sabato 12 novembre 2016

La Stampa Tuttolibri 12.11.16
Il falò delle vanità brucia anche Darwin e Chomsky
Il padre del New Journalism americano stronca i due miti dell’evoluzionismo e della linguistica: provocazione elegante, ma zeppa di strafalcioni
di Gianni Riotta

Tom Wolfe, 85 anni, americano, è uno dei padri dell’irriverente New Journalism, che allo stile inamidato del New York Times preferiva una prosa personale, in diretta, senza misure. Wolfe, celebre per gli atteggiamenti da dandy e il perenne abito bianco, ha via via demolito con talento, in saggi e romanzi, il mito dello spazio, l’arte e l’architettura moderna, la sinistra chic, l’illusione newyorchese della coesistenza fra razze.
Nell’ultimo libro, Il regno della parola, tradotto con tempestività da Giunti, la verve di Wolfe affronta un soggetto su cui gli studiosi si affaticano da secoli, l’origine del linguaggio. Non aspettatevi note a piè di pagina su De Saussure «langue» e «parole» o il «secondo Wittgenstein», Wolfe sceglie il pamphlet, succinto excursus sul tema e poi la polemica prende il sopravvento. Bersagli, stavolta, Charles Darwin e la teoria dell’evoluzione e il formidabile linguista Noam Chomsky, persuaso che il dono del parlare sia innato in noi, grazie a una «grammatica universale».
A Darwin, Wolfe oppone Alfred Russel Wallace, un naturalista contemporaneo che anticipò i temi dell’evoluzionismo, finendo però per credere ai fantasmi e a dialogare con i morti. A Chomsky, invece, contrasta il missionario diventato antropologo Daniel Everett che, studiando i Piranha, remota tribù di indigeni dell’Amazzonia, notò come alla loro lingua mancasse la «ricorsività» tipica dell’«innatismo» di Chomsky, per cui montiamo frasi come matrioske: «Ho visto Piero al bar mi ha detto di aver perduto la valigia che io gli avevo regalato…». Per vari studiosi, e per Wolfe, questo basta ad azzerare le teorie del padre della «grammatica generativa», per altri Everett è smentito da ulteriori ricerche.
Tom Wolfe non ha tempo per le filologie, ce l’ha con Darwin, aristocratico, uomo da club, mentre il povero Wallace tirava a campare e detesta Chomsky per la lunga attività di militante politico, e fosco complottista, contro i mali del capitalismo occidentale e Israele. Qui il lettore de Il regno della parola arriva a un bivio, senza ritorno. Se accetta che il libro sia solo brillante polemica, allora lo godrà fino all’ultima riga. Se invece crede si tratti di un serio trattato su natura, cultura e storia del linguaggio, si prepari a brutte sorprese e, soprattutto, non lo dia ai figli come fonte per ricerche a scuola, finirebbero bocciati senza appello.
È vero che c’era in Darwin ogni tic del gentleman vittoriano ed è altrettanto vero che l’ossessiva propaganda di Chomsky è, da decenni, stucchevole. Ma irridere il lavoro scientifico dei due è altra cosa: entrambi, nei loro campi, hanno guidato rivoluzioni e mutato la cultura contemporanea. Finché è sorretto dalla scrittura Wolfe diverte, quando prende di petto la scienza scade. Dire che non ci sono «prove scientifiche» dell’evoluzione - dopo riletture come quella di Stephen Jay Gould - è falso, i fossili datati confermano Darwin, non trovate lo scheletro di un Homo Sapiens divorato da un Tirannosauro Rex, né un cane lupo di razza odierna a spasso con i Neandertal, per non citare le odierne scoperte della biologia molecolare. Wolfe, come capita ai corsivisti innamorati della propria scrittura, non ha tempo per studiare i fatti. Einstein non ha scoperto la velocità della luce, Galileo ci provò e l’astronomo danese Ole Roemer già nel 1676 fece calcoli assai precisi. E non è vero che Darwin non azzardò mai previsioni, per esempio sull’evoluzione dell’uomo dall’Africa ebbe intuito felice.
Dopo avere fatto a pezzi Darwin e «Noam Carisma», come soprannomina Chomsky, Wolfe espone la «sua» teoria del linguaggio, ridotto a gioco mnemonico per semplificare la vita dei nostri antenati. Anziché vedersi sfuggire una lepre al giorno per non saper mai dire «Zitto!» al rumoroso compagno di caccia, ecco inventato il linguaggio. Il nostro poderoso cervello non verrebbe dunque dall’evoluzione, perché, secondo Wolfe, gli uomini delle caverne non giocavano a scacchi, studiavano l’algebra di Boole o le teorie balistiche di Kolmogorov. Ma non è così. Non solo gli «uomini primitivi» erano medici, artisti, cuochi, cacciatori, artigiani, farmacisti, politici e teologi sofisticati, ma la nostra cultura, umanistica o scientifica, procede per accrescimento progressivo. Non siamo più «intelligenti» di Aristotele, Spinoza e Bayes, siamo più dotati di informazioni, e strumenti, di loro.
È bello che Wolfe resti così creativo e arrabbiato, ma speriamo che nel prossimo lavoro punti a temi alla sua portata, senza scarabocchiare sui monumenti, come uno scolaro dispettoso in gita.
Repubblica 12.11.16
Immigrazione, le bugie da rottamare
Sfatare pregiudizi e false notizie sui flussi migratori: è l’obiettivo della conferenza organizzata dalla Fondazione Veronesi a pochi giorni dalla scomparsa del suo creatore e animatore
“Serve una legge che cancelli il reato di clandestinità e dia brevi permessi di soggiorno”, dice Emma Bonino
di Laura Montanari

«Non è una catastrofe e non è nemmeno un’invasione ». Emma Bonino pensa che il tema dell’immigrazione debba essere spogliato da molte bugie che lo avvolgono a cominciare dal «ci rubano il lavoro» al «guadagnano 35 euro al giorno per non fare niente». Lei e i Radicali italiani hanno ideato un “prontuario” per sfatare leggende che sembrano costruite apposta per creare un clima ostile contro gli stranieri che approdano sulle coste greche o su quelle italiane dopo avventurose e spesso drammatiche traversate in mare sui gommoni dei trafficanti. Emma Bonino sarà fra gli ospiti dell’ottava conferenza di Science for Peace, progetto avviato nel 2009 da Umberto Veronesi, intitolata “Migrazioni e futuro dell’Europa”. L’appuntamento è in programma il 18 novembre all’università Bocconi di Milano, dove ci saranno fra gli altri anche Alberto Martinelli, presidente dell’International Social Science Council, scienziati come Telmo Pievani e Guido Barbujani, la sindaca di una città di frontiera come Lampedusa, Giusi Nicolini, un sociologo come Domenico De Masi e poi Gherardo Colombo, Kathleen Kennedy Townsend e altri. Emma Bonino interverrà sul tema del governo dei flussi migratori: «Penso che quello che serva all’Italia oggi sia una nuova legge sull’immigrazione, dobbiamo aggiornare le norme per poter stare al passo con la realtà», spiega l’ex ministro degli Affari Esteri del governo Letta. «Abbiamo bisogno di una legge che, per esempio, cancelli il reato di clandestinità introdotto dalla Bossi-Fini, che preveda un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione. E poi la reintroduzione della chiamata diretta, la semplificazione delle procedure per il riconoscimento dei titoli di studio».
Secondo le Nazioni Unite, nel 2015 i migranti (intesi come persone che vivono in un Paese diverso da quello di origine, quindi non soltanto i profughi) nel mondo sono stati 244 milioni, circa il 3 per cento della popolazione del Pianeta. L’Europa ne ospita 76 milioni, l’Asia 75, il Nord America 54, l’Africa 21, l’America Latina 9 e l’Oceania 8. Di tutte queste persone circa il 10-15 per cento è totalmente sprovvisto di documenti. I residenti stranieri in Italia sono circa 5 milioni: siamo il terzo Paese dell’Unione europea, più di noi ne ospita la Germania (7,5 milioni) e il Regno Unito (5,4 milioni). Ma se si guarda all’incidenza sulla percentuale della popolazione, si scopre che in Italia è dell’8,2 per cento a fronte del 45 del Lussemburgo, il 13 dell’Austria, il 10 della Spagna. “Questi numeri”, scrive in una nota Science for Peace, “dovrebbero aiutarci a ridare le giuste proporzioni ai flussi migratori che hanno interessato di recente l’Europa: certamente ingenti, ma abbastanza modesti in termini globali”.
Alla conferenza alla Bocconi interverrà, fra gli altri, il professor Massimo Livi Bacci, uno dei massimi esperti di demografia: «Potremmo ricordare che alla fine della Seconda guerra mondiale, quando vennero ridisegnati i confini di Germania, Polonia e Urss, i rifugiati furono fra i 15 e i 16 milioni o che quelli dell’ex Jugoslavia fra gli anni 1992 e 1993 furono tra i 700 e gli 800mila, mentre se prendiamo gli esodi via mare dell’anno scorso arrivati in Europa, siamo a oltre un milione». E allora perché tutto questo allarme? «La questione rifugiati», risponde Livi Bacci, «sta mettendo a nudo la disunione dell’Europa. Ci sono Stati che giocano al “Lego migratorio” alzando, in certi posti, dei muri. Quello che emerge sono le enormi difficoltà da parte dell’Ue».
Va detto però che nel mondo il fenomeno dei profughi ha raggiunto livelli senza precedenti: si contano 40 milioni di sfollati, 21 milioni di rifugiati (sia politici, sia economici, cioè quelli che fuggono dalle povertà). Il fatto più preoccupante è che, come sottolinea nel presentare l’iniziativa di quest’anno Science for Peace, questa situazione è destinata ad aggravarsi sia per “l’instabilità politica delle regioni dalle quali i migranti si muovono, sia per l’esponenziale crescita demografica mondiale. Per disegnare una strategia di risposta possibile è necessario uno straordinario sforzo politico, culturale e scientifico”. A parte la pace, bisogna “mettere in atto strumenti per raggiungere una sostenibilità dal punto di vista agricolo e climatico. In secondo, per migliorare la salute delle persone sono indispensabili maggiori investimenti in ricerca, prevenzione e cura delle malattie”. In Africa uccidono oltre alle armi, patologie facilmente debellabili con vaccini o con accorgimenti igienico- sanitari. Da qui l’importanza di promuovere politiche di pace e di cooperazione dal momento che è chiaro che l’accoglienza, pur necessaria, non potrà da sola garantire il futuro ai popoli in cammino.
L’autore Adrian Paci ha vinto l’Art for Peace Award
Repubblica 12.11.16
La guerra dei mondi di Stalin raccontata da H. G. Wells
Le strane trasferte in Urss del padre della fantascienza rivivono in un volume con i suoi appunti di viaggio
di Stefania Parmeggiani

«Mi sembra di essere più a sinistra di lei, Mr Stalin; sono più convinto di lei che il vecchio sistema sia vicino alla fine». L’uomo che pronunciò queste parole a Mosca nel 1934 era un socialista anglosassone di stampo ottocentesco, un uomo troppo moderato per credere alla rivoluzione armata, strenuo sostenitore dell’uguaglianza sociale e delle libertà individuali. Era Herbert George Wells, autore de La Guerra dei mondi e di romanzi visionari che hanno segnato la storia della fantascienza, di pamphlet, saggi, articoli di giornali e interviste. La più celebre e criticata, quella al leader sovietico, è stata ripubblicata dalla Nuova Editrice Berti come appendice di un libro, Russia nell’ombra, che raccoglie le pagine di viaggio dello scrittore, finora inedite in Italia. Viaggio che fece quattordici anni prima, nel 1920, a tre anni dalla Rivoluzione di Ottobre. Insieme al figlio è ospite dell’amico Maksim Gorkij a San Pietroburgo e poi a Mosca, dove incontra Lenin. Seguirlo nell’esplorazione della nuova Russia comunista è una esperienza affascinante. Il suo sguardo, lucido e attento, fotografa un paese devastato dagli anni di guerra e dal blocco economico imposto dagli stati occidentali: «L’impressione prevalente è che sia in corso in tutta la nazione un vasto, irreparabile sfacelo». Ma a differenza della stampa britannica, Wells sostiene che non sia stato il comunismo, ma il capitalismo «a trascinare questo immenso, scricchiolante impero alla bancarotta e in sei anni di estenuante guerra». Il viaggio in Russia oltre a lasciargli in eredità un’aperta ostilità nei confronti di Marx, lo convince del fatto che il governo dei Soviet sia «allo stesso tempo il più temerario e il più inesperto che ci sia al mondo». I bolscevichi, pur con tutti i difetti e le colpe — innanzitutto la pretesa di una divisione netta tra capitalisti e proletari che esclude l’esistenza di una classe media — sono secondo lui l’unica ancora di salvezza per la Russia.
L’incontro con Lenin lo riempie di speranze, quello con Stalin lo costringe a misurare la distanza tra la sua visione del mondo e la realtà.
Nel 1934 torna a Mosca convinto che possa esistere una via praticabile e alternativa al new deal e al piano quinquennale, spera in una collaborazione sovranazionale e invece si scontra con un leader, i cui crimini non sono ancora noti, che sostiene il radicale «antagonismo tra due mondi». Le sue aspettative finiscono ben presto travolte dalla Storia. Scrive Cecilia Mutti nella nota biografica: «La modernità era arrivata, ed era anche peggio dei futuri distopici che aveva immaginato nei suoi libri. Con la seconda guerra mondiale Wells perde ogni speranza in un futuro migliore».
IL LIBRO Russia nell’ombra di H. G. Wells (Berti pagg. 160 euro 17)
La Stampa 12.11.16
Leopardi batte Harry Potter

Questo libro è un mistero. Non so a che genere letterario appartenga un racconto in seconda persona, ma la sua essenza è quella di una biografia «universale» e «possibile», dal momento che i capitoli sono quelli delle età della vita di tutti, dalla culla alla tomba.
Questo libro è un mistero. Pensavo lo avrebbero apprezzato in pochi, e non so spiegarmi perché sto affrontando incontri di dediche che durano anche sei ore. Giovani, studenti di scuola o dell’università, lavoratori, insegnanti con i loro alunni, genitori con figli... formano una coda paziente, infreddolita, divertita, in cui si parla di libri e nascono amicizie.
Questo libro è un mistero. Concepisce, in un tempo di bit, la parola come la più raffinata tecnologia mai sviluppata dall’uomo, tanto che, all’apertura delle prenotazioni per il racconto teatrale gratuito che nei prossimi mesi porterò in giro per l’Italia, con l’aiuto di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco, i mille e più posti dei teatri sono andati esauriti in meno di 10 minuti.
Questo libro è un mistero, perché è un libro su e con Giacomo Leopardi. E i ragazzi sono i primi a leggerlo.
Questo libro è un mistero come lo è la bellezza, che non si può programmare a tavolino, semplicemente accade e si sottrae sempre a qualsiasi formula ideologica.
Però.
Questo libro non è un mistero, perché Leopardi voleva scrivere una «Lettera ad un giovane del XX secolo», come dice nel suo Zibaldone, perché sapeva che cosa avremmo perduto.
Questo libro non è un mistero, perché parla di un classico e non siamo noi a leggere i classici ma i classici a leggere noi, soprattutto quando ci insegnano l’arte di essere uomini e donne con le loro quotidiane fragilità, senza cercare in esse alibi, ma nutrimento per una vita più piena, come la ginestra nel deserto.
Questo libro non è un mistero perché è un libro pieno di una speranza lunare: non nasconde nulla del notturno della vita ma, come fece Leopardi, vi cerca la luce, perché la poesia cresce nella contraddizione e di essa si nutre, ma non la nasconde, né dietro fughe illusorie né dietro ideologie rassicuranti.
Questo libro non è un mistero perché siamo un Paese che sta deludendo migliaia di studenti con il suo sistema scolastico autoreferenziale, più attento a programmi e burocrazia di quanto si occupi delle vite reali di insegnanti e ragazzi.
Questo libro non è un mistero, perché i ragazzi non ne possono più del consumismo con cui riempiamo il loro smarrimento, e sanno riconoscere, in mezzo alle urla, chi sa sussurrare la verità, come Leopardi.
Questo libro non è un mistero, perché la letteratura serve a rendere la vita di tutti più trasparente e abitabile, proprio quando non riusciamo più a vedere oltre la siepe.
Eppure.
Questo libro è soltanto un libro, la sua vita finisce dove comincia quella del lettore, per la vita interiore del quale vuole essere una gioiosa chiamata contro la dittatura del quieto e disperato vivere.
Questo libro non è soltanto un atto di ribellione ma, con sgrammaticato neologismo, un atto di «ribellezza»: la guerra che dobbiamo intraprendere giorno per giorno, per fare, come scriveva il fragile-fortissimo Leopardi della sua poesia, in un uno degli ultimi pensieri dello Zibaldone, «una cosa bella al mondo, sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui».
Repubblica 12.11.16
Il senso della preghiera
risponde Corrado Augias

GENTILE Corrado Augias, il ricorso alla preghiera sembra avere finalità diverse. Per il professor Recalcati la preghiera è la forma più alta della gratitudine verso l’Altro, con la quale si ringrazia del dono dell’essere. Per il teologo Mancuso c’è nella preghiera un richiamo alla nostra precarietà; cita Wittgenstein che, al fronte (1916), sostenne che «pregare è pensare al senso della vita». Personalmente ricordo l’invocazione, in bergamasco, di una ”perpetua” al Signore, tra un rosario e diverse giaculatorie: “«Raccomandaghe tut i noster suldat» (fronte russo, 1943). Per molti credenti la preghiera è una richiesta di intervento divino per sopperire a necessità vitali che l’essere umano non riesce a soddisfare. Difficile orientarsi per chi non prega.
Franco Ajmar, Genova

VOGLIO confondere ancora di più le idee al signor Ajmar citando da Spinoza — Trattato teologico- politico (VI,4) — un breve passo dove si parla dei miracoli e, per estensione, della preghiera: «Nulla accade in natura che contraddica le sue leggi universali, non c’è neanche una cosa che non si accordi con esse o da esse non consegua. Tutto ciò che accade, infatti, accade per l’eterno volere e decreto di Dio ossia, tutto ciò che accade, accade secondo leggi e regole che implicano eterna necessità e verità. Pertanto la natura conserva sempre leggi e regole che implicano un ordine fisso e immutabile. Né alcuna sana ragione ci persuade ad attribuire alla natura una potenza e una virtù limitate e a stabilire che le sue leggi siano valide per alcune cose soltanto e non per tutte. Infatti, poiché la virtù e la potenza della natura è la stessa virtù e potenza di Dio, e le leggi e i decreti della natura gli stessi decreti di Dio, si deve credere senz’altro che la potenza della natura è infinita e le sue leggi così ampie da estendersi a tutto ciò che l’intelletto divino comprende (per cui si può dedurre che — ndr) il termine “miracolo” può essere inteso solo in relazione alle opinioni degli uomini e non significa altro che un evento la cui causa naturale non possiamo spiegare con il modello di una cosa già nota». Secondo il grande filosofo e teologo Baruch Spinoza, il mondo è governato da un insieme di leggi e di regole che hanno assoluta e inderogabile necessità. Infatti Dio e Natura coincidono («Deus sive Natura», asseriva). Richiedere con la preghiera o con la richiesta di un miracolo una modifica di queste regole significa turbare nello stesso tempo le leggi naturali e la volontà divina che quelle leggi ha stabilito e a quelle sovrintende. Il filosofo aggiungeva che insistere in richieste del genere è una manifestazione superstiziosa e, in casi estremi, addirittura blasfema. Molto più modestamente, e al di fuori di ogni stretta logica filosofica, qui si può aggiungere alle definizioni date (su Repubblica) da Recalcati e da Mancuso, una terza definizione possibile: preghiera come invocazione di un’anima bisognosa di conforto o di consiglio che, non trovando intorno a sé adeguati punti d’appoggio o persone cui rivolgersi, invoca segretamente una qualche potenza superiore per non smarrirsi nella sua solitudine. Come negare a qualcuno una tale possibile consolazione?
Corriere 12.11.16
Medio Oriente in guerra per cambiare i confini
risponde Sergio Romano

Le chiedo di conoscere il suo pensiero sul proposto «Sunnistan» di cui si è parlato anche sul Corriere
Nerio Fornasier

Caro Fornasier,
La proposta di uno Stato sunnita in Mesopotamia venne avanzata da John Bolton, un neoconservatore che fu rappresentante degli Stati Uniti all’Onu per un breve periodo durante la presidenza di George W. Bush. Pur senza dirlo esplicitamente Bolton constatava che il progetto americano per la ricomposizione in Iraq di uno Stato multi-etnico e multi-religioso (sunniti, sciiti, cristiani, arabi, curdi e turcomanni) era fallito. Di questa situazione, a Bagdad, avevano approfittato gli sciiti che governavano ormai, con l’aiuto dell’Iran, una buona parte dell’Iraq. Per evitare che gli ayatollah di Teheran diventassero i padroni del Paese, era meglio, secondo Bolton, creare uno Stato sunnita che avrebbe avuto bisogno, per sopravvivere, dell’amicizia e del sostegno degli Stati Uniti.
La proposta non ebbe alcun seguito, ma era certamente indicativa del disordine e del malessere che stanno rimettendo in discussione i confini dell’intera regione. Quando si accordarono per la spartizione dell’Impero Ottomano, durante la Grande guerra, la Francia e la Gran Bretagna crearono Stati che rispondevano alle proprie ambizioni piuttosto che a quelle dei loro popoli: una Repubblica libanese e una Repubblica siriana sotto tutela francese, un Regno di Transgiordania e un Regno dell’Iraq sotto tutela britannica. Oggi, con la eccezione della Giordania, questi Stati sono afflitti da guerre intestine e potenziali conflitti civili. Le loro minoranze aspirano all’indipendenza mentre una potenza confinante, la Turchia, sembra decisa ad approfittare delle circostanze per rivedere gli accordi del primo Dopoguerra e tornare in possesso di qualche territorio perduto. Non è tutto. Accanto agli Stati tradizionali esiste una nuova entità politica e religiosa. È lo Stato Islamico, una fanatica milizia armata che aspira alla riunificazione del mondo arabo e alla creazione di un nuovo Califfato. In teoria l’Isis è nemico di tutti e la sua minaccia dovrebbe favorire una grande alleanza fra i maggiori protagonisti della regione.
Ma in questa alleanza ogni nemico dell’Isis è anche nemico di qualcun’altro. Il caso più evidente è quello della Turchia, nemica del Califfato, ma anche decisa a impedire la nascita di uno Stato curdo. Prima o dopo, tuttavia, occorrerà rifare i confini di almeno due Paesi: Siria e Iraq. E occorrerà decidere se sia possibile negare una patria a coloro che hanno così ammirevolmente combattuto contro un nemico comune.
Repubblica 12.11.16
“Il mercato globale è online, niente lo fermerà”
L’intervista. parla Mike Evans, Presidente americano di Alibaba, il colosso cinese dell’e-commerce
di A. Aq.

SHENZHEN. «No, scusate, non posso dirvi cosa penso della politica di Donald Trump verso la Cina perché onestamente ancora non ho capito quale sia la politica di Trump».
Dice il presidente eletto: America First. L’America prima di tutto.
«Ma che cosa vuol dire America First? Ogni paese, per chi lo rappresenta, viene prima di tutto. O no?».
Mike Evans è l’americano che il cinese Jack Ma ha voluto alla presidenza di Alibaba: e chi gliel’avrebbe mai detto che si sarebbe dovuto cacciare in questa situazione. Nel giorno più bello per il gigante online, quel Singles Day che ieri ha mosso in sole 24 ore più di 17 miliardi di dollari di merci online, l’ex vicepresidente di Goldman Sachs si trova a incrociare a distanza il suo presidente eletto, rispondendo in conferenza stampa e poi scambiando due battute con Repubblica.
L’elezione del miliardario è un freno al commercio online?
«Ma guardate cosa è successo in questo Singles Day. Il nostro evento è la rappresentazione perfetta di cosa vuol dire globalizzazione. Qual è il paese numero uno nei nostri scambi con la Cina? Gli Stati Uniti. La classe media cinese chiede ormai brand di qualità, prodotti occidentali. Ecco cosa vuol dire America First: ecco cosa vuol dire riportare ricchezza in America ».
Il mercato globale è salvo.
«Intanto la globalizzazione non è più quella delle multinazionali. Globalizzazione sono i tanti marchi che incrociano gli stores di tutto il mondo: e il mezzo migliore per farli incontrare è l’online. È qui che interveniamo: connettendo i piccoli e medi business. Grazie al web. E sempre di più ai cellulari: oltre l’80% delle contrattazioni al Singles Day sono passati dal mobile».
E in questo mercato globale che ruolo ha l’Europa?
«Abbiamo aperto sette uffici. Facciamo girare sulla nostra piattaforma 14mila marchi internazionali. Certo, dopo gli Stati Uniti al secondo posto nei nostri scambi abbiamo il Giappone, la Corea, l’Australia. Ma chi troviamo subito dopo? La Germania ».
Facciamo atterrare il tappeto di Alibaba in Italia?
«In Italia ci siamo già. Certo, non ancora con la vendita diretta. Intanto tra il nostro fondatore e il vostro premier Renzi c’è un rapporto anche di amicizia».
Piani concreti?
«Abbiamo già lanciato il 9-9, un evento per aprire ai nostri mercati il vostro vino. Poi Jack e Matteo si sono rivisti al G20 di Hangzhou, lui è venuto a trovarci al nostro campus. Sa perché per noi l’Italia è il paese ideale?» Prego.
«Intanto perché è fashion, cibo, tanti marchi prestigiosi, da Maserati in giù: brand che ispirano la nuova classe media globale. E poi non siete la patria delle piccole imprese? Il tessuto ideale da connettere con il resto del mondo».
President Trump permettendo.
«Ripeto: prima l’America vuol dire prima la Cina, prima l’Europa. Io non vedo altra strada se non quella da fare insieme». ( a. aq.)
Repubblica 12.11.16
La Cina
Pechino pronta alla sfida deprezza subito lo yuan e dà lezioni di ecologia
Lo scontro
Scoppia la guerra delle monete tra le due superpotenze, dalla fine delle delocalizzazioni pochi posti in Usa
di Angelo Aquaro

SHENZHEN. La prima guerra tra Stati Uniti e Cina è già scoppiata, ma per la sorpresa di tutto il mondo il colpo d’inizio non l’ha battuto Donald Trump. A sparare la bordata di benvenuto al presidente eletto sono stati i signori di Pechino. Un bel deprezzamento dello yuan che tocca i minimi degli ultimi sei anni: con tanti saluti al miliardario che accusa il Dragone di svalutare la moneta per favorire l’export. Ma che volete? Perfino il Wall Street Journal, che non è proprio il “Giornale del Popolo”, ammette che contro il rafforzamento del dollaro la Banca centrale cinese non aveva altra scelta se non sparare il renminbi ad altezza di verdone: tasso di cambio 6.7885. Ed è solo l’inizio: «Lo stimolo fiscale che i repubblicani lanceranno porterà al rialzo dei tassi e a un dollaro ancora più forte» avverte l’economista Zhou You. E quindi? «A un ulteriore indebolimento dello yuan».
La mossa sui cambi è la dimostrazione che Pechino non ha nessuna intenzione di piegarsi. Anzi. «Se Trump cerca di sondare la Cina con qualche provocazione » avverte il Global Times, che è il megafono in inglese del partito «la Cina dovrà rispondere con decisione e senza paura, stabilendo il tono dell’interazione con Washington». Per adesso è più che baldanzoso. Pechino che soffoca di smog si permette pure di dare lezioni di ecologismo agli Usa: se il nuovo presidente rimetterà mano agli accordi sul clima sappia che sta sfidando «la volontà dell’intera società globale». E indovinate un po’ chi è pronto a difenderla? «Siamo il più grande mercato del mondo: siamo il futuro» dice Jack Ma dalla platea del Singles Day di Alibaba, dopo che l’altro giorno aveva perso la pazienza persino lui: «Se Trump non collabora con la Cina sarà un disastro ». Davvero?
Il New York Times fa due conti e scommette che a perderci sarebbe comunque Pechino che negli Usa esporta 4 dollari per ogni dollaro di merce che importa. Ma gli scambi commerciali non sono semplice matematica. Minxin Pei, l’autore di “China’s Crony Capitalism”, spiega su Fortune che è vero, i 116 miliardi dell’export Usa verso la Cina sono poca cosa rispetto ai 483 miliardi che Pechino incassa dall’export. Ma le vittime collaterali? Il 35% delle esportazioni del Dragone sono “rimbalzi” da Giappone, Corea del Sud e Taiwan, cioè prodotti che la Cina assembla e poi riesporta. È pronto mister Trump a colpire anche i suoi alleati?
E con che armi poi. Un conto è ruggire in campagna elettorale: tasserò il 45% del loro export. Ma la legge, fino a quando il Congresso tutto repubblicano non la cambierà, gli permette di brandire al massimo il 15%: e per non più di 150 giorni.
I più preoccupati sono proprio gli americani: anche perché la guerra alla Cina riporterebbe a casa ben pochi dei posti di lavoro promessi da Trump. Finita l’era della delocalizzazione da queste parti: gli stessi cinesi di Byd, il gigante dei bus ecologici, trovano più conveniente andare a produrre in Ungheria. E poi a chi giova scagliare la prima pietra? Già quando ad alzare la voce era Barack Obama, accusandoli della sovraproduzione di acciaio, i cinesi rispondevano: e noi vi togliamo le fabbriche degli iPhone. Ora le ritorsioni potrebbero volare molto più in alto. Pensate solo a un signore come Chen Feng, il proprietario di Hainan, la più grande compagnia aerea privata cinese, che quest’anno ha fatto spesa all’estero per 10 miliardi e si dice pronto a comprare «anche mille jet» pur di abbassare il prezzo imposto da Boeing.
Certo: il Dragone agita la coda ma poi conferma che gli annuali colloqui sul commercio si terranno regolarmente il 21 novembre a Washington, anche se è chiaro che con Trump l’obiettivo del Trattato bilaterale d’investimento si allontana sempre di più. E del resto come si può scendere a patti con chi sulla Cina si fa consigliare da Peter Navarro? Il professore dell’Università di California è l’autore di un video dal distensivo titolo “Morire di Cina”: dove non solo si sostiene che gli Usa devono stracciare le bozze del Patto Transpacifico, si suggerisce pure che per proteggere i commerci bisogna rispedire nel mar della Cina 70 navi militari in più.
La Stampa 12.11.16
“Un mercato senza più vincoli”
La ricetta per rilanciare gli Usa
I fedelissimi del tycoon scrivono il programma economico
Meno burocrazia e meno tasse sul lavoro, più negoziati bilaterali
di Francesco Semprini

Deregolamentazione a tutto campo per sostenere produttività e innovazione tecnologica. Donald Trump si fa guidare dalla stella più alta del firmamento repubblicano, Ronald Reagan. La «Reaganomics», la ricetta economica che ha come ingredienti l’abbattimento della burocrazia in mercati e settori produttivi, e l’alleggerimento della tassazione sul lavoro, è il punto di riferimento del presidente in pectore.
Sebbene «The Donald» non abbia ancora reso noti uomini e programmi a cui affiderà la politica economica dei prossimi quattro anni, giorno dopo giorno emergono elementi utili a capire come «Farà l’America grande di nuovo». Uno spunto arriva da Robert J. Barro, professore di Harvard su cui Trump avrebbe posato gli occhi per un futuro ruolo nella sua squadra di governo. In un recente lavoro per «American Enterprise Institute», osservatorio di orientamento conservatore, Barro utilizza la formula «Job-filled non-recovery», ovvero crescita di posti di lavoro senza una reale crescita economica. Un’«anomalia» generata dal fatto che il governo ha usato e abusato di politiche assistenziali, sussidi di disoccupazione, buoni pasto, pensioni di invalidità e soprattutto l’Obamacare (che tuttavia potrebbe in parte sopravvivere, secondo quanto dichiarato dallo stesso Trump). Secondo Barro si tratta di misure che, sebbene non generose come in certe realtà europee, disincentivano la ricerca di occupazione. E questo crea «l’ingannevole» riduzione del tasso di disoccupati, rapporto tra disoccupati e chi cerca effettivamente lavoro. L’altro effetto, secondo Barro, è che sono stati create posizioni, certo, ma si tratta di lavori spesso part-time o precari e che, in ultima istanza, non aumentano il numero complessivo di ore lavorate. Questo vuol dire - ed ecco il passaggio critico - che la produttività, ovvero quanto ogni individuo produce in un determinato intervallo di tempo, rimane invariata. E quindi non crescono salari e stipendi, prigionieri della stagnazione a cui si è assistito negli ultimi anni e di cui hanno pagato le spese maggiori la classe media. Questa la patologia.
La cura, secondo la Trumpeconomics - è che la produttività cresce facendo diventare più efficienti i mercati, riducendo il peso di regole e burocrazia. In una parola «deregulation», sul modello della Reaganomics a cui deve essere associata una riduzione della tassazione su lavoro e redditi da capitale. Si tratta di un intervento dal lato dell’offerta, mentre su quello della domanda l’imperativo deve essere «mettere i soldi pubblici in investimenti produttivi». «Non dobbiamo fare un ponte solo perché fa crescere il Pil sulla base della semplice equazione keynesiana, - spiegano fonti interne al partito repubblicano -. Per capirci un ponte che non è percorso è come un negozio sfitto, non serve. Un nuovo New Deal alla Roosevelt non serve a nessuno». Su un aspetto invece potrebbero sorgere frizioni in seno alla nuova amministrazione: il commercio. Come fa notare Barro - repubblicano che però non ha sposato in blocco la dottrina Trump - il commercio aiuta l’innovazione tecnologica, che è un motore della crescita, quindi porvi dei limiti è stolto. E come Barro la pensano in molti nel Grand Old Party. «Attenzione però, perché Trump ha sempre parlato male del Tpp, che riguarda Paesi a basso costo del lavoro, ma non del Ttip, il trattato con l’Europa, che è invece fatto di regole volte a migliorare l’efficienza dei mercati», spiegano da ambienti conservatori a Washington. In quest’ottica il presidente eletto potrebbe fare dei distinguo fondamentali. E anche sul tanto criticato Nafta ci potrebbero essere convergenze parallele, visto che sia il presidente messicano Enrique Peña Nieto, sia il premier canadese Justin Trudeau sembrano pronti a ridiscuterne i termini.
Infine, sugli altri fronti Trump potrebbe puntare a negoziati bilaterali, un aspetto di cui parlerà in tempi brevissimi con la premier britannica Theresa May. Deregolamentazione vuol dire anche stracciare la legge Dodd-Frank sul settore finanziario, per sostituirla con un progetto alternativo messo a punto da Jeb Hensarling, attuale presidente della commissione Servizi finanziari della Camera e uno dei papabili al Tesoro. Una misura che, al contrario di quanto sembri, ben si sposa con la volontà di porre paletti alle «vecchie signore» di Wall Street come predica la Trumpeconomics. «La legge ha favorito le grandi banche e penalizzato quelle locali per gli alti costi di “compliance”», spiegano. Ovvero quegli istituti su cui Trump punta per rilanciare il credito alle piccole imprese tagliate fuori dalla crisi. Al Wall Street Journal ieri ha ribadito che «le banche devono tornare a prestare soldi come una volta». Lo stesso Jamie Dimon, a.d. di Jp Morgan e papabile alla guida della squadra economica di Trump, ha ammesso che la legge «è il fossato più profondo che lo protegge dal resto del sistema bancario». E non a caso il collega di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha commentato all’ipotesi di smantellare la legge in questo modo: «Va bene modificarla ma non mi sembra il caso di eliminarla del tutto».
Repubblica 12.11.16
Perché i radar dei media si sono spenti
di Nadia Urbinati

I RADAR dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che “significa molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione”.
I radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere (e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare. Il giudizio non può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata combinazione di analisi e comprensione critica.
Il New York Times ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare discredito su quella parte di America che più facilmente poteva rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella trappola).
L’America non amata, luogo inospitale per chi è incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata, non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di rappresentare. Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il popolo (e viceversa).
L’élite non ama il popolo, come si è visto anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica, che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi della società larga è il lavoro dei media.
La rivolta dell’élite contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni sono buone perché prese secondo le procedure condivise non necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi non democratici.
La pre-determinazione della scelta buona ha accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente (come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.
Sapere già tutto in anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società. Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.
Repubblica 12.11.16
Divi e politici l’addio alla Rete è cominciato
di Paolo Di Paolo

Una diretta su Facebook non è una tribuna parlamentare. Una campagna elettorale sui social non ha gli effetti di un comizio di paese. Un tweet non somiglia a un volantinaggio in piazza. O sì? I politici - perlopiù uomini “analogici”, novecenteschi, sbarcati nell’era del digitale come da un altro mondo - sembrano ormai disorientati. Nel giorno in cui Matteo Renzi si dice deluso dall’odio che circola su Facebook, oltreoceano viene attribuita alla forza “libertaria” dei social la vittoria di Donald Trump. C’è chi festeggia, c’è chi si spaventa.
Supportati da staff di nerd nati a fine secolo, i politici si sono gettati nell’arena virtuale con entusiasmo e incoscienza. Hanno dato per scontato di riceverne quasi solo benefici. Laddove potevi raggiungere mille persone - e c’era da consumare suole, e stringere mani - puoi raggiungerne velocemente un milione. Laddove occorreva sottostare alle regole dell’informazione cartacea - scivolosa - o di quella televisiva - rigida, ambigua -, accettando il gioco delle parti (spesso retorico) del talk-show, ecco che con un balzo salti di là da ogni steccato. E ti ritrovi faccia a faccia con il tuo elettorato: disponi di una vasta, incondizionata tribuna; un podio, o un balcone, che accorcia tutte le distanze. Così almeno sembrava. Così non è.
Come hanno capito per primi i divi dello spettacolo, che hanno visto tradursi rapidamente le inoffensive fan-page in terreno fertile per gli agguati dei detrattori, è facile perdere il controllo di una piattaforma social. In un comizio “reale”, quelli che manifestano contro, li lasci ai cancelli; un cordone di polizia assicura l’incolumità fisica, le proteste diventano un rumore lontano. Su Facebook e su Twitter, no. Alla folla di chi ti segue si mescola quella di chi ti minaccia. Ogni parola detta con le intenzioni migliori può diventare un cappio - magari cucito da sostenitori volubili, umorali, diffidenti. Al capo della comunicazione scappa per errore un tweet inopportuno? Un minuto dopo è già tardi per rimediare. Per sbaglio viene pubblicata l’indicazione a non usare le foto del politico che incontra il disabile? Valanga di insulti. Non fai in tempo a spiegare che l’intento non era discriminatorio, e che era quello di evitare strumentalizzazioni: la corrente di disprezzo ti ha già travolto. Lo staff di Trump che gli sottrae, a poche ore dal voto, l’accesso a Twitter per evitare uscite goffe è un caso sintomatico. Il fischio, lo strepito che una volta arrivava dal fondo della platea, adesso arriva dalla prima fila; il chiasso è assordante, il nervosismo cresce di secondo in secondo, spiegare alcunché sembra sempre fuori tempo massimo.
Quando Renzi, twittatore spensierato, vede i social come “diffusori d’odio”, coglie una verità parziale. Quando gli intellettuali newyorchesi attribuiscono ai social la vittoria di Trump, forse semplificano. E l’inventore di Facebook, il trentenne Zuckerberg, non può che difendere la sua creatura. Ricordando a soloni che potrebbero essergli nonni una verità scomoda: un algoritmo non ha preferenze politiche. Il che è senz’altro vero, nel bene e nel male. E se a inizio anno c’era chi rimproverava a Facebook di privilegiare i democratici, ora c’è chi invita ad abbandonarlo per protesta perché filo-repubblicano, perché usato dai sostenitori di Trump «come la spiaggia dello sbarco in Normandia». L’effetto delle fake news, i falsi a cui abboccano orde di ingenui o finti ingenui; i complottismi dell’una o dell’altra parte possono davvero spostare l’esito di una tornata elettorale? Non più di quanto hanno sempre fatto manifesti sui muri, volantini, promesse, dicerie, insulti, accuse infondate. Non più di altri meccanismi “virali” e a volte penosamente umani, solo su scala ridotta. Gli effetti del contagio isterico, tanto più in epoche di grandi paure, il nostro Manzoni li ha spiegati una volta per tutte (La citazione, guarda caso, circola su Facebook: «C’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire...»). Nella nostra epoca, il vero, stupefacente mutamento è che l’uomo più in alto, dalla sua vasta tribuna, non parla più a una folla tutto sommato indistinta. Ciascuno dei suoi uditori, oggi, ha la propria piccola, autonoma, imponderabile tribuna. Finito il grande comizio, inizia una serie di piccoli comizi, miliardi di piccoli comizi in cui chi ascolta, un attimo dopo, diventa quello che parla, che urla, che convince. Ma non è lo Speakers corner di Hyde Park, l’angolo di giardino dei matti. La tribuna è spaventosamente egualitaria, e il Signor Nessuno può diventare in due ore il peggior nemico del Numero Uno, ritrovarsi un seguito infinitamente più vasto e più imprevedibile.
Repubblica 12.11.16
I social media
Bufera su Facebook e Twitter “Hanno aiutato Trump”
di Raffaella Menichini

CHICAGO. Il risveglio della Silicon Valley nell’era Trump è stato amaro. Il cuore dell’America tecnologica, da dove scaturiscono le idee e i prodotti che stanno plasmando il modo di comunicare in tutto il mondo, non solo non aveva visto arrivare il fenomeno Trump - il giorno del voto un sondaggio condotto tra 224 investitori tech li dava al 94% per Hillary Clinton, con l’89% convinto che avrebbe vinto - ma si ritrova ora sotto i riflettori per essere uno dei motori della diffusione delle idee incendiarie che hanno portato al trionfo del miliardario.
Forse per autoconsolarsi per aver fallito nell’individuare cosa stesse covando l’America, molti media puntano ora il dito su Facebook, Twitter e Reddit, dove la conversazione non mediata prima delle elezioni ha raggiunto livelli di aggressività e disinformazione eclatanti. Su Facebook sono circolati post con il volto di Hillary stravolta, deformata come un demonio, una carcerata, accompagnati dalle teorie cospirazioniste più strampalate, dalle sette sataniche all’alleanza con l’Iran. Le aggressioni personali su Twitter hanno costretto al silenzio attivisti di entrambe le parti. Su Reddit, social di conversazione tematica, i suprematisti bianchi di Alt-right (destra alternativa) hanno fatto opera di proselitismo, raccomandando ai giovani bianchi di non dichiarare che stavano per votare per Trump. Nulla di diverso da quel che accadeva nelle conversazioni reali, peraltro.
Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, respinge ogni accusa: «E’ folle pensare che la gente abbia votato in base a notizie false circolate su Facebook». Zuckerberg sa però di avere un problema di controllo sulle bufale: dopo le polemiche dello scorso anno sulla presunta “partigianeria” di Facebook in favore dei democratici, la scrematura dei post è stata affidata agli strumenti tecnici (il famoso algoritmo) e i giornalisti-editori sono stati licenziati.
Per Zuckerberg e colleghi si pone ora una serie di problemi urgenti. Nell’era Obama si era creato un rapporto di intimità persino poco ortodossa con i giganti dell’industria tech. Ma sia Obama sia i “nerd” della costa est sono quanto di più lontano dall’America che ha portato Trump alla Casa Bianca. Anzi personificano la minaccia: i software che ci connettono globalmente sono gemelli di quelli che stanno cancellando i posti di lavoro nell’industria “pesante” che Trump promette di resuscitare. Oltre al fatto che chi lavora nell’industria tech è il ritratto dell’America multicolorata che i sostenitori di Trump aborrono: brillanti cervelli provenienti dall’Asia, dall’Europa, dal Medio Oriente, dall’Africa.
Il presidente eletto non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per Silicon Valley. Ha chiesto più volte che i giganti del tech mantengano la produzione in America. Ha minacciato Amazon di un processo antitrust - e ieri il fondatore Jeff Bezos si è subito riallineato con un tweet in cui offre al nuovo presidente «tutta la sua mente aperta» per collaborare.
L’unico ad aver creduto in Trump fin dall’inizio, e ad avergli dato molti soldi, è stato il fondatore di PayPal, Peter Thiel, che per questo ha pagato l’isolamento in Silicon Valley. Oggi si prende la rivincita: si parla di lui come del “tech adviser”, il consigliere per la tecnologia di Trump.
Oggi Silicon Valley si trova a fare i conti con un problema di fondo: la disconessione dal Paese reale è paradossale per delle piattaforme dove ci si esprime in modo così forte e chiaro. «Guardiamo tutto attraverso le metriche, come pagine viste, utenti attivi, guadagni - ha detto al New York Times la startupper Danielle Morrill - Ma non vuol dire che capiamo gli individui dall’altra parte dello schermo».
Repubblica 12.11.16
I cattolici
“Hanno scelto Trump per dire no al sistema”
Il vaticanista statunitense Allen “È stato un voto di frustrazione le battaglie etiche non c’entrano”
intervista di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO. «La maggioranza dei cattolici negli Stati Uniti ha votato per Trump, ma non l’ha fatto esclusivamente per motivi inerenti alla difesa della vita e della famiglia. È stato più che altro un voto di frustrazione, contro un governo e una burocrazia che fino a oggi non hanno per nulla soddisfatto ».
Le gerarchie invece?
«I vescovi si sono mantenuti più equidistanti, analogamente alla posizione su Trump che il Papa ha espresso a Scalfari: “Non lo giudico”. E credo che il motivo di questa equidistanza, inusuale dopo anni di appoggio più o meno esplicito ai repubblicani, sia sostanzialmente un rifiuto delle sue posizioni».
John Allen, vaticanista statunitense, dirige Crux, quotidiano cattolico con base a Boston. Profondo conoscitore del mondo religioso americano, invita a non fidarsi di chi parla con troppa sicurezza di “voto cattolico”.
I cattolici rappresentano il 25-30 per cento della popolazione. Secondo lei questo voto non esiste?
«Non dico questo, ma credo che questo voto non vada troppo mitizzato. Trump era per tutti, credenti e non credenti, il candidato della rivoluzione, pronto a riformare un sistema ingiusto e che non ha soddisfatto. Per questo anche molti cattolici lo hanno preferito a Hillary Clinton».
Un po’ come accadde nel 1994, quando gli italiani preferirono Berlusconi?
«Esattamente. Le analogie con il ’94 italiano sono notevoli. Trump, come Berlusconi allora, rappresentava una novità, la possibilità di una svolta storica. E la rappresentava anche per i credenti».
In ogni caso, non sono pochi i cattolici che scelgono candidati di destra per le posizioni conservatrici sui temi della vita, della famiglia, della contraccezione, della ricerca bioetica.
«I cattolici negli Stati Uniti sono divisi fra conservatori e progressisti. Un trenta per cento è fedele all’insegnamento della Chiesa, e su questi temi ha posizioni tradizionali: questo 30 per cento senz’altro ha votato per Trump. Poi c’è un altro 20-25 per cento che è più sensibile ai temi del lavoro, della politica estera. Anche questi sono conservatori, e hanno scelto Trump. Ancora: c’è un trenta per cento di progressisti che va sempre, a priori, con i democratici. Resta un ultimo venti per cento, un elettorato credente moderato. Stavolta, questo venti per cento ha scelto Trump. Ma l’ha fatto, ripeto, principalmente per motivi anti-sistema».
Si dice che i vescovi americani siano conservatori: è vero?
«Negli Stati Uniti ci sono 196 vescovi locali, che diventano 240 se aggiungiamo gli ausiliari e 350 con gli emeriti. Hanno tutti posizioni diverse fra loro e inserirli in un unico schema è impossibile. Si può in ogni caso dire che un venti per cento ha posizioni teologiche conservatrici, mentre un dieci per cento è più progressista. Tutti gli altri possono pendere più a destra o più a sinistra a seconda del momento ».
Tuttavia, negli anni scorsi, i vescovi erano molti vicini a repubblicani.
«È vero. Ma in queste elezioni, diversamente dal passato, i vescovi sono stati più prudenti. E lo sono stati sia rispetto a Clinton che rispetto a Trump. In qualche modo, entrambi non li convincevano. Tuttavia, se è vero che la maggioranza dei cittadini cattolici ha votato per Trump, sarà interessante vedere come, e se, i vescovi useranno questo credito che hanno verso il nuovo presidente. Su molte posizioni sono distanti da Trump, ma hanno un credito da giocare. Vedremo come si comporteranno».
Francesco ha detto a Scalfari di non giudicare Trump, ma di essere interessato al fatto che egli faccia o meno soffrire i poveri. Eppure la visione del Papa sembra lontana anni luce da quella di Trump. È così?
«Trump è distante non soltanto da Francesco, ma anche dall’insegnamento della Chiesa. Per questo sarà interessante capire come si muoverà l’episcopato nei suoi confronti, anche alla luce delle elezioni dei vertici della conferenza episcopale, che avverranno la settimana prossima. Come sempre, dovrebbe essere eletto presidente chi attualmente ricopre l’incarico di vice, e cioè Daniel DiNardo di Houston, un vescovo conservatore ma molto attivo pastoralmente. Più interessante sarà vedere chi eleggeranno come vice presidente: da qui si vedrà quale linea l’episcopato intendere abbracciare».
La Stampa 12.11.16
Il Ku Klux Klan organizza la “Parata per la Vittoria”
di Alberto Simoni

Guardati dai nemici, ma anche dagli amici. O almeno dai sostenitori. Figurati se indesiderati. La campagna elettorale è finita, Donald J. Trump fra 68 giorni entrerà alla Casa Bianca, ma sul cammino troverà ancora parecchi grattacapi. Ad esempio quanto gli farà male «l’eccesso di entusiasmo»? Non forse il suo, ma quello dei suprematisti bianchi. Ieri un gruppo del Ku Klux Klan ha fatto sapere, e lo riferisce il sito «The Hill», di star organizzando una parata per la vittoria di Donald Trump in North Carolina il 3 dicembre. L’annuncio della «Victory Klavalkade Klan Parade» compare sulla home page dei Loyal White Knights del Kkk (I leali cavalieri bianchi del Kkk), senza però specificare l’ora e il luogo. Trump «ha unito il nostro popolo», si legge ancora sul sito. I suprematisti bianchi hanno espresso sostegno per Trump prima del voto, anche se la campagna del miliardario repubblicano si è distanziata.

il manifesto 12.11.16
Per Trump, trema l’America latina
Ripercussioni. Gli interessi del miliardario Usa
di Geraldina Colotti

Nell’America latina progressista o bolivariana, sono in molti a condividere il grido espresso dall’ex presidente uruguayano Pepe Mujica a proposito dell’elezione di Donald Trump: «Aiuto» (così ha risposto ai giornalisti). Ma anche nei paesi del Centroamerica, dove il socialismo del XXI secolo non è ancora di casa, c’è allarme tra le organizzazioni in difesa dei migranti, dal Guatemala al Messico. Secondo la Direzione generale della migrazione (Dgm), fino al 9 novembre erano stati deportati per via aerea e terrestre 76.245 guatemaltechi. La Mesa de Coordinacion Transfronteriza Migraciones y Genero (Mtmg) teme ora che il numero delle espulsioni, già notevolmente aumentato sotto il governo Obama, si moltiplichi.
Trump ha promesso l’espulsione massiccia degli immigrati, e un’ulteriore crescita del muro con il Messico, le cui spese verrebbero addebitate ai messicani. Il peruviano Pedro Pablo Kuczynski, che tra il 17 e il 19 novembre ospiterà a Lima il Forum di Cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec) ha detto: «Ci opporremo con ogni mezzo, anche attraverso l’Onu». Il presidente neoliberista ha poi espresso preoccupazione perché il commercio internazionale sta segnando il passo. Per Kuczynski, uomo dell’Fmi e della Banca mondiale, ci vuole «una forte unità fra i paesi della regione». Un’unità di capitali a guida Usa, concordata con Obama attraverso il Tpp e l’Alleanza del Pacifico, di cui il Perù fa parte insieme a Colombia, Messico e Cile.
Tutto il centro-destra latinoamericano ha tifato per Clinton, con poche eccezioni. Una di queste è costituita dal brasiliano Michel Temer, messo in sella dopo il golpe parlamentare contro Dilma Rousseff. In Brasile, gli interessi del miliardario xenofobo sono evidenti. Solo il suo hotel a Rio de Janeiro, che ha ospitato i membri del Comitato olimpico, gli apporta ogni anno 25 milioni di dollari. A Panama, dal 2011, c’è una Trump Tower che ospita residenze di lusso, un hotel e un casino. Un’altra è in costruzione a Buenos Aires dove l’imprenditore Mauricio Macri, pur con qualche iniziale reticenza dovuta alle ottime relazioni con l’amministrazione Obama e con i fondi avvoltoio, ha rispolverato la vecchia amicizia con Trump, con cui ha fatto affari da giovane.
Oltre a un pagamento iniziale, dagli imprenditori che utilizzano «il marchio Trump», l’impresa del miliardario Usa intasca una commissione sulle vendite dal 3 al 13%. E per questo, secondo il suo socio argentino, Fernando Yaryura, invitato alla convention del Partito repubblicano, «L’America latina non deve aver paura di Trump, che ha molti investimenti personali nella regione. Gli Stati uniti continueranno a essere un paese aperto ai latinoamericani». Tuttavia, hanno espresso timore anche gli imprenditori delle Barbados.
E se pure le imprese di Trump, negli anni ’80 abbiano violato il blocco economico imposto dagli Usa a Cuba, le sue dichiarazioni bellicose contro «il castro-madurismo» e il rafforzamento elettorale degli anticastristi di Miami hanno messo in guardia l’isola e i suoi alleati. L’ex presidenta argentina, Cristina Kirchner, ha invitato a non semplificare la risposta neoliberista alla crisi di rappresentanza, e la richiesta di «protezionismo del mercato interno, a fronte di una caduta del salario da 20 a 7,25 dollari».
La preoccupazione più grande resta quella del Venezuela, dove la National Endowment for Democracy (Ned) investe ogni anno 30 milioni di dollari per finanziare progetti destabilizzanti attraverso ong e partiti proni agli Usa. Trump ha promesso di sbloccare la costruzione dell’oleodotto Keystone Xl, un milionario progetto che cambierà la mappa petrolifera del Nordamerica e colpirà pesantemente la presenza del Venezuela nel mercato della costa est degli Usa. Un progetto approvato dal Congresso da due anni, ma sospeso da Obama su richiesta degli ambientalisti che Trump vuole riattivare, forte della maggioranza repubblicana nelle due Camere.
Trump ha tuonato anche contro il processo di pace in Colombia, a cui Obama ha destinato 450 milioni di dollari per il post-accordo. Con la sua visione dei diritti umani, si allontanano anche le  speranze di libertà per i prigionieri politici colombiani nelle galere Usa.
il manifesto 12.11.16
Un’America balcanizzata
Dopo il voto. Trump è il capofila dei birther, il movimento razzista che contestava l’elezione di Obama, sostenendo che la sua nascita a Honolulu non era documentata e dunque egli era privo del requisito indispensabile per essere presidente degli Usa
di Guido Moltedo

Quella del «nuovo» Trump, del Trump presidential e non più candidato, è una maschera che sta molto stretta a The Donald. Infatti, tempo un paio di giorni, se l’è già tolta. Eccolo che riprende a lanciare tweet rabbiosi. Le proteste contro la sua elezione continuano, dappertutto in America, e lui reagisce come fa lui, con le contumelie, definendo chi scende in piazza «manifestanti di professione, incitati dai media». Lo sceriffo Rudy Giuliani si associa al suo boss chiamandoli «piagnucoloni viziati». Però, attenzione. Non è solo il day after di uno sconquasso, il trauma a cui segue la protesta, a cui, a sua volta, segue il solito copione visto nella campagna elettorale del miliardario fascistoide.
azione in America è molto più di questo e preannuncia tempi molto duri. Di conflitto. Persino in prospettiva di guerra civile. Non solo metaforica in un paese dove girano liberamente centinaia di milioni di armi da fuoco, più numerose degli abitanti, oltre 350 milioni. Non una guerra tra le due Americhe. La frattura non è tra due parti, come si sente dire da americanisti improvvisati, tra le élite urbane e la «pancia». Ma tra le tante Americhe – culturali, sociali, razziali, religiose – che compongono il mosaico statunitense e che questa nuova presidenza rischia di far saltare per aria in mille pezzi, avendo preso a calci il tavolo su cui è disposto il puzzle. Una balcanizzazione dell’America. O, un tempo, si sarebbe detto libanizzazione. È vero, l’incontro all’indomani del voto alla Casa Bianca è stato cordiale e civile. Ma quanti nei siti di destra, non solo in America, hanno ironizzato sul padrone bianco che si riprende la casa abusivamente abitata dal nero? È una scena che, nella civiltà dei modi, infatti non cancella la feroce campagna d’odio lanciata e finanziata da Trump che ha preceduto la sua discesa in campo.
Trump è il capofila dei birther, il movimento razzista che contestava l’elezione di Obama, sostenendo che la sua nascita a Honolulu non era documentata e dunque egli era privo del requisito indispensabile per essere presidente degli Usa.
Ma non è solo il vecchio e vitale razzismo in bianco e nero. Il nuovo presidente americano, che da imprenditore si era già distinto per le sue pratiche discriminatorie verso i neri, ce l’ha parimenti con i latinos, con gli islamici, con gli asiatici, ed è notoriamente misogino. Lui non si sa, ma tutti i suoi associati, molti dei quali destinati ad avere ruoli importanti nel suo governo, sono dichiaratamente omofobi. Sono antiabortisti. Antiambientalisti. Anti-immigrati. E rappresentano un elettorato che in larga misura si rispecchia in queste posizioni. È definito bonariamente questo elettorato maggioranza silenziosa. Eppure non si ricorda, a dire il vero, quando lo sia stata, silenziosa, almeno da Reagan in poi. Oggi è anche maggioranza politica. È una maggioranza che ha nel suo stesso dna l’eliminazione di chi non ne è parte. La maggioranza silenziosa che ha vinto le elezioni è in realtà una minoranza che vuole sottomettere tutte altre minoranze. Nei giorni scorsi due ragazze a San Diego e San José sono state aggredite perché indossavano il velo islamico. È accaduto in California non nell’America profonda che non si sa dove sia. In America la comunità islamica vive molto più integrata che in Europa. Prima che arrivasse Trump.
Per la prima volta la silent majority trova in lui un presidente che le dà piena rappresentanza.
Il rischio di una deflagrazione dell’America è in questa terribile novità, forse anche prevista, ma, ora che si manifesta in tutta la sua magnitudine, è estremamente preoccupante.
Gli Stati Uniti sono dai loro albori terra di immigrati, e hanno continuato a esserlo. È ancora l’approdo numero uno dell’immigrazione e il suo sviluppo è tuttora intimamente legato al volano dell’immigrazione. Non solo braccia ma menti, spesso le menti migliori, da ogni parte del mondo. La conflittualità ha accompagnato questo percorso, ma quando le tendenze all’inclusione e alla coesione hanno avuto la meglio, il melting pot che ne è derivato ha consentito di dispiegare le migliori energie. Barack Obama ha fatto sempre appello a questa America, fin dal suo primo discorso alla convention di Boston, nel 2004. Non un appello buonista ma realista. Ancora più sensato in tempi di crisi, dove è più facile che la demagogia soffi sul fuoco delle diversità per ridurle a rivalità tra comunità. Il melting pot è tale se ha una base condivisa su cui poggiare.
Questo sforzo unitario è stato duramente contrastato dalla destra e anche, tra i suoi sostenitori, non è stato compreso, specie quando la sequenza di crimini della polizia contro i neri si è intensificata. Gli si è perfino attribuita la responsabilità di non aver fatto abbastanza per i suoi fratelli, lui primo presidente nero, quando era evidente il contrario: la Casa bianca e i ghetti erano nell’occhio del ciclone di un’ondata razzista cavalcata dalla destra. Obama, fin dal suo esordio, è stato il presidente di tutti gli americani, non di una parte di essi, fossero anche i suoi fratelli ancora discriminati, come avrebbero voluto i razzisti, per connotarlo, ma anche un certi paternalismo progressista.
È stato il suo il modo migliore, più alto, per rappresentarli, quello di essere sempre il presidente di tutti. Con l’intento morale di portata strategica di tener unite e tra loro cooperanti le diverse componenti della nazione, unica condizione di crescita e di sviluppo per tutti, anche per chi vive discriminato nei ghetti.
Il rovesciamento di questa visione porta Trump a occupare la sua poltrona. Forte di una maggioranza al senato e alla camera. Le manifestazioni in corso sono una prima sacrosanta reazione a questo cambiamento dal carattere epocale. Difficile pensare, si dovessero anche placare, che il conflitto si fermerà. Più probabile che s’intensifichi.
il manifesto 12.11.16
Trump, la terza notte di proteste. E già tira aria di impeachment
American Psycho. Scontri tra manifestanti e polizia a Oakland e Portland. E anche il sindaco di New York annuncia «disobbedienza» sui migranti
di Marina Catucci

NEW YORK Un’altra notte di proteste contro l’elezione di Donald Trump. Migliaia di persone da New York a Chicago, alla California, all’Oregon e per la prima sera anche a Baltimora, in stati rossi (repubblicani) e in stati blu (democratici), hanno manifestato per strada, molti per la terza notte di fila.
Non è mancata la reazione di Trump che ancora una volta si è affidato a Twitter per lanciare il suo messaggio: «C’è appena stata un’elezione presidenziale molto aperta e che ha avuto successo, ora dei manifestanti professionisti, incitati dai media, protestano, ma è molto ingiusto».
Evidentemente i manifestanti non la pensano nello stesso modo; a Denver, in Colorado, sono riusciti a bloccare la Interstate 25 per circa mezz’ora e così è accaduto a Minneapolis e Los Angeles.
NEL CENTRO DI SAN FRANCISCO un corteo di praticamente tutti gli studenti della città ha sfilato sventolando bandiere arcobaleno e bandiere messicane, applauditi dal resto della cittadinanza che li incitava dai lati del corteo. «Come bianco, come queer, ho bisogno di fare muro insieme agli afroamericani – ha dichiarato a Politico Claire Bye, attivista della Bay Area -. Sto combattendo per i miei diritti di persona Lgbtq e sto combattendo per i diritti degli immigrati, dei neri, dei musulmani».
A New York, un folto gruppo di manifestanti, ancora una volta si è riunito fuori la Trump Tower sulla Fifth Avenue dove ormai c’è un presidio permanente della stampa. «Questo tizio – dice David, attivista per i diritti civili, riferendosi a Trump – ha sbagliato su tutta la linea: cambiamento climatico, Irandeal, diritti dei gay, deportazioni dei musulmani. Cosa dovremmo fare? Aspettare che applichi le assurdità fasciste che ha promesso in campagna elettorale?».
NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI le manifestazioni si sono svolte in modo pacifico. Ma a Oakland e a Portland i manifestanti hanno espresso il proprio dissenso in modo violento. A Oakland, cittadina portuale vicino San Francisco, tradizionalmente capace di manifestare in modo drastico, da giorni si bruciano copertoni, bandiere e si ingaggiano faccia a faccia con la polizia. Diverso il caso di Portland, in Oregon, città solitamente molto più tranquilla dove durante la notte migliaia di persone hanno marciato e dove sono state rotte alcune vetrine, accesi petardi e dato fuoco a un cassonetto. La polizia di Portland ha parlato di «sommossa» e ha usato idranti per sgomberare le strade.
Ma l’opposizione a Trump non arriva solo dalla base, anche dai banchi della politica istituzionale iniziano a sollevarsi delle voci. Il primo è stato il sindaco di New York, Bill De Blasio, che sin da subito ha dichiarato di essere profondamente contrariato dall’elezione di Trump anche se in ogni caso collaborerà con le istituzioni. Ma non su tutto, il socialista De Blasio ha precisato che la sua città non fornirà le liste degli immigrati al governo. «Questo è sempre stato un luogo in cui tutti possono farsi una vita – ha detto De Blasio -. New York ha rispetto per la libertà, noi siamo letteralmente dietro Lady Liberty, a braccia aperte per accogliere immigrati e rifugiati. Così è sempre stato e così sempre sarà. Continueremo a mantenere la nostra gente al sicuro, tutto il nostro popolo, a prescindere da chi siano o da dove vengano. Chiedo a tutti i newyorkesi di andare avanti insieme, risoluti e determinati a proteggere e preservare la città che amiamo e i valori in cui crediamo».
UN ALTRO NEWYORKESE di adozione, Michael Moore, invece, ha alzato di molto il tiro chiedendo, come molti dei cittadini in piazza, l’impeachment per Trump che ancora non ha presentato la sua dichiarazione dei redditi e sul quale c’è più di un giustificato sospetto di evasione, e che, più di tutto, a fine mese dovrà affrontare un processo per frode per gli imbrogli a danno degli studenti della cosiddetta Trump University, macchina mangia-soldi che prometteva di fare di chiunque un imprenditore miliardario mentre in realtà intascava cifre altissime per un paio di corsi motivazionali.
«È un’altra delle ragioni per cui sono qui – dice Mark, newyorkese al terzo giorno di protesta – e da sotto questa Trump tower non mi muovo. Quell’uomo non è fatto per fare il presidente, è stato eletto, è vero, ma senza la maggioranza della popolazione dalla sua parte, e ha delle pendenze legali, che dovranno essere chiarite. Non siamo noi manifestanti che agiamo in modo contrario alla democrazia».
Corriere 12.11.16
L’Unione sembra un club di vecchi reduci
di Danilo Taino

Europa confusa, nella reazione a Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Ancora più che la sorpresa — che c’è stata anche questa volta, come dopo la Brexit — sono la lettura di quel che è successo in America, l’atteggiamento da tenere verso la nuova Washington e il senso di abbandono creato dal «tradimento americano» a dare l’idea delle difficoltà dei leader della Ue di fronte al mondo cambiato da un outsider. Tutti consapevoli di dovere collaborare ma Angela Merkel fredda, Jean-Claude Juncker sarcastico e sprezzante, François Hollande alla ricerca di chiarimenti. È una svolta della storia e il Vecchio Continente, disorientato, vacilla. In difficoltà per ragioni sue — Brexit, rifugiati, economia, Putin, Erdogan — l’Europa non era pronta per lo choc dell’8 novembre. Di fronte al riallineamento dell’ordine mondiale, è allibita. Impreparata più di quanto non lo siano Russia, Cina, India; e più di quanto non lo siano gli Stati Uniti stessi, che la svolta storica hanno innescato, e la Gran Bretagna, che verso nuovi equilibri stava già veleggiando. In una notte, un intero mondo è diventato vecchio. Persino nell’iconografia. Il passato darà la sua triste festa d’addio a Berlino, dal 16 al 18 novembre, quando Frau Merkel riceverà Obama: baci d’addio. Nella mattinata del 18, alla cancelliera si aggiungeranno Hollande, Renzi, Theresa May e Mariano Rajoy: quando è stato deciso l’incontro, nessuno prevedeva la svolta di Washington; ora, la festa sembrerà una rimpatriata di reduci del vecchio ordine transatlantico. A Trump, Merkel chiede il rispetto dei valori di libertà e democrazia. Giusto. Hollande vuole chiarezza su guerra al terrorismo, Ucraina, Siria, accordo nucleare con l’Iran e cambiamenti climatici. Più che giusto. La realtà, però, è che dietro alle corrette dichiarazioni politiche europee c’è il terrore che il mondo sia avviato verso le scorrette soluzioni politiche alle quali l’Europa del soft power non è in grado di rispondere. È il terrore della solitudine davanti a sfide straordinarie ora che l’alleato di 70 anni vuole ridimensionare i legami transatlantici. Ieri, a Berlino, numerosi politici speravano che Angela Merkel annunciasse al più presto la decisione di ricandidarsi: è l’unico paio di mani sicure nella vecchia Europa frastornata. Non può bastare.
Corriere 12.11.16
Se l’Europa perde l’alleato
di Angelo Panebianco

Alle congratulazioni di rito a Donald Trump per la sua vittoria, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha unito una nota di timore per il futuro delle relazioni transatlantiche. Tusk, un figlio di quella Polonia che non è mai stata risparmiata (fino a poco meno di trent’anni fa) da nessuna delle tragedie che si sono abbattute per secoli sull’Europa, non parla a vanvera, senza cognizione di causa. Se Trump mantenesse anche solo il 20 per cento di ciò che, durante la campagna elettorale, ha promesso di fare in politica estera, un grande vuoto di potere si aprirebbe in Europa. Questo tuttavia non giustifica il duro attacco «a freddo» di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, a Trump, una dichiarazione di ostilità che, di sicuro, non aiuterà rapporti che si preannunciano comunque difficili.
Qualcuno lo ha paragonato a Ronald Reagan (l’America conservatrice, eccetera, eccetera). Niente di più sbagliato. Donald Trump è l’opposto di Ronald Reagan e anche se annacquerà — come sicuramente dovrà fare — i suoi propositi, molto difficilmente gli storici del futuro potranno trovare consonanze fra la sua Amministrazione e quella che fu dell’ex attore ed ex governatore della California: colui che ricostituì la potenza dell’America dopo il Vietnam e il Watergate, che mise con le spalle al muro l’Unione Sovietica favorendo così indirettamente l’ascesa di Michail Gorbaciov e del suo gruppo, che restituì ottimismo e fiducia in se stesso e nei propri principi liberali non solo al suo Paese ma al mondo occidentale nel suo insieme.
T rump è un’altra cosa: esprime il desiderio di tornare a quella tradizione isolazionista che prevalse nell’America fra le due guerre mondiali, la volontà di porre termine alla «grande anomalia» che è stata, rispetto alla storia americana passata, la partecipazione permanente agli affari mondiali dopo il 1945, l’esercizio di un’egemonia internazionale fondata sui due pilastri delle alleanze militari (la Nato per prima e, con essa, il cruciale rapporto politico-militare con l’Europa) e del libero scambio. Già con Obama, all’inizio del suo primo mandato, nel mezzo della più grave crisi economica del dopoguerra, e dopo gli interventi in Afghanistan e in Iraq, una certa vocazione isolazionista, e una volontà di allentare i tradizionali, speciali rapporti con l’Europa, si erano manifestate. Ma nulla di paragonabile a quanto Trump ha promesso di fare.
Egemonia politico-militare e un ruolo di traino in quella crescente interdipendenza economica che è stata detta globalizzazione (una globalizzazione che parla tuttora inglese con un forte accento americano), sono le cose contro cui Trump si è scagliato in nome del loro opposto: un neo-nazionalismo (l’antitesi dell’internazionalismo) che si alimenta di isolazionismo politico e di protezionismo economico. Trump dovrà poi fare i conti — anche lui, come tutti — con il principio di realtà, con i vincoli che la politica internazionale impone. Ma ciò non toglie che la via che ha indicato agli americani e al resto del mondo sia chiara e che probabilmente verrà percorsa, almeno in parte.
Si dice che il capo della Russia, Putin, non sia poi così contento di dover trattare con un personaggio imprevedibile come Trump. Probabilmente è così, Ma è anche vero che l’elezione di Trump gli apre davanti vaste praterie. In Europa e in Medio Oriente.
L’obiettivo allontanamento delle due coste dell’Atlantico determinato dalla elezione di Trump, la sua disponibilità a rimettere in discussione persino la Nato, la sua volontà di trovare comunque una nuova intesa con la Russia, hanno anche l’effetto (come si vede dalle dichiarazioni entusiaste dei leader dei vari partiti estremisti) di galvanizzare i tanti amici europei di Putin, quelli che sognano di sostituire un giorno la Russia all’America nella funzione di Lord protettore dell’Europa. Sì, Tusk dice il vero: qualche ragione per essere preoccupati per le future relazioni transatlantiche c’è, eccome.
Si può anche pensare che nel mondo multipolare di oggi, ove l’America deve fare i conti con altre grandi potenze, era inevitabile che, prima o poi, arrivasse un Trump, una sorta di aggiustamento americano alla nuova distribuzione della potenza internazionale, una realistica e definitiva rinuncia all’egemonia, la sostituzione del nazionalismo all’internazionalismo del passato: quell’internazionalismo che l’America poteva permettersi quando era molto più forte di oggi. Ma si tratta di un argomento convincente solo per chi crede che il futuro sia già scritto, che il declino internazionale dell’America sia improcrastinabile.
È corretto mettere insieme Brexit e l’elezione di Trump. La loro combinazione è il segno che una trama antica di relazioni internazionali si va rapidamente disfacendo: crisi (in atto) dell’Europa, crisi (potenziale) dei rapporti transatlantici. Checché ne dicano i nemici, vecchi e nuovi, dell’«impero americano» è precisamente quella antica trama di rapporti che ha garantito la pace in Europa dal 1945 ad oggi. Sentire i vari capi dell’estremismo europeo esaltarsi per Trump nella speranza che il suo neo-nazionalismo faccia da traino al loro (in Francia, in Olanda, in Italia e ovunque in Europa) dovrebbe far riflettere. Soprattutto perché quei capi si rivolgono a una massa di persone che, a differenza del polacco Tusk, pensa che non ci sia nessuna incompatibilità fra protezionismo economico e prosperità, fra isolazionismo politico e stabilità democratica, fra conservazione delle nostre tradizionali libertà e una accresciuta influenza politica della Russia, con la sua antica tradizione autoritaria, sul Vecchio Continente, fra la fine «dell’impero americano» e la pace in Europa. È difficile far comprendere a chi vuole continuare a sognare ad occhi aperti che le suddette cose non sono fra loro compatibili. Ed ecco perché vale anche la pena di sperare, dal punto di vista di noi europei, che Trump non rispetti proprio tutte le promesse fatte.
La Stampa 12.11.16
il laboratorio della nuova destra
di Giovanni Orsina

Quasi 40 anni dopo le prime elezioni di Thatcher e Reagan, la Brexit e l’ascesa di Trump alla Casa Bianca rimettono il mondo anglosassone all’avanguardia dei processi di trasformazione della destra politica occidentale.
Semplificando molto, anche nel mettere insieme due Paesi assai diversi, è possibile sostenere che il processo di modernizzazione della destra reso palese dalle elezioni del 1979 nel Regno Unito e del 1980 negli Usa abbia rappresentato una risposta alle «rivoluzioni individualistiche» degli Anni Settanta e al conseguente, definitivo tramonto degli assetti sociali e culturali «tradizionali». La destra anglosassone degli Anni Ottanta per un verso reagì agli eventi del decennio precedente. Ma per un altro ne accolse la spinta individualistica, deviandola sul mercato. Mercato, inoltre, che non intendeva chiudere nei confini nazionali, ma aprire sempre di più a una dimensione internazionale.
Almeno sul terreno economico, perciò, quella nuova destra aveva tra i suoi caratteri fondanti l’individualismo e l’internazionalismo. Per inciso, fu proprio a questi caratteri che si ispirò esplicitamente Berlusconi nel 1994 con la sua rivoluzione liberale. Sempre semplificando, è possibile sostenere inoltre che dagli Anni Settanta in poi l’individualismo e l’internazionalismo abbiano caratterizzato non soltanto le destre, ma pure le sinistre occidentali. Anche se, in questo caso, l’enfasi cadeva più sui diritti che sul mercato.
Stritolata per tre decenni fra i due individualismi e i due internazionalismi, di destra e di sinistra, la politica – che è un’impresa collettiva, e finora è rimasta ancorata allo stato nazionale – è andata in pezzi. Così che, nel momento in cui l’Occidente dell’individualismo e dell’internazionalismo è entrato in crisi, destra e sinistra non hanno saputo far altro che proporre, come soluzione, ancora più internazionalismo e ancor più individualismo. Gli elettori, bisogna ammetterlo, per un po’ hanno pazientato. Col prolungarsi della crisi, però, l’area elettorale che né la destra né la sinistra riuscivano a coprire – quella di chi per interesse, timore, o scelta ideologica chiedeva una «frenata politica» sulla via dell’individualismo e dell’internazionalismo – è venuta crescendo sempre di più. A tal punto che è riuscita infine ad attrarre su di sé e fagocitare sia i conservatori inglesi sia i repubblicani americani. Generando un terremoto politico paragonabile a quello del 1979-80.
Due corollari di questo ragionamento, in conclusione. Affrontare i voti per la Brexit e per Trump da un punto di vista storico, come ho cercato di fare qui, aiuta a evitare un errore concettuale madornale: ritenere che questi fenomeni siano soltanto il frutto di scelte irrazionali, «di pancia», o ispirate da sentimenti spregevoli («deplorable», copyright Hillary Clinton). Il che non vuol dire, naturalmente, che l’irrazionalità e la spregevolezza non abbiano avuto alcun peso, né che la via neo-nazionalista verso la quale puntano per ora sia la Brexit sia Trump sia scevra di pericoli, o migliore di quella che abbiamo seguito finora.
Il secondo corollario ha a che fare con l’Europa continentale e con l’Italia. Si può dubitare che un neo-nazionalismo come quello delineato da Trump in campagna elettorale giovi agli Stati Uniti, e ancor di più che giovi a noi europei. È ben più difficile, però, dubitare che gli Usa abbiano la forza – politica, economica e militare – per perseguirlo. Che ne abbia la forza il Regno Unito è già molto, ma molto meno certo. Non avrei invece alcun dubbio sul fatto che quella forza non l’abbiano gli Stati dell’Europa continentale, e tanto meno l’Italia. Come ha dovuto imparare a sue spese Berlusconi, importare la destra anglosassone nella Penisola non è cosa semplice.
Corriere 12.11.16
Sulle polemiche elettorali effetto Donald all’italiana
di Massimo Franco

Almeno su un punto, anche l’Italia sta subendo l’effetto Donald Trump. Da candidato repubblicano, il neopresidente Usa aveva denunciato il rischio di elezioni truccate per la Casa Bianca. Ebbene, il comitato del No allunga l’ombra di un voto irregolare, pilotato dal governo, sul referendum del 4 dicembre. La lettera di Matteo Renzi agli elettori italiani all’estero per perorare il Sì sta diventando un brutto pasticcio istituzionale. Non è chiaro se l’abbia spedita da premier o da segretario del Pd. I due ruoli di Renzi si mescolano ambiguamente, perché la missiva è stata recapitata insieme alla scheda elettorale. Palazzo Chigi replica che si è trattato di un’iniziativa di partito e che è tutto regolare: le liste sono consultabili da chiunque.
I comitati del No accreditano un’altra verità. A sentire loro, l’accesso all’elenco degli oltre quattro milioni di italiani all’estero non sarebbe possibile a tutti; e dunque protestano. La polemica si innesta perfettamente in una campagna confusa e avvelenata. Rimanda a una legge controversa del 2001, figlia del concetto di ius sanguinis , il «diritto del sangue» e non del suolo, caro allo scomparso senatore di An, Mirko Tremaglia. E sottolinea il forte investimento politico e finanziario del Pd renziano su quella massa di consensi: forse calcolando di ribaltare col Sì all’estero previsioni che continuano a dare il No in vantaggio tra gli elettori italiani.
Ma segnala in parallelo il timore degli avversari di Renzi. Le parole più gentili sono «forzatura» e «scorrettezza». Di fatto, viene lanciato il sospetto che quei voti possano essere condizionati a favore del governo, accusato dal No di essere disposto a tutto per non perdere la sfida. La vicenda non è rassicurante per nessuno, perché rischia di delegittimare comunque l’esito referendario. La Farnesina ieri ha risposto con una nota formale di «essere impegnata ad assicurare il corretto svolgimento della consultazione referendaria» all’estero. È difficile, tuttavia, che questo plachi le tensioni.
Esiste un rapporto del 2013 nel quale il ministero degli Esteri mette in guardia su possibili irregolarità. È stato pubblicato ieri dal Fatto , ed è a quel documento che risponde la Farnesina. I seguaci di Renzi parlano di un caso sollevato «fuori tempo massimo». Ironizzano sul No che «scopre adesso che gli italiani votano all’estero» e lo accusano di essere in «malafede». Ma il problema sta assumendo contorni pesanti. Il M5S sentenzia: «Il sistema di voto per corrispondenza ha procedure incostituzionali che non garantiscono libertà e segretezza». E chiede la distruzione delle lettere.
I contraccolpi potrebbero arrivare al Quirinale. Il capo dei senatori di FI, Paolo Romani, dopo avere sostenuto che «la lettera spot di Renzi è un grave sgarro e l’ennesima anomalia» di una campagna condotta «con metodi discutibili», invoca l’intervento «riequilibratore» del capo dello Stato, Sergio Mattarella. I comitati del No chiedono di essere ricevuti da lui e dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Insomma, l’«effetto Trump» in salsa italiana lievita verso il Colle. Ma riformare la Costituzione proiettando ombre sulla regolarità del referendum è un pessimo viatico: per il 4 dicembre e soprattutto per il dopo.
il manifesto 12.11.16
Voto all’estero, l'”equivoco” di Renzi
Referendum. Lettera come premier a quasi cinque milioni di italiani iscritti all'Aire per invitarli a votare Sì. Ma era a nome del partito, che l'ha anche pagata: "Scrive come segretario e non come premier". Però si presenta come "rappresentante" dell'Italia nel mondo. E a Gargani che ha chiesto gli elenchi per il comitato del No sono stati dati senza indirizzi
di Andrea Fabozzi

L’equivoco, se di questo si tratta, lo ha alimentato la ministra Boschi. Rivolgendosi giovedì ai comitati per il Sì che hanno sede all’estero, ha annunciato una lettera agli elettori italiani nel mondo «del presidente del Consiglio, contemporaneamente, ma non insieme fisicamente altrimenti scatta la polemica, alla scheda elettorale» per il referendum. Il testo di questa lettera, che è ovviamente un elenco delle meraviglie della riforma costituzionale concluso dall’invito a votare Sì, è una conferma dell’equivoco, se ancora di equivoco si tratta. Perché Renzi scrive come «orgoglioso rappresentante del paese che tutti amiamo», cioè come presidente del Consiglio. Di fronte alle prime polemiche, il Pd ha cercato di rimediare assicurando che «si tratta di un’iniziativa elettorale del Pd sostenuta interamente dal punto di vista economico dal partito». Boschi dunque intendeva dire «una lettera del segretario del Pd». La confusione è frequente.
Il caso però non può chiudersi qui, anzi i comitati del No hanno chiesto al presidente della Repubblica un incontro «urgente» per «rappresentare le gravi preoccupazioni in ordine alla correttezza della competizione referendaria con particolare riferimento agli italiani residenti all’estero». Che sono quasi cinque milioni, molti dei quali residenti in Sudamerica dove Maria Elena Boschi si è recata a settembre per tenere comizi per il Sì organizzati direttamente dalle ambasciate (vedi il manifesto del 28 e 29 settembre 2016). I comitati del No hanno chiesto di essere ricevuti anche dal ministro degli esteri Gentiloni – il comitato presieduto da Pace e Zagrebelsky lo aveva chiesto anche parecchi mesi fa, invano – che è il responsabile delle liste degli italiani residenti all’estero iscritti all’Aire (che dovranno votare entro il 1 dicembre ma che ancora non hanno ricevuto il plico elettorale).
Queste liste sono a disposizione dei partiti. Un provvedimento del garante della privacy del 2014 lo chiarisce senza possibilità di dubbio. Qualche dubbio invece c’è su come abbia fatto il segretario del Pd a riceverli, se mediante richiesta regolare (è prevista la possibilità di estrarne copie a pagamento) oppure per le vie brevi, che sono alla portata sua e non di altri. È un po’ gracile, infatti, la replica dei renziani a chi polemizza, basata sul fatto che sia Silvio Berlusconi (nel febbraio 2008) che Pier Luigi Bersani (nel gennaio 2013) hanno preso identica iniziativa. Nessuno dei due era all’epoca a palazzo Chigi e poteva presentarsi agli elettori come «rappresentante» del paese «in ogni viaggio all’estero, ogni volta che ho sentito risuonare l’inno di Mameli con voi, ogni volta che ho incrociato i vostri sguardi orgogliosi, ogni volta che sono riuscito a stringervi le mani».
Ci sarebbe anche una prova del trattamento privilegiato riservato al capo del governo. La fornisce Giuseppe Gargani, ex deputato Dc e parlamentare europeo di Forza Italia, che attualmente presiede il Comitato «popolare per il No». «Venti giorni fa sono andato a chiedere gli elenchi degli italiani che votano all’estero direttamente al Viminale, sono stati molto gentili e dopo appena cinque giorni mi hanno consegnato un Cd. Dentro ci sono circa quattro milioni di nomi e cognomi, ma nessun indirizzo. Ragioni di privacy, mi hanno spiegato».
L’altro aspetto che preoccupa i sostenitori del No è quello dei costi di spedizione di queste lettere. Il Pd garantisce che tutta l’operazione è stata fatta a carico del partito, e ci mancherebbe. Peraltro il partito – a sentire palazzo Chigi – si è già pesantemente esposto per sostenere il costo del super consulente americano di Renzi, Jim Messina, che sarebbe costato 400mila euro. Per le spedizioni della lettera del presidente del Consiglio/segretario del partito il costo potrebbe essere stato leggermente inferiore, o leggermente superiore. Le Poste garantiscono infatti una tariffa agevolata per la spedizione di materiale elettorale, sotto costo: a prezzo pieno quattro milioni e ottocentomila lettere sarebbero costate 13 milioni e mezzo – più dell’abolizione del Cnel come ha fatto notare l’ex ministro Quagliariello. Esistono invece due tipi di spedizione agevolata, una semi gratuita (4 centesimi) e una a prezzo contenuto (16 centesimi). Ma se le lettere non sono ancora partite, solo la seconda garantisce che il messaggio di Matteo Renzi possa arrivare in tempo per il referendum.
La Stampa 12.11.16
Renzi scrive agli italiani all’estero
Le opposizioni: fatto gravissimo
Il Pd: lettere pagate da noi. FdI: chi ha dato gli indirizzi?
di Carlo Bertini

Mentre i sondaggi fotografano che il No è tre punti avanti, con una forchetta che si allarga, il comitato del Sì sta per partire con una nuova campagna di affissioni: giocando su slogan più forti sui risparmi dei costi della politica e su come possono essere reinvestiti, in sanità, trasporti e servizi cittadini. Cifre che - a dispetto di altre stime ben più contenute - a detta dei fautori del Sì possono toccare i 500 milioni di euro, «dobbiamo far capire che dalla riforma la gente ci guadagna», dicono nella war room del Comitato.
È l’ultima mossa di una strategia per recuperare terreno, mentre si levano le fiamme sul voto degli italiani all’estero. «La riforma costituzionale è un altro tassello per rendere più forte l’Italia», scrive Renzi nella missiva ai residenti oltreconfine corredata di sue foto con capi di Stato e di spiegazioni su come votare entro il primo dicembre. «Oggi siamo ad un bivio. Possiamo tornare ad essere quelli di cui all’estero si sghignazza, quelli che non cambiano mai, quelli famosi per l’attaccamento alle poltrone e le azzuffate in Parlamento. Oppure possiamo dimostrare con i fatti che finalmente qualcosa cambia e che stiamo diventando un paese credibile e prestigioso».
L’altro giorno è scoppiata una prima querelle sul fatto che il premier mandasse una lettera come figura istituzionale agli italiani all’estero: quel citare il premier Renzi da parte della Boschi, dal Pd è considerato «un lapsus». Che ha però innescato un putiferio: la lettera è mandata da Renzi in quanto segretario del Pd, è la risposta dei Dem. Ma la polemica va avanti pure sulle liste elettorali all’estero. Con un attacco durissimo di tutte le opposizioni del fronte del No, dai 5Stelle a Fdi, passando per la Sinistra e Forza Italia, che hanno chiesto un incontro urgente a Mattarella e Gentiloni. Sinistra Italiana con un’interrogazione vuole sapere «chi paga e quanto costano» 4 milioni di lettere. Fratelli d’Italia tuona con Rampelli: «Se sono pagate dal Pd, non si capisce come il Pd abbia potuto entrare in possesso degli elenchi degli italiani residenti all’estero, con tanto di domicilio. Chi gli ha dato l’accesso? A quale titolo?».
Un caos a cui Renzi prova a mettere un freno per bocca dei suoi: la lettera è firmata dal segretario del Pd; è il Pd che se ne fa carico dal punto di vista finanziario; gli indirizzi sono accessibili e utilizzabili da parte di tutti ai sensi della normativa 2014 del Garante della Privacy sul «trattamento di dati presso i partiti politici e di esonero dall’informativa per fini di propaganda elettorale». Norma in cui si chiarisce che «possono essere utilizzati, per finalità di propaganda elettorale e comunicazione politica, i dati personali estratti da elenchi pubblici», come - tra gli altri - «l’elenco provvisorio dei cittadini italiani residenti all’estero aventi diritto al voto». Non la pensano così i grillini, a leggere il post di Toninelli sul blog di Beppe Grillo. «Il Pd e Renzi hanno pestato una merda enorme. La lettera di propaganda per il Sì inviata dal premier contemporaneamente alle schede elettorali per il voto è un fatto di gravità inaudita».
La Stampa 12.11.16
I forzati del referendum nel weekend si sfidano in 200 incontri pubblici
I faccia a faccia tra costituzionalisti aumentano in tutta Italia
di Giuseppe Salvaggiulo

«Oggi Rocca di Papa e Marino. Domani Latina, tra lunedì e giovedì otto dibattiti a Roma più tre appuntamenti universitari a tema, venerdì Matera, sabato Lamezia Terme e Bari. Poi domenica a casa, sempre che mia moglie non abbia cambiato la serratura». Il costituzionalista Alfonso Celotto è uno degli stacanovisti del referendum. Ha già all’attivo una trentina di dibattiti e mancano ancora tre settimane.
Non è l’unico: le agende dei giuristi si sono improvvisamente infittite. Nonostante la stagione insolita per una campagna elettorale, la liquefazione dei partiti, l’overdose di talk show, i social network e la complessità delle questioni in ballo, la sfida sul referendum del 4 dicembre registra un sorprendente picco di manifestazioni in tutta Italia. Secondo i dati forniti dalle due piattaforme principali (Basta un Sì e Comitato per il No), da ieri fino a domenica prossima si contano 385 incontri, di cui 198 nel weekend. Il Sì ne organizza 237, il No 148. Ma la stima, che esclude gazebo e volantinaggi, è in difetto soprattutto per i comitati del No, parcellizzati e privi di regia. Inoltre molti incontri sono convocati da soggetti terzi.
I giuristi più ambiti
Per il Sì, i più gettonati sono i costituzionalisti Bifulco, Caravita di Toritto, Ceccanti, Ciarlo, Clementi, Frosini, Guzzetta, Pinelli. Di Carlo Fusaro, i colleghi raccontano ammirati che gira l’Italia con la sua macchina, da Nord a Sud inerpicandosi nei paesini più sperduti. Scene da politica Anni 50.
Per il No, tra i forzati dei dibattiti spiccano Antonini, Azzariti, Carlassare, Dogliani, Falcone, Onida, Pace, Pertici, Villone. Ma anche Gustavo Zagrebelsky non si risparmia: dopo Roma e Bologna, sabato prossimo sarà alla biblioteca Einaudi di Dogliani, nelle Langhe, contro Giuseppe Pericu, giurista ed ex sindaco di Genova.
Lions e parrocchie
Gli inviti piovono con ogni mezzo: mail, telefonate di amici, richieste dei comitati nazionali, Facebook. Organizzano studenti, scout, parrocchie (molte), imprenditori, Lions e Rotary, comunità religiose e Camere di commercio, aristocratici e centri sociali, multinazionali e partigiani, banche e fondazioni culturali. Nei prossimi giorni uno dei più accorsati studi legali milanesi ha invitato i migliori clienti nella propria sede, per un duello tra due costituzionalisti. E qualche sera fa un dibattito è stato ospitato in un elegante appartamento privato dei Parioli, come dopocena per una trentina di ospiti. La fatica e i costi di tanto girovagare sono compensati da passioni civili, riscontri del pubblico, piccole soddisfazioni e popolarità. Alla fine di un dibattito a Parma i giuristi sono stati omaggiati di prosciutto e forme di parmigiano.
Questi costituzionalisti on the road sono ormai una specie di compagnia di giro. Martedì Celotto e Ceccanti discuteranno alle 18 in una sala conferenze dietro fontana di Trevi e poi in una parrocchia del quartiere Aurelio. Celotto e Guzzetta si sfideranno lunedì a Roma e mercoledì a Monteporzio Catone. Sembrano Abatantuono e Bentivoglio nel film di Salvatores «Turné». Tutti raccontano di dibattiti lunghi e combattuti con fair play davanti a platee giovani, numerose e interessate. «A Napoli c’erano 500 ragazzi, abbiamo dovuto aprire un’altra sala in videoconferenza», dice Tommaso Edoardo Frosini.
«Troppi inviti»
C’è chi preferisce le grandi città, le platee ovattate. I residence di via del Corso, gli auditorium confindustriali, le università di Parigi e Londra. Chi batte la provincia, le sale senza riscaldamento e con le sedie di plastica. Fiano Romano, Scafati, Sacrofano, le parrocchie all’Eur. «Ci sarebbe da partire col camper», scherza Celotto. «Ho dovuto rinunciare a tanti inviti, ma non dico mai no agli studenti. Il dibattito più divertente l’ho fatto al Mamiani, storico liceo romano di sinistra, contro Maria Teresa Meli del Corriere della Sera».
«Troppi inviti, mi barcameno a fatica», dice Gaetano Azzariti che ieri era con gli scout, lunedì si dividerà tra un liceo romano e Gaeta, poi partirà per Bergamo. «Ma mi fa piacere perché ho scoperto un’Italia curiosa e impegnata, migliore di quella che mi aspettavo».