sabato 8 ottobre 2016

Avvenire 06.10.16
Haydn, l’inno che interpreta i tedeschi
di Marco Morosini


La melodia “Poco adagio. Cantabile” del quartetto opera 76 di Franz Joseph Haydn, è una delle più serene che conosca. Non riesco a smettere di riascoltarla nelle tante versioni disponibili in YouTube. È con questo quartetto che la Deutschlandfunk, la radio tedesca, mi ha svegliato all’alba del 3 ottobre, festa nazionale per il “Giorno dell’unità tedesca”. Sono a Vienna, a due passi da dove Haydn scrisse la melodia 220 anni fa, e mi chiedo: come hanno potuto queste note celebrare per un decennio trionfi guerrieri nutriti di decine di milioni di cadaveri? Già perché il quartetto accompagna ininterrottamente dal 1922 il testo dell’inno nazionale tedesco”Das Lied der Deutschen” (La canzone dei tedeschi). «Questa lirica – scrisse Jost Hermand nel 1979 – ha non solo un’intenzione, ma anche una ricezione. E questa è chiaramente negativa. Dal 1914 è stata talmente caricata e esaltata con significati sbagliati, che le sue origini sono diventate sempre meno importanti». Il germanista si riferiva probabilmente alle parole. E le note? Si può argomentare verbalmente contro le parole. Ma si può argomentare musicalmente contro le note: o meglio, contro la loro percezione storica? Ci provò Karlheinz Stockhausen con la composizione Hymnen del 1966-1967, in cui la dolce melodia di Haydn è storpiata da un disco che balbetta, ed è sputacchiata come da una mitraglia. Eppure neanche un tale sfregio riesce a distogliermi dall’ascoltare numerose volte – proprio il 3 ottobre – queste note così pure. Può una musica implicare una percezione assoluta, direttamente dall’ultraumano, come forse pensava Pitagora, e come pensa chi dà una risposta metafisica all’eterna questione Warum ist Musik so schön? (perché la musica è così bella?). Dalla fine del ’700 la melodia del “Poco adagio. Cantabile” di Haydn musicò più di sessata testi. Haydn le fu così affezionato da suonarla ogni giorno al pianoforte. La prese da una canzone d’amore croata, e la usò in un’opera, una messa e un concerto. Le sue note echeggiavano anche in Telemann e Mozart. Insomma, prima del ’900 le note di questo “Poco adagio. Cantabile” dilagavano in Europa quasi nell’aria. Dal 1941 dilagarono in Europa nel solco dei carri armati e delle bombe del Terzo Reich. E, ascoltandole, mi chiedo come ciò fu possibile. Nel 1797 Haydn approntò la melodia per il Kaiserlied, un regalo di compleanno all’Imperatore: «Dio conservi l’imperatore Francesco, il nostro buon imperatore Francesco». Inno imperiale in Austria, quella musica divenne canzone popolare nella Germania prerivoluzionaria. Nel 1841 August Heinrich Hoffmann von Fallerleben, docente germanista, patriota, autore di canzoni per bambini e per escursionisti, la prese tale e quale per musicare la sua canzone Das Lied der Deutschen(La canzone dei tedeschi. Nota bene: “dei tedeschi”, non “della Germania”). Hoffman l’aveva concepita come canto patriottico di libagione (Trinklied), in cui vantava, nella seconda di tre strofe, anche le donne, il vino e il cantare dei tedeschi. Nel 1922 tutte e tre le strofe divennero inno nazionale tedesco, proclamato dal presidente della Repubblica di Weimar, il socialdemocratico Friedrich Ebert. Nel 1841 la prima strofa di Hoffmann «Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt» (Germania, Germania sopra a tutto, sopra a tutto nel mondo) esprimeva un anelito risorgimentale, teso all’unificazione dei popoli di lingua tedesca, allora divisi in una quarantina di principati. Fu l’unica strofa adottata come inno dalla Germania nazista, che l’interpretò come istigazione a dominare il mondo. La terza strofa «Einigkeit und Recht und Freiheit, für das deutsche Vaterland!» (Unità, diritto e libertà, per la patria tedesca!) è stata invece l’unica adottata come inno dalla Germania occidentale nel 1952 e dalla Germania unificata dal 1990. Ma occorre sapere tutto questo? E si può desiderare di non saperlo? In una mattina di primo autunno sono le note – non le parole – che non riescono a uscire dalle mie orecchie. «Poco Adagio. Cantabile», una melodia-teflon, buona per tutte le stagioni? Da cosa dipende la sua fortuna intangibile? Dalla forza della musica? O dalla debolezza degli uomini? Cerco ancora una risposta.
Corriere 8.10.16
I castighi non servono Un manuale spiega perché
di Marta Ghezzi

L’idea che educare significhi controllare e correggere «porta alla ricerca continua di sbagli e colpe. I figli sono immaturi, non colpevoli» Le riflessioni di un pedagogo controcorrente
Luca, 3 anni. È a tavola con mamma e papà. Guarda il piatto di minestra e prende tempo. Il cucchiaio gira con lentezza fra i pezzi di verdura. Due minuti, tre minuti e la bocca non si apre. «Dai assaggia», incoraggia la mamma. Quei pezzi di verdura che galleggiano in superficie Luca li sente già in bocca. Una sensazione sgradevole. Nooooo. La rabbia esplode, tira la tovaglia e rovescia il piatto. Brodo ovunque, anche sui pantaloni di papà.
Alice, 7 anni. È davanti alla tv, rapita dalle ultime immagini di un cartone. Conosce la regola: si guarda fino alla fine, poi si spegne. La madre non è vicina, non vede. «Per favore ancora uno, l’ultimo, l’ultimissimo», grida Alice. Nessuna risposta. La bambina allora fa zapping fra i canali finché non trova un cartone appena iniziato. Arriva in sala la mamma. «Non è quello di prima». Alice nega. La madre scoppia, «è la tua solita bugia, non mi posso mai fidare».
Daniele Novara ha ascoltato migliaia di storie come queste. Apparentemente diverse. Per età, situazioni e, se si riferiscono ad adolescenti, per il contenuto trasgressivo. Lui le vede tutte uguali. E spiazza i genitori commentando sempre nello stesso modo: «Punire? Non serve». Non lascia aperto alcuno spiraglio: «Anche sgridare, urlare, e i castighi simbolici sono inutili. Sono elementi estranei all’educazione e non favoriscono crescita, responsabilizzazione, autonomia».
Novara è un pedagogo piacentino. Docente alla Cattolica di Milano, counselor, autore di bestseller. Da un paio di anni gira l’Italia con il format Scuola Genitori, centrato sull’educazione. Esce in questi giorni il suo libro «Punire non serve a nulla. Educare i figli con efficacia evitando le trappole emotive» (Bur Rizzoli). Un manuale che spiega come fare a meno dei castighi.
Il pedagogista affronta quello che considera il grande equivoco: l’idea che educare significhi controllare e correggere. «Un’ottica che porta alla ricerca continua di sbagli e colpe. Io dico: i figli sono immaturi, non colpevoli». Cita le neuroscienze. Le ultime ricerche confermano che la piena maturità cerebrale è raggiunta dopo i 20 anni. «Sbagliare, non riuscire a gestire le emozioni, pensare e sentire in modo diverso, è un processo naturale. Accettiamolo e smettiamo di voler crescere figli perfetti».
Riavvolgiamo il nastro. Il bambino che a tre anni rovescia il piatto sulla tavola. «È in una fase cognitiva acerba. Non sa come esprimersi, ma sa cosa ha combinato ed è mortificato. Invece dell’urlo, si ribadisce la regola positiva che a tavola si sta tutti insieme. Senza insistere sul resto. Non c’è bisogno del terrore. Non è pericoloso, il bambino imparerà».
Tutto qui? No certo. Per trasformare le situazioni di stress emotivo e di confusione nella gestione di bambini e ragazzi, ci vuole organizzazione. Gioco di squadra fra i genitori (più importante di mille parole con i figli). Adeguarsi all’età dei figli (la consapevolezza delle caratteristiche di ogni età porta a regole giuste e richieste pertinenti). Chiarezza delle regole (creano fiducia e stabilità). Stabilire la giusta distanza relazionale (per mantenere il ruolo di educatore).
Novara non ha paura di andare controcorrente. «La buona educazione è un fatto di organizzazione, non di empatia e di chiacchierate». Ma come, il genitore «parlante» non è la conquista delle nuove generazioni? Scuote la testa: «Sono le tesi della psicologia britannica. Utili a loro che di natura sono freddi e compassati. Noi siamo diversi, se potessimo esportare le emozioni, avremmo un Pil alle stelle. Non incalzate le confidenze dei figli, lasciate che se le scambino fra coetanei».
Corriere 8.10.16
Riconquistare credibilità grazie alla ricerca
di Andrea Sironi
Rettore Università Bocconi

Caro direttore, nelle discussioni che caratterizzano l’esame dei problemi economici e sociali che gravano sul nostro Paese e sull’Unione Europea — dall’immigrazione alle crisi bancarie, dagli strumenti di stimolo alla crescita al processo di integrazione — colpisce sia l’assenza di analisi rigorose a fondamento delle tesi delle diverse parti che la scarsa credibilità di cui godono le leadership intellettuali e le classi dirigenti in generale. Un esempio fra tutti è rappresentato dalla Brexit, avversata da economisti, capi di impresa e più in generale dalle classi più istruite, ma alla fine prevalsa nelle urne. Una perdita di credibilità che in parte riflette il divario crescente fra coloro che hanno beneficiato della globalizzazione e coloro i quali ne sono risultati esclusi o penalizzati.
Per le università questo rappresenta una sfida che spinge a intensificare gli sforzi in tre principali aree. La prima è rappresentata dalla mobilità sociale. La crescente disuguaglianza economica è uno dei fattori alla base delle tensioni che hanno accompagnato il processo di globalizzazione e che oggi minano la credibilità delle classi dirigenti.
L’ultimo rapporto dell’Ocse sull’istruzione nel mondo mostra come i giovani laureati conseguano tassi di occupazione e redditi significativamente più elevati di quelli con il solo diploma di istruzione secondaria. Favorire l’accesso all’istruzione universitaria per i meno abbienti, investendo in misura maggiore in borse di studio e agevolazioni finanziarie agli studenti più bisognosi, rappresenta dunque una priorità, specie in un Paese come il nostro, caratterizzato da una bassa mobilità sociale e da una percentuale limitata di giovani che conseguono una laurea.
La seconda area è rappresentata dall’apertura internazionale. La possibilità per i giovani di trascorrere un periodo di studio, di ricerca o di lavoro in un altro Paese è uno strumento cruciale per accrescere la comprensione e il rispetto reciproco fra culture, lingue, religioni differenti e al contempo per apprezzare queste differenze. In Europa, lo strumento di integrazione forse più potente dopo il mercato unico e la moneta unica è stato il progetto Erasmus, che ha consentito a milioni di giovani di trascorrere una parte della propria istruzione universitaria in un altro Paese dell’Unione.
Infine, la terza area è quella della ricerca. Questo è particolarmente vero per gli atenei, come quello che ho avuto l’onore e il piacere di guidare negli ultimi quattro anni, impegnati nelle discipline dell’economia, del diritto, del management e delle scienze sociali in generale. Offrire ai policy maker indicazioni per la gestione dei problemi economici e sociali con cui si confrontano che siano fondate su analisi teoriche ed empiriche rigorose e robuste rappresenta un compito prioritario per un’università che intenda contribuire al progresso della società. Come noto, in Italia gli investimenti in ricerca sono ancora sottodimensionati: la quota di Pil destinata alla ricerca e sviluppo non è aumentata nell’ultimo quadriennio, confermandosi su valori molto inferiori alla media dei principali Paesi Ocse e dell’Unione europea. Con l’1,27% del Pil, l’Italia si colloca infatti al diciottesimo posto tra i Paesi Ocse e ancora lontana sia dalla media Ocse (2,35%), sia da quella dell’Unione europea (2,06% per Ue 15 e 1,92% per Ue 28).
Anche la capacità di accedere ai finanziamenti europei è limitata. Permane una significativa distanza tra la quota dell’Italia come contributo nazionale alla dotazione finanziaria del programma quadro (12,5%) e i finanziamenti ottenuti (8,1% del totale erogato). Ciò è particolarmente penalizzante, se si pensa che a livello nazionale il Fondo Ordinario per il finanziamento degli enti e istituzioni di ricerca del Miur disponeva nel 2015 di dotazioni analoghe a quelle del 2004. A fronte di questa situazione, i ricercatori italiani confermano buoni livelli di produttività scientifica e di impatto. Il nostro Paese risulta infatti caratterizzato da elevati valori di produttività se si rapporta la produzione scientifica sia alla spesa in ricerca destinata al settore pubblico e all’istruzione terziaria, sia al numero di ricercatori attivi. Rispetto a questi ultimi, la produttività italiana si attesta sul livello della Francia e superiore a quello della Germania. Anche l’impatto della produzione italiana è superiore alla media dell’Unione europea e maggiore di Francia e Germania, collocandosi invece, in Europa, al di sotto di Svizzera, Olanda, Svezia e Regno Unito.
Questa combinazione di investimenti in ricerca sottodimensionati e di elevata produttività scientifica dei ricercatori italiani si riflette inevitabilmente nel noto fenomeno della fuga dei cervelli, ossia il saldo strutturalmente negativo tra ricercatori che lasciano il Paese e ricercatori attratti dall’estero. Incrociando i flussi bilaterali tra Italia e, rispettivamente, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Spagna si evidenzia, nel periodo dal 1996 al 2013, un saldo netto negativo di oltre cinquemila scienziati. Un trend che ci impoverisce e mina le nostre capacità di progresso futuro .
Il Sole 8.10.16
Homo Sapiens, una mostra per raccontare «l’Uomo»
di Stefano Biolchini

Quando perfino Lucy, vera star incontrastata della paleoantropologia non smette di riservar sorprese a quattro decadi dalla sua scoperta in Etiopia, l’avventura è una certezza per chi anche solo si accosti alla narrazione lungo il viaggio più lungo: quello dell’umanità. «Solo oggi sappiamo che Lucy morì per una caduta, forse da un albero» dice Stefano Papi, coordinatore scientifico della mostra Homo Sapiens, le nuove storie dell'evoluzione umana, al Mudec Museo delle culture fino al 26 febbraio 2017.
“Luce si farà sull'uomo e la sua storia” scriveva Charles Darwin nell'Origine della Specie. E in principio fu l'Africa. È questa la risposta prima alla domanda sul da dove veniamo. Poi fondamentali nella narrazione del nostro passato furono gli adattamenti e le migrazioni e con esse il sovrapporsi sempre più ricco di esperienze e prodotti culturali, di differenziazioni genetiche e linguistiche e di sovrastrutture sociali.
Di tutto questo e molto di più si compone il lunghissimo e planetario viaggio dell'umanita, che la paleoantropologia indaga a beneficio dei sette miliardi di uomini, singola specie di primate bipede che popola il nostro pianeta.
Tra le novità della mostra Homo Sapiens gli straordinari chopper israeliani, i primi strumenti litici rinvenuti fuori dal contienete africano e l'homo di Naledi, ritrovato in una grotta del Sudafrica.
Perché poi, appena duecentomila anni fa Homo sapiens ha iniziato, da una piccola valle dell'attuale Etiopia, il variegato percorso che lo ha portato fin alle vette di dominio della Terra, disseminando lungo il suo cammino i germi da cui sono scaturite le più diverse culture e realtà di popoli. Ma quel che forse più importa, come ricorda il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza è che «gli uomini sono tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle, dalle dislocazioni territoriali, dalle ideologie, dalle credenze religiose».
La mostra divisa in cinque sezioni tematiche e cronologiche si caratterizza per le molte installazioni multimediali in grado di fornire un'esperenza emozionante su un viaggio lungo milioni di anni.
Homo Sapiens le nuove storie dell'evoluzione umana al Mudec Museo delle culture fino al 26 febbraio 2017
Corriere 8.10.16
Auditorium
Così la ricerca incontra il grande pubblico
di Silvia Morosi

Superare i limiti del sapere, in 18 minuti al massimo. Ricercatori e divulgatori, provenienti dal mondo scientifico e non, si incontrano oggi a Roma per trasmettere al pubblico, nel modo più semplice ma rigoroso possibile, le proprie scoperte. Sul palco dell’Auditorium della Musica va in scena TedxCnr, organizzato dal Consiglio nazionale delle ricerche e legato alle rete americana Technology entertainment design. Otto ore per diciotto relatori con la tradizionale formula del coinvolgimento che permette a chi ascolta di avvicinarsi ai contenuti veicolati. Dall’innovazione alla robotica, fino all’immigrazione con l’intervento del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. A spiegare l’obiettivo della giornata è Michele Muccini, direttore dell’Istituto per lo Studio dei Materiali nanostrutturati del Cnr: «Ci sono state licenze ad altri enti di ricerca nel mondo, ma nessuno di questi ha la missione di generare conoscenza in tutti i campi del sapere», spiega. C’è grande difficoltà a far conoscere il patrimonio scientifico e a renderlo fruibile anche al di fuori degli ambienti specifici. Ma proprio questa è la sfida degli speaker, da Piero Angela ai ricercatori del Cnr. «Il team ha lavorato alla valutazione dei contenuti, ma anche premiato l’empatia necessaria per essere traduttori della scienza senza tecnicismi», spiega Roberta Ribera, responsabile comunicazione. Non mancherà, infine, un momento per un ricercatore speciale. Giulio Regeni, ucciso in Egitto, sarà ricordato in un video concesso dalla famiglia.
Corriere 8.10.16
Il 16 ottobre la maratona del Fai
a Roma si potrà visitare tutto il «distretto commerciale e produttivo dell’Ostiense», il Gazometro, la Centrale Montemartini, con le sue statue romane, e l’area archeologica del Nuovo Mercato Testaccio
di Mariolina Iossa

ROMA Un mese, ottobre, per iscriversi ed entrare a far parte della grande famiglia del Fai, il Fondo Ambiente Italiano, che conta 130 mila soci. Una giornata, il 16 ottobre, per la Maratona del Fai, che metterà in campo decine di giovani volontari così da consentire la visita, libera o guidata, di 150 itinerari e 600 luoghi di interesse paesaggistico, artistico, sociale.

Dal rione Sanità a Napoli, con la sua storica Basilica di Santa Maria della Sanità, importante esempio del barocco napoletano, e tra i cui vicoli si potrà assistere anche ad intermezzi recitati di brani di Totò, a Roma, dove si potrà visitare tutto il «distretto commerciale e produttivo dell’Ostiense», il Gazometro, la Centrale Montemartini, con le sue statue romane, e l’area archeologica del Nuovo Mercato Testaccio. Da Milano, con una passeggiata nel CityLife, il quartiere Fiera completamente riqualificato, a Palermo, dove ci si incontrerà con i giovani del Fai nell’antico quartiere della Kalsa. Da Torino, dove i protagonisti saranno l’arte figurativa e Casa Casorati, a Paestum, con i templi di Nettuno e di Hera. Ma c’è anche il percorso d’acqua a Bologna (con, tra le altre, la visita alla Chiusa di Casalecchio), il barocco leccese, Catania con il teatro romano, Gaeta con la Street Art place , e Firenze, con il complesso di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi e Sala del Perugino. E poi l’antico cimitero ebraico del Lido di Venezia e la Chiesa delle Carceri di Sant’Ansano a Siena.
L’elenco è lungo, si trova sul sito del Fai (www.fondoambiente.it). Alcune visite sono riservate ai soli soci ma è possibile iscriversi al momento della visita, e a un prezzo speciale, 29 euro invece di 39. Anche iscrivendosi direttamente on line si pagheranno 29 euro. «Con lo slogan “Ricordiamoci di salvare l’Italia”, contiamo di allargare la famiglia, di arrivare a 145 mila iscritti ed entro il 2023 a 250 mila — ha detto il direttore generale del Fai Marco Magnifico —. La nostra campagna di ottobre per la raccolta fondi e la Faimarathon sono ormai alla quinta edizione. Più siamo, più Italia possiamo salvare».
Sono centinaia i luoghi che il Fai, anche con la collaborazione di Gioco del Lotto, ha potuto recuperare e riaprire al pubblico negli anni. Ma, dice il presidente del Fai Andrea Carandini, «l’industrialismo selvaggio e il predominio della finanza, che ha concentrato la ricchezza senza investire, hanno portato a tristezza, disperazione ed esclusione. Penso ai giovani che sempre di meno accedono all’Università. Dobbiamo recuperare la felicità e il bello, usando il nostro tempo più che per lo shopping, per riscoprire i luoghi che amiamo, uno diverso dall’altro, per natura e cultura».
Repubblica 8.10.16
Così rivive il braccio di ferro tra Brando e Pontecorvo
A dieci anni dalla morte del regista Cinecittà sostiene il restauro di “Queimada”e la mostra al Quirinale
di Irene Bignardi

IL 12 ottobre di dieci anni fa ci lasciava Gillo Pontecorvo, il maestro di La battaglia di Algeri, il regista di cinque film e mezzo (il mezzo è Giovanna, la storia di un lungo sciopero al femminile). Per ricordarlo, Cinecittà, di cui Pontecorvo è stato anche presidente, ha voluto il restauro di Queimada (che sarà presentato martedì alla Casa del cinema di Roma) e una mostra, al Teatro dei Dioscuri del Quirinale, dal 19 ottobre, che racconterà la lunga e bella vita di Gillo Pontecorvo. Regista ma anche grande tennista, comandante partigiano, militante della sinistra, organizzatore culturale (è stato direttore della Mostra di Venezia), cittadino del mondo (basti pensare che tra i famosi 5 film e mezzo ben quattro, Kapò, La battaglia di Algeri, Queimada e Ogro, sono stati realizzati fuori dall’Italia).
Il film che lo ha portato più lontano è però proprio Queimada, nato dalla curiosità di un giovane sceneggiatore che lavorava con Gillo e Franco Solinas alla ricerca di una storia “forte” dopo
La battaglia di Algeri. Giorgio Arlorio scoprì tra le pagine della Britannica il personaggio di Sir William Walker, l’agente segreto inviato da Londra nei Caraibi per fomentare la rivolta contro gli spagnoli, abolire la schiavitù e inglobare l’isola nell’impero britannico. La storia piacque molto a Pontecorvo e al produttore Alberto Grimaldi, e Gillo partì alla ricerca dell’isola per il film. Ma finì per scegliere non un’isola bensì la bella città caraibica di Cartagena de Indias, in Colombia.
Cominciò a questo punto la caccia agli interpreti per il sofisticato personaggio di Walker e per il contadino analfabeta Josè Dolores, che avrebbe guidato la rivolta antispagnola. Incredibilmente, per ammirazione nei confronti di Algeri, Marlon Brando si era candidato come Walker. E un vero contadino analfabeta, Evaristo Marquez, fu trovato dopo lunghe ricerche e messo a confronto con il sofisticatissimo ed esigentissimo Brando. Con cui la lavorazione fu affascinante ma difficilissima: il Metodo di Brando contro la selvaggia ignoranza di Evaristo Marquez, la sua apparente freddezza contro la cordialità degli italiani, i mille ciak, e il capriccio finale di Brando, spostare la già lunga lavorazione, per ipotetiche ragioni di sicurezza, in Marocco.
Il film divise pubblico e critica. Ma Queimada resta, nella sua veste migliore, un grandissimo film sui rischi delle rivoluzioni manovrate, una stupenda interpretazione di Brando, e un pezzo di storia sempre attuale, che parla a tutti. Non potrò mai dimenticare la reazione del pubblico del Festival di Calcutta, che onorò di un’emozionante standing ovation, insieme, Gillo Pontecorvo e la battuta finale di Josè Dolores mentre sale al patibolo che gli hanno preparato gli inglesi: «Inglès, è questa la civiltà dei bianchi, e fino a quando?».
Corriere 8.10.16
Quell’altare di Camon fatto di storie
di Sebastiano Grasso

Con la pubblicazione, nel 1978, di Un altare per la madre di Ferdinando Camon (Urbana, Padova, 1935), Livio Garzanti mette fine ad una sorta di ossessione dello scrittore veneto che ha riscritto il testo ben diciannove volte di fila. Carattere forte e decisionista, l’editore sceglie la terza stesura. Il libro ha un grosso successo. Come in altri due precedenti, Camon parla della civiltà contadina destinata inesorabilmente a morire. L’elemento biografico da cui parte — la morte della madre — fa sì che la narrazione acquisti sempre di più il senso d’una coralità in cui si chiede che ogni cosa «smetta di morire».
Poi il padre dello scrittore lavora a un altare fatto con vecchie pentole portate dai vicini di casa da mettere in qualche posto a ricordo della moglie. Nel tentativo di fonderle scoppia un incendio e l’uomo rischia persino di restarci. Alla fine, l’ara verrà accolta nella chiesa del paese per diventare l’altare per la messa.
Un altare vince il premio Strega. Due anni dopo, Gallimard lo traduce in Francia, dedicandolo a Roland Barthes, appena scomparso, e «L’Express» scrive: «Attenzione: capolavoro». Nell’86, per la Rai, Edith Bruck dirige il film con Angela Winkler e Franco Nero.
«Scrivo per vendetta (…). Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno “strumento del potere”, e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette».
Per gli 80 anni di Camon, alla Fenice di Venezia, qualche settimana addietro, la Fondazione Campiello ha voluto rendergli omaggio con il premio omonimo alla carriera. E Garzanti ha ristampato Un altare per la madre .
Un ritorno, nel tempo, nella campagna («L’etica di Camon sta nell’implacabile assillo della memoria», aveva notato Giulio Nascimbeni sul «Corriere della Sera»), che, in fondo, resta, la continua fonte di ispirazione. In prosa, ma anche in poesia. Ricordate Dal silenzio delle campagne , del 1998? Anche qui torna la figura materna («Mia madre»). Anche qui, Camon riallestisce il palcoscenico in cui si muovono i suoi personaggi, anche se il contesto è cambiato. Anche qui tutto diventa corale; quella coralità che richiama i crescendo wagneriani.
E vengono in mente anche i versi, composti fra il ’56 e il ’60, di un libro di Mario Luzi, dal titolo simile a quello di Camon: Dal fondo delle campagne . La raccolta del poeta toscano appare circa trent’anni prima, da Einaudi. «Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi/ nella sua galoppata verso il mare,/ nella sua ressa d’armento sotto i gioghi/ e i contrafforti dell’interno, vista/ nel capogiro dagli spalti, fila/ luce, fila anni luce misteriosi,/ fila un solo destino in molte guise, / dice: “Guardami, sono la tua stella” / e in quell’attimo punge più profonda/ il cuore la spina della vita./ Questa terra toscana brulla e tersa/ dove corre il pensiero di chi resta/ o cresciuto da lei se ne allontana».
Veneto o Toscana, nei versi di entrambi emerge lo spirituale nell’arte (non di Kandinsky), quello in cui la terra, cercando di annullare la morte, si inventano riti di salvezza.
sgrasso@corriere.it
Corriere 8.10.16
I miei sette giorni schiava di Facebook
di Chiara Severgnini

Ho fatto tutto quello che Facebook mi ha detto di fare. Per una settimana. Ho condiviso una foto ogni volta che mi ha suggerito di farlo e ho scritto un nuovo status quando mi ha chiesto: «A cosa stai pensando?». Ho inviato richieste di amicizia a tutte le persone che, secondo il social, potrei conoscere. Ho accettato tutti gli inviti agli eventi. Ho fatto auguri di compleanno, mandato messaggi e persino impostato una foto del profilo a tema sportivo.Tutto perché Facebook me lo ha suggerito. E io ho deciso di seguire l’algoritmo passo passo per vedere dove mi avrebbe portato. A esperimento finito, la situazione è questa: agenda piena, profilo irriconoscibile e un po’ di domande senza risposta. Ad esempio: perché Facebook ha iniziato a bombardarmi di contenuti a tema matrimonio?
In sette giorni ho aggiornato il mio profilo 18 volte, quasi il quadruplo di quanto sono solita fare. Gli stimoli a postare non mancavano mai. Da sempre l’inafferrabile algoritmo di Facebook consiglia persone a cui chiedere l’amicizia e pagine a cui mettere « Mi piace » sulla base della città di residenza, degli intrecci di conoscenze virtuali e di chissà quali altri parametri. Ma da un anno a questa parte si è fatto più invadente. Ora il social suggerisce anche di ricondividere contenuti del passato o di celebrare la giornata della pace con un post ad hoc. Qualcuno dice che abbia iniziato a farlo perché gli utenti non pubblicano più quanto un tempo. L’arrivo di nuovi social ci ha distratto e intanto su Facebook sono sbarcati in massa lontani parenti, colleghi antipatici e potenziali datori di lavoro. Così noi, che nel frattempo siamo diventati più smaliziati, abbiamo iniziato a darci un contegno e forse anche ad annoiarci un po’. Per il ceo Mark Zuckerberg è un incubo: a cosa servono 1 miliardo e 700 milioni di iscritti se non sfornano contenuti, cioè se non forniscono dati da dare in pasto agli inserzionisti? La soluzione è invitarli a farlo. Con me l’ha fatto in media 2,57 volte al giorno.
Durante l’esperimento ho stretto 28 nuove amicizie virtuali e messo « mi piace » a una decina di pagine, il tutto senza interrompere la mia normale attività social. Il risultato è stato un’invasione di notifiche: circa 50 al giorno contro le 20 solite. La mole di informazioni che ho dato a Facebook è aumentata, ma si è anche fatta più confusa. L’algoritmo ha masticato tutto e quello che ne è uscito è un ritratto deformato, ma a tratti autentico, della mia persona.
Dagli eventi che mi propinava ho dedotto che Facebook sa dove vivo (anche se non gliel’ho mai detto) e grazie ai suoi consigli ho scovato contenuti interessanti. Ma il social ha anche preso qualche granchio, come quando ha deciso che mi interessano gli abiti da sposa. Non so se a indurlo in errore sia stata la mia età o la voce « Impegnata in una relazione » del mio profilo, quel che so è che nell’homepage sono comparsi wedding planner e fiere di settore.
Ho messo « mi piace » a tutto, ma senza convinzione: Facebook stava iniziando a diventare strano. Questo succedeva a metà del mio esperimento. Il peggio doveva ancora venire. Al giorno sei ero a corto di materiale. Dopo aver pubblicato un ritratto del mio cane, uno screenshot simpatico e un’immagine del libro che sto leggendo, ero diventata paranoica: se Facebook mi avesse chiesto di condividere un’altra foto sarei stata costretta a improvvisare. Nel frattempo il mio calendario, sincronizzato con il social, era ormai un inferno di eventi a cui avevo detto di voler partecipare, ma a cui non volevo partecipare affatto. Dicendo sì a tutto, avevo eliminato il filtro dei miei gusti e dopo sette giorni mi riconoscevo molto meno nella Chiara Severgnini di Facebook. Anche i miei amici - quelli che mantengono il titolo anche fuori dai social - non mi riconoscevano più. Alcuni hanno scritto commenti ironici sotto ai miei post più innaturali. Altri mi hanno chiesto come mai volessi partecipare a una maratona, proprio io che mi vanto di non correre dal 2008. La risposta è stata: « Non voglio, ma Facebook pensa di sì ». Poi, per fortuna, i sette giorni sono scaduti. Ora posso smettere di mandare richieste di amicizia in modo indiscriminato e presto Facebook capirà - o si ricorderà? - che non mi interessano né gli abiti da sposa, né gli eventi sportivi, né i corsi di ballo. La prossima volta che capiterò sull’homepage e lui mi chiederà a cosa sto pensando , però, mi piacerebbe rispondergli: non te lo dico.

Corriere 8.10.16
Tramite l’ironia smascherò la natura umana
di Roberta Scorranese

Ogni tanto, nell’ Orlando Furioso , Ludovico Ariosto si inserisce con incisi ironici, quasi volesse ammiccare al lettore, un po’ come fa Frank Underwood in House Of Cards quando guarda nella macchina da presa, sornione: e infatti, sia nella serie tv che nel poema cavalleresco, le vicende narrate sono talmente inverosimili che l’autore sente il bisogno di sdrammatizzare con frasi come «Forse era ver, ma non però credibile». Questa ironia ariostesca, se da una parte è il motore della mostra ferrarese («Come poteva un letterato del ‘500 immaginare un guerriero dell’VIII secolo?», si sono chiesti i curatori dando il via alla ricerca storica e artistica), dall’altra è il tratto distintivo dell’ultimo grande umanista. Perché? Perché, anche grazie alla sua posizione di primissimo piano nella corte estense, incaricato di missioni diplomatiche e di compiti amministrativi, sempre a contatto con cardinali, nobili e diplomatici, comprese che la natura umana è troppo sfuggente per essere incasellata in un rigido genere narrativo. La natura non va semplicemente registrata dal vero, ma mediata attraverso la finzione, come osserverà in seguito Voltaire studiando il poeta italiano. Ironia, dunque, in senso letterale, dal greco eironeia , cioè dissimulazione. Che contempla anche l’errore. Ecco perché i personaggi ariosteschi errano , nell’uno e nell’altro senso del verbo. Come le figure imperfette di Piero di Cosimo, tra le cose più belle in mostra.
Corriere 8.10.16
Il cavaliere resistente
Gli errori (deliberati) e il meraviglioso, così Ariosto creò una realtà parallela
di Chiara Fenoglio

Italo Calvino (il più ariostesco, insieme a Borges, tra gli autori novecenteschi) era solito dire che l’Orlando Furioso contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere mondo: nel rispecchiamento e nella rifrazione, come nel labirinto per Borges, Calvino fonda il rapporto tra «mondo scritto» e «mondo non scritto». La metafora del libro della natura ha peraltro una lunga tradizione, dall’idea medievale che il cosmo sia il libro attraverso cui Dio ci parla, a quella rinascimentale portata a compimento da Montaigne che vi vede lo specchio da scrutare per conoscere se stessi. Un mondo che nel capolavoro ariostesco, di cui si celebrano i 500 anni dalla prima edizione, si configura nell’immagine della corte estense.
E proprio alla corte di Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, è in corso la mostra Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? che celebra l’immaginario e la visionarietà del poeta ponendo in dialogo la sua opera con dipinti, sculture, libri, armi e oggetti rari capaci di restituire l’universo culturale e artistico in cui Ariosto si muoveva, come avviene con il corno d’avorio dell’XI secolo, in cui è tradizionalmente riconosciuto l’olifante suonato da Orlando a Roncisvalle.
Si tratta di una mostra policentrica, proprio come il Furioso, poema del movimento, della dilatazione e della dispersione, e insieme poema della visione e dell’illusione, della trasfigurazione onirica della realtà: se per Caldèron de la Barca la vita è sogno, per Ariosto il sogno consente di descrivere la realtà proprio in forza della sua inconsistenza. Il poema è «finzion d’incanto» che fa apparire «rosso il giallo», ma in assenza del quale tuttavia nessuna esperienza del mondo sarebbe possibile. Nel Furioso ogni forma, ogni corpo, ogni parola emerge «con l’evidenza della cosa reale» ma, come ha osservato Vittorio Sereni, sfugge a chi tenti di ghermirla «rivelando la propria aerea sostanza».
Il favoloso è lì, solido ed evidente nei nostri sogni, ma scompare come un fantasma appena riapriamo gli occhi. Dunque in questo breve battito di ciglia, l’immaginario si proietta sulla realtà e fornisce una misura al mondo: ogni immagine, come ogni ottava, è lo spazio che Ariosto attraversa per organizzare il caos, contenere la pura estensione della materia nei confini ordinati del poema, emblema di un mondo e di una società ideali.
L’incanto naturalmente è fallace, nasconde i «felici errori» che Leopardi addebita ad Ariosto, le belle favole, gli «strani pensieri» in cui il poeta si rifugia, e che costituiscono dal punto di vista del moderno una regressione nel mito e nel meraviglioso: ma sono anche, secondo questo Leopardi, un errore liberamente assunto da Ariosto, per proteggerci dai guasti e dai mostri della storia. Così nella Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù di Mantegna, ammirata da Ariosto nello studiolo d’Isabella d’Este, ritroviamo le stravaganze che Ruggiero incontra nel regno di Armida nel canto VI: da Astolfo mutato in mirto, alla «strana torma» di alcuni esseri che «dal collo in giù d’uomini han forma, /con viso altri di simie, altri di gatti; /stampano alcun’ con piè caprigni l’orma; /alcuni son centauri agili et atti; /son gioveni impudenti e vecchi stolti, /chi nudi e chi di strane pelli involti». Analogamente, per le descrizioni delle battaglie Ariosto attinge al vasto repertorio di combattimenti e di cavalieri medievali, di tradizione francese e non solo, che dal San Giorgio di Paolo Uccello giungono fino al Gattamelata di Giorgione. L’immagine di Angelica è compresa e plasmata a partire da due modelli femminili assai diversi: la Venere botticelliana i cui capelli si intorcono come i nodi d’amore e la Giuditta guerriera di Marco Zoppo.
Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni (in anticipo di cent’anni su Cervantes, con cui la mostra si chiude), il Furioso connette il tempo mitico dei «cavallieri antiqui» alle vicende a lui contemporanee, alle guerre tra Francesco I e Carlo V per l’egemonia nel nord Italia, ma soprattutto connette il tempo perduto del sogno alla realtà.
E lo fa con un linguaggio naturale, una discorsività alta capace di giocare con gli «accessori inessenziali del linguaggio» già descritti da De Sanctis. Grazie a questo stile, plasmato sulle regole di Pietro Bembo, Ariosto crea il «puro e dolce idioma nostro, /levato fuor del volgar uso tetro», grazie al quale il Furioso è giunto fino a noi, fino alla riproposizione teatrale di Sanguineti-Ronconi, alle riletture di Calvino e di Celati.
Il poema dell’armonia descritto da Croce è diventato il poema della mobilità e dell’intrico, scomposto e ricomposto, come la fortuna scompone e ricompone le vicende umane, con infinita varietà del possibile: il vero protagonista di questo poema del vagabondaggio, è quel teatro del mondo che aveva trovato nella corte rinascimentale la sua incarnazione più vitale.
La Stampa 8.10.16
Il match Picasso-Giacometti
Mostri sacri allo specchio
Al Museo Picasso 200 opere per il primo confronto critico tra i due amici-nemici Li separavano 20 anni di età, li accomunava la capacità di anticipare l’arte a venire
di Francesco Poli

Mettere a confronto, per la prima volta, in un’esposizione due «mostri sacri» dell’arte del XX secolo come Picasso e Giacometti non è solo un’idea di sicuro richiamo, ma è anche soprattutto un vero contributo storico-critico. Attraverso la visione diretta (comparata e incrociata) di circa duecento opere di assoluta qualità proposte in una ben studiata sequenza di tredici sale, allo stesso tempo cronologiche e tematiche, vengono esplorati i principali elementi di connessione e contrapposizione, le influenze reciproche, le problematiche comuni e le rispettive idiosincrasie dei due artisti, così diversi fra loro ma per una qualche segreta alchimia attratti uno dall’altro.
La relazione risulta apparentemente asimmetrica perché quando si incontrano all’inizio degli Anni 30, Picasso cinquantenne era il protagonista assoluto della scena artistica internazionale, mentre Giacometti trentenne, incomincia appena ad emergere nel gruppo surrealista grazie alle sue sculture. Arrivato a Parigi nel 1922, studia nell’atelier dello scultore classicista Bourdelle e assimila rapidamente tutte le suggestioni arcaiste, primitiviste e cubiste dell’avanguardia, avendo come principale punto di riferimento proprio l’artista spagnolo. Ma l’amicizia che nasce fra i due non è, neanche all’inizio, quella fra maestro e allievo, è effetti un rapporto alla pari. Questo si può spiegare con il fatto che Picasso, sempre ipersensibile ai cambiamenti di clima culturale, è in quel momento in una cruciale fase di svolta, quella per così dire di «picassizzazione» delle problematiche surrealiste, che si inaugura con la violenta deformazione anatomica del Grand Nu au Fauteuil
del 1929 e che si sviluppa con le impressionanti metamorfosi plastiche di corpi femminili, appena successive, come la monumentale tela Femme lançant une pierre. Picasso è profondamente colpito dai lavori di Giacometti, come la Boule suspendue una sfera sospesa con una fenditura che oscilla su un’affilata forma a mezza luna) e la Femme égorgée, una mostruosa e raffinata figura di donna-mantide mutilata.
Queste e altre opere affini dei due artisti si possono vedere insieme nella sezione più significativa della mostra, quella dedicata al perverso intreccio (così freudiano e surrealista) fra Eros e Thanatos, dove l’immaginario sessuale è strettamente connesso alla violenza e agli istinti aggressivi. Picasso e Giacometti frequentano, in quel periodo, la cerchia di Bataille, e entrambi a loro modo interpretano l’estetica della mostruosità teorizzata da quest’ultimo, mettendo in gioco proprie personali ossessioni (in modo più esplicito Giacometti), forse anche con una certa ironia (più evidente in Picasso). L’altro punto nodale dell’interesse comune (anche se con essenziali differenze) è quello legato al dibattito sul realismo, che emerge negli anni cupi e tragici della guerra. Picasso reagisce all’impatto drammatico della realtà storica sviluppando alla fine degli Anni 30 una figurazione di esplosiva violenza plastica, in particolare nei suoi ritratti e nudi (quelli di Dora Maar) e nella ricerca che culmina con Guernica. Da parte sua Giacometti, dopo aver rotto con i surrealisti, mette in atto, negli stessi anni la sua definitiva svolta realistica, iniziando a modellare direttamente dal vero le sue famose figure. A interessarlo è innanzitutto la realtà dell’essere umano, «l’esserci» inafferrabile della sua profonda identità individuale d’esistenza, una realtà che diventa sempre più fragile e sottile, e che sembra progressivamente erosa dallo spazio circostante. La dimensione «esplosiva» di Picasso e quella «implosiva» di Giacometti dialogano (o litigano) in una magnifica sala che presenta due serie di ritratti di donne amate. Si tratta dei quadri con le sconnesse sembianze di Dora Maar, e delle bronzee filiformi statue, busti e teste della futura moglie Annette.
Un confronto interessante e anche quello fra sculture di animali realizzate intorno al 1950. Da un lato c’è la grassa capra di Picasso, l’originale fatto con un assemblage di oggetti compattati con il gesso, e dall’altro lo scheletrico cane di Giacometti, metafora ironica della disperata solitudine dell’esistenza randagia. Queste due opere esemplificano molto bene la distanza ormai incolmabile fra le rispettive visioni del mondo dei due artisti. Ed è proprio negli Anni 50, dopo due decenni di amicizia anche molto stretta, che avviene una frattura insanabile fra i due. Secondo Françoise Gilot, la compagna di Picasso dell’epoca, la rottura era avvenuta a causa di una violenta collera di Giacometti, a cui avevano riferito che Picasso aveva posto il veto all’entrata dello scultore tra gli artisti della Galerie Louise Leiris, dove lui era il dominatore incontrastato. Un’altra interpretazione l’ha data James Lord, amico e biografo di Giacometti, che ha scritto che il motivo sarebbe stato una critica di tipo etico dello scultore nei riguardi di Picasso, e cioè l’accusa di essere diventato una «vedette» mondana. Ma la verità è che tutti e due era diventati delle star dell’arte, vivendo uno in ville sontuose e l’altro per tutta la vita nel suo povero atelier di rue Mendron.
Corriere 8.10.16
Identità italiana tema del festival èStoria 2017

Sei anni dopo le celebrazioni del 2011 per il centocinquantesimo anniversario della creazione dello Stato unitario, il festival èStoria di Gorizia tornerà nel 2017 sul tema scottante dell’identità nazionale. «Italia mia» è infatti il tema scelto dall’associazione èStoria, presieduta da Adriano Ossola, per la tredicesima edizione della manifestazione che si tiene ogni anno nella città giuliana. Quindi nel corso del festival, in programma a Gorizia dal 25 al 28 maggio del prossimo anno, saranno approfonditi i temi di carattere storico, ma anche di attualità, che si collegano al processo di costruzione del nostro Paese. Si parlerà di tutto ciò che ci rende italiani, della lingua e della cultura, della letteratura e delle arti, ma anche di argomenti come l’esigenza d’integrare masse crescenti d’immigrati dai Paesi poveri. Non mancherà ovviamente la sezione Trincee, dedicata al centenario della Grande guerra. ( j.ch. )
Corriere 8.10.16
Quest’anno il più inquieto di tutti è Luciano Canfora
di Francesco Cevasco

Quel de precisis — come lo chiama qualche suo studente — del professor Luciano Canfora dovrà trovare una mensola, nel suo studio, su cui ospitare qualcosa di disordinato, di storto, di asimmetrico: la pentola «sghimbescia» che viene assegnata all’«Inquieto dell’anno». Dentro la pentola non ci sono soldi, c’è un foulard, «sghimbescio» anche lui, con un nome e una data. Una banda di anarchicheggianti intellettuali assegna da un ventennio questo riconoscimento a qualcuno che se lo merita perché canta fuori dal coro e insegue l’inquietudine intesa come sinonimo di conoscenza. Prima o poi Canfora doveva cadere nella ragnatela: grecista, latinista, idealista, polemista, comunista, saggista, italianista, francesista, proporzionalista.
Insomma, domani al teatro Chiabrera di Savona, Canfora sarà nominato «Inquieto dell’anno». Il presidente del Circolo degli Inquieti, Paolo De Santis, dirà qualcosa tipo: «Il suo (di Canfora) pensiero classico, non come citazione del passato, ma come nascita della modernità, è di guida per i nostri comportamenti. In lui il Circolo riconosce il maestro che insegna, suggerisce e apre le menti». E, già che ci siamo, in onore dell’illustre grecista, la kermesse savonese è stata tutta dedicata alla Grecia. Ieri sera, parole ed emozioni di Konstantìnos Kavàfis e Giòrgos Sefèris tradotti da Guido Ceronetti (anche lui, qualche edizione fa, «Inquieto dell’anno»). Arriverà poi, oggi, il filosofo Valerio Meattini. I sublimi lo ascolteranno parlare del suo nuovo libro Anamnesi e conoscenza in Platone , i prosaici lo seguiranno al Mercato Civico di Savona dove si potranno annusare gli odori e assaggiare i sapori dei cibi greci: «Un luogo mitico, il mercato — dice De Santis —, un posto di scambio di derrate e di merci e quindi di culture. Che ricorda la tela Vucciria di Guttuso e la canzone di De André Creuza de mä che termina con le voci dei venditori liguri».
Ci sarà una sobria apparizione della sindaca di Savona, Ilaria Caprioglio. Lei era presidente del Circolo degli Inquieti, ma per ovvie ragioni di eleganza ha dato le dimissioni per dedicarsi a tempo pieno all’incarico istituzionale. Ci sarà alla serata in cui Canfora verrà premiato e in cui saranno raccolti fondi per finanziare il ripristino del museo Leopardi di Visso, in provincia di Macerata, colpito dal terremoto dell’agosto scorso, in cui sono conservati molti manoscritti del poeta marchigiano, tra cui l’originale de L’infinito .
E ci sarà anche il guru del Circolo degli Inquieti, il fondatore ed ex presidente Elio Ferraris, tanto inquieto che le ha passate tutte: ragazzo ribelle, studente di Sociologia a Trento ai tempi dei cattivi maestri, radicale e comunista con doppia tessera, editore utopista eccetera. Luciano Canfora è in buona compagnia.
Corriere 8.10.16
Lo spettro dell’esercito europeo
Nel 1954 fallì il progetto voluto da De Gasperi. L’amarezza del leader nella sua ultima lettera
di Sergio Romano

Chi pensa che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue sia una occasione da cogliere, piuttosto che una sventura, osserva con piacere che fra i grandi temi dell’Agenda europea è apparso nuovamente quello della Unione militare. Due ministri del governo Renzi — Paolo Gentiloni agli Esteri e Roberta Pinotti alla Difesa — hanno annunciato la presentazione di un progetto italiano per la creazione di una forza multinazionale soggetta a un comando comune e finanziata con denaro europeo.
A Bratislava, dove il 27 settembre scorso si sono riuniti i ministri della Difesa europei, Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, ne ha parlato con prudenza: «Questo non significa creare un esercito europeo ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarità con la Nato». Dopo il discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato da Jean-Claude Juncker il 14 settembre al Parlamento di Strasburgo, sappiamo tuttavia che il tema della sicurezza preoccupa anche il presidente della Commissione. Vi sarà presto, nell’ambito di Frontex, una comune polizia di frontiera dislocata lungo i confini esterni dei Paesi di Schengen.
Perché il progetto unitario non dovrebbe essere esteso alle forze armate dei Paesi che hanno gli stessi interessi e gli stessi nemici? Qualcuno sosterrà maliziosamente che questo è un déjà vu , la ripetizione di una vecchia vicenda terminata più di sessant’ anni fa con un traumatico insuccesso. Proviamo, per rinfrescare la nostra memoria, a ripercorrerne le tappe.
La storia comincia quando gli Stati Uniti, all’inizio degli anni Cinquanta, giungono alla conclusione che l’Europa non potrà fare fronte alla minaccia sovietica se non verrà consentito alla Germania di avere nuovamente un esercito. Per molti cittadini europei, che non hanno ancora dimenticato le responsabilità tedesche di un passato recente, la proposta è semplicemente scandalosa. Ma la Francia, con una mossa geniale, risolve il problema gettando sul tavolo la proposta per la creazione di una Comunità europea di Difesa, di cui la Germania sarebbe stata membro insieme agli altri cinque Paesi della Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi). Non vi saranno più eserciti nazionali; vi sarà ormai, dopo le feroci guerre civili dei secoli precedenti, un esercito europeo.
Nei mesi seguenti si negozia un trattato che sarà firmato il 27 maggio 1952 e viene deciso che l’Assemblea parlamentare della Ceca avrà il compito di scrivere la costituzione dell’Europa. È un’idea di Alcide De Gasperi che di quell’Assemblea divenne presidente l’11 maggio 1954.
Ma la macchina dell’Europa, di lì a poco, cominciò a incepparsi. De Gasperi, contestato dai giovani turchi della Democrazia cristiana, dovette rinunciare alla presidenza del Consiglio. Quattro Paesi ratificarono il trattato, ma Francia e Italia tergiversavano: la prima perché era distratta dalle sue crisi coloniali in Asia e nel Mediterraneo, la seconda perché il suo governo sperava di mercanteggiare la ratifica contro la soluzione del problema di Trieste. Da Borgo di Valsugana, De Gasperi, stanco e malato, seguiva gli avvenimenti con apprensione. Il 14 agosto 1954, quando capì che il capo del governo francese, Pierre Mendès-France, avrebbe sacrificato la Comunità europea di Difesa per compiacere i comunisti e i gollisti, scrisse una lunga lettera ad Amintore Fanfani che era divenuto nel frattempo segretario del partito. Gli disse appassionatamente che occorreva contrastare la strategia di Mendès-France e che l’Italia sarebbe stata il Paese maggiormente danneggiato dal progressivo ritorno sulla scena degli eserciti nazionali.
Conoscevamo la lettera, ma non conoscevamo quella, manoscritta e ancora più allarmata, che De Gasperi scrisse il giorno dopo a Mariano Rumor, vicesegretario del partito. È emersa negli scorsi giorni dagli archivi della Fondazione che ha ereditato le carte dell’uomo di Stato vicentino e fu probabilmente la sua ultima lettera. De Gasperi morì quattro giorni dopo, il 19 agosto, undici giorni prima del voto con cui l’Assemblea nazionale francese avrebbe rifiutato di ratificare il trattato della Comunità europea di Difesa.
La Ced è morta, ma l’esercito europeo è un fantasma inquieto che continua ad aggirarsi nei corridoi dell’ Unione. È riapparso per esempio quando il presidente francese Jacques Chirac e il premier britannico Tony Blair si sono incontrati a Saint-Malo il 3 e il 4 dicembre 1998 per firmare una dichiarazione in cui si dice tra l’altro che l’Ue «deve essere in grado di svolgere un ruolo internazionale grazie a forze armate capaci di fare fronte ai nuovi rischi appoggiandosi su una competitiva base industriale e tecnologica di difesa».
Peccato che l’ipotesi di uno stato maggiore comune, quando fu avanzata, sia stata pesantemente scoraggiata dagli Stati Uniti e in ultima analisi persino dalla Gran Bretagna che ancora una volta, costretta a scegliere fra l’Europa e gli Stati Uniti, scelse il «gran largo». Brexit quindi è la prima delle ragioni per cui è possibile parlare oggi nuovamente di difesa europea senza correre il rischio di un veto di Londra. La seconda ragione è quella che riempie da qualche anno le nostre cronache internazionali. Se il Mediterraneo è in fiamme e la guerra si è pericolosamente avvicinata ai nostri confini, Frontex non basta e gli Stati Uniti, chiunque li governi, non sono più una garanzia. Chi ha interesse a difendere l’Europa se non gli europei?
Corriere 8.10.16
L’arcivescovo Tutu e l’eutanasia: lasciatemi la scelta
La richiesta del prelato amico di Mandela
di Michele Farina

Nel mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo. L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace 1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce» alla causa della «morte dignitosamente assistita».
Un occhio alla festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia (vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna #ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le sue riflessioni in «fine vita».
Non c’è contraddizione tra l’inno alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna del quotidiano americano The Washington Post : «Per tutta l’esistenza ho avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il diritto di morire con dignità».
Su questo tema, l’incrollabile campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà l’ora».
Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita. Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica, dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la violenza sulle donne...
La dignità dei viventi è minacciata ogni giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.
il manifesto 8.10.16
Il diritto di dominare
Territori Palestinesi Occupati. Il ministro israeliano Bennett invoca l'annessione della Cisgiordania e il riconoscimento della "legalità" dei coloni. Il docente universitario Nicola Perugini: «siamo di fronte a una inversione del rapporto tra colonizzatori e colonizzati, si cerca di piegare il concetto di diritti umani alle esigenze della dominazione».
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Per Naftali Bennett, ministro israeliano e nazionalista religioso, non contano le critiche dell’Amministrazione Obama e della ministra degli esteri dell’Ue Federica Mogherini all’annuncio fatto dal governo Netanyahu della prossima costruzione di un nuovo insediamento ebraico in Cisgiordania, destinato ad accogliere i coloni dell’avamposto di Amona (illegale anche per la legge israeliana e non solo per quella internazionale) che dovrà essere evacuato entro la fine dell’anno su ordine della Corte Suprema. Per Bennett, uno dei leader dei coloni, gli israeliani «devono fare ogni sforzo, devono dare la vita, per realizzare il sogno di fare della Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) una parte dello Stato di Israele». Parole che hanno riscaldato il cuore dei coloni di Amona impegnati in una campagna di denuncia degli “abusi” dello Stato e della comunità internazionale. Negli ultimi anni i coloni, complice il clima anti arabo e islamofobico che si diffonde in Occidente, si sono impegnati in iniziative volte a capovolgere la loro immagine, da occupanti ed oppressori a quella di “vittime”, raccogliendo non pochi consensi all’estero oltre che in patria.
«I coloni israeliani hanno creato proprie organizzazioni dei diritti umani e affermano che il cosiddetto ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005 ha rappresentato una violazione aperta dei diritti di coloro (i coloni) che vivevano in quella parte di territorio palestinese sotto occupazione militare», ci spiega il giovane docente universitario Nicola Perugini autore assieme all’israeliano Neve Gordon de “Il diritto umano di dominare”, saggio appena pubblicato in Italia (edizioni Nottetempo). «Intervistando i responsabili di queste organizzazioni – aggiunge Perugini – ci si rende conto come il linguaggio dei diritti umani venga articolato per legittimare forme di dominazione». Perugini porta l’esempio delle petizioni che da qualche tempo a questa parte presentano i coloni israeliani. «Sono simili a quelle dei palestinesi contro le politiche israeliane di occupazione, di demolizione di case e di violazione dei diritti umani. I coloni argomentano che le demolizioni (molto rare, ndr) dei loro avamposti in Cisgiordania non siano altro che violazioni di diritti umani». Quindi, prosegue Perugini «siamo di fronte ad una inversione del rapporto tra colonizzatori e colonizzati, una inversione totale del quadro storico in cui si è sviluppata la colonizzazione della Palestina».
Al linguaggio che ora usano i coloni per legittimare la loro presenza nei Territori palestinesi occupati, si aggiunge l’approccio che il ministero degli esteri israeliano e gli uffici legali delle forze armate utilizzano dalla prima guerra a Gaza (“Piombo fuso”, alla fine del 2008) per giustificare operazioni militari devastanti. «I rappresentanti dell’esercito israeliano» dice Perugini «hanno sviluppato una interpretazione delle leggi e delle convenzioni internazionali. Sostengono che l’uso letale della forza (contro Gaza) sia in linea con il diritto umanitario che, come sappiamo, ha lo scopo di tutelare le popolazioni civili». Un caso eclatante, ricorda il docente, è quello degli «scudi umani». Le forze armate israeliane diffondono l’idea che i palestinesi di Gaza accettino o siano costretti ad accettare il ruolo di «scudi umani» di Hamas, finendo così per diventare obiettivi da colpire anche nel quadro stabilito dal diritto umanitario.
Secondo Perugini da questa situazione e da situazioni analoghe in giro per il mondo, si potrà uscire solo «prendendo atto dello scivolamento del tema dei diritti umani nella complicità di fatto tra forze considerate progressiste e forze reazionarie in queste forme di sovrapposizione che favoriscono l’oppressione e il dominio coloniale». L’impegno del ministro Bennett è quello di legittimare sulla scena mondiale una realtà fatta di occupazione e di requisizione di terre palestinesi. Fino al punto di ottenere il riconoscimento del diritto di Israele di negare i diritti dei palestinesi e quello dei coloni di dominare la Cisgiordania.
Repubblica 8.10.16
“Reunion” dei Pink Floyd per Gaza
Roger Waters si era già schierato sulla sua pagina Facebook, confermando le sue convinzioni di avvocato della causa palestinese. Ora a chiedere la liberazione delle 13 donne della Freedom Flotilla arrestate due giorni fa dalla marina israeliana a largo di Gaza e bloccate nella loro barca “Zaytouna-Oliva” nel porto di Ashdod scendono in campo tutti i Pink Floyd «riuniti a sostegno delle donne di Gaza». Si legge sulla loro pagina Facebook: «David Gilmour, Nick Mason and Roger Waters deplorano il loro arresto illegale e la detenzione in acque internazionali da parte della Difesa israeliana».
Il Sole 8.10.16
I russi in Siria «a tempo indefinito»
Il Parlamento di Mosca ha votato all’unanimità la ratifica dell’accordo stretto con Assaddi Alberto Negri

Questa guerra non è fredda - in Siria si contano migliaia di morti - ma non è neppure frontale, è una sorta di conflitto ibrido dove gli attori locali condizionano anche le mosse delle grandi potenze, Usa e Russia, che stanno posizionando forze e schieramenti. Mosca lo fa affermando con decisione quello che già sapevamo: non se ne andrà mai, se possibile, dalla Siria. La Duma ha ratificato ieri (446 voti favorevoli su 446 presenti) il trattato firmato con Assad per la permanenza a tempo indeterminato dei russi nella base di Hmeimim (Latakia), che si aggiunge a quella navale di Tartous e ai sistemi antiaerei e anti-missile S-400 e S-300. I russi, entrati in campo il 30 settembre 2015, sono schierati nel cuore della Siria, una sorta di ex Jugoslavia araba che però secondo Putin non farà la fine della Serbia di Slobodan Milosevic. Con questa mossa la Russia non solo tiene sotto pressione gli avversari ma garantisce il regime, cioè le gerarchie militari nel caso di una transizione, e anche l’Iran, alleato storico degli alauiti siriani. Teheran a sua volta conta sulla Siria e gli Hezbollah libanesi per rafforzare la sua profondità strategica in Medio Oriente che passa anche dallo stretto legame con il governo sciita di Baghdad. L’intesa russo-iraniana è evidente ma gli interessi tattici potrebbero non coincidere in futuro con quelli strategici: la Russia è potenza a tutto campo che vuole avere buoni rapporti con il mondo musulmano sunnita e non limitarsi a quello sciita.
Questa guerra è ibrida non solo perché è stata rotta ogni barriera tra militari e civili - ostaggio dei miliziani e bersaglio dei bombardamenti - è ibrida perché vengono utilizzate tutte le tecniche possibili, terrorismo compreso, e anche per il groviglio di interessi e alleanze. Sul fronte opposto a quello russo-siriano-iraniano, ci sono gli Stati Uniti coinvolti in due conflitti vicini ma assai diversi. In Iraq gli americani vorrebbero sferrare l’offensiva per riprendere Mosul dal Califfato ma devono contare sull’esercito di Baghdad, notoriamente alleato di Teheran. E il governo di Baghdad, già in contrasto con il Kurdistan di Massud Barzani, è in piena tensione con Ankara che mantiene truppe sul territorio iracheno. Mai gli Stati Uniti occupando l’Iraq nel 2003 immaginavano di potersi trovare dopo 13 anni in un groviglio così inestricabile. Sul fronte siriano Washington deve manovrare con la Turchia, un tempo pilastro della Nato, che detesta i curdi di Kobane appoggiati dagli Stati Uniti, ma anche con Israele che occupa le alture siriane del Golan e allo stesso tempo intrattiene ottimi rapporti con Mosca. Ecco perché l’incontro tra Putin ed Erdogan ad Ankara il 10 ottobre assume una importanza: se tra i due dovesse scaturire un’intesa può cambiare anche tutta la partita siriana.
In questo clima bellico ma anche di manovre diplomatiche e scambi di accuse reciproche, Mosca ha richiesto la convocazione del Consiglio di sicurezza dopo l’allarme lanciato dall’inviato Onu Staffan de Mistura secondo il quale Aleppo Est potrebbe essere totalmente distrutta dai bombardamenti russi. La proposta di de Mistura, sostenuta da Mosca, per il ritiro dei miliziani di al-Nusra in cambio della fine dei raid è stata respinta: i jihadisti, affiliati di al-Qaida, e riuniti nel nuovo Fronte Fatah al-Sham hanno dichiarato di essere determinati a spezzare l’assedio. La Francia vorrebbe mettere ai voti una risoluzione per una “no fly zone” mentre il segretario di Stato Usa John Kerry ha accusato la Russia e Assad di avere bombardato gli ospedali della Siria per “terrorizzare” i civili e ha richiesto un’indagine per “crimini di guerra”.
Repubblica 8.10.16
Perché con Trump i media non possono essere imparziali
Perfino il Nyt ha rinunciato alle sue cautele per smascherare le bugie del tycoon
di Timothy Garton Ash

TRUMP indossa l’inganno come una seconda pelle». A parlare è Nathan, un piccolo imprenditore che ho incontrato giorni fa a Chicago. Non avrei saputo trovare un’espressione migliore. Da uno studio recente è emerso che nei discorsi di Donald Trump ricorrono in media una menzogna o un’inesattezza ogni cinque minuti. Qui negli Usa infuria il dibattito sulla copertura mediatica da riservare a questo demagogo narcisista, bugiardo, ignorante e pericoloso. Ma la situazione in cui versano i media stessi è parte del problema.
Secondo l’opinione prevalente in campo giornalistico i conduttori televisivi e i cronisti dovrebbero smascherarlo quando infila una balla dopo l’altra, come ha fatto Leslie Holt della Nbc nel suo ruolo di moderatore del dibattito con Clinton. Fingersi imparziali di fronte a due candidati tanto diversi sotto il profilo qualitativo e della serietà significherebbe cader preda di quel pregiudizio che l’opinionista Brooke Gladstone ha definito Fairness Bias, ovvero l’ossessione della correttezza. «Grazie Professor Smith, per averci esposto la sua tesi secondo cui la terra è rotonda, ora concediamo altrettanto spazio e rispetto a quella del Signor Jones, secondo cui è piatta». Se vi serve un esempio recente di questa ossessione, basta che pensiate a come la nostra timida e intimidita Bbc ha coperto la campagna referendaria per Brexit.
È interessante notare che persino il New York Times — non per nulla soprannominato “la dama grigia” — ha rinunciato alla sua classica rigida imparzialità e alle cautele da zitella. Non passa giorno che non escano articoli che fanno la pelle a Trump. C’è da dire che la cronaca, pur offrendo ottimi pezzi di giornalismo investigativo sul passato di Trump come imprenditore, ciarlatano e fanatico, oggi scivola in aggettivi, ed espressioni peggiorative che un tempo avrebbero suscitato la disapprovazione della dama grigia dietro la sua tazza di tè.
Capisco perfettamente perché il New York Times ha abbandonato la prassi normale. In un editoriale ha definito Trump «il peggior candidato mai proposto da un grande partito in tutta la storia americana moderna ». Trump è una minaccia per la pace civile in patria e per la reputazione del paese all’estero. Un amico italiano paragona la reazione del quotidiano statunitense a quella de la Repubblica di fronte alla resistibile ascesa di Silvio Berlusconi.
Purtroppo questa presa di posizione potrebbe contribuire a rafforzare una tendenza strutturale in sé corrosiva per la democrazia americana. La tesi più americana a favore della libertà di espressione e di quella che, in termini anacronistici, definiamo ancora libertà di “stampa” — esplicitamente formulata nel Primo Emendamento — è che si tratta di libertà necessarie all’autogoverno democratico. Solo se i cittadini possono ascoltare tutte le opinioni e le prove attinenti, come facevano nell’antichità gli ateniesi radunati ai piedi dell’Acropoli, saranno in grado di fare una scelta informata e di autogovernarsi quindi nel vero senso del termine: prima la voce, poi il voto. Quindi bisogna ascoltare le tesi e le prove di entrambe le parti.
Ma sotto questo aspetto il primo duello televisivo tra i due candidati è stato l’eccezione che conferma la regola: una momentanea esperienza condivisa nella pubblica piazza. Per il resto del tempo gli elettori americani sono appartati nelle rispettive stanze dell’eco ad ascoltare opinioni che rafforzano le proprie. L’effetto stanza dell’eco è stato osservato in primo luogo su Internet, con gli utenti chiusi dentro un “bozzolo di informazione”, ma ormai è una caratteristica di tutto il panorama mediatico, non solo online e non solo statunitense. Siamo di fronte al contempo a una profusione da libero mercato di fonti di notizie e opinioni e ad una analoga frammentazione. Chi vota per Trump si informa guardando
Fox News, ascoltando i talk show radiofonici di destra, visitando siti come Breitbart e i profili degli amici di Facebook; gli elettori di Hillary Clinton usano canali televisivi e radio come Msnbc, Npr, Pbs, siti web come Slate o HuffPost, seguono persone di opinioni analoghe alle loro sui social media — e leggono l’organo di stampa ormai esplicitamente anti-Trump, il New York Times.
Da quando Internet ha distrutto il tradizionale modello economico dei giornali permettendo una fantastica profusione di fonti, tutte le testate (incluso il Guardian) competono selvaggiamente per accaparrarsi globi oculari e click del mouse in un frenetico affollatissimo campo, ventiquattr’ore su ventiquattro — l’equivalente virtuale della sala contrattazioni delle borse o di un mercato all’aperto in India. Basta urlare, urlare, urlare. Se c’è sangue fa notizia, vince chi strilla più forte. Il giornalismo sottile, equilibrato, fondato su dati comprovati, come quello che questo vostro umile servitore cerca di proporvi, fa fatica a farsi sentire in mezzo al baccano. Le possibilità tecnologiche, gli imperativi commerciali e forse persino i cambiamenti culturali si alleano per trasformare la democrazia deliberativa in info-intrattenimento.
La Reality Tv batte la realtà — e battere è la parola d’ordine. Come Berlusconi, Trump, imprenditore dello spettacolo e a suo tempo protagonista di reality televisivi, è sia prodotto che artefice di questo “mondo nuovo”. È il Jerry Springer della democrazia americana. Accanto alla cosiddetta destra alternativa (alt-right) abbiamo oggi la realtà alternativa.
Nella realtà alternativa i fatti, le prove e le opinioni degli esperti generano miti, folli esagerazioni, bugie e potenti narrazioni semplicistiche (lo slogan di Trump “rifare grande l’America”, quello dei fautori di Brexit “riprendere il controllo”). Gli storici della propaganda sanno che le menzogne ripetute allo sfinimento prevalgono sulla verità. Un effetto analogo hanno quelle stanze dell’eco multipiattaforma a ciclo continuo che sono i media di parte e i social media che rafforzano i pregiudizi.
Mi sono trovato a vivere l’esilarante esperienza di difendere un mio libro dal titolo Facts Are Subversive ( I fatti sono sovversivi) nel programma satirico Colbert Report.
Come sarebbe, gridava il conduttore, il comico Stephen Colbert, non voglio mica che i fatti mi sovvertano e mi facciano star male, voglio roba che mi fa star bene io! È rimasto famoso il suo neologismo truthiness, una verità di comodo, alternativa alla realtà. Beh, meno male che Colbert è passato a un altro programma, perché nel frattempo la realtà ha superato la sua satira. Trump è il gran maestro della verità di comodo. Anche se ormai ha lasciato perdere la teoria complottista secondo cui Obama sarebbe nato in Kenya, una delle dichiarazioni rilasciate dopo la pubblicazione del certificato di nascita del presidente è esempio perfetto delle sue verità di comodo. Trump spesso si nasconde dietro la frase «In molti pensano» ma in questo commento, espresso in un’intervista, fa un passo ulteriore, dal pensiero alla sensazione. Dice: «In molti hanno l’impressione che il certificato non sia valido». E sapete una cosa, io ho l’impressione che la terra sia piatta.
In effetti nel primo dibattito televisivo entrambi i candidati hanno fatto allusione a questa separazione in due stanze dell’eco rivali. Hillary ha sfoderato la sua classica battuta «Donald, so bene che vivi in un mondo tutto tuo». Quella di Trump è stata involontariamente più spiritosa e rivelatrice: «Credo che il miglior collaboratore di Hillary in campagna elettorale siano i media tradizionali». È una frase tipica di tanta retorica populista imperversante nel mondo, dagli Usa alla Francia, alla Polonia, all’India, che presenta i propri sostenitori come gruppo sotto attacco, oppresso dalle potenti elite liberali, spacciandoli per l’unica ‘gente vera’ (espressione spesso usata da Nigel Farage dell’Ukip).
La destra populista è più distorsiva, ma bisogna ammettere che la polarizzazione tendenziosa dei media, il semplicismo urlato, le stanze dell’eco, affliggono tutte le parti in campo. Nonostante siano liberi, privi di censure ed eterogenei, i media statunitensi costituiscono sempre meno la pubblica piazza condivisa che serve alla democrazia deliberativa. Un nobile cliché americano ci invita a credere nel “mercato delle idee”. In questa elezione sperimentiamo una crisi di mercato nel mercato delle idee.
Traduzione di Emilia Benghi
Il Sole 8.10.16
Elezioni USA
Trump, registrate le sue oscenità e volgari avances sessuali alle donne. È crisi tra i repubblicani
di Marco Valsania

Donald Trump Che per tre minuti interi viene filmato in uno scioccante e sbracato turpiloquio sulle donne. Il tutto è stato registrato durante un viaggio sull'autobus della trasmissione televisiva Access Hollywood nel 2005, quando era da poco sposato con Melania. Un registrazione audio e video finita in possesso del Washington Post. Il gelo è immediatamente caduto sui repubblicani, che da ieri notte hanno sempre più preso le distanze dal loro candidato alla Casa Bianca gia' sotto assedio, a soli due giorni dal secondo dibattito presidenziale con Hillary Clinton

New York - Donald Trump che si vanta di fare “cio' che vuole con le donne”. Perché “sono una stella e posso afferrarle per la f….”. Che di una donna in particolare dice: “L'ho inseguita come una cagna, ma non ci sono riuscito”. Che per tre minuti interi si produce in uno scioccante e sbracato turpiloquio sulle donne, tutto registrato durante un viaggio sull'autobus della trasmissione televisiva Access Hollywood nel 2005, quando era da poco sposato con Melania. Un registrazione audio e video finita in possesso del Washington Post.
Trump, registrate le sue oscenità e volgari avance sessuali alle donne
Il gelo è immediatamente caduto sui repubblicani, che ieri notte hanno sempre più scaricato il loro candidato alla Casa Bianca già sotto assedio, a soli due giorni dal secondo dibattito presidenziale con Hillary Clinton. “Sono disgustato”, ha detto lo Speaker della Camera Paul Ryan disinvitando senza indugi Trump da un evento assieme in Wisconsin previsto per oggi. Il leader del Senato Mitch McConnell ha detto che Trump “deve chiedere scusa a tutte le donne e ragazze per la totale mancanza di rispetto di questi commenti”. Ma un numero crescente di politici conservatori si è spinto oltre, ha attaccato Trump e ritirato del tutto ogni precedente appoggio. È il caso del governatore Gary Herbert dello Utah, che ha dichiarato: “Se non posso votare per Clinton, non voterò per Trump”.
Le prime scuse offerte da Trump hanno peggiorato ulteriormente la crisi, per la loro vaghezza e il desiderio di minimizzare i fatti. “Mi scuso se qualcuno si è sentito offeso”, ha fatto sapere in un comunicato definendo la sue battute come semplici “discorsi da spogliatoio”. E ha aggiunto che “Bill Clinton mi ha detto cose peggiori sul campo da golf”. Successive scuse in video ha ammesso di aver sbagliato ma ha denunciato le registrazione come una distrazione.
Trump era reduce da altre dichiarazioni incendiarie soltanto nelle ore precedenti. Parlando a Cnn aveva detto di essere convinto della colpevolezza di cinque ragazzi afroamericani ingiustamente accusati e condannati per un grave stupro a Central Park avvenuto nel 1989, nonostante la loro innocenza sia stata provata al di la' di ogni dubbio da test del Dna e siano stati esonerati dal tribunale. Ha poi accusato il presidente Barack Obama di far entrare nel Paese immigrati illegali allo scopo di invitarli a votare a novembre.
Corriere 8.10.16
Usa
Le infedeltà coniugali e gli obblighi della politica
risponde Sergio Romano

Il Corriere ha definito «un incubo» per la candidata dei democratici alla presidenza Usa le tante infedeltà coniugali di Bill Clinton, che potrebbero essere utilizzate da Donald Trump contro Hillary. Nella sua corrispondenza, da New York, Giuseppe Sarcina ha spiegato che il magnate tenterà di mettere in pessima luce anche la difesa del presidente, da parte dell’allora First lady della Casa Bianca: il tentativo, cioè, di screditare le amanti del marito, distruggendone la reputazione. Quanto peserà, a suo avviso, l’ingombrante passato di Bill Clinton sulle elezioni presidenziali di novembre? Ci sono analogie tra le vicende «erotico-politiche» d’Oltreoceano e la campagna mediatica che venne scatenata in Italia contro l’allora premier, Silvio Berlusconi, assolto in appello per l’ «affare-Ruby»? Ma che, certo, ne converrà, fu politicamente indebolito dai tanti attacchi che subì sulle frequentazioni di avvenenti donne molto più giovani del primo ministro.
Pietro Mancini

Caro Mancini,
Alla sua prima domanda rispondo che le intemperanze sessuali di Bill Clinton non dovrebbero avere alcuna influenza sulle elezioni. Sono vicende di parecchi anni fa e Hillary Clinton merita piuttosto di essere elogiata per il dignitoso buon senso di cui dette prova in quelle circostanze. Ma vi sono almeno due fattori che, sommati, rendono questi scandali più frequenti e i loro effetti meno prevedibili. In primo luogo è cambiato il galateo dei mezzi d’informazione. Vi è stato un lungo periodo in cui le chiacchiere sugli amori clandestini di una personalità pubblica apparivano soltanto sulla stampa scandalistica ed erano generalmente ignorate dai migliori giornali di opinione. In Gran Bretagna la regola è stata osservata, più o meno, sino alla intervista televisiva della principessa Diana per un programma della Bbc nel 1995. In Francia, dove un presidente della Repubblica, nel 1899, morì durante un amplesso pomeridiano in un salotto dell’Eliseo, questa tradizione è stata rispettata sino alla presidenza di François Hollande. Oggi la distinzione sopravvive soltanto nello stile con cui i due giornalismi raccontano queste vicende. Ma le remore del passato sono scomparse.
   Il secondo fattore è la maggiore loquacità delle amanti o delle loro amiche. Il fenomeno non è nuovo, ma molto più diffuso del passato. Fu Gennifer Flowers che rivelò la sua relazione con Bill Clinton. Fu una compagna di lavoro di Monica Lewinsky che diffuse la notizia di un rapporto «improprio» con il presidente nello studio ovale. Fu Anita Hill, giovane professore di Diritto in una università dell’Oklahoma, che nel 1991 accusò il giudice Clarence Thomas di molestie sessuali mentre il magistrato, nominato dal presidente alla Corte Suprema, attendeva l’approvazione del Senato e si proclamava innocente. Il caso è stato raccontato in un film recente, «Confirmation» di Rick Famuyiwa, con una scrupolo documentario che lascia lo spettatore incerto sulle opposte tesi dei due protagonisti. Come spesso in queste vicende continueremo a chiederci se l’uomo abbia abusato della sua autorità o la donna abbia approfittato del nuovo clima creato dalla emancipazione femminile per conquistare popolarità o saldare un conto privato.
Quale che sia la verità, gli uomini pubblici, in questo nuovo clima, devono dare prova di maggiore prudenza. È questa a mio avviso la maggiore colpa di Berlusconi nel così detto «affare Ruby». Parafrasando Talleyrand quelle serate nella villa di Arcore erano peggio di un reato; erano un errore di gusto e di stile.
Repubblica 8.10.16
La meteorologa
Oceani sempre più caldi le catastrofi aumenteranno
Non solo Tropici: negli ultimi anni l’area a rischio si è spostata verso Nord
di Valentina Acordon

URAGANI sull’Oceano Atlantico, Tifoni sul Pacifico e Cicloni sull’Oceano Indiano, nomi diversi per il fenomeno meteorologico più impressionante e distruttivo che conosciamo. Possiamo immaginarlo come una gigantesca e profonda depressione attorno alla quale l’aria si invortica in senso antiorario con venti violentissimi che negli uragani peggiori, quelli di categoria 5 sulla Scala di Saffir-Simpson, possono superare i 250 chilometri orari. Matthew, di categoria 4, ha raffiche tra i 200 e i 250 km/h, ma la velocità del vento è solo uno dei fattori di pericolo di un ciclone tropicale. Molti dei danni sono dovuti anche all’ondata di marea generata dalla bassa pressione atmosferica, che nell’occhio del ciclone può precipitare sotto i 920 hPa, facendo innalzare il livello del mare e provocando estese inondazioni come nel caso dell’uragano Katrina a New Orleans nel 2005. Tempeste così potenti, per formarsi e sostenersi, hanno bisogno di molta energia che gli viene fornita dall’acqua molto calda degli oceani tropicali e per questo ci si attende che in futuro, in un clima sempre più caldo, diventino più frequenti.
Alcuni dati del passato lo dimostrano, per esempio il maggior numero di uragani tra il 1940 e il 1970, quando l’Oceano Atlantico fu insolitamente caldo, ma incidono anche altri fattori, come El Niño che favorisce lo sviluppo di cicloni sull’Oceano Pacifico, mentre lo inibisce sull’Atlantico. Negli ultimi anni, più che un aumento effettivo del numero di uragani, a colpire è stato però il loro spostamento più a Nord.
Di solito, quando trovano acque più fredde, i cicloni perdono vigore, ma recentemente per ben due volte (Irene nel 2011 e Sandy nel 2012) si sono spinti fino a New York, un segnale evidente degli effetti di un clima più caldo.
Fortunatamente gli uragani sono uno dei fenomeni meteorologici più facili da prevedere. Da quando si formano come semplici tempeste tropicali in mezzo all’oceano vengono seguiti e monitorati grazie ai moderni modelli meteorologici, che consentono di calcolarne la traiettoria permettendo di evacuare in tempo la popolazione. Non andò così a Galveston, in Texas, nel 1900.
All’epoca non esistevano neppure i satelliti e i meteorologi, basandosi solo sulle osservazioni locali, non credettero all’arrivo del ciclone e non allertarono la popolazione. L’uragano, simile a Matthew, giunse così inatteso e rase al suolo la città provocando migliaia di vittime.
Repubblica 8.10.16
Alla London School of Economics
Londra vuole solo analisti inglesi

ROMA. Il governo britannico ha vietato di avvalersi di accademici stranieri della London School of Economics per analisi sulla Brexit perché non sono cittadini inglesi. Il quotidiano The Guardian cita una docente della Lse, Sara Hagemann, danese, che si è sfogata attraverso Twitter: «Prima il governo cercava il consiglio degli esperti migliori. Ora mi è stato detto che io e i miei colleghi non siamo più qualificati in quanto cittadini non britannici». L’esecutivo teme che persone non inglesi possano divulgare materiale sensibile, una volta avviata la procedura di uscita dall’Unione Europea.
il manifesto 8.10.16
Debito, la Grecia in vendita
Nuova finanza pubblica. La rubrica settimanale
di Marco Bersani

Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’uso ideologico del debito come «shock» per procedere all’espropriazione di diritti e beni comuni, è ancora una volta la drammatica esperienza della Grecia a diradarli.
Con 152 voti a favore e 141 contrari, lo scorso 27 settembre il Parlamento greco ha approvato le nuove misure di austerità, proposte dal governo Tsipras per ottenere la nuova tranche di prestiti dalla Troika, finalizzata al pagamento del debito.
Con i nuovi provvedimenti, la Grecia, come previsto dal Terzo Memorandum, viene posta letteralmente in vendita: tutte le proprietà pubbliche vengono trasferite all’Hellenic Company of Assests and Partecipations (HCAP), un superfondo finanziario con l’obiettivo esplicito di «ricavare liquidità a breve termine, facendo fruttare il patrimonio pubblico oppure vendendolo».
Basta scorrere l’elenco per vedere quanti settori strategici e proprietà pubbliche saranno coinvolte in quello che è già stato definito il più grande piano di privatizzazioni messo in campo in Europa dopo l’istituzione nel 1990 del Treuhandanstalt tedesco, l’ente di gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994, garantì, per la riunificazione della Germania, la dismissione di circa 8.000 aziende dell’ ex Ddr, per un valore patrimoniale pari a 307 miliardi di euro attuali.
Il piano di Tsipras prevede la vendita dell’aeroporto internazionale di Atene (a Lambda Development, con la costruzione di una città privata su 3 milioni di mq davanti al mare) e di 14 aeroporti regionali (già acquistati dal consorzio tedesco Fraport-Slentel); del porto del Pireo (consorzio cinese Cosco) e di quello di Salonicco (capitali russi); della Ferrovia Tranoise (questa volta arrivano i «nostri» di Trenitalia); delle autostrade; delle società pubbliche di energia elettrica, gas e petrolio; delle poste, della società di telecomunicazioni e –last but non least- delle compagnie Eydap e Eyath, che gestiscono rispettivamente l’acqua ad Atene e a Salonicco.
Il superfondo HCAP avrà la durata di 99 anni e sarà gestito da tre tecnici nominati dal governo greco e da due dell’ESM (European Stability Mechanism).
È l’ennesimo sacrificio per uscire dalla spirale del debito? Naturalmente no, e i dati sono lì a dimostrarlo: mentre l’economia greca è sprofondata del 40% (la stessa caduta delle economie europee durante la seconda guerra mondiale), il 95% degli «aiuti» finanziari dati alla Grecia è servito a mettere in sicurezza le banche europee che lì si erano sovra esposte; e il rapporto debito/Pil, che prima della crisi era del 130%, oggi veleggia sopra il 180%.
Alla luce di quanto sopra, alcune domande tornano utili: le privatizzazioni servono a ridurre il debito, o è lo shock artefatto del debito ad essere messo in campo per poter proseguire con le privatizzazioni?
La resa di Tsipras, dopo che la Commissione per la verità sul debito greco, istituita nella primavera del 2005 per iniziativa dell’allora Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, aveva dimostrato la totale illegittimità e insostenibilità del debito stesso, e soprattutto dopo lo straordinario «No» del referendum popolare contro le misure imposte dalla Troika, era inevitabile?
L’attualità dimostra dove ha portato quella strada: oggi la Grecia è un paese in vendita e la democrazia un abito formale, dietro il quale i poteri finanziari estendono la propria sfera d’influenza sull’intera società greca.
A Tsipras non rimane che raccomandare alle forze dell’ordine di non usare i gas lacrimogeni contro le manifestazioni dei pensionati.
il manifesto 8.10.16
Socialdemocratici a rischio nella Repubblica ceca
Elezioni regionali. Il partito del premier in carica Bohuslav Sobotka sconta l'azione mediocre del governo
di Jakub Hornacek

PRAGA Dopo il fallito referendum ungherese, un altro Paese del centro-est Europa va al voto in queste ore. Venerdì 7 e sabato 8 ottobre si tengono in Repubblica Ceca le elezioni per il rinnovo dei consigli regionali e di un terzo del Senato.
Il voto arriva a solo un anno prima delle elezioni alla Camera dei Deputati. In palio ci sono 13 consigli regionali e 27 collegi senatoriali. Il partito, che ha più mandati da perdere, sono i socialdemocratici. Il partito socialdemocratico ha undici presidenti di regione e nelle restanti due regioni è nella coalizione di governo. Un risultato difficile da replicare dopo tre anni di governo nazionale per molti tratti mediocre e poco appassionante. Lo stesso premier appare come un figura alla continua ricerca di compromesso tra gli esponenti del suo partito e i partiti alleati. Il suo governo ha perciò preso parte a fronte di Visegrad compattatosi intorno al problema delle quote rifiutando la distribuzione per quote. Allo stesso tempo Sobotka ha però rifiutato di seguire il premier slovacco Fico e quello ungherese Orban nel ricorso presso la Corte europea contro il meccanismo messo a punto dalla Commissione. Ciò gli ha valso molte critiche dalla destra populista e da certi ambienti conservatori del suo stesso partito.
Sebbene Sobotka non si sia particolarmente speso nella campagna elettorale, l’insuccesso elettorale potrebbe costargli la leadership interna nel partito. I socialdemocratici governano praticamente tutte le regioni ceche da ormai otto anni. In questo periodo le regioni sono diventate uno snodo vitale per le clientele del partito in termini di mandati, posti nei cda delle aziende controllate e soprattutto distribuzione dei fondi europei. Una forte perdita di peso in questi organismi potrebbe aizzare l’opposizione interna e penalizzare Sobotka in vista del congresso prima delle elezioni parlamentari.
Il principale concorrente dei socialdemocratici è sicuramente il movimento del miliardario e vicepremier per le finanze Andrej Babis Ano 2011. Andrej Babis vede le regionali come l’anteprima delle elezioni parlamentari, in cui vuole scavalcare i suoi alleati socialdemocratici primo e diventare il premier. In queste elezioni Babis ha puntato su narrazioni populiste do ogni tipo, dalla vecchia e buona antipolitica fino alla contrarietà all’accoglienza dei rifugiati. Babis si è perfino spinto a dire che i campi di concentramento per i Rom usati come posto di transito per i campi di sterminio erano dei «semplici campi di lavoro», dove veniva messa gente, che non aveva voglia di lavorare. «Il principale problema di Ano è che parla a lelettori troppo diversi In alcune regioni si presenta come un tradizionale partito di centro-destra e della classe media. In altre regioni più povere si trasforma in un partito populista, che si rivolge a elettori frustati dalla loro condizione sociale. Sarà difficile tenere tutto quanto assieme», dice il sociologo Daniel Prokop.
Sebbene il tema dei rifugiati sia un argomento cardine anche nelle elezioni regionali ceche, le chance dei partiti xenofobi e islamofobi risultano alquanto ridotte. Lo spettro politico dei partiti xenofobi e antieuropei è infatti frammentato e in alcune regioni ci sono perfino sei, sette liste con programmi quasi uguali e lo stesso peso politico. Unica speranza per questi partiti sono le elezioni senatoriali a collegio unico. In questo tipo di elezioni l’afflusso degli elettori è ridotta e al secondo turno non vota solitamente più del 25% dell’elettorato. Per questo motivo si sono schierati ai nastri di partenza tutti i big di questa area politica, ma solo un paio di essi ha una qualche possibilità di venir eletto. In parte le basse preferenze di questi partiti sono spiegabili dal fatto che un’attitudine negativa nei confronti dei rifugiati e del sistema di quote è stato mostrato da praticamente tutti i partiti parlamentari. Ormai questa posizione politica è diventata un must per non perdere elettori ma non è sufficiente per guadagnarne di nuovi. Con queste elezioni non emergeranno probabilmente nuovi partiti di protesta ma verranno consacrati i populismi già al governo con giacca e cravatta.
Corriere 8.10.16
Spagna, i socialisti vanno a picco più che altrove
I socialisti spagnoli sono in caduta libera. Il Psoe che negli anni Ottanta sfiorava il 50 per cento dei consensi, adesso arriva al 22. Ne parlano Jordi Pérez Colomé e Kiko Llaneras sul País . I socialisti vanno male anche nel resto d’Europa, ma in Spagna peggio che altrove. Tra le cause, la modifica della legge elettorale. Ma non basta a spiegare il tracollo. Ci sono ragioni più profonde, come l’aver perso il monopolio delle rivendicazioni sociali, scavalcati dai movimenti populisti. Ma la Spagna paga anche l’assenza di un leader credibile.

Repubblica 8.10.16
Il giro di vite di Berlino tagli al welfare per stranieri sussidi solo dopo 5 anni
Prima l’annuncio di May, ora tempi stretti anche per una legge tedesca Oggi bastano sei mesi per i sostegni. Tra i beneficiari gli italiani sono secondi
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. È una misura pensata per scoraggiare quello che i conservatori tedeschi chiamano con un termine orribile “turismo sociale”, cioè per limitare soprattutto l’immigrazione est europea attratta dal generoso welfare tedesco. A presentarla, però, sarà la ministra socialdemocratica del Lavoro, Andrea Nahles. La prossima settimana il governo Merkel dovrebbe discutere, stando ad indiscrezioni uscite su alcuni giornali, la legge fortemente voluta dalla ministra che introduce un severo giro di vite sugli aiuti sociali concessi ai cittadini di altri Paesi europei.
Restrizioni, sostengono gli stessi organi di stampa, che il ministro dell’Interno cristianodemocratico, Thomas De Maizière, avrebbe voluto persino più dure. Il risultato della mediazione è comunque una cesura netta col passato. Prima di cinque anni i polacchi, gli italiani o i portoghesi e gli altri cittadini europei che arriveranno in Germania non avranno accesso al diritto al sussidio di disoccupazione o ad altri assegni di sostegno, se non avranno lavorato prima. Adesso il limite è di sei mesi.
Per gli italiani, non è un dettaglio. Secondo i dati dell’Ufficio federale del Lavoro (Bundesagentur fuer Arbeit) a gennaio di quest’anno erano circa 440mila i cittadini europei che beneficiavano di un qualunque tipo di sussidio. Il gruppo più ampio, effettivamente, risultavano essere i polacchi: 92mila. Ma al secondo posto ci siamo noi, con 71mila persone che ricevono un assegno sociale. Al terzo posto ci sono i bulgari (70mila), al quarto i rumeni (57mila), i greci (46mila). La stragrande maggioranza di chi usufruisce di questi aiuti ha un lavoro con cui non arrivano a fine mese — tipicamente è un “minijobber” che guadagna massimo 450 euro al mese — Lo scorso inverno, quando è cominciata la discussione sulla possibilità di un giro di vite sugli aiuti sociali per gli stranieri, e su Nahles si è abbattuta una bufera di polemiche, la ministra ha incassato l’appoggio convinto di Angela Merkel. Nahles reagisce così ad una sentenza del Tribunale federale per il sociale (Bundessozialgericht) che avevano deciso l’anno scorso che i cittadini europei avessero diritto ad un sussidio a sei mesi dall’arrivo in Germania. Una sentenza che ha suscitato un’insurrezione tra i Comuni, che temevano un’impennata di costi. Ma il loro allarme contrasta, evidentemente, con le dichiarazioni di Nahles, che ha sempre detto che le restrizioni riguarderanno pochissime persone. Delle due l’una: o avrà l’effetto che sperano i Comuni e terrà lontani molti stranieri oppure è una misura che riguarda una manciata di migranti, e allora non si capisce perché adottarla, suscitando enormi polemiche.
Intanto il capo dell’associazione dei Comuni tedeschi, Gerd Landsberg, ha già espresso soddisfazione per la notizia e spinge per una rapida approvazione. «Le attuali regole e la recente sentenza del Tribunale federale contribuiscono a rendere la Germania ancora più attraente per chi vuole espatriare da qualche Paese europeo». Ieri un giornale già titolava “limiti per stranieri Ue” invece di “cittadini Ue”. Lapsus o segno dei tempi?
Corriere 8.10.16
Margrethe Vestager, commissaria europea per la concorrenza
«Sulle tasse ai big americani non ci fermiamo, fino in tribunale»
«Iliad in Italia? Contano gli investimenti»
Stefano Montefiori

di PARIGI La «regina Margherita» sta diventando una delle rare personalità popolari dell’Unione Europea. Margrethe Vestager, 48 anni, commissaria per la concorrenza, già femminista e più giovane ministro nella storia danese (a 29 anni), oltre a dare l’ispirazione ai creatori della serie tv scandinava Borgen per il personaggio di Birgitte Nyborg e a postare su Twitter le foto dei suoi elefantini fatti a maglia, ha soprattutto sostituito le lunghe contrattazioni del suo predecessore Joaquin Almunia con metodi molto determinati. Dopo essersi interessata a Google (tre volte), Amazon, Fiat, McDonald’s, Gazprom e Starbucks, lo scorso agosto Vestager ha chiesto 13 miliardi di euro di tasse non pagate ad Apple, affrontando senza scomporsi le reazioni stupefatte dall’altro lato dell’Atlantico. L’abbiamo incontrata ieri, assieme ad altri giornalisti europei, alla fine dei due giorni di dibattiti che hanno celebrato i 20 anni del Jacques Delors Institute e segnato il passaggio di consegne dal fondatore al nuovo presidente Enrico Letta.
Commissaria Vestager, è consapevole del ruolo che sta acquisendo a livello europeo? Nel momento di sfiducia nelle istituzioni e di incertezza sul futuro dell’Unione, le sue azioni a tutela della concorrenza e dei consumatori sono tra le poche a sembrare incisive, a esprimere un vero potere. Sente una nuova responsabilità?
«Ho il privilegio di dedicarmi a qualcosa che è importante per me. Lavoro con tanti avvocati ed economisti, sono tutti molto tecnici, ma in fondo cerco solo di rendere il nostro mercato più giusto. Forse i cittadini europei si accorgono che qualcuno ci prova, a impedire che certi accordi vengano fatti di nascosto, sopra le loro teste. Forse capiscono che proviamo a contrastare chi decide prezzi, o quote di mercato, o favori che alcuni Stati fanno solo ad alcune aziende e non ad altre. Vedo che ci sono molte reazioni positive, persone che ci scrivono e ci sostengono. Ecco, non ci riempiono le cassette delle lettere quando magari ci occupiamo di un programma di energie rinnovabili in Germania. Che è utile, ma non ha la stessa risonanza».
È da poco tornata da un viaggio negli Stati Uniti, si aspettava la durezza della reazione americana?
«C’era da aspettarselo perché il sistema americano è molto diverso da quello europeo. Abbiamo la stessa impostazione quanto all’anti-trust, ma in Europa decenni fa noi abbiamo aggiunto il controllo sugli aiuti di Stato. Gli Stati membri non possono influire sulla concorrenza, al contrario di quel che accade in America, dove è molto comune negoziare con uno Stato il livello della tua imposizione fiscale per raggiungere un accordo e magari spostare lì la sede della tua compagnia. Sono felice di essere andata in America a spiegare che quel tipo di comportamento, in Europa, è illegale. Ho incontrato il segretario del Tesoro Jack Lew ed esponenti del Congresso. Almeno i disaccordi saranno sulla realtà, e non sui malintesi».
Teme che ci possano essere delle forme di rivalsa degli Stati Uniti nei confronti delle aziende europee?
«Quel che abbiamo in comune tra Stati Uniti e Europa è che entrambi agiamo sulla base di leggi, e questo è fondamentale. Andremo avanti, la nostra azione nei riguardi di Apple verrà contestata in tribunale, verrà messa alla prova della legge, e sono assolutamente fiduciosa che gli Stati Uniti in casi simili agiranno in base agli stessi standard».
A che punto è l’azione nei confronti di Google?
«Ci sono tre indagini in corso, l’ultima è quella su AdSense, poi c’è il caso dei risultati delle ricerche che favoriscono il suo servizio di shopping online e l’uso di Android per mantenere la posizione dominante. Andiamo avanti».
Che cosa pensa della fusione in programma tra Bayer e Monsanto?
«Esercitiamo il controllo sulle fusioni cercando di verificare sempre la stessa cosa, sia che ci occupiamo di cioccolata o di pesticidi: un eventuale danno alla concorrenza. Controlliamo che i consumatori continuino a godere di capacità di scelta, innovazione, prezzi diversi. Lo abbiamo fatto per Dow-Dupont o per ChemChina-Syngenta. Su Bayer e Monsanto vedremo».
E di Microsoft che compra LinkedIn?
«Finora i dati personali non sono stati la nostra principale preoccupazione, ma tendiamo a guardare sempre di più se hanno un effetto sulla concorrenza. Avere una grande quantità di dati di per sé non è un problema, ma lo diventa se influisce sulla competizione».
Con l’arrivo di Iliad in Italia sono sciolte le riserve sul mercato della telefonia mobile?
«La cosa importante di Iliad in Italia sono gli investimenti. C’è un futuro da creare, vediamo come viene messa in pratica la decisione di entrare nel mercato. H3G e Wind hanno scelto Iliad come remedy taker ed è un’ottima soluzione perché Iliad ha una cultura molto competitiva. Basta guardare a che cosa ha fatto in Francia, c’è più scelta e qualità. In Italia due aziende ora possono fondersi e allo stesso tempo c’è un nuovo, forte player come Iliad. Tutto questo andrà a beneficio dei cittadini italiani».