizioni presidenziali statunitensi. Trump ha ampiamente dimostrato finora che connettere tra loro dati e fatti come si è sempre fatto è risultato fuorviante, anzi ha finito per alimentare la sua fortuna, rafforzando enormemente il suo status di outsider in rotta di collisione con quell’establishment che ha nella capitale federale, Washington, il suo detestato emblema e in Hillary Clinton la sua icona, l’outsider che contesta radicalmente – così lui si racconta, e pare che in molti gli credano – lo status quo che l’establishment, nella sue varie articolazioni, è interessato a conservare e preservare, anche per autoperpetuarsi.
Il Sole 10.9.16
Grecia. Ancora nel limbo dopo sette anni di crisi
Visto da Atene. Il governo chiamato ad approvare altre 15 impopolari riforme con una maggioranza di 3 parlamentari mentre i sondaggi vedono Syriza sorpassata da Nea Dimokratia e i rendimenti dei bond all’8%
di Vittorio Da Rold

La Grecia è nel limbo e il premier Alexis Tsipras è sempre più in difficoltà. Dopo una prima tranche di 7,5 miliardi di euro versata in giugno dalla troika, Atene è in attesa, di altri 2,8 miliardi relativi al terzo piano di aiuti di 86 miliardi necessari per pagare i debiti pregressi, stipendi pubblici e pensioni. L'esecutivo di Syriza è in affanno: deve far approvare 15 “azioni prioritarie” tra cui la liberalizzazione del settore energetico, l’indipendenza della Agenzie delle entrate e nuove privatizzazioni, passi delicati per un governo di sinistra e con una maggioranza risicata di soli tre parlamentari. Molti nel partito sono contrari ai provvedimenti, ma i tentativi dell'esecutivo di allargare la maggioranza al centro sono andati a vuoto per il rifiuto dei socialisti del Pasok. Un sondaggio dell’Università di Salonicco è impietoso e parla di una calo al 17,5% rispetto al 35,5% delle ultime elezioni per Syriza, il partito del premier, contro il 25,5% di Nea Dimokratia, il maggior partito di opposizione guidato dal conservatore Kyriakos Mitsotakis, 47 anni, figlio di un ex premier.
Tsipras ha chiesto ai partner Ue un taglio del debito, che viaggia al 180% del Pil, per far ripartire l’economia, ma i tedeschi si oppongono e hanno ottenuto che se ne parlerà solo nel 2018, dopo le elezioni in Germania. Nel frattempo Atene quest’anno andrà in recessione (-0,3%), con una disoccupazione del 25% e i prezzi al consumo sotto zero (-0,3%). A tenere a galla il Paese è il turismo che quest'anno è stato favorito dal tentato colpo di stato in Turchia e dall’instabilità nell'Africa del Nord.
Vassilis Primikiris, della direzione centrale di Unità Popolare, i transfughi radicali di Syriza, parla di forte difficoltà della classe media a pagare l’aumento delle imposte, dei contributi previdenziali e in particolare l’Enfia, l’odiata tassa sugli immobili, prima casa compresa.«Anche i 240 milioni incassati dalla messa all’asta delle licenze tv saranno destinati a pagare i creditori e non ad aiutare chi non ce la fa ad arrivare a fine mese», spiega per sottolineare la contraddizione del circolo vizioso in cui vive il Paese che deve pagare il debito prima di aiutare i cittadini.
I bond decennali greci, esclusi dal piano di acquisti della Bce, viaggiano a un rendimento stellare, pari all’8,2% per i decennali, quasi il doppio dei portoghesi, al 3% per non parlare dei rendimenti negativi dei tedeschi e olandesi. Anche i bond ciprioti, anch’essi esclusi dal Qe della Bce, hanno un rendimento a meno della metà di quelli greci. «La revisione è stata completata, ma Atene è già in affanno con le 15 misure relative al pagamento della sub-tranche», dice Wolfango Piccoli, analista di Teneo Intel. «Nel frattempo, le prospettive per la partecipazione al Qe della Grecia e la riduzione del debito - due catalizzatori positivi – si fanno sempre più remoti con il passare del tempo».
«Le cose stanno cominciando a peggiorare di nuovo per Atene - spiega Gabriel Sterne, responsabile della ricerca macro a Oxford Economics -. I fondi sono in attesa di vedere quando andrà fuori strada e dietro questa attesa si spiega il rendimento dell’8%». Con questi rendimenti l’accesso al mercato è precluso e l’austerità soffoca la ripresa in attesa che la Bce apra un paracadute per i bond greci.
Quanto alle banche sono alle prese con la montagna dei 116 miliardi di Npl, le sofferenze pari a più della metà del Pil greco che nel frattempo, nei sette anni di crisi, si è ridotto del 25 per cento. «La sfida oggi per le banche greche non è di adeguare il capitale, ma una forte volontà di utilizzare riserve e collaterali per ripulire il portafogli degli Npl», ha dichiarato il presidente di Eurobank, Nick Karamouzis. Anche sulle privatizzazioni si segnalano i consueti ritardi. Dopo i cinesi, che hanno preso il Porto del Pireo, c'è un risveglio degli italiani: le Ferrovie dello Stato italiane hanno acquisito recentemente la Trainose, la società che gestisce il trasporto su rotaia in Grecia per 45 milioni di euro nell'ambito di un programma di espansione all'estero. Anche la Snam potrebbe rilevare una quota di minoranza del 17% della Desfa, la società che gestisce la rete di distribuzione del gas in Grecia da Socar, la compagnia petrolifera statale dell'Azerbaijan che deve cedere una quota su richiesta delle autorità Ue della concorrenza e la Terna è interessata all'acquisizione del 24% della società di distribuzione delle rete elettrica ellenica Admie. Germogli di rinnovata intesa tra paesi mediterranei.
Repubblica 10.9.16
Il Sud Europa sfida il rigore tedesco
Tsipras incontra i leader dei Paesi mediterranei e scatena la reazione di Schaeuble: “Niente di intelligente”
Il premier Renzi soddisfatto: “Rappresentiamo la metà della Ue e questo pesa. Anche Hollande è con noi”
L’Eurogruppo richiama Grecia, Spagna e Portogallo: rispettino gli impegni. Berlino blocca la creazione di un bilancio dell’eurozona. Se ne riparlerà dopo il voto
di Andrea Bonanni

BRATISLAVA. Finite le vacanze, ricomincia in Europa l’eterno scontro tra i falchi del rigore e le colombe della spesa. Ma questa volta è uno scontro a distanza, tra i primi ministri dell’aerea mediterranea riuniti ad Atene che chiedono un’Europa meno fiscale e più orientata alla crescita, e i ministri Ecofin riuniti a Bratislava, che esigono misure di austerità da Grecia, Spagna e Portogallo e rinviano ogni discussione sul completamento dell’Unione monetaria «per mancanza di fiducia reciproca».
In Grecia, il “ribelle” Alexis Tsipras è riuscito a spezzare l’isolamento in cui versa da più di un anno convocando una riunione dei Paesi euromediterranei (sprezzantemente definiti “Club Med” dagli altri partner europei) con Hollande, Renzi, i primi ministri di Portogallo, Malta, Cipro e un rappresentante del governo dimissionario spagnolo. L’obiettivo è creare un fronte di sensibilità comune su temi come l’immigrazione e l’allentamento della disciplina di bilancio alla vigilia del vertice informale della Ue che si terrà tra una settimana in Slovacchia.
Ma la reazione dei tedeschi, vero bersaglio dell’operazione, non si fa attendere. «Tsipras ricomincia con i suoi giochetti – tuona il capogruppo del Ppe in Parlamento europeo, Manfred Weber – che Hollande e Renzi si lascino manipolare da lui non è esattamente un segno di responsabilità». Ancora più duro e sprezzante è il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble: «Quella di Atene credevo fosse una riunione di leader di partito e non commenterò su questo. Tanto più che, quando i leader socialisti si incontrano, in genere non viene fuori nulla di molto intelligente».
Nonostante la durezza di Berlino, Matteo Renzi si è detto «molto soddisfatto» dell’incontro di Atene, che per la prima volta vede la piena adesione di Hollande al fronte del Sud. «Tutti insieme, i sei paesi, rappresentiamo più della metà dell’Ue e questo pesa. Stiamo creando movimento e in questo movimento l’Italia è centrale. Prima il vertice di Berlino, poi Ventotene, ore Atene e presto ci rivedremo con gli altri mediterranei a Lisbona. Noi ci siamo sempre». La pressione dei rigoristi non sembra preoccupare troppo il presidente del Consiglio anche per quanto riguarda i conti italiani e la manovra 2017. Il deficit, spiega, passerà dall’attuale 1,8 al 2,3 massimo 2,4% ma non oltre «per non strozzarci col debito: comunque ci sarà un incremento dello 0,5%».
Ma il clima a Bratislava, dove si sono riuniti i ministri finanziari dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, ieri non era alla conciliazione. Proprio dall’Eurogruppo è partito un severo richiamo alla Grecia, «che è in ritardo» sulle riforme promesse per ottenere la prossima tranche del prestito europeo. Ma anche a Spagna e Portogallo, che solo mantenendo gli impegni di rigore assunti potranno evitare il congelamento dei fondi europei, reso inevitabile per lo sforamento del Patto di Stabilità.
La Germania, che ormai è entrata in pre-campagna elettorale, con la Merkel in difficoltà non può mostrare cedimenti. E così il dibattito sul completamento dell’Unione monetaria con la creazione di un bilancio dell’eurozona, che i tedeschi avevano cercato inutilmente di evitare, è stato di fatto bloccato dal «nein» di Berlino. Prima di qualsiasi ulteriore passo avanti, dicono, bisogna ricostituire la fiducia sul pieno rispetto delle regole comuni sui conti pubblici. Se ne riparlerà tra un anno, dopo le elezioni tedesche. E intanto la Commissione presenterà l’ennesimo Libro bianco a primavera.
Corriere 10.9.16
La sfiducia che logora l’Europa
di Danilo Taino

Riunioni separatiste, che dividono. Così spiegavano ieri sera a Berlino la reazione di Wolfgang Schäuble al vertice dei leader euro-mediterranei ospitato da Alexis Tsipras. Non che le parole del ministro tedesco siano sembrate mosse da uno spirito di unità, però: anzi. Tutti sanno che, di fronte alle crisi multiple che deve affrontare, l’Europa farebbe bene a non litigare; ma la sfiducia reciproca è sempre alta, l’anno in arrivo ricco di elezioni eccita gli spiriti e ogni occasione viene colta per scansare i propositi di unità. Nessuno è innocente. Dalla Germania, in quanto Paese leader della Ue, ci si aspettano però nervi saldi e, appunto, leadership.
Nelle settimane scorse, era sembrato che una tregua dialettica, almeno tra i governi dei Paesi maggiori, fosse stata concordata. Soprattutto, si è avuta l’impressione che Berlino avesse deciso di intraprendere una strada di maggiore apertura nel recepire le critiche di chi ritiene che faccia poco per stimolare la propria economia e quindi favorire la ripresa dell’intera eurozona. Tema sfiorato anche da Mario Draghi nella conferenza stampa della Bce di giovedì. Nessuna svolta radicale da parte del governo di Angela Merkel, solo un approccio nei fatti un po’ più attento agli argomenti e alle esigenze degli altri in un passaggio critico per la Ue. Un cambiamento di atteggiamento politico messo in pratica proprio da Schäuble con una serie di misure .
I venti milioni di pensionati tedeschi hanno ricevuto quest’anno il maggiore aumento dell’assegno da 23 anni a questa parte: 4,25% nelle regioni dell’Ovest, 5,95% a Est. Tre giorni fa, presentando il budget 2017 in Parlamento, il ministro delle Finanze di Berlino ha annunciato di volere tagliare le tasse per 15 miliardi dal 2018, non molto e in tempi lunghi ma comunque per lui un cambio di paradigma. In più, nel 2017 Berlino si propone di aumentare gli investimenti in infrastrutture, educazione, trasporti, digitale, sicurezza. In realtà di un modesto 3,7%. Ultimo segno di un certo movimento via dall’austerità, i salari: il governo ha aumentato, per il 2017, il salario minimo del 4%, più o meno in linea con i contrattati siglati da numerose categorie di lavoratori. Passi piccoli. È che Merkel e Schäuble sanno di dovere fare qualcosa ma non vogliono rinunciare al cosiddetto Schwarze Null , il niente deficit pubblico in essere dal 2014 e che hanno garantito continuerà almeno fino al 2020.
Troppo poco per beneficiare significativamente il resto delle economie dell’eurozona, dicono molti commentatori. In effetti, niente di storico, Schäuble potrebbe fare di più. Quando Draghi dice che “la Germania ha spazio fiscale” intende che il contributo tedesco non solo alla crescita ma anche alla rimozione delle cause che tengono bassa l’inflazione nell’area euro ha i margini per essere più significativo: renderebbe maggiormente efficace la politica monetaria e contribuirebbe a fare finire prima la situazione di tassi d’interesse a zero o negativi. Però è un cambiamento di clima. La scaramuccia di ieri lo potrebbe oscurare.
In verità, Schäuble non ha messo da parte le sue idee su come si devono gestire gli affari economici in Germania e in Europa. E’ però prima di tutto un politico e sa che non può stare del tutto fermo su posizioni che, se non mostra un po’ di flessibilità, creeranno scontento in casa e divisioni tra i governi. Il suo intervento di luglio, del tutto inaspettato, affinché la Commissione europea non sanzionasse Spagna e Portogallo per non avere corretto i loro deficit eccessivi è stato letto a Bruxelles e altrove come un ammorbidimento dell’approccio tedesco di fronte alle sfide che la Ue deve affrontare e che impongono zero litigi e massima unità. Lo stesso ci si aspetta che sia quest’autunno l’atteggiamento di Berlino nei confronti dell’Italia e delle sue esigenze di flessibilità nei conti pubblici (entro certi limiti). La reazione di Schäuble e di altri politici tedeschi a quello che considerano lo “sgarbo di Atene” racconta però che tenere assieme un’Europa così divisa sarà un’impresa colossale. Frau Merkel prende nota.
La Stampa 10.9.16
Scoppia la lite europea sull’austerity
Berlino: irresponsabile il vertice di Atene con Italia e Francia. Renzi: soffrono il nostro attivismo
Il puzzle che paralizza l’Europa
di Marta Dassù

Non è vita facile per economisti e politologi: è arduo interpretare e ancora di più prevedere. Dalla teoria (fallita) sul 1989 come «fine della storia», alle premesse (non capite) della crisi finanziaria del 2008, fino ai sondaggi (sbagliati) sul referendum britannico del giugno scorso, la «scienza triste» e le scienze sociali hanno compiuto una serie di errori. Ma esistono anche le tesi che reggono alla prova dei fatti e che andrebbero utilizzate di più per analizzare la crisi europea.
È il caso, mi pare, del «trilemma» di Dani Rodrik: globalizzazione economica, democrazia politica e Stato-nazione sono fra loro inconciliabili. Allo stato attuale - ha scritto cinque anni fa l’economista turco/americano - non è possibile creare un sistema stabile che riesca a tenere insieme i tre elementi dell’equazione: l’Europa è in crisi, molto semplicemente, perché non è riuscita in questo compito storico. La realtà è che possiamo rendere compatibili solo due di queste tre cose: la democrazia è compatibile con la sovranità nazionale solo limitando la globalizzazione degli ultimi decenni. All’inverso, per avere insieme democrazia e globalizzazione, è la sovranità nazionale che deve essere limitata. In effetti, si tratta di compiere una scelta, con i relativi costi e benefici.
Ma poiché una scelta vera non viene compiuta sul tavolo europeo, sono le singole democrazie nazionali a entrare in sofferenza, insieme all’Ue.
Lo conferma il caso della Spagna. Il Paese è rimasto senza un potere esecutivo centrale dall’inizio dell’anno e dopo un paio di elezioni mancano ancora le condizioni per formare un governo. Lo stallo politico non ha d’altra parte danneggiato l’economia. Con il pilota-automatico innestato, si prevede che la Spagna (dove peraltro la disoccupazione resta attorno al 20%) cresca del 3% entro fine anno. E’ la prova che la politica non serve, hanno osservato alcuni; anzi che fa danni, hanno aggiunto con soddisfazione altri - con una sorta di nostalgia «anarco-capitalista». La realtà è diversa: questa «ripresa-senza politica» è stata innescata dalle riforme economiche precedenti del governo Rajoy e mostra già la sua preoccupante fragilità. Il rischio è che fra credito facile del sistema bancario e aumento del deficit, la Spagna torni abbastanza rapidamente in condizioni critiche. Entro l’inizio del prossimo anno il Paese dovrà presentare una Legge di bilancio che tenga conto dei vincoli europei, per flessibili che siano. Sarà possibile, come evidente, solo risolvendo questo vero e proprio stallo del sistema politico. Applicando il «trilemma» di Rodrik al caso della Spagna, è la funzionalità della democrazia a soffrire. A differenza che nel caso della Germania, i partiti tradizionali - messi di fronte a nuovi attori politici (Ciudadanos, Podemos) - non riescono facilmente a piegarsi a logiche di «grande coalizione». E così la vecchia linea di divisione della politica novecentesca (destra/sinistra) si combina alla nuova frattura (sistema e anti-sistema). Si può aggiungere che la debolezza del governo centrale favorisce le spinte centrifughe interne - in questo caso il secessionismo catalano.
La Brexit è un esempio diverso: qui il tentativo di sfuggire alla camicia di forza del «trilemma» è attraverso il recupero - per vero o finto che sia - della piena sovranità nazionale. L’immigrazione ha spinto in modo potente in questa direzione, fuori dall’Ue e fino alla decisione del Muro di Calais. L’economia del Paese, e soprattutto il cuore finanziario della City di Londra, ha retto il primo impatto di un’uscita annunciata e che per ora non c’è. E’ un nuovo caso di previsioni sbagliate. Ma solo l’esito dei futuri negoziati con l’Unione europea - il che significa: la posizione finale della Uk rispetto al mercato unico, con tutto il suo peso per l’economia britannica - indicherà il «prezzo» del sovranismo all’inglese. Anche per il Regno Unito, come per la Spagna, esiste un rischio di frammentazione interna. Il che conduce a una conclusione: la crisi dell’Ue potrebbe produrre non solo la «rinazionalizzazione» già in atto delle dinamiche europee ma la disgregazione di una parte degli Stati nazionali esistenti. Stati più deboli nell’illusione di essere più forti. E che comunque non riescono a condividere la sovranità nazionale in modo efficiente - nell’interesse, cioè, della sicurezza dei cittadini europei rispetto ai rischi di oggi (disoccupazione, migrazioni, terrorismo, ambiente, crisi ai confini etc).
Il puzzle di Rodrik non ha certo soluzioni semplici. L’alternativa, per i governi europei, è fra maggiore integrazione politica o riduzione del tasso di integrazione economica. Il primo passo appare arduo nelle condizioni attuali, dominate dai cicli elettorali; ma sarebbe lungimirante. Il secondo è una tentazione ad alto rischio, che si tratti di euro a geometrie variabili o di pulsioni protezionistiche - confermate dalle posizioni tedesche e francesi contro il Ttip, il Trattato commerciale e sugli investimenti con gli Stati Uniti, che appare peraltro morto e sepolto anche nella campagna elettorale americana. Nel dopo-Brexit e con una nuova amministrazione a Washington che sarà in ogni caso meno proiettata sull’Atlantico, i pericoli di tensioni protezionistiche aumenteranno.
Se un aumento di integrazione politica è difficilmente pensabile e una riduzione di quella economica è un azzardo, il rischio vero è che i governi europei continuino a non decidere affatto. A rinviare una scelta essenziale. Nell’età dell’insicurezza e delle previsioni impossibili, l’unica certezza è che si tratta di un errore. Se non sceglieremo nessuna di queste due soluzioni, il rischio diventerà esistenziale: la crisi delle nostre democrazie.
La Stampa 10.9.16
Massimo Bray: “Serve una regia unica per coordinare i diversi Saloni”
Ecco la proposta del presidente in pectore della kermesse torinese
intervista di Guido Boffo

Cita il discorso di Malala all’Onu: «Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo». Forse anche un salone del libro, due in compenso rischiano di complicare le cose. Massimo Bray, presidente in pectore della fiera torinese, ha un’idea per evitare la guerra tra Torino e Milano. La esporrà lunedì nell’incontro a Roma con i ministri Franceschini e Giannini. «Creiamo una Fondazione mista, pubblico e privato, con una governance condivisa da tutti, che organizzi una serie di appuntamenti non ravvicinati. Ci sarà la fiera di Torino e quelle di Milano, Bologna, Palermo, ognuna con la propria specializzazione, ma distanti, così nessuna uccide l’altra».
Una regia unica?
«Esattamente. Una regia che coordini progetti, sostenuti anche dai ministri Franceschini e Giannini, legati alla promozione della lettura nelle città e nelle scuole. Cito Cesare Segre: “Mi auguro di poter comunicare e dialogare grazie ai libri per riuscire a spiegare ai nostri figli cos’è questa contemporaneità”».
E se il suo nome non trovasse consenso unanime?
«Farei un passo indietro subito, anche lunedì davanti a Franceschini, se questo servisse a mettere tutti d’accordo. Io ho un lavoro alla Treccani che mi rende felice».
Torino in primavera e Milano in autunno?
«È una possibilità».
E se chiedessero a Torino di rinunciare a maggio?
«Il Salone è sempre stato in quel periodo. Sarebbe più facile trovare una collocazione temporale diversa per un evento che nasca ex novo».
Gli editori indipendenti sono una base sufficiente per ripartire dopo la fuga dell’Aie?
«Mi hanno davvero colpito la loro passione, la partecipazione, la difesa di un mondo culturale. Ho letto Antonio Sellerio quando dice che “tutta la nostra famiglia ha un rapporto sentimentale con il Salone di Torino”. Ed è proprio questo il punto, c’è una storia consolidata lunga 29 anni, e ringrazio la sindaca Appendino e il presidente Chiamparino per aver pensato a me come possibile garante per proseguirla».
Una storia con qualche ombra.
«I problemi amministrativi vanno risolti ma non possono diventare il pretesto per giustificare scelte aziendaliste a scapito del valore culturale».
Motta, presidente dell’Aie, continua a rivendicare la legittimità di una scelta imprenditoriale.
«Ma già il titolo “Fabbrica del libro” mi lascia perplesso. Una casa editrice è un laboratorio in cui si confrontano le idee. Stefano Mauri ha ragione a dire che un editore deve difendere il conto economico. Io aggiungo i contenuti; i presidi territoriali del sapere, che sono le biblioteche e le scuole; la missione di conquistare le nuove generazioni; il rapporto tra libro di carta e libro digitale. Questo eccesso di aziendalismo ha fatto solo del male al nostro Paese».
Intanto Milano fissa le date.
«Sì, e dispiace, perché non hanno aspettato l’incontro di lunedì ed è un modo per metterci di fronte a un fatto compiuto».
Non teme di restare alla guida di una Salone di serie B?
«Credo che 29 anni di storia ci mettano al riparo da questo rischio. Amo moltissimo Torino, ho percepito l’orgoglio della città del sapere».
Quindi Bray sarà presidente?
«Non posso dirlo con certezza, perché prima bisogna concludere un percorso. Se ci riusciremo, accetterò con entusiasmo».
Quale percorso?
«L’approvazione del nuovo statuto, l’individuazione di un segretario generale con una gara pubblica, la nomina di un direttore editoriale».
Ha già il nome?
«In ogni caso non glielo direi. Immagino un “direttore di orchestra” che valorizzi le varie esperienze cittadine, dal cinema alla musica, e quelle delle regioni italiane. Non sarà il Salone di un uomo o una donna soli al comando, per dire il Salone di Elena Ferrante, che peraltro sarebbe un’ottima direttrice».
Per Feltrinelli siete in ritardo.
«Ci siamo visti tre volte in agosto. Non mi sembra ci siano ritardi».
Milano corre.
«Concordo con Renzi: l’Italia, prima o poi, deve imparare a fare sistema. Abbiamo un problema grosso: meno di metà della popolazione legge un solo libro all’anno. E per risolvere questo problema la strada non è far morire il Salone di Torino».
Repubblica 10.9.16
Quando il gioco non vale la candela
di Tomaso Montanari

Non esistono dogmi: tutto si può spostare, perfino le architetture possono essere smontate e impacchettate. Il punto è il rapporto rischi-benefici: ogni opera è un pezzo unico, e ogni spostamento comporta un rischio che non può essere portato a zero. Dunque si tratta di decidere, volta per volta, se vale la pena di correre quel rischio.
Per deciderlo occorre valutare innanzitutto la serietà e l’importanza della mostra: le opere chiave di Raffaello e Michelangelo vengono ormai chieste in prestito molte volte all’anno, e la selezione diventa vitale, sia per proteggere le opere, che per proteggere chi vede quel museo magari una volta nella vita, e ha diritto di trovarci le opere che ne formano l’identità. Si potrebbe, certo, valutare il rischio di prestare i ritratti dei coniugi Doni ad una grande mostra di Raffaello creata in anni di ricerca, capace di innovare in modo radicale gli studi e di aumentare in misura davvero significativa la conoscenza dell’artista presso il grande pubblico: ma la mostra di Mosca è lontanissima da questo standard. È stata voluta dalla politica e improvvisata dalla diplomazia: il tutto in un lasso di tre mesi.
Un bel libro recente racconta in dettaglio la stagione in cui questo tipo di mostre politiche è stato inventato: era il Fascismo, e quel libro si intitola (guarda un po’) Raffaello on the road. Per promuovere quella del 1930 a Londra, gremita di incredibili capolavori che solo per un soffio non affondarono nella Manica, Mussolini scrisse che la mostra era «un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italiana ». Oggi naturalmente non si pensa che le opere d’arte siano ambasciatori della «razza italiana»: ma si dice apertamente che esse devono promuovere il made in Italy, o il brand Italia. Ma sappiamo che la cultura non può e non deve essere usata così. Oggi pensiamo che debbano essere i musei e i ricercatori a concepire e strutturare le mostre: per produrre conoscenza, e non propaganda, o marketing. E infatti i governi francesi, tedeschi o americani si guardano bene dall’usare il loro patrimonio culturale in questo modo, e sono attentissimi a rispettare l’autonomia scientifica dei musei: unica garanzia della libertà di chi visita le mostre.
Invece, in Italia, la recente riforma dei musei ha dato troppo potere alla politica: se il direttore degli Uffizi commette l’errore fatale di mettere a rischio opere come queste, contro il parere esplicito dell’Opificio delle Pietre Dure, è perché questa mostra è frutto di un accordo firmato dallo stesso governo che l’ha nominato, e che potrebbe non confermarlo a fine mandato. È un gioco di ambizione e di potere fatto sulla pelle di Raffaello, e dei cittadini a cui quei quadri appartengono. È una brutta, vecchia storia: tutto il contrario di una modernizzazione.