sabato 26 novembre 2016

Avvenire 25.11.16
Teatro classico. Salvatore Natoli: «Edipo, l'enigma all'interno di ognuno di noi»
di Alessandro Zaccuri


Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri

Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza. Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è – osserva – che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele – risponde –. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».

Avvenire 19.11.16
Paradossi del XXI secolo. La coscienza?
Libera per le macchine, determinata per l'uomo
di Andrea Vaccaro


L’umana libertà di azione soppiantata da determinismo neurale e macchine pensanti. Ma il principio della “sola materia” genera confusione

Quanto a esseri umani, macchine, coscienza e volontà, la cultura contemporanea sembra spesso leggermente confusa. Consideriamo, ad esempio, il libero arbitrio, anzi l'agency, come è rigorosamente da dirsi oggi, per non rischiar di richiamare le radici cristiane della nostra civiltà. Ebbene, mentre certi neuroscienziati sacrificano l'umana libertà d'azione sull'altare del determinismo neurale, ecco che i tecnologi inneggiano all'ultima generazione di macchine dall'autonomo decision making. In breve, nella nuova narrazione della realtà, le macchine decidono liberamente, mentre gli umani non possono più farlo. Un celebre articolo di Harold J. Morowitz tratteggiava l'assurda situazione della scienza di inizio anni Ottanta quando la biologia spingeva per ridurre il soggetto umano a pura materia fisica e la fisica, contemporaneamente, inoltrandosi negli anfratti della quantistica, riscopriva l'ineliminabile presenza della soggettività proprio nello studio della materia più profonda. «Due treni che sfrecciano a grande velocità in direzione opposta», suggellava Morowitz. Adesso la situazione è ancora più bizzarra. Su un binario, infatti, corre la neuroscienza che – sulla base di esperimenti come quelli di B. Libet (1983), J.- D. Haynes (2008) e, recentemente, A. Bear e P. Bloom ("Psychological Science", aprile 2016) – non solo nega il libero arbitrio, ma addirittura umilia la stessa coscienza. L'io cosciente, in tale prospettiva, è solo un "garzone di bottega" che esegue gli ordini del padrone (l'organo fisico del cervello) e che, forse per darsi un tono, «riscrive la storia» (Bear-Bloom) come se quello che sta eseguendo fosse una propria meditata deliberazione. L'illusione della volontà cosciente (Mit Press 2002) è il titolo di un famoso libro di Daniel Wegner; «fantasia della scelta cosciente» operata da un «burattino biochimico» provoca Sam Harris in Free Will (2012). E mentre alcuni neuroscienziati s'impegnano in quest'opera di demolizione ontologica e morale della coscienza, ecco che però, sull'altro binario, i teorici della tecnologia più avanzata declamano il passaggio dall'era dell'Intelligenza artificiale a quella della Coscienza artificiale, ovvero delle Macchine pensanti e deliberanti autonomamente. Qualcosa suona strano in tutto questo. Che senso ha ingegnarsi a "costruire" una coscienza artificiale quando si va appurando l'ingannevole inutilità di quella naturale? È forse per una forma di sadismo che vogliamo infliggere anche alle macchine tale istanza di auto-imbroglio e nefasta illusorietà? «Il risultato di tutte le nostre invenzioni e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono investite di vita spirituale e l'esistenza umana viene degradata a forza materiale»: così, in un'insolita veste profetica, scriveva Karl Marx nella Introduzione alla critica di politica economica. A guardar più approfonditamente, tuttavia, sotto l'appariscente contraddizione c'è un solido denominatore che accomuna neuroscienza e computer science: il paradigma del materialismo riduzionista secondo cui, null'altro sussistendo oltre la materia, l'intero cosmo senti-mentale e spirituale è da negare drasticamente (eliminativismo) oppure da riportare al determinismo fisico (incompatibilismo). Sola materia si potrebbe etichettare tale principio, con una commistione tra luteranesimo e scientismo. E poiché una coscienza (seppur illusoria) scaturisce dalla materia del cervello non si vede perché essa non possa essere prodotta anche dai circuiti debitamente ipercollegati di un computer. Se questa è la tendenza dominante, non v'è tuttavia chi non veda profonde incongruenze e pregiudizi in entrambi i fronti. In ambito neuroscientifico, un ko argument è portato, sul piano logico, da chi osserva come la figura di «una coscienza che definisce illusorie tutte le coscienze» apra ad un tale paradosso da far impallidire «il cretese che dichiara bugiardi tutti i cretesi». Sul piano metodologico, poi, l'obiezione cruciale riguarda il tradimento che gli attuali pronipoti di Galilei attuano nei confronti dello statuto del loro padre fondatore per il quale il dominio delle «qualità seconde» (esperienze soggettive) non è di pertinenza dell'organon scientifico, che ha giurisdizione appunto solo su quello delle «qualità primarie» e oggettive. È contraddittorio insomma che la scienza indaghi il soggettivo con il metodo istituito per conoscere l'oggettivo. Il filosofo americano Arthur Cody ha recentemente sentenziato che, nello studio della coscienza, se l'alternativa è tra il materialismo riduzionista e il nient'altro, allora, in fin dei conti, è da preferire il nient'altro. Parimenti avviene nel settore della Coscienza artificiale, come la stimolante domanda dello scorso anno di "Edge": «Cosa pensi delle macchine che pensano?», ha corposamente mostrato. È vero che per la maggioranza dei partecipanti al forum le macchine, in un futuro imminente, potranno pensare, o addirittura già lo fanno (in borsa, in auto ecc.). Si sono levate tuttavia anche ben distinte voci dissonanti come, ad esempio, quella dello scrittore Tor Nørretranders: «Solo l'amore crea il pensiero», o del fisico Freeman Dyson che sigilla così il suo perentorio «no» alle macchine coscienti: «Se sbaglio, la mia risposta è fuori luogo, ma se ho ragione, è la domanda ad esserlo», o, per citarne solo un altro, del neurobiologo Leo Chalupa che rileva come siano le domande eterne sulle origini, la morte e il senso di sé a far sorgere la coscienza e queste appartengono innatamente solo all'essere umano. Simulacri di coscienze aleggiano nella nostra cultura insieme a coscienze artificiali, paradossali coscienze auto-negantisi e soggettività oggettive: dobbiamo essere comprensivi se le giovani generazioni vengono su un po' disorientate.
Repubblica 26.11.16
“La terra dei figli” Gipi inaugura la sua personale
BOLOGNA. Oggi alle 19,30 si inaugura nel capoluogo emiliano una personale di Gipi, intitolata, come il suo ultimo graphic novel, La terra dei figli (Coconino Press): in esposizione disegni originali e serigrafie a tiratura limitata, tutti creati dal disegnatore nonché autore di romanzi per immagini. L’appuntamento è presso la stamperia e galleria d’arte Squadro, in via Nazario Sauro 27. La mostra sarà visitabile fino al prossimo 10 dicembre.
il manifesto 26.11.16
Incursioni in una cassetta degli attrezzi
Saggi. Un libro di Willer Montefusco e Mimmo Sersante sul recente percorso filosofico di Toni Negri
di Francesco Festa

Un giornalista americano interrogò l’uomo dinanzi a sé: «qual è la legge ultima dell’essere?». Marx lapidario: «La lotta!». Télos della vita è dunque la lotta. Nella storia operaia è lotta d’emancipazione fra la riappropriazione dei mezzi di produzione e il capitale che tende a espropriarli.
L’ontologia della lotta di classe è quindi teologia materialista che interseca Machiavelli, Spinoza e Marx, inseguendo temporalità e spazialità dell’essere in lotta, ne eccede così gli svolgimenti delle stesse teorie. È in ottima compagnia il filosofo Toni Negri, fedele a tale teologia, del volume di Willer Montefusco e Mimmo Sersante, Dall’operaio sociale alla moltitudine. La prospettiva ontologica di Antonio Negri (1980-2015), DeriveApprodi (pp. 133, euro 15). Con tali filosofi maledetti Negri ha avuto «buoni incontri» volti alla conoscenza delle leggi dell’emancipazione tanto da condividervi, secondo gli autori, destini simili. Marx definito «dottore del terrore rosso», Negri «cattivo maestro». L’emancipazione passa dalla damnatio memoriae. Quando la teoria rifugge la fissità, divenendo potenza in azione, ne vanno cancellate le tracce, pena l’ordine costituito. In compenso il pensiero di Negri è apprezzato a livello internazionale e soprattutto è, da sempre, una cassetta degli attrezzi alla quale accedono spesso militanti dei movimenti sociali.
QUESTO LIBRO prosegue lo scavo incominciato nel 2012 con Il ritmo delle lotte. La pratica teorica di Antonio Negri (1958-1979). Sersante segue il filosofo immerso nelle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. Nel «fabbricare concetti», Negri ha indagato le trasformazioni della composizione della forza lavoro e della lotta di classe: dall’operaio massa all’operaio sociale. La fabbrica che estende il comando alla metropoli, l’estrazione di valore che cattura la riproduzione sociale e l’organizzazione dei tempi di vita dettata dal capitale. Vale a dire, usando un lessico marxiano, la sussunzione reale della vita al capitale.
Lo scavo prosegue in questo libro filosoficamente denso giungendo all’oggi. Gli autori seguono il filo di Arianna dal carcere e dall’esilio, incontrando quegli autori maledetti, dei quali Negri ne ha riletto gli scritti addivenendo al concetto di moltitudine che vive l’immanenza. Con Deleuze, «una vita e nient’altro»: quell’orizzonte della lotta di classe che è politico, sociale, economico e la vita stessa. Punto di partenza e di arrivo è dunque la moltitudine: la composizione sociale e politica della classe, del lavoro vivo, che cooperando, vive e produce. Se con l’operaio massa la cooperazione era imposta dall’esterno, con la moltitudine essa è intelligenza collettiva, general intellect. Obiettivo storico è dunque la riappropriazione della potenza della moltitudine, del potere come attività, dei mezzi di produzione sempre più integrati nelle menti e nei corpi del lavoro vivo. Parimenti, la moltitudine che agisce di concerto è il farsi corpo politico, dove l’Uno non decide niente, mentre i molti che in lotta prendono parola esercitano la potenza sotto forma di potere costituente per costruire un essere etico, sociale, una nuova comunità. Il potere costituente non è quindi mero concetto politico ma una categoria dell’ontologia.
INTERMEZZO del volume è un’intervista a Negri sulle «macchine di pensiero», dalla storica rivista «Quaderni rossi» al gruppo di ricerca EuroNomade, una cartografia dei dispositivi organizzativi. Strumento indispensabile di Negri è, qui il legame con la tradizione filosofica dell’operaismo italiano, la conricerca: l’inchiesta, cioè, condotta con le lenti della «teoria rivoluzionaria». Dunque fondamentali è la cassetta degli attrezzi dell’operaismo. Lì dove altri ne hanno archiviato l’utilizzo, battendo vie reazionarie e scavando nell’autonomia del politico sino a derive metafisiche o, in alcuni casi, ipotizzando la fine della lotta di classe e l’anacronismo del conflitto sociale, Negri ha indagato, rivendicandone l’apologia, le resistenze biopolitiche, attento al rinnovarsi di una moltitudine singolarmente e diversamente produttiva nei suoi movimenti.
E COSÌ, NEL DIBATTITO di una parte della sinistra che aspira a rappresentare, ma che non riesce a fare i conti fino in fondo con la crisi della rappresentanza, o non ne coglie i nodi, troviamo chez nous posizioni annebbiate dall’«onda Trump», che ammiccano a populismi dai tratti nazionalisti e da tinte rosso-brune; confondono la composizione di classe con tesi fasciste, razziste e sessiste, senza linee di demarcazioni.
Negri ha sempre seguito il soffio vitale della lotta di classe incarnato nella figura del povero, ossia nella condizione della vita produttiva in quanto tale, emblema della produzione biopolitica. Amore del povero è amore del comune, ontologicamente produttivo di nuovo essere, nuovo mondo e nuova socialità, ché è potenza e movimento del lavoro vivo: potenza espressiva di moltitudini di desiderio.
Corriere 26.11.16
Montanelli e Scalfari, il tandem mai partito
di Francesco Battistini

Senti Indro, disse una sera Eugenio Scalfari nel salotto di Montanelli, «tu vuoi fare un tuo quotidiano, io voglio farne uno mio: perché non lo facciamo insieme?». Come usava negli anni Settanta, il ghiaccio galleggiava nel whisky. E forse nella stanza: «Io e te?», sgranò gli occhi il gran borghese del giornalismo. «Sì, tu e io», tenne il punto il Barbapapà progressista. «E chi farebbe il direttore?». «Tu, naturalmente. Indro, che domande…». «E tu che ruolo ti sei ritagliato?». «Condirettore». Intrigante… «Ci voglio riflettere», prese un po’ di tempo Cilindro. Che ci pensò davvero. E per qualche giorno. Finché non alzò il telefono e sciolse la riserva: «Eugenio — disse —, faremmo un pastrocchio e probabilmente finiremmo per litigare. Tu e io siamo troppo diversi, camminiamo bene se ciascuno calza le proprie scarpe».
«La Repubblica» di Montanelli, pastrocchio o miracolo chi lo sa, non nacque mai. Quella di Scalfari, «vascello pirata che muoveva contro una flotta d’incrociatori», celebra i suoi miracolosi quarant’anni nel denso memoir d’un giornalista della prima ora, Franco Recanatesi. Insegnava il fondatore Eugenio che «il titolo è importante quanto l’articolo» e infatti La mattina andavamo in piazza Indipendenza (Cairo Editore) riecheggia le serate in via Veneto del giovane Scalfari. Aneddoti, incontri, dialoghi da romanzo. La tempesta perfetta nell’editoria di oggi che ancora non c’era: in quelle migliaia di mattine, si costruì dal nulla un vascello che prendeva il nome da un quotidiano della rivoluzione portoghese e aspirò, spesso riuscendoci, a squinternare l’editoria italiana e a impensierire il primato del «Corriere della Sera».
«A chi lo vendi un giornale così?», domandava scettico Giuseppe Turani a Scalfari, osservando la grafica povera dei primi numeri. L’ha venduto eccome, risponde Recanatesi: partendo con pochi mezzi, coi concorrenti che ironizzavano sulle notizie bucate («la Ripubblica») e con finanziamenti iniziali massimo per tre anni. E poi settimanalizzando il quotidiano, innovando un linguaggio, conquistando i giovani e una sinistra smarrita, dialogando coi De Mita e osteggiando i Craxi, benedicendo «la fortuna della P2» che sconvolse via Solferino, tenendo insieme firme prestigiose e spesso gelose…
Qualcosa più d’un giornale, dirà un giorno il successore Ezio Mauro, qualcosa meno d’un partito. Qualcosa più d’una redazione — Recanatesi alterna ragionamenti a sentimenti —, qualcosa di simile a un vascello liberal dove tutti si vestivano bene «sia in guerra che al ballo» ( copyright Sandro Viola). Il nostro segreto, disse una volta il Fondatore, è che «non siamo più un giornale a immagine di chi lo dirige». Vero a metà: il viaggio era di tutti ma, come dev’essere su una nave e nei giornali, c’era un uomo solo al comando. A volte, solissimo. Racconta Recanatesi che in uno dei giorni più difficili dell’era Br, per decidere se pubblicare o no un comunicato da cui dipendeva la vita d’un ostaggio, Eugenio si chiuse in una stanza. Isolato da tutti. Ad ascoltare Beethoven. Fu l’unica volta che lo videro piangere. Il comunicato non uscì, l’ostaggio si salvò. E da quel giorno la Settima sinfonia rimase, per sempre, la preferita del Direttore.
Repubblica 26.11.16
Giovanna Mezzogiorno “Io, bocciata ma vincente”
L’attrice: da Moretti a Bellocchio, quanti no dai registi
“Confrontarmi con gli adolescenti di oggi è stato un disastro”
intervista di Arianna Finos

GIOVANNA MEZZOGIORNO smonta allegramente l’immagine da prima della classe del cinema italiano che l’accompagna da quasi un ventennio. «A scuola ero un disastro. Sono stata bocciata due volte. Dai tredici ai diciassette anni ero un muro di gomma, non entrava nessuna informazione nel mio cervello». L’occasione per rispolverare i ricordi sui banchi di scuola è il film Come diventare grandi nonostante i genitori di Luca Lucini, commedia disneyana in cui l’attrice interpreta la madre di una studentessa. «Confrontarmi con gli adolescenti di oggi è stato uno choc. Sono avanti anni luce rispetto a ciò che ero io alla loro età». Sguardo magnetico, voce profonda, personalità decisa. Difficile immaginare questa giovane donna in jeans e magliettona a righe, che si racconta nel bar del torinese “Principi di Piemonte”, arrendersi di fronte a un compito in classe. «Eppure era così. I miei mi avevano erroneamente considerata un piccolo genio, alle medie i miei temi venivano letti in classe. Al liceo entrai nel buco nero. Ore sui dizionari e poi, al momento della versione in classe, gli altri intorno a me andavano spediti e io annaspavo». Il Beccaria di Milano «è un liceo enorme, rigido: se vai bene ok, altrimenti in un attimo finisci all’ultimo banco in mezzo ai “caciaroni”. In più io ero attiva politicamente, anche se non come una leader, erano gli anni del Leoncavallo». La fine del tunnel è arrivata cambiando scuola: «Al liceo linguistico sono tornata il piccolo genio. Ero solo più seguita, era una scuola privata. Ma i miei figli li manderò a una statale».
Nata a Roma, Casal Palocco, Giovanna Mezzogiorno si è trasferita a Parigi («avevo nove anni, non sapevo nemmeno attraversare la strada da sola»), e poi a Milano: «Gli anni milanesi sono stati importanti. La formazione politica, i primi amori e l’idea di una famiglia quasi normale». Vittorio Mezzogiorno, ottimo attore, non è stato un padre facile: «Era duro, quanto mia madre era morbida. Penso che un genitore debba prima di tutto rispettare la personalità del proprio figlio. Spero di dare ai miei bimbi basi forti, fiducia in se stessi e buona educazione, parola ottocentesca che per me è importante». Diventare madre di due gemelli è un evento che ti stravolge la vita. Giovanna Mezzogiorno ne ha parlato apertamente «con il risultato di finire in melodrammatici titoli di giornale. Ma è la realtà, la gravidanza mi ha distrutto fisicamente. Aspettare due gemelli, ingrassare venti chili, avere i bimbi in terapia intensiva, dare loro il biberon di notte, ogni tre ore. Ho preso il tempo che serviva a loro e quello che serviva a me, per rimettermi in sesto». Quella della “mammina” è stata solo l’ultima etichetta. Sorride e spiega: «Prima sono stata la figlia di Vittorio, poi ho iniziato a fare film belli, vinto dei premi, finalmente io. Ma è durata poco, perché sono diventata “la fidanzata di Stefano Accorsi”: tre anni dopo che ci eravamo lasciati nelle mie interviste mettevano ancora la sua fotina». È seguita la fase di La finestra di fronte e i premi, nazionali e internazionali: «Sono diventata “l’impegnata che fa i film tristi” e tutti a chiedere: “Perché non fai le commedie?”. Ora eccomi al “grande ritorno”. Da due anni, perché già nel 2014 ho girato I nostri ragazzi di Ivano de Matteo. Per quanto ancora continuerò a “tornare”?». Nel frattempo con Gianni Amelio ha girato La tenerezza, «un autore immenso, un film toccante», sarà nella nuova stagione di In treatment, «l’analista dell’analista Sergio Castellitto. Sono felice. Anche perché credo nell’analisi, ne ho fatta molta». Con i registi ha sempre avuto un buon rapporto, «ho bisogno di essere diretta. Nella vita posso essere polemica, sul set no». Giovanna l’autoironica racconta le bocciature artistiche: «In Francia ho fatto centinaia di provini, il cartello in mano con il nome... Nanni Moretti, dopo due provini lunghissimi, non mi ha preso. Bellocchio, con cui poi ho girato Vincere, non mi volle ne La Balia. Quel film lo volevo fare perché c’era Fabrizio Bentivoglio, di cui ero innamorata da quando avevo tredici anni. Lui lo sapeva e quando mi incontrava era imbarazzatissimo». Il futuro è chiaro: «Lavorare bene, come sempre. In questi anni le persone hanno continuato a fermarmi per strada. Credo di aver instaurato con il pubblico un rapporto di fiducia. Sanno che andando a vedere un mio film non si troveranno davanti a una scemenza».
Repubblica 26.11.16
Il mio teatro è un film
Branagh: «Shakespeare nei cinema per un pubblico globale
Mi paragonano a Laurence Olivier? Ho fatto scelte simili»
intervista di Paola De Carolis

LONDRA L’ufficio di Kenneth Branagh al Garrick Theatre è in cima a diverse rampe di scale ripide e anguste. Fuori impazza il traffico. Dentro i sedili in velluto rosso sono tipicamente stretti, gli ori degli stucchi ricordano un’eleganza antica, in platea si sente in lontananza il rombo della metropolitana. Non c’è traccia del lustro di Hollywood. La magia è sul palco, un palco sul quale Branagh ha portato Racconto d’Inverno , Romeo e Giulietta , The Entertainer di John Osborne e attori come Judi Dench, Adrian Lester, Zoe Wanamaker, Lily James (la Rose di «Downton Abbey» e Cenerentola ). Attore, regista, produttore, Branagh ha iniettato nuova vita nel West End con una stagione da lui firmata e interpretata che arriva anche nei cinema (www.nexodigital.it). Lui, che è un purista, non era convinto dell’efficacia del binomio, ma si è ricreduto. È un modo, racconta, di «permettere al teatro di vivere oltre lo stabile, di raggiungere un pubblico internazionale e nuovo».
Cosa prova quando guarda il suo teatro sul grande schermo?
«Ha una sua immediatezza e una sua forza. Ci sono studi della Society of London Theatre e del British Council che mostrano che per una parte del pubblico è meglio al cinema che a teatro. Costa meno. Ha tempi e modalità diversi. Puoi andare alla toilette o mangiare i popcorn. Nei tre spettacoli che abbiamo filmato abbiamo fatto un po’ di esperimenti: tanti primi piani, anche perché quando hai attori come Judi Dench è quasi un obbligo mettere a fuoco l’espressione. Per il pubblico hanno una forte carica emotiva. È un po’ come il cinema straniero: ti dà un’idea di come vengono fatte le cose in altri Paesi e in altre culture. E i numeri parlano da soli. Abbiamo un pubblico globale che è tre, quattro volte quello che è venuto in sala qui a Londra».
Ci sono sfide tecniche per gli attori in scena?
«Il processo creativo è sempre quello, anche se il passaggio sul grande schermo ti dà altre possibilità. Romeo e Giulietta , ad esempio, è in bianco e nero perché volevano ricreare l’atmosfera e la magia de La Dolce Vita ».
Tra le opere che ha scelto c’è «The Entertainer», di John Osborne, ambientato all’epoca della crisi di Suez. Un periodo storico difficile come quello attuale, dopo il referendum sulla Brexit?
«Siamo in un momento di crisi nazionale. La risonanza storica è molto interessante. Stiamo cercando di capire qual è il nostro posto del mondo. Facciamo la fila, ma siamo furiosi se gli altri non la rispettano e spingiamo anche noi. Siamo un Paese diviso. Non sappiamo quale sarà il futuro. Proprio come ai tempi di Suez... Non mi sento particolarmente ottimista».
Lei è stato spesso paragonato a Laurence Olivier. É un confronto difficile da sostenere?
«In questo mestiere ci sono personaggi la cui presenza è particolarmente imponente. Olivier è uno di loro. Ho fatto scelte simili alle sue e abbiamo alcuni parti in comune, ma non sono l’unico ad essere paragonato a Olivier. Lo siamo stati tutti».
Sta rifacendo «Assassinio sull’Orient Express», per il quale ha scritturato Judi Dench e Johnny Depp. Perché ha scelto questo film?
«Mi piace moltissimo viaggiare in treno, dormire in treno, per quanto a volte un po’ scomodo, guardare fuori dal finestrino. Trovo l’idea di un lungo viaggio in Europa molto romantica e allo stesso tempo l’ambientazione in uno spazio chiuso e claustrofobico è perfetta per un giallo psicologico».
Lei farà la parte di Hercule Poirot. È da sempre un suo obiettivo?
«Nell’originale la parte venne interpretata da Albert Finney. Per me è stato un maestro. Quando avevo 21 anni era il produttore del mio primo lavoro teatrale. Mi ha sempre incoraggiato molto. È stato gentilissimo con i miei genitori, che erano completamente spiazzati. È un po’ la sensazione che abbiamo tutti con Judi. Non si dà minimamente arie, ma tira su tutti».
Corriere 26.11.16
Carabinieri contro la svastica
I caduti, i deportati, gli inafferrabili. Storie di eroismo dopo l’8 settembre
di Andrea Galli

Spiare. Depistare. Fin dall’inizio, riducendo i margini di esitazione e i rischi di errore.
Come nome di battaglia il maresciallo Antonio Raga scelse «Lapin», parola francese che significa coniglio. Quasi a dire: io questo sono, un codardo, oppure uno che viene in pace. E comunque non abbiate paura di me.
Senza contare che Antonio Raga — anzi «Lapin» — già di suo era affabile, tendeva alla battuta, coltivava l’arte di sdrammatizzare, di spegnere anziché incendiare, e pur studiando molto si sforzava di essere incolto e grossolano, travestendo di indolenza la sua proverbiale calma.
Tutto questo non bastava. Serviva un timbro per sedurre definitivamente i tedeschi e condurre al meglio la recita. Serviva un soprannome adeguato, coerente. Sicché ecco a voi «Lapin», granitico sardo capace di raggiungere sempre gli obiettivi che si era prefissato. Voleva vivere cent’anni e c’è riuscito, a scanso di equivoci. Nato il 1° gennaio 1907, si è spento il 20 aprile 2007. Un secolo abbondante.
Bonnanaro, il paesino dove venne al mondo, in tempi fecondi duemila abitanti e oggi appena novecento, è terra sassarese di vulcani e vigneti, ruvidezza e dolcezza. «Lapin» — anzi Raga — fu figlio d’arte: il padre era maresciallo dei carabinieri, l’Arma era di casa. E lo è rimasta anche dopo, dato che uno dei figli di Antonio Raga, Francesco, è fedele custode delle relazioni di servizio e delle gesta del papà. «Lapin» fu il comandante del battaglione X, un manipolo di trentacinque carabinieri partigiani che operarono nel Nordest, tra Veneto e Trentino Alto Adige. Lassù al confine, non lontano da quell’alleato tedesco improvvisamente divenuto, dopo l’8 settembre 1943, un nemico. Che in seguito all’armistizio dilagò, invase e conquistò il nostro Paese.
Opporsi non era nemmeno pensabile. Già il 9 settembre, nella stazione ferroviaria di Fortezza, in provincia di Bolzano, nella valle dell’Isarco, due finanzieri in attesa di un treno subirono l’aggressione da parte di un gruppo di nazisti. Risposero al fuoco, un militare morì e l’altro rimase gravemente ferito.
Le forze dell’ordine italiane, nei piani tedeschi, andavano disarmate e prese prigioniere. In particolare, come ovunque in Italia, la priorità era data ai carabinieri. Erano i ricercati numero uno, dovevano essere bloccati prima possibile. Molto seguiti dalla popolazione, c’era il rischio concreto che si dessero alla macchia e si trasformassero in fastidiosi avversari. Per di più già armati, capaci di sparare.
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre la Wehrmacht attaccò la caserma di Bolzano. L’edificio era difeso da tre sezioni dei carabinieri con mortai, armi automatiche e bombe a mano. Insufficienti però a fronteggiare un lungo assedio. I tedeschi contavano sui carri armati Panzer VI Tiger, una sessantina di tonnellate di peso: facevano paura soltanto a vederli. Per tre ore, dalla mezzanotte, i carabinieri resistettero, uccidendo quattro nemici. Verso le tre uno dei Panzer riuscì ad aprirsi un varco nella caserma a colpi di cannone. I tedeschi penetrarono all’interno e per altre due ore, al buio, fu corpo a corpo.
Dieci furono i carabinieri colpiti, sei i morti: Roberto Baldoni, Giuseppe Cerveri, Quinto Dri, Giovanni Falchi, Stefano Lela e Arturo Savoi. Tutti gli altri furono deportati nei campi di concentramento.
Nelle stesse ore cadeva anche la caserma di Trento. Vana fu l’opposizione all’ingresso dei due carabinieri di guardia, Domenico Capannini e Giuseppe Coclite. Non avevano che i loro moschetti. I tedeschi si rifugiarono dietro un carro armato per coprire l’avanzata. Erano superiori dieci volte nel numero e infinitamente nella potenza.
Ma ovunque c’era un’evidente disparità tra le forze in campo. A Bussolengo, in provincia di Verona, non fosse arrivata a rinforzo una squadra di fanteria dell’esercito, la stazione dei carabinieri sarebbe stata presto conquistata. Anche se alla lunga non si riuscì a evitare il peggio. Il maresciallo maggiore Giuseppe Bellini rispose sprezzante a un reparto di SS che gli aveva ordinato di arrendersi. «Se volete questa caserma» disse Bellini «provate a prendervela».
I tedeschi circondarono l’edificio e sferrarono il primo attacco. Furono respinti. Partirono con una seconda offensiva e i carabinieri ebbero di nuovo la meglio. Un terzo attacco venne rinviato dall’arrivo, alle spalle, dei fanti del nostro esercito.
Le SS si ritirarono e Bellini aprì le porte della caserma ai soldati. Avrebbe potuto benissimo approfittare della tregua, ordinare l’abbandono della stazione, mettere in salvo se stesso e i suoi uomini. Ma tutti scelsero di rimanere. E i tedeschi tornarono.
Le SS inviate in Italia appartenevano alla 16a divisione «Reichsführer», così chiamata in onore di Heinrich Himmler, il loro comandante supremo. Quelle squadre speciali di soldati esercitavano in tutto il mondo un fascino perverso che superava le alleanze e gli schieramenti in campo. Nell’elenco delle SS troviamo volontari albanesi, americani, bulgari, croati, danesi, estoni, georgiani, indiani, irlandesi, italiani, spagnoli, turkmeni, uzbechi. Erano guerrieri implacabili, assassini anche fuori dai campi di battaglia. (…) A Bussolengo, le SS riuscirono a sfondare con un carro armato un muro della stazione dei carabinieri comandata dal maresciallo maggiore Bellini. La battaglia infuriò per i corridoi e le stanze: una resistenza estrema, fino alla resa obbligata.
I carabinieri e i fanti dell’esercito vennero trasferiti nella scuola media del paese, trasformata in prigione. Ma erano duri a vendere la pelle. Evasero. L’aula della scuola adibita a cella aveva due finestre e una fu forzata. All’esterno c’era una sentinella di guardia. I carabinieri la stordirono con un pugno. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Si accasciò e i fuggitivi presero il sentiero per la montagna.
Le SS scatenarono una caccia all’uomo. Si servirono di cani lupo allenati a trovare la preda nel raggio di chilometri. Il maresciallo maggiore Bellini venne catturato nelle vicinanze di un treno, in partenza per Trento. Lo disarmarono. Fu deportato.

L’incontro di presentazione lunedì a Milano

Il libro di Andrea Galli Carabinieri per la libertà (Mondadori) sarà presentato a Milano lunedì 28 novembre, alle ore 11, presso l’UniCredit Pavilion (piazza Gae Aulenti, 10). Assieme all’autore interverranno: lo storico Paolo Mieli, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, il giornalista del «Corriere» Antonio D’Orrico, il generale di divisione dei carabinieri Enzo Bernardini. L’incontro, moderato da Bruno Vespa, si svolge in collaborazione con UniCredit. Oltre al comandante dell’Arma dei carabinieri, generale di corpo d’armata Tullio Del Sette, assisteranno alla presentazione 300 studenti delle scuole milanesi. (nell’immagine un quadro di Vittorio Pisani dedicato al carabiniere Salvo D’Acquisto, che si sacrificò nel 1943 per salvare alcuni ostaggi dei nazisti)
Repubblica 26.11.16
Soprintendenza addio rivoluzione al Colosseo
L’area archeologica centrale di Roma verso l’autonomia Avrà un superdirettore e i suoi introiti non saranno più ridistribuiti
di Francesco Erbani

Beni culturali, arriva un nuovo scossone. Che si somma a quelli che da anni investono le strutture di tutela del patrimonio italiano, imponendo un inusitato stress a un apparato fragilissimo.
Stavolta nel mirino entrano il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma, la cui gestione potrebbe essere affidata a un organismo simile a quelli che dal 2014 hanno in carico 20 grandi musei e siti archeologici o monumentali (ai quali altri 10 si aggiungeranno nei prossimi mesi). Al momento non c’è un provvedimento del ministero di Dario Franceschini. Ma un emendamento alla legge di stabilità approvato in commissione (prima firmataria Lorenza Bonaccorsi, responsabile cultura del Pd, fedelissima renziana) stabilisce che si possano riaprire i termini per la riorganizzazione delle soprintendenze (accorpamenti, scorpori…) decisi dalla riforma Franceschini. La riapertura riguarda le soprintendenze speciali, quella di Pompei e quella, appunto, di Roma, ed è finalizzata «all’efficientamento delle modalità di bigliettazione » che devono adeguarsi a «standard internazionali». Il riferimento alla legge 106 del 2014 rende comprensibile ciò che viene espresso in burocratese: quell’articolo sancisce la nascita dei musei sganciati dalle soprintendenze.
A questi ora dovrebbero aggiungersi Colosseo, Fori imperiali, Palatino e le altre perle dell’area archeologica centrale di Roma (per Pompei non sono previsti stravolgimenti). Un’interpretazione in questo senso circola con preoccupata agitazione nelle soprintendenze interessate. È l’ultimo, previsto tassello, aggiungono i più allarmati, di un processo di riorganizzazione dei beni culturali che stacca dal sistema le parti più pregiate e che producono maggiori incassi (e il Colosseo non poteva mancare nella lista in cui figurano già gli Uffizi e Paestum), affidandole a direttori scelti con bandi internazionali e che hanno prevalentemente compiti di valorizzazione. È la fine dell’autonomia introdotta dal ministro Veltroni quasi vent’anni fa, aggiungono altri.
L’emendamento Bonaccorsi è stato presentato più volte. Più volte respinto e dichiarato incompatibile con la legge di stabilità, è stato poi approvato, con il parere favorevole del ministero di Franceschini. L’allarme nei ranghi della tutela deriva dal fatto che la nuova riorganizzazione giunge dopo quella che, appena nella primavera scorsa, aveva già investito i beni culturali romani con la creazione di una soprintendenza mista. Questa aveva competenza non solo sull’archeologia della capitale, anche sul paesaggio, sui monumenti e sulle belle arti entro la cinta delle Mura Aureliane. Il provvedimento seguiva altri stravolgimenti e lo smembramento in tanti pezzi della soprintendenza che per decenni aveva retto l’archeologia romana. Il Museo nazionale romano se n’è andato per conto suo. Per conto suo sta Ostia e l’Appia Antica fa storia a sé. Da due anni i pochi funzionari sono costretti a fronteggiare, oltre alla tutela ordinaria, una miriade di complicazioni dovute agli spacchettamenti (archivi sparpagliati, pratiche che vagano, personale trasferito...).
L’ennesimo riassetto ha anche un risvolto finanziario. La soprintendenza romana usava gli introiti del Colosseo e dell’area archeologica centrale (60 milioni quest’anno) per spalmarli su un territorio bisognoso di onerose cure. Dopo il terremoto una quarantina di parroci hanno segnalato crepe e altri danni a chiese di pregio. Alle quali sarebbero andati soldi provenienti dai biglietti del Colosseo. Che prenderanno ora un’altra strada.
Repubblica 26.11.16
Caro scrittore insegnami l’arte di morire
Il senso della fine svelato dalle pagine dei classici
Dall’“Ivan Il’ic” di Tolstoj alle parole di Albert Camus passando per “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij
di Gianni Clerici

L’unica certezza di questa nostra esperienza di vivere, è che la vita finirà. Mi sono accinto alla lettura di “Una cura per il medico maleducato” di Francesco Tatarelli (Franco Angeli editore) per la viva curiosità di quanto mi accadrà, e perché l’autore cita via via libri e vicende personali di grandi scrittori, che ho letto quasi tutti, da lettore non professionista ma accanito. La dedica
della prima parte del libro è addirittura rivolta a qualcuno che mi pareva più esperto di decessi rapidi e violenti che di malattie in corso, Georges Simenon. Simenon invia un augurio «A tutti coloro – professori, medici, infermieri – che negli ospedali cercano di soccorrere l’essere più sconcertante del mondo, l’uomo ammalato». Segue subito un riferimento a Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic, nella traduzione di Tommaso Landolfi. In che modo Ivan tentava di liberarsi dall’idea della morte? «Aveva il suo ufficio, in quel mondo era concentrato per lui l’interesse dell’esistenza… e soprattutto la padronanza che aveva delle sue cose».
Una vita simile a quella di molti viene sorpresa da un improvviso dolore, che costringe Ivan a consultarsi con un medico e a chiedergli «In definitiva, è cosa grave o no?» per sentirsi rispondere: «Vi ho già detto quanto stimavo necessario. Al resto provvederanno ulteriori esami». Ivan si trova d’un tratto «sull’orlo del precipizio, senza nessuno che potesse capirlo e compatirlo». Ed ecco, nell’apparire del pensiero della morte, «i suoi ricordi divengono simili alla vita di un altro», sinché, in quel tentativo di trasferire l’angoscia, entra l’improvviso aiuto di un servo, Gerasim, presenza fin lì più che secondaria in una vita importante, dal quale «gli sarebbe piaciuto di essere accarezzato, baciato, come si accarezzano e si consolano i piccini».
Insieme a questa consolazione, ecco che la vita appare al morituro «un enorme e spaventoso inganno », di cui Tatarelli ci dice: «Ora non accadrebbe. Laddove il servizio di psicologia esista, è delegato a dare spiegazioni e sostegno emotivo». Ancorché, fino a pochi anni fa, l’aiuto veniva da quella che si poteva chiamare Ars moriendi, ora sostituita da una – si spera – consolante Ars mortem evitandi.
La cultura dominante nel mondo occidentale è, dunque, in pratica, portatrice della cancellazione della morte. «Allora – commenta Tatarelli – può scattare l’odio disperante per l’esistenza, oppure la necessità spesso illusoria, ma benefica, di riscriversi, in altri termini reidentificarsi ». Questo è tanto vero che accadde anche a chi scrive, il giorno in cui, per una malattia contratta in un torneo di tennis orientale, fu costretto in ospedale, e ricevette una diagnosi senza speranze da un illustrissimo esperto di infezioni. Ho usato involontariamente la terza persona, e la lascio, incredulo che ancora non sia in grado di scrivere in prima, per una vicenda che sono riuscito a sfuggire non solo grazie a un medico più avvisato, ma ad una “ars moriendi “ chiamata religione.
Simile divagazione dice quanto il libro sia avvincente, perché riesce a parlarci di vicende che non possiamo sfuggire, e dell’opinione che suscitano in uomini per altro super intelligenti, quali gli scrittori visitati, almeno sulla pagina, da Tatarelli.
Nel continuare il mio riassuntino, mi pare il caso di citare nientemeno che Dostoevskij, e il suo I fratelli Karamazov, del quale più di un vero recensore ha parlato «come di un testo per eccellenza religioso, pure nella complessità della questione della libertà e del mistero del male». Figlio di un medico, Fëdor non è quindi giunto per caso ad una vicenda che sta verso la fine del libro, quella che riguarda il processo giudiziario, in cui l’imputato Mjtja è accusato di aver ucciso il padre. Dei tre medici chiamati a giudicarlo prevale, per la sua umanità non solo professionale, il vecchio dottor Herzenstube, che vent’anni prima aveva regalato a un bambino scalzo, ora l’imputato, un etto di nocciole. Simili vicende, scrive Tatarelli, non sono insolite nei tribunali, dove prevale, a volte, come annota Dostoevskij, una sorta di orgoglio professionale che giudici e soprattutto periti antepongono alla compassione e al rispetto per la morte. Questo accenno alla tenerezza lo ritroviamo in uno scritto di Albert Camus, quando ci dice che «un mondo senza amore è un mondo morto, e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio, per reclamare invece il volto di un essere umano, e il cuore meraviglioso della tenerezza». Alla fine, dopo infinite citazioni di uno che ha letto molto, questi ci dice: «C’è quasi sempre nella vita qualcuno che ci cura. Come ormai è forse chiaro può essere sufficiente la semplice cura ( to cure in inglese) ma più spesso c’è la necessità di prendersi cura ( to care) cioè di una vera relazione d’aiuto». E conclude.
Nel brano del buon samaritano, Luca, il medico evangelista indica due diversi momenti: «Gli si accostò, curò le sue ferite versandogli olio e vino. Poi, fattolo salire sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di lui». Vorrei essere riuscito a soddisfare gli obiettivi di questo libro, al quale pensavo da molti anni, termina Tatarelli. Credo ci sia riuscito, almeno per quelli che, come me, non dimenticano di dover morire.
IL LIBRO Una cura per il medico maleducato di Roberto Tatarelli ( Franco Angeli pagg. 176, euro 23)
Repubblica 26.11.16
Ermete e Platone così gli italiani inventarono l’Umanesimo
Un saggio di Massimo Cacciari ci fa riscoprire il pensiero dei nostri filologi, da Valla a Ficino
di Alberto Asor Rosa

Ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, arricchendone la memoria. E ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, rovesciandone la memoria, gettando lo sguardo più in profondità, dove le vecchie categorie servono ormai a poco o niente, prospettando la possibilità di una luce che, ripartendo dalle nostre radici, arriva a illuminare il nostro presente. Non v’è ombra di dubbio che a questa seconda categoria appartenga l’ultimo dei Millenni Einaudi, recentemente apparso: “Umanisti italiani. Pensiero e destino” a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari. Gli “umanisti”, com’è, o dovrebbe essere, noto, sono quel gruppo, numeroso e variamente
inclassificabile di intellettuali — filosofi, filologi, letterati, poeti e artisti — che, ricollegandosi più direttamente al passato classico, e assumendone variamente le lingue, il latino e il greco, improntano di sé tutta la cultura italiana del secolo XV: prima, com’è accaduto spesso nella nostra storia, facendo perno su di una indiscutibile capitale come Firenze; poi ramificati e diffusi sull’intero territorio nazionale, da Palermo a Napoli agli stati padani fino, in un fulgore finale trionfale, a Venezia. Rispondono ai nomi, solo per citare i più eminenti, di Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Giovanni Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro, Angelo Poliziano, Marsilio Ficino… Su questa complessa materia Massimo Cacciari interviene con ammirevole profondità e chiarezza. Spiace limitarsi a pochi accenni nell’ambito di una recensione giornalistica. Ma vediamo.
Il saggio di Cacciari, che porta il titolo significativo di Ripensare l’Umanesimo, si dirama in molteplici direzioni, ma centrale, e decisivo, secondo me, è il punto contenuto e sviluppato nel terzo paragrafo: Philophica Phlologia. E cioè: la fama acquisita dagli umanisti in campo filologico — come rinnovamento e approfondimento dell’analisi dei misteri della lingua, dello stile e delle varie forme dell’espressione culturale ed artistica — è stata universalmente e in ogni tempo riconosciuta e valorizzata. Ma è un limite, se non addirittura un errore, fermarsi qui. Perché la filologia umanistica italiana non sarebbe così acuta e penetrante nelle analisi stesse che costituiscono, secondo la tradizione, il campo privilegiato, anzi esclusivo, del suo operare, se essa non provenisse da una fonte più profonda dell’essere, quella, appunto, che solo Sophia può investigare e definire. Più esattamente in Cacciari: «Ciò significa che il valore di ciò che Filologia possiede si esprime pienamente… soltanto allorché Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel momento in cui desidera ardentemente l’immortalità… ». Ossia: «Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i “misteri di Platone”».
Questo rapporto-scambio ininterrotto è la porta aperta attraverso la quale una diversa, più profonda e inalterabile comunione tra le discipline letterarie, le arti (vedi il ruolo qui attribuito a Leonardo da Vinci) e il pensiero, può essere stabilita e mantenuta. A una dialettica dei diversi può subentrare il dominio (pressoché divino) di uno scambio reciproco senza fine, al quale non si vede perché mai si dovrebbe rinunciare. Ancora Cacciari: «Filosofia, Filologia, Ermete rimangono figure distinte, eppure soltanto il loro rapporto consente di conoscere davvero la cosa. Non si ritorna alla cosa se non attraverso la loro relatio, quel logos che raccoglie in unità i loro distinti metodi ».
Dovrei ora entrare nel merito delle molteplici direzioni d’indagine, cui la prospettiva cacciariana apre le porte (eloquentemente accennate, peraltro, nei titoli dei due paragrafi successivi a quello qui in precedenza sommariamente riassunto: Umanesimo tragico e La pace impossibile). Poiché qui tuttavia non posso farlo distesamente, preferisco continuare a mantenermi sulle generali. Per esempio. Impostate così le cose, il processo di elaborazione e formazione dell’Umanesimo allarga a dismisura i suoi confini. Da una parte (e anch’io precisamente su questo punto sono intervenuto più volte nel tentativo di far chiarezza), arriva fino a Dante, il Dante del De vulgari eloquentia, s’intende, ma anche quello della celestiale Commedia; dall’altra si spinge fino a Machiavelli (e non solo, ritengo, per i Ghiribizzi al Soderini, qui antologizzati) e a Guicciardini (che però costituisce secondo me un caso a parte), e, più avanti, fino a Vico a Leopardi («Un’amicizia stellare lega Alberti e Leopardi»).
Ancora. Colpisce, come spesso capita in Cacciari, l’oltranza di certe sue affermazioni. Per esempio, il “ridimensionamento” (non saprei definirlo altrimenti) del celebratissimo Erasmo da Rotterdam a confronto di alcuni dei più spregiudicati e profondi tra gli umanisti italiani, per esempio Lorenzo Valla: «Erasmo, ammiratore incondizionato del Valla filologo, riprenderà anche molti temi del suo epicureismo e della sua polemica contro l’ascetismo religioso, “imborghesendone” tuttavia alquanto la vis polemica… ». Cito questo esempio erasmiano, particolarmente significativo, per segnalare quali conseguenze potrebbe portare anche sul piano della storia della cultura europea, e non solo italiana, la prospettiva cacciariana ove fosse adottata e approfondita.
Questo ragionamento, e il discorso che se ne ricava, sarebbero stati forse destinati a rimanere un po’ sospesi per aria, se non fossero accompagnati da una ricchissima antologia degli autori più direttamente chiamati in causa, impeccabilmente curata da Raphael Ebgi. Ricordo almeno questo. A ognuna delle otto sezioni in cui l’antologia è divisa, Ebgi ha premesso un’introduzione, la quale, più che riprendere, almeno nella maggioranza dei casi, il discorso cacciariano, sviluppa in maniera autonoma analisi e valutazioni, attentissime soprattutto alla lettera dei testi.
Naturalmente — lo dico senza ironia — un’impostazione del genere, rigorosamente perseguita, non poteva questa volta non lasciare in secondo piano, l’altro lato del problema. E cioè la decisiva, profonda, ineliminabile influenza, che, passando attraverso la ricostruzione del classico e delle sue forme, doveva portare di lì a qualche anno al trionfo della civiltà rinascimentale italiana, vale a dire al completamento di quel colossale “ciclo delle origini”, che da Dante, passando (appunto) attraverso l’Umanesimo, arriva fino ad Ariosto, e lì si ferma (con la ripresa difficile e dolorosa di Torquato Tasso, e che avrebbe voluto rimettere insieme tutto, e non ci riuscì, né poteva riuscirci).
Un solo punto, forse, di questa materia, avrebbero potuto i due autori di questo così ricco volume mettere fin d’ora in piena luce, del resto del tutto coerentemente con le loro premesse e il loro ragionamento, e cioè la forma dei testi, di cui trattano. Non è difficile accorgersi che sono tutti, o quasi tutti, dialoghi o lettere o responsive, polemiche o no: cioè ubbidiscono in primo luogo alla sovrana legge della comunicazione e dello scambio. Appunto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Una filologia-filosofia, come quella che Cacciari ed Ebgi descrivono, è destinata peculiarmente ad assumere una forma comunicativa o dialogica. Gli umanisti hanno dato ragione ai due autori anche da questo punto di vista.
IL LIBRO Umanisti italiani. Pensiero e destino (Einaudi, a cura di Raphael Ebgi e con un saggio di Massimo Cacciari, pagg. 555, euro 85)
L’INCONTRO Il libro viene presentato mercoledì alle 17,30 a Roma, all’Istituto Enciclopedia italiana, da Alberto Asor Rosa, Raphael Ebgi, Massimo Cacciari
il manifesto 26.11.16
Parigi: No “Made in Israel” se i prodotti sono delle colonie
Roghi e Etichette. Intanto gli incendi che divampano da quattro giorni in Israele non sono stati ancora domati e la destra lancia altre accuse di "atti di terrorismo" ai palestinesi
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Al quarto giorno di incendi in Israele la situazione ieri sera non era ancora sotto controllo anche se alle decine di migliaia di sfollati di Haifa è stato dato il via libera per il ritorno a casa. Molti però non hanno più un tetto. Soltanto ad Haifa le fiamme hanno danneggiato circa 600 abitazioni e distrutto completamente altre 40 case. Il vento ieri ha contribuito ad innescare nuovi roghi, in particolare a ridosso di Gerusalemme dove le fiamme hanno costretto alla fuga centinaia di abitanti del villaggio di Beit Meir. L’intervento degli aerei antincendio giunti da diversi Paesi hanno dato una mano importante ai vigili del fuoco israeliani ma il pericolo di nuovi gravi incendi non è passato. Così come non è tramontata l’accusa che diversi esponenti politici israeliani hanno rivolto ai palestinesi, inclusi quelli con cittadinanza israeliana, di essere i responsabili degli incendi dolosi. I media locali hanno dato scarso risalto al soccorso prestato da squadre di vigili del fuoco giunte dalla Cisgiordania, in particolare da Jenin, per aiutare a spegnere le fiamme alla periferia di Haifa. Il premier Netanyahu giovedì aveva addirittura parlato di «atti di terrorismo», avvertendo che i responsabili (se arabi naturalmente) saranno puniti severamente (potrebbero perdere la cittadinanza) pur non avendo in mano le prove di una regia “occulta” degli incendi.
Dei 15 arrestati dalla polizia, tre sono abitanti di un villaggio arabo della Galilea, altri quattro vivono in Cisgiordania. Un beduino di Bersheeva è stato fermato e detenuto per «istigazione» su Facebook. Certo sui social gli incendi sono stati presentati da alcuni palestinesi ed arabi come una “punizione divina” per la legge in discussione in Israele che mira ad eliminare gli altoparlanti delle moschee. Ma anche un sito religioso ebraico, vicino ai coloni, ha sostenuto che il governo Netanyahu paghi così il prezzo per non aver ancora approvato la “sanatoria” per gli avamposti coloniali ebraici in Cisgiordania. Le televisioni ieri sera hanno trasmesso immagini dei piromani in azione. Però non sono state raccolte prove a sostegno della tesi “degli atti di terrorismo” portata avanti da Netanyahu e da non pochi dei suoi ministri. Da parte loro i rappresentanti politici della minoranza palestinese respingono con forza le accuse e denunciano la campagna portata avanti dalla destra allo scopo, dicono, di delegittimare gli arabo israeliani.
In queste ore parla di “delegittimazione” anche il governo israeliano, a proposito del provvedimento annunciato dalle autorità francesi. Parigi, sulla base delle direttive approvate un anno fa dalla Commissione dell’Ue, chiede di apporre etichette diverse da “Made in Israel” ai prodotti provenienti dalle colonie ebraiche costruite sulle Alture del Golan, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Si tratta di regioni siriane e palestinesi che Israele ha occupato militarmente nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni. Di conseguenza la comunità internazionale non li riconosce come parte del territorio dello Stato ebraico. I regolamenti commerciali in questo caso impongono a Israele di precisare, nell’etichetta, che quelle merci sono state prodotte nei Territori occupati. Una procedura normale. Invece secondo Israele, rispettando le direttive europee, la Francia avrebbe adottato una politica di discriminazione verso i cittadini israeliani che vivono e producono nelle colonie ebraiche. «C’è da rammaricarsi – ha commentato il portavoce del ministero degli esteri Emmanuel Nachshon – che proprio la Francia, che pure ha adottato una legge contro i boicottaggi, adotti provvedimenti del genere che potrebbero essere interpretati come un sostegno agli elementi radicali e al movimento per il boicottaggio di Israele». Secondo il portavoce Parigi applicherebbe «un doppio-standard nei confronti di Israele, ignorando invece 200 altri conflitti territoriali in corso nel mondo». È una tesi non nuova questa. In sostanza, di fronte alla gravità delle crisi e delle guerre che devastano il Medio Oriente e altre aree del mondo, la comunità internazionale dovrebbe, secondo Israele, dimenticare situazioni «irrilevanti», poco importanti, come l’occupazione dei Territori che dura da quasi 50 anni e il fatto che milioni di palestinesi continuino a rivendicare invano libertà e indipendenza.
Tel Aviv in queste ore deve fare i conti anche con il successo della campagna “Settimana internazionale #StopHP”, da ieri fino al 3 dicembre, promossa dal movimento Bds per il boicottaggio di Israele e delle aziende straniere che, anche indirettamente, partecipano alla violazione dei diritti dei palestinesi. La Hewlett Packard (HP) perciò è stata rimossa dal programma del convegno “Etica e Responsabilità Sociale dell’Informatica” che si svolgerà a Milano il 5 dicembre. La HP, spiega il Bds, ricopre un ruolo di grande rilievo fornendo a Israele il sistema biometrico di identificazione per posti di blocco militari per schedare i palestinesi. Inoltre sostiene con servizi e tecnologie gli insediamenti coloniali israeliani.
Repubblica 26.11.16
Abraham Yehoshua.
Lo scrittore: “La terra da sempre al centro delle tensioni coi palestinesi”
“Israele è in fiamme ma non chiamatela Intifada del fuoco”
intervista di Francesca De Benedetti

Abraham Yehoshua, nato a Gerusalemme nel 1936, insegna Lettura comparata presso l’Università di Haifa. Uno dei maggiori scrittori israeliani, è anche drammaturgo Il suo ultimo romanzo è “La comparsa”
I palestinesi stanno offrendo ospitalità agli evacuati da Haifa
Se fosse terrorismo perché i servizi non ci hanno protetto?

UNA COLONNA di fumo taglia Israele. Il fuoco ha attraversato Haifa per poi lambire Gerusalemme. Quattro giorni di incendi, 80mila sfollati, una dozzina di arresti e l’ombra di una nuova Intifada: la “Eshtifada”, l’Intifada del fuoco. Il primo ministro Benjamin Netanyahu parla di «atto di terrorismo». «La terra, la terra. Qui in Israele la Storia e le tensioni passano sempre sul corpo della terra», dice il grande scrittore Abraham Yehoshua. Lui conosce bene ogni angolo di quella terra arsa: è nato a Gerusalemme, da dove ci risponde, e ad Haifa insegna all’Università.
Siamo di fronte a una nuova Intifada?
«La polizia parla di casi di incendio doloso, il primo ministro dice che i piromani sono terroristi. Io attendo di aver chiari tutti gli elementi e invito a mantenere calma e lucidità. Mi sembra troppo presto per incolpare i palestinesi di tutti questi incendi, o per parlare di nuova Intifada. Non significa che io sia sereno, quando penso alla situazione in Israele. Anzi, vivo nel rimpianto ormai. Dopo cinquant’anni ho perso molte delle mie speranze di pace per questa terra. Ora che da due mesi ho perso anche la mia amata moglie, la disperazione mi attraversa. Fatico a parlare ».
Netanyahu vede la mano palestinese dietro il susseguirsi di incendi. Che cosa ne pensa?
«Che non ci sono ancora abbastanza elementi per valutare, ma è plausibile che molti roghi abbiano causa naturale. Il meteo, l’arsura, mesi senza una goccia di pioggia, un caldo che colpisce noi così come l’Italia o la Grecia, le pinete che prendono fuoco immediatamente: dobbiamo considerare tutti questi fattori con molta attenzione prima di affrettarci a gettare la colpa sugli arabi. Del resto i roghi hanno colpito anche le terre abitate dai palestinesi, e poi bisogna dare atto agli arabi di stare mostrando grande solidarietà. Offrono ospitalità alla gente di Haifa che ha perso la casa».
Crede quindi che il primo ministro abbia tratto conclusioni affrettate?
«Sarebbe opportuno da parte sua usare cautela, anche per evitare autogol. Sa, se davvero ci sono dietro elementi terroristici, io da cittadino mi chiedo: perché il governo, la polizia, i servizi segreti non hanno saputo prevenire e proteggere?» .
Un anno fa è esploso il caso dell’Intifada dei coltelli, ora c’è chi già battezza i roghi l’Intifada del fuoco. Non c’è pace?
«Bombe, coltelli, pistole o forse fuoco, è chiaro che conosciamo sin troppo bene, da tempo, il prezzo del risentimento e del terrorismo. Ma negli ultimi dieci mesi abbiamo attraversato una fase relativamente tranquilla, meno sanguinosa e tesa del solito. Non mi farei prendere dalle “fiamme” e aspetterei prima di parlare di escalation».
I contenziosi sull’acqua, ora i roghi. Questi episodi sono il segno che il conflitto in Israele tocca anche le risorse?
«La terra, la terra. In Israele tutto ha a che fare con la terra: gli insediamenti, le tensioni. Ogni particella della nostra Storia ha sempre a che fare con questo elemento: la terra».
Lei parla di mesi di relativa pace. Crede che le tensioni tra israeliani e palestinesi potranno sciogliersi?
«Non farò la parte dell’ottimista: non lo sono, ormai. Ho passato cinquant’anni a credere fermamente che la soluzione dei due Stati fosse possibile. Sa cosa mi rimane di tutta questa speranza?».
La disillusione?
«Un grande rimpianto e la dura accettazione della realtà. Per la soluzione delle due nazioni è ormai davvero troppo tardi: è uno scenario impossibile. Da una parte c’è Israele, con i suoi insediamenti. Dall’altra, ci sono le responsabilità palestinesi: si sono rifiutati di negoziare, lo trovo grave. E poi, le pressioni internazionali sono troppo deboli. Con il cambio al vertice negli Usa, sarà pure peggio».
Dice che l’elezione di Trump non sarà d’aiuto?
«Obama non ha fatto nulla, anche se almeno ci ha provato. Su Trump non farò previsioni: da scrittore le dico che mi pare un personaggio romanzesco».
Cosa si aspetta dal suo governo ora?
«Vedo solo una via d’uscita: dare piena cittadinanza ai palestinesi, rendere tutti uguali di fronte alla legge. Solo così potremo smorzare i “veleni” dell’occupazione. Magari non risolveremo i problemi alla radice, ma almeno avremo tolto benzina ai “fuochi” della rabbia ».
il manifesto 26.11.16
La verde Jill Stein avvia la corrida del «recount»
Presidenziali 2016. Raccolti in 4 giorni più di 5 milioni di dollari. Si inizia con il Wisconsin ma di questo passo probabile riconteggio anche in Pennsylvania e Michigan. Clinton non commenta
di Marina Catucci

NEW YORK Il presidente eletto Trump continua nella formazione della squadra di governo, e sembra intenzionato a selezionare l’investitore miliardario Wilbur Ross come segretario al Commercio, nomina che si andrebbe ad aggiungere alla lista dei grandi donors repubblicani che avranno un ruolo in questa amministrazione.
Oltre a Ross si fa il nome di Todd Ricketts, uomo d’affari e comproprietario della squadra di baseball Chicago Cubs, che rischia di essere scelto come vice segretario. Trump ha già chiamato la miliardaria Betsy DeVos, altra top donor repubblicana, per il ruolo di segretario all’istruzione, componendo così una squadra formata essenzialmente da uomini e donne d’affari, super ricchi e con pochissima o nessuna esperienza politica.
Questa composizione del governo è uno degli elementi che stanno probabilmente spingendo gli americani a donare a Jill Stein i soldi necessari al riconteggio dei voti in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, dove la candidata dei verdi sostiene di avere le prove dei brogli repubblicani.
Al momento, e in brevissimo tempo, 3/4 giorni, Stein ha raccolto più di 5 milioni di dollari, più di tutta la sua campagna presidenziale, e abbastanza per pagare il milione e centomila dollari necessari a far aprire nuovamente le urne in Wisconsin, mentre per la Pennsylvania e il Michigan il limite temporale è fissato per la prossima settimana. «Non lo sto facendo per aiutare il partito democratico – ha precisato Jill Stein – ma per aiutare la democrazia americana che da queste elezioni è uscita con le ossa rotte. Il popolo ha bisogno di un sistema elettorale credibile del quale fidarsi».
In rete iniziano a sorgere dei dubbi riguardo la vera motivazione che spinge il Green Party verso questa mossa, il dubbio principale, come sottolineato anche dal New York Times, sta nella cifra richiesta ai sostenitori, che aumenta di giorno in giorno. Inizialmente erano due milioni e mezzo, raggiunti i quali è aumentata a quattro e ora si parla di 7 e forse perfino di 11 milioni di dollari.
Ma questo dubbio non ferma l’afflusso continuo di danaro che sta arrivando ai verdi, la somma più alta mai raccolta da un partito minore americano. Il fatto stesso che i democratici non abbiano intrapreso questa mossa, secondo Stein, dimostra quanto siano collusi con il sistema.
Da parte sua, lo staff di Hillary Clinton non si pronuncia visto che non ci sono segnalazioni di frode o di manomissione di voto e gli analisti democratici ritengono che il vero colpevole dietro le disparità elettorali in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania sia stata una base democratica demotivata.
Tra una settimana, se tutto continua su questo binario, a queste domande arriveranno le risposte.
Repubblica 26.11.16
Il club dei Paperoni al potere con Trump e Wall Street brinda
Aveva promesso di punire i lobbisti e invece recluta i loro padroni. Come Wilbur Ross, pronto per il Commercio
di Federico Rampini

NEW YORK. Ora ci mancherebbe solo il finanziere Mitt Romney al Dipartimento di Stato. Magari il banchiere Steve Mnuchin (ex Goldman Sachs) come segretario al Tesoro. O il petroliere Harold Hamm all’Energia? Allora nella squadra di Donald Trump avremmo completato il poker. Gli ultraricchi al governo, i membri del club dello 0,1%. Non c’è da stupirsi se Wall Street è in piena luna di miele col presidente- eletto: altro che rivolta anti- establishment, al potere c’è andata la finanza. E sarebbe pure naturale, visto che Trump non è un metalmeccanico. Salvo che proprio a lui sono andati tanti voti metalmeccanici. E in campagna elettorale aveva promesso, fra le altre cose, un giro di vite contro i lobbisti che infestano Washington. In un certo senso, quest’ultima promessa la sta mantenendo. A modo suo: invece dei lobbisti recluta i padroni dei lobbisti. Gente, in certi, casi, molto più ricca dello stesso Trump (sulla cui reale fortuna continua a regnare il mistero).
Politico. com valuta a 35 miliardi il patrimonio totale della nuova squadra di governo, se si confermano tutte le previsioni sul toto- nomine. Il New York Times definisce come “il re delle bancarotte” Wilbur Ross, che Trump vuole come segretario al Commercio. A differenza del bancarottiere seriale Trump (fallito sei volte), il 78enne Ross quel nomignolo se lo è acquisito per tutt’altre ragioni: la sua società di private equity WL Ross & Company è specializzata nel rilevare aziende in bancarotta, ristrutturarle e rivenderle con lauti profitti. Il ministero del Commercio include la competenza sui trattati di libero scambio e Ross è noto per la sua affinità con il protezionismo di Trump. Come vice di Ross al Commercio Trump vorrebbe un altro Paperone, il finanziere Todd Ricketts che possiede la squadra dei Chicago Cubs e il cui padre fondò la società di trading Td Ameritrade. Al dicastero dell’Istruzione è andata una donna ricchissima, Betsy DeVos, che ha finanziato per anni una delle campagne favorite dei repubblicani: le “charter school”, scuole private sostenute anche da sussidi pubblici, per dare alle famiglie un’alternativa all’istruzione di Stato.
La destra può obiettare che di straricchi furono piene le Amministrazioni democratiche. Bill Clinton a suo tempo non esitò a chiamare al Tesoro un ex capo della Goldman Sachs, Robert Rubin, e non a caso il suo governo varò la più importante deregulation finanziaria. Lo stesso Rubin divenne per un breve periodo il capo dei consiglieri economici di Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008, anche se poi non entrò più al governo. In compenso Obama mise al Commercio un miliardario erede della dinastia Pritzker, i fondatori degli hotel Hyatt. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Se non che siamo nell’era del populismo, la vittoria di Trump è stata possibile solo perché qualche fascia di classe operaia bianca lo ha votato nel Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, facendo ribaltare di strettissima misura la bilancia del collegio elettorale in quegli Stati chiave. Gli operai si sentivano traditi dall’establishment e ora se lo ritrovano ben rappresentato nelle prime caselle dell’organigramma. Ma in fondo l’elettorato popolare che ha scelto Trump ha deciso di abbracciare anche la sua ricchezza, e la promessa che «un imprenditore saprà gestire la nazione molto meglio dei politici e dei burocrati». Fin dall’inizio Trump ha avuto come consigliere- chiave al suo fianco il genero Jared Kushner, pure lui ereditiere, immobiliarista e finanziere, probabilmente più ricco del suocero.
Corriere 26.11.16
I due condomini americani la Presidenza e il Congresso
risponde Sergio Romano

Ormai sappiamo tutto delle ragioni che hanno portato alla vittoria di Trump, nonostante il consistente vantaggio di Hillary Clinton nel voto popolare. Non ho visto trattare su nessun giornale invece di come mai i repubblicani nonostante questo
(e nonostante le pessime performance del turbo-liberismo e l’avanzata delle minoranze) abbiano riconquistato anche le due camere: ragioni politiche
di fondo o ingegneria elettorale nel disegno dei collegi, di cui si avvantaggiano i repubblicani?
Sergio Frigo

Caro Frigo,
Una persona che ha vecchie esperienze di politica americana mi ricorda che vi è stata una lunga fase, fra gli anni Ottanta e Novanta, in cui gli elettori avevano l’abitudine di «split the vote», di dividere il voto: sceglievano il presidente che maggiormente rappresentava le loro posizioni politiche, ma si cautelavano contemporaneamente votando per i candidati al Congresso del partito opposto. In un sistema politico in cui la macchina legislativa è nelle mani delle due Camere, questa scelta costringeva l’Esecutivo e il Legislativo a una sorta di negoziato permanente. Poteva, in molte circostanze, paralizzare la politica americana, ma era anche una garanzia di «bipartisanship», una parola che nella politica americana è sinonimo di intesa e concordia nazionale.
Sembra che questa abitudine sia progressivamente diminuita, ma qualcosa del genere è accaduto nel 2012, quando Barack Obama è stato eletto per un secondo mandato, ma non è riuscito a riconquistare il Congresso. Evidentemente è stato preferito a Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, ma già suscitava dubbi e ostilità, in alcuni ambienti, per gli aspetti più controversi della sua politica estera e nazionale.
Oggi la situazione è solo parzialmente diversa. Trump è stato eletto dal collegio elettorale, ma ha preso meno voti popolari dell’avversario (Hillary Clinton) ed è probabile che parecchi repubblicani, infastiditi dalle sue dichiarazioni più sprezzanti e insolenti, non gli abbiano dato il loro voto. È altrettanto probabile, tuttavia, che quegli stessi elettori abbiano votato per i candidati repubblicani al Congresso. Le intenzioni sono sempre le stesse. Chiunque occupi la Casa Bianca, repubblicano o democratico, esistono elettori americani di entrambi i partiti che vogliono un Congresso indipendente, capace di tenere testa al presidente, indipendentemente dal suo colore politico. Non dimentichi infine, caro Frigo, che la Camera dei rappresentanti viene rinnovata parzialmente ogni due anni e che questa scadenza permette di tastare più frequentemente il polso alla società americana.
La Stampa 26.11.16
Un maxi esodo dal Sud agli Usa prima del muro di Trump
di Francesco Semprini

È un vero e proprio esodo quello che si sta verificando in alcuni Paesi dell’America centrale piegati da povertà e violenza. Un fiume di persone in fuga dirette verso gli Stati Uniti con l’obiettivo di fare il loro ingresso nel Paese prima che Donald Trump si insedi alla Casa Bianca, il prossimo 20 gennaio.
È l’allarme lanciato da alcuni governi del Centro America e che ha messo in guardia l’amministrazione di Washington quando mancano meno di due mesi alla fine del secondo mandato di Obama. «Temiamo il peggio – dice Maria Andrea Matamoros, ministro degli Esteri dell’Honduras. – Stiamo assistendo a un rapido e continuo incremento dei flussi di persone che lasciano il nostro Paese, imbeccati dai “coyotes”». Il termine in gergo indica i criminali che gestiscono il traffico di essere umani, i quali fanno pesanti pressioni sui migranti spiegando loro di dover arrivare in Usa prima che Trump inizi a governare. Il timore è infatti che il 45° presidente Usa alzi il famoso muro al confine col Messico per rendere arduo l’accesso illegale nel Paese, oltre alla stretta sul trattamento dei clandestini e l’inizio (o meglio il proseguimento) delle deportazioni. Anche Raul Morales, ministro degli Esteri del Guatemala, si è detto assai preoccupato: «I “coyotes” approfittano della disperazione dei nostri concittadini e si impossessano delle loro proprietà per farsi ripagare del “passaggio” verso gli Usa.
Nel 2016 sono risultate oltre 410 mila le persone detenute nei centri di frontiera, colte in flagrante mentre tentavano di entrare illegalmente dai confini sud-occidentali, quelli che vanno dal Texas a Tijuana. Si tratta del 25% in più rispetto all’anno precedente e riguarda in particolare cittadini provenienti da Guatemala, El Salvador e Honduras, tre tra i Paesi maggiormente colpiti da povertà e dalla violenza delle gang. Le stesse i cui affiliati una volta superato il confine americano si ricostruiscono in grandi metropoli Usa come Los Angeles. Il rischio è che questi flussi aumentino ancora con l’arrivo di Trump che ha promesso fra l’altro la deportazione di 3 milioni di immigrati illegali colpevoli di reati gravi e traffico di stupefacenti. Un meccanismo già oliato visto che Obama dal 2009 al 2015 ha deportato oltre 2,5 milioni di clandestini.
Il Sole 26.11.16
Erdogan e la «bomba umana» del ricatto
di Alberto Negri

Il ricatto di Erdogan sui migranti arriva puntuale secondo un copione seguito da tutti i raìs mediorientali: può stupire soltanto i parlamentari europei, che evidentemente vivono in un mondo a parte.
E ai quali, nonostante gli attentati jihadisti, forse è arrivata soltanto un’eco lontana di 30 anni di guerre e destabilizzazione sotto casa. Il rappresentante di Bruxelles in Turchia due anni fa parlava ancora dell’Akp come di una sorta di democrazia cristiana islamica quando già era evidente, dopo i fatti di piazza Taksim, la deriva erdoganiana.
Nei documenti della diplomazia continentale si dice che la Turchia è una sorta di malato sotto osservazione ma si ammette di non avere nessuna idea sulla strategia di Erdogan. Eccola: è quella brutale di tutti gli autocrati mediorientali, restare al potere a ogni costo e se possibile diventare ancora più potente.
Erdogan, come ha dimostrato la vicenda della guerra per procura in Siria, è un giocatore d’azzardo e mette alla prova di che pasta sono fatti i suoi sprovveduti interlocutori: sapeva perfettamente che nel momento in cui si era impegnato con la Merkel a tenere due milioni di profughi siriani in casa si era procurato una delle armi più efficaci in circolazione, la bomba umana, che spaventa a morte gli europei, impegnati in critiche tornate elettorali. Questa non è una questione soltanto umanitaria ma bellica.
C’era da aspettarselo perché dopo essere uscito indenne dal fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso, Erdogan è entrato di diritto nella galleria dei raìs: ha superato la prova della sopravvivenza vera, quella delle armi, ha attuato una repressione a tutto a campo, accompagnata soltanto da flebili proteste dell’Europa: consolidato il consenso della maggioranza conservatrice del Paese si prepara con la riforma costituzionale a rafforzare il suo potere autocratico. Se si entra nella testa del raìs, ma gli europei non sanno farlo, è evidente che si tratta di un leader pronto a tutto. Come userà realmente la bomba umana per ricattare gli europei è forse impossibile da decifrare.
Il ricatto è doppiamente pericoloso per due motivi. Il primo è che la Turchia è un Paese della Nato con 23 basi militari e armi nucleari tattiche. Il secondo, decisivo in questo momento, che è impegnata con le forze armate e le milizie sia in Siria che in Iraq in una fase fondamentale della battaglia contro il Califfato. Dal calderone mediorientale, dove ieri sono stati uccisi 4 militari turchi in un raid siriano, si può far uscire di tutto: profughi, jihadisti in fuga, terroristi di ogni risma.
Erdogan vuole partecipare alla liberazione di Raqqa, con la non troppo nascosta ambizione di mettere la mani sul territorio siriano per impedire l’autonomia dei curdi e si è piazzato a 12 chilometri da Mosul per unirsi all’assedio della roccaforte dell’Isis nonostante le proteste del governo di Baghdad. Sa quindi perfettamente cosa avviene dall’altra parte, movimenti dei profughi compresi.
Per consolidare le sue rivendicazioni è venuto a patti con Putin, scambiando il destino di curdi siriani alleati degli Usa con quello di Assad, si è messo d’accordo anche con Israele e tiene sulla corda gli Stati Uniti ai quali ha concesso la base di Incirlik per bombardare il Califfato soltanto dopo un anno e mezzo di trattative mettendo nero su bianco che per lui curdi e jihadisti sono sullo stesso piano.
Come si è arrivati a questa situazione deve essere ben chiaro. Erdogan ha usato la democrazia e l’Europa come un tram - sono parole sue - per scendere alla fermata che desiderava: far fuori la repubblica kemalista, i suoi generali e prendersi tutto il potere. Chi dice di non sapere o è un ipocrita o uno sciocco.
Sono stati gli americani e gli europei che hanno reso forte Erdogan nel momento in cui hanno cercato di manovrarlo. Gli Stati Uniti e l’ex segretario di Stato Hillary Clinton portano una responsabilità enorme. Washington nel 2011, inviando l’ambasciatore Ford tra i ribelli di Hama, ha dato il suo consenso per aprire “l’autostrada della Jihad” e per far passare dalla Turchia migliaia di miliziani islamici per abbattere Assad, alleato storico dell’Iran e di Mosca. Questa operazione è stata approvata dalla Francia, dalla Gran Bretagna e anche dall’Italia, scottata dalla perdita della Libia, si è accodata.
Nel 2013 quando Obama ha rinunciato a bombardare il regime baathista sono venuti a galla i problemi e l’ascesa del Califfato ha fatto il resto, accompagnata dagli attentati terroristici nel cuore dell’Europa. Erdogan sperava di eliminare Assad, di mettere la mani su Aleppo e Mosul e bastonare i curdi, Pkk compreso, usando i jihadisti con l’aiuto dei finanziamenti dei sauditi e qatarini: quando gli occidentali si sono tirati indietro si è infuriato, giocando la sua partita personale, migranti compresi.
Di fronte ai fatti l’Unione europea non ha una reale capacità di reazione. Non può sanzionare la Turchia perché il 50% del suo commercio e il 70% dei suoi debiti privati e dei prestiti sono con l’Europa, perché ci sono migliaia di imprese che lavorano lì e perché nessuno finora ha mai rinunciato a fare affari con Ankara. In sintesi così stanno le cose: dopo l’Iraq nel 2003, la Siria e la Libia nel 2011 adesso arriva il nodo della Turchia. Chi risolverà il problema? L’impressione è che in Turchia oltre all’Europa verrà presto messa alla prova anche la “dottrina Trump”.
La Stampa 26.11.16
Erdogan minaccia la Ue “Farò passare i profughi”
Il leader turco: Europa disumana. Merkel: le minacce non aiutano
di Marta Ottaviani

Non si è fatta attendere la reazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla votazione, non vincolante con la quale, due giorni fa, il Parlamento di Strasburgo ha chiesto il congelamento dei negoziati per l’ingresso di Ankara nella Ue. Il Capo di Stato, per fare capire a Bruxelles che non ha gradito l’iniziativa, ha usato l’argomentazione più potente di cui dispone: l’accordo sui migranti.
«Se l’Europa si spingerà troppo oltre, permetteremo ai rifugiati di passare dai valichi di frontiera» ha tuonato il numero uno di Ankara che poi ha rincarato la dose contro l’Ue: «Non avete mai trattato l’umanità in modo onesto – ha detto Erdogan - e non vi siete occupati delle persone in modo giusto. Non avete raccolto i bambini quando dopo essere annegati arrivavano sulle coste». Il presidente ha ricordato che la Turchia è l’unico Paese a farsi carico di 3,5 milioni di rifugiati e che tutto quello che l’Europa ha saputo fare è stato firmare un accordo con Ankara perché chi scappava alla Siria in fiamme non raggiungesse il Vecchio Continente.
Le parole di Erdogan arrivano a pochi giorni dalle altre dichiarazioni in cui aveva annunciato che avrebbe giudicato la votazione del Parlamento Europeo «senza valore», accusando l’Ue di avere rapporti ambigui con gruppi terroristici, soprattutto, il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. «Da una parte dichiarate il Pkk organizzazione terroristica, dall’altra avete dei terroristi che se ne vanno in giro liberamente nelle strade di Bruxelles» aveva detto.
L’Europa cerca di smorzare i toni. Maragaritis Schinas, portavoce della Commissione Europea, ha parlato di «pieno impegno» a fare funzionare l’accordo con la Turchia sulla gestione dei migranti, aggiungendo che i contatti, politici e tecnici, sono continui. Pronta anche la reazione di Berlino. Uno dei portavoce di Angela Merkel, Ulrike Demmer, ha definito l’accordo «interesse di entrambe le parti», ma chiarito che «le minacce non aiutano».
In Turchia, l’atteggiamento è quello di chi vuole rassicurare. Fonti interne all’Akp, il partito di Erdogan, hanno dichiarato che la maggior parte del partito è contraria all’interruzione dei rapporti con Bruxelles e che le recenti parole del presidente, per il quale la Mezzaluna potrebbe lasciare la Ue per volgere lo sguardo allo Shanghai 5, con Russia, Cine ed ex Repubbliche dell’Asia Centrale, sono frutto di «uno stato d’animo del momento». Per Asli Aydintasbas, editorialista del quotidiano Milliyet è un’ipotesi non realistica. «Ankara non può fare a meno di Bruxelles. Ogni volta che Erdogan interviene sull’argomento i mercati interni subiscono contraccolpi gravissimi. Alla fine non succederà nulla, ma difficilmente la Turchia entrerà nella Ue perché non è questo l’obiettivo di Erdogan. In caso di ingresso la sua azione politica, dentro e fuori il Paese sarebbe molto limitata e non è questo quello che vuole».
Corriere 26.11.16
La giovane Le Pen: «Pronti a chiedere l’uscita della Francia dall’Unione Europea»
di Alessandro Trocino

FIRENZE Marion è la giovane di casa Le Pen, nipote di Marine e vicepresidente del Front National. Bionda ed elegante, dai modi affabili e dalle idee più che decise, arriva a Firenze dopo avere incontrato Matteo Salvini, per provare a costruire quella rete della nuova destra antieuropea, che ha trovato nuova linfa con la Brexit e con la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti.
In caso di vittoria elettorale, chiederete l’uscita della Francia dall’Europa?
«Il nostro obiettivo è avviare negoziati con la Commissione europea, per ottenere uno statuto derogatorio. Vogliamo ristabilire le nostre frontiere, uscire dallo spazio Shengen, ottenere la sovranità monetaria e la supremazia dei diritti francesi su quelli europei. Se non ci riusciremo, proporremo un referendum per l’uscita della Francia dalla Ue».
Cosa pensa dei due candidati delle primarie del centrodestra, Fillon e Juppé?
«Fanno parte dello stesso regime politico. Juppé è stato ministro di Sarkozy, Fillon è stato il suo primo ministro. Hanno contribuito entrambi alla creazione dell’Europa federale. Ora si presentano come uomini che vogliono risolvere un problema che hanno creato loro stessi».
Lei avrà un ruolo nel governo, se vincerete?
«Prima vinciamo le elezioni, poi vedremo».
Cosa cambia per l’Europa la vittoria di Trump?
«La sua vittoria è una buona notizia per la Francia e per l’equilibrio del mondo. Trump stringerà l’alleanza con la Russia, uscendo dalla logica della guerra fredda, e rifiuterà la politica bellicosa e pericolosa portata avanti dalla Clinton in Iraq e in Afghanistan. Trump rifiuta anche i trattati di libero scambio, come quello tra Europa e Stati Uniti. La sua vittoria è la sconfitta di un sistema mediatico e politico che ha cercato di manipolare la volontà popolare».
Steve Bannon, stratega e consigliere di Trump, le ha chiesto di lavorare insieme.
«Sì, anche se non abbiamo avuto contatti diretti. Ma è chiaro che saremo un punto di riferimento».
Volete costruire nuovi muri in Europa?
«Non è questione di costruire muri, ma di mettere porte. La porta la puoi aprire o chiudere, quando è necessario».
Chiudere le porte è difficile, ogni giorno muoiono in mare uomini che cercano di arrivare in Europa.
«È colpa dell’Europa, che ha incoraggiato l’immigrazione e ha destabilizzato la Libia, facendo cadere Gheddafi. L’Europa va a cercare le navi, spesso avvertita dagli stessi trafficanti, e organizza i rimpatri sulle nostre coste. Dovrebbe fare invece come l’Australia, che riporta i barconi nei Paesi d’origine e non ha morti sulle sue coste. L’Europa incita a un’immigrazione clandestina che ha come conseguenza diretta la morte di centinaia di persone. Il vero approccio umanitario è quello australiano».
Gli immigrati possono essere una ricchezza per l’Europa.
«No, oggi in Francia ci sono pezzi di territorio in cui non c’è più cultura né legge francese: in Francia ci sono 100 Molenbeek. Ci sono milioni di musulmani che vogliono applicare la sharia. Siamo il Paese europeo dove si formano più jihadisti e dove domina la versione salafita dell’Islam».
Perché ha incontrato Salvini?
«Sto cercando di costruire una rete di partiti che condividano le nostre idee sull’Europa. Salvini ha molto carisma e grande talento oratorio e politico: può essere l’uomo forte per costruire una grande destra identitaria e sovranista e per preparare la nuova idea europea che nascerà sulle macerie della Ue. Anche l’Italia soffre molto la moneta nazionale, sul piano industriale soprattutto».
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, le ricorda che è città medaglia d’oro della resistenza contro il nazifascismo. Non è esattamente un benvenuto in città.
«Ho sentito quello che ha detto. È il sintomo tipico della vecchia classe politica, che in mancanza di argomenti fa la morale agli altri. La grande differenza tra noi due è che io non penso al 1945, io guardo all’avvenire e cerco di riparare agli errori fatti nel passato dalla classe politica».
Ma a lei cosa dice la parola «fascismo»?
«A me non dice nulla. Io non ho alcun legame con quella storia. Appartengo a un partito sovranista, che difende la cultura francese. Quando vengo qui a Firenze, non penso al fascismo: semmai a Maria o Caterina De’ Medici, che erano grande regine francesi».
Repubblica 26.11.16
La Brexit e la dura realtà
di Timothy Garton Ash

ORMAI non mi sposto mai senza il mio brexitometro. Misura due valori: il tempo intercorrente tra l’avvio di una qualsiasi conversazione e il primo accenno alla Brexit (in media tre minuti) e la percentuale dei miei interlocutori che la reputa una buona idea. Negli ultimi due mesi sono stato in America, Canada, Germania, Austria e Polonia e il secondo dato attualmente si aggira attorno all’un per cento.
Il restante 99 per cento pensa che noi britannici siamo usciti di testa. Com’è possibile che un popolo noto in tutto il mondo per il suo pragmatismo, empirismo e buon senso agisca in maniera così palesemente contraria ai suoi interessi? Lo stato d’animo di chi si pone la domanda non è di rabbia o disperazione, lo definirei una malinconica incredulità. Ovviamente i paladini della Brexit replicheranno con sarcasmo che il campione rappresentativo è costituito dagli irrimediabili eurofili della mia cerchia, ma in realtà ho scelto il più ampio ventaglio possibile di soggetti. Ritoccate pure la percentuale, saliamo al 10, addirittura al 20%, ma bisogna vivere su un altro pianeta per immaginare che il mondo pensi che la Gran Bretagna abbia fatto una scelta intelligente. Che poi possa trattarsi del pianeta Trump è di scarsa consolazione.
Qualunque analisi su “come affrontare la Brexit” ha quindi un avvio deprimente. Con uno stretto margine di voti (52% contro 48%) la Gran Bretagna ha deciso di danneggiare a lungo termine se stessa, l’Europa e, in termini più ampi, l’ordine liberale internazionale. Per il prossimo futuro possiamo solo sperare di ridurre al massimo il probabile danno e puntare sui pochi lati positivi di questa tragedia. In sintesi la politica britannica dei prossimi cinque, dieci anni, sarà impostata alla ricerca del male minore. Come disporsi a questo compito ingrato? Le incertezze sono tali e tante che è folle affidarsi a strategie troppo precise. Credo che i liberaldemocratici sbaglino a proporre ora un altro referendum da tenersi tra due anni sul risultato dei negoziati e ancor di più sbaglia il leader del partito, Tim Farron, a farne un’arma contro il Labour, come sull’ultimo numero del New European.
Serve invece un misto di fermezza strategica e flessibilità tattica. In questa fase è essenziale far sì che si vada al voto in Parlamento prima di invocare l’articolo 50 e dare avvio ai negoziati per la Brexit. È sempre più chiaro che le tappe del negoziato saranno probabilmente tre: le modalità di recesso, secondo le previsioni dall’articolo 50; un accordo transitorio, perché in due anni non si è mai esaurito un negoziato complesso come quello di impostare un rapporto completamente nuovo con l’Ue; quindi l’accordo definitivo. Nel conferire il mandato di negoziazione il Parlamento dovrebbe chiedere che la scelta del pieno accesso al mercato unico o, in alternativa, la partecipazione a un’unione doganale, siano esplorate a fondo assieme ai nostri partner europei.
Un sondaggio recente targato NatCen Social Research, pubblicato dall’Economist, mostra che la maggioranza degli intervistati, sia favorevoli che contrari alla Brexit, vogliono «consentire all’Ue di vendere liberamente beni e servizi in Gran Bretagna e viceversa» ma anche «che i cittadini Ue intenzionati a stabilirsi in Gran Bretagna siano trattati al pari degli extracomunitari». Quindi, consapevolmente o meno, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, secondo la dottrina di Boris Johnson. Di fronte alla scandalosa ipotesi che questo non sia possibile e in particolare all’idea di concedere la libera circolazione delle persone in cambio del libero mercato, si apre un netto divario tra i pro- leave, in questo caso fronte del no, e i pro- remain, qui fronte del si.
L’importanza della questione è tale che bisognerebbe sapere concretamente cosa è in ballo e l’unico modo per scoprirlo è andare al tavolo negoziale. Non bisogna però pretendere che il governo si impegni pubblicamente a portare avanti un piano negoziale preciso. La lettera di notifica a Bruxelles per avviare il negoziato di recesso previsto dall’articolo 50 dovrebbe essere il più possibile breve e aperta, facilitando gli altri 27 stati membri a concordare una risposta altrettanto breve e aperta, per dare avvio ai colloqui.
Il dibattito attualmente in corso in Gran Bretagna sulla scelta tra “soft Brexit” e “hard Brexit” ha dell’irreale. In fin dei conti l’impatto duro o morbido del recesso dipenderà più dagli altri che da noi. Diciamocelo chiaramente: la Gran Bretagna ha una posizione molto debole in un negoziato da concludersi in due anni (anche se l’orologio si può fermare per un po’) il cui esito richiede la piena approvazione da parte di altri 27 stati (anche se in teoria da ultimo basta il voto a maggioranza qualificata). E le scorte di buona volontà del continente nei confronti di un partner scomodo da decenni ormai sono andate esaurite. Lasciate perdere le sbruffonate dei pro Brexit secondo cui “loro hanno bisogno di noi più che noi di loro”. Questi loro, ossia i cittadini continentali, la vedono in maniera un po’ diversa.
Nell’arco dei prossimi dodici mesi si profilano le presidenziali in Austria, un referendum in Italia, le elezioni parlamentari in Olanda, le presidenziali in Francia e le elezioni generali in Germania. Tutti gli appuntamenti elettorali, in particolare quelli in Francia e in Germania, influenzeranno la posizione dei nostri partner europei quando si arriverà al momento critico del negoziato, nel 2018. Per di più non sappiamo quanto saranno palpabili a quel punto le conseguenze economiche negative per la Gran Bretagna dell’incertezza riguardo alla Brexit. Le previsioni dell’”Office for Budget Responsibility”, organismo indipendente, e della Banca d’Inghilterra, sono dichiaratamente ancor più incerte rispetto a prima del referendum sulla Brexit, e in ogni caso, si tratta solo di numeri. Il problema vero è stabilire in che misura gli elettori britannici patiranno già le conseguenze economiche negative della Brexit e quanto timore avranno che si aggravino, quando verrà il momento cruciale di decidere a quale accordo puntare.
In un periodo come questo, pieno di note incognite, è saggio concordare un rigoroso iter parlamentare, informando l’opinione pubblica sui dati reali e sulle ardue scelte, attuare un’attenta preparazione diplomatica, mantenere le alternative aperte e attendere vigili l’opportunità giusta. Potrà sembrare noioso, ma chi ha mai detto che la Brexit sarebbe stata uno spasso?
L’autore è uno storico britannico e professore all’Università di Oxford Traduzione di Emilia Benghi
La Stampa 26.11.16
“La mia vita da mercenario assoldato dalle compagnie per sparare ai pirati”
Il racconto di un estone: “Costiamo meno dei militari regolari Per 3 mila dollari risolviamo problemi, anche con mezzi illegali”
di Domenico Quirico

Veniva chiamato… come veniva chiamato? Non lo so, non fatemene una colpa. Innanzitutto tra noi non c’era intimità, uno incontrato in un bar vicino al porto di Anversa, un locale sporco, odore di birra da poco prezzo, un ragazzo dal colore giallo di meticcio stava lavando il pavimento, in un angolo una donna dagli occhi apatici, una prostituta, aspettava, già alle nove del mattino, qualche cliente disperato.
E poi lui, quando si presentava, tirava fuori sempre nuove identità. A me ha dato il nome di battaglia, Lembitu, un eroe estone del Medioevo che aveva combattuto contro i re danesi, mi ha spiegato.
Ma chissà quanti ne aveva di questi nomi di battaglia, uno per porto e per contratto, a Gibuti, in Sri Lanka, in Sud Africa, ad Aden. Allora per noi sarà per sempre Lembitu, mercenario estone e cacciatore di pirati, capace di raccontare storie selvagge e terribili di guerra e di mare. Perché mentre cinque o sei flotte internazionali pattugliano pigramente l’Oceano Indiano al costo di tre milioni di euro al giorno e il problema dei pirati somali è ufficialmente risolto, Lembitu su una nave di mastini della guerra assoldati in mezzo mondo, e pagati dagli armatori, dà loro la caccia senza rispettare leggi e regole internazionali, semplicemente per ucciderli.
Ho incontrato molti combattenti duri, senza pietà, li riconosco dal volto, torva espressione di cacciatori di uomini dalle labbra compresse e dallo sguardo aguzzo. Eppure fin dall’inizio, ad Anversa, avevo la certezza che lui fosse un uomo avido di recitare la propria biografia come un attore recita una parte. Ricordo, e ricorderò a lungo, l’incontro con l’estone. Si aprì e si chiuse in quel caffè del porto come una ferita. Questo è il suo racconto. Da ascoltare con gli occhi chiusi.
«…Hai sentito che freddo fuori? Dio, se mi capitasse di trovarmi di nuovo in una buona tempesta di neve, di quelle del mio Paese! Giuro che mi spoglierei nudo e mi rotolerei dentro. Quando ero in Afghanistan con il contingente estone ci gettavamo nella neve senza niente addosso. E quegli stronzi di afghani intirizziti nelle loro palandrane ci guardavano con gli occhi fuori. Ma non erano solo risate. L’Afghanistan sono montagne e le montagne se fai la guerra sono una gran fregatura. Tutto quello che ti serve devi portartelo dietro, ti servono munizioni e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, nello zaino, le appendi alla cintura. Ti segano all’inguine e alle cosce, ti pesano sul collo.
Adesso, da quando lavoro in mare, son solo luoghi caldi. Troppo, alla malora. Non posso più soffrire il mare. Non riesco a guardarlo senza sentire l’odore di quella nave schifosa, il tanfo del gabinetto otturato. Stiamo sempre in mutande, o nudi, a 42 gradi, i volti sfatti, le guance setolose, tutti scuri come negri, anonimi, puzziamo. Proprio una bella tribù di guerrieri.
E pensare che la prima volta che ho visto la nave “Ohio” mi era sembrata proprio a puntino. Forse era merito del mare, di quel mare. L’Oceano Indiano è diverso da quello delle mie parti, fosco, scuro, avvolto da nebbie. Ah, se me lo ricordo il primo giorno di ingaggio. Mentre su un gommone, all’alba ci avvicinavamo, la “Ohio” ci aspettava al largo dello Sri Lanka in acque internazionali fuori dalla curiosità della legge, il mare ancora dormiva oppresso dal grande caldo umido e pesante. Un vapore gravava su quella distesa immensa di silenzio. Poi in pochi minuti il cielo si arrossa, il mare diventa di madreperla, sonnolento, sotto il sole di fuoco riflette il cielo blu che gli assomiglia ma un poco più pallido. Una massa grigia con brillanti righe rosse dipinte sul fumaiolo e sulle murate si stacca davanti a noi. Dai, è quella. Cacciapirati “Ohio”, quarantacinque metri di ferraglia appena verniciata, trecento tonnellate messe insieme negli Anni Ottanta nei cantieri giapponesi come guardiacoste e un’enorme scritta in nero “Sea Man guard”. Il guardiano del mare. Così da lontano sembrava davvero una vera nave da guerra di qualche marina ufficiale. Era quello il primo trucco, l’avrei scoperto poi.
Tre giorni avevamo aspettato la chiamata in quel sudicio albergo di Colombo. L’aria anche di notte si incollava alla pelle come una mano molle. Gli altri, gli altri ingaggiati, li avevo riconosciuti subito tra i clienti: grossi, i movimenti a scatti tipici dei militari, gli zaini enormi con dentro tutta la vita, c’erano altri due estoni e alcuni inglesi. Per me era la prima volta e non volevo farlo capire. Ancora non ci credevo. La “Advant Fort” aveva risposto alla mia richiesta di ingaggio! Tremila dollari al mese depositati sul conto in banca che gli indichi tu e sarebbero stati quattromila se fossi stato capo team. Ma non avevo titoli sufficienti, c’era gente lì che aveva fatto almeno un paio di guerre vere, reduci o disertori della Legione, ex Sas, qualche russo degli Spetnaz. Sono tempi duri, c’è troppa domanda, migliaia che si offrono per qualsiasi cosa preveda un fucile in mano e la possibilità di sparare e così quei bastardi della “Advant fort” possono offrire contratti da fame.
Bella storia, stai a sentire. C’è un miliardario giordano che vive in Inghilterra, il signor Samir Farajallah, che fonda una società per distruggere i pirati nell’oceano indiano senza badare ai mezzi. Ha trecento mercenari, quattro navi, una sede in Virginia con ammiragli americani in pensione e gente dell’intelligence navale nel consiglio di amministrazione. Tanto per avere le spalle coperte. Gli armatori di tutto il mondo lo pagano perché costa meno dell’ingaggio dei militari regolari e garantisce i risultati. Con ogni mezzo.
Insomma, per raccontarti come è andata: mando la richiesta, un estone che si occupa degli arruolati del mio Paese mi contatta via Skype, mi arriva il biglietto aereo per Colombo ed eccomi qui. Ti verremo a cercare, aspetta. E infatti: saliamo a bordo della “Ohio”, il ponte sembra bello, è lustro, non c’è ruggine. La nave rulla ma in modo bonario, è piena di scricchiolii familiari. Lo scafo sembra solido e parla di viaggi che dobbiamo fare insieme e delle fatiche sopportate sulle strade del mare antiche come il mondo e nuove come i passaggi che lo solcano. Siamo una trentina di militari da molti posti, più o meno tutti parlano l’inglese. E poi ci sono sei uomini dell’equipaggio più il capitano, tutti indiani. Accoccolati a poppa gli indiani parlano tra loro fitto fitto, a voce bassa, fino a notte tarda.
Ma era sotto coperta che c’erano i guai. Nessuna doccia, l’acqua te la rovesciavi addosso, acqua gialla, puzzolente, non filtrata che dovevi usare anche per lavarti i denti, dopo tre giorni tutti avevano la dissenteria, il gabinetto otturato, odore acre di sudore che si fonde coi fetori soliti delle stive. E faceva così caldo, il termometro sale ogni giorno, i soli girano, i giorni mentre tagliamo i fusi orari finiscono per fondersi in un’unica luce appannata e abbagliante che acceca gli occhi. Così abbiamo cominciato a tuffarci in mare. Il capitano ci ha avvertito, attenti ragazzi non li vedete ma qui è pieno di squali. Chi se ne frega. Il giochino era chi non si butta è un coniglio e allora per non perdere la faccia giù in acqua. Il cibo era uno schifo totale, riso con dentro le formiche che camminavano e il cuoco, un criminale, che diceva: ma non siete contenti? Son tutte vitamine in più.
Sai: non si diventa amici su una nave così; ci si è divide a seconda dei gruppi nazionali, si sta con gli estoni. E poi di che vuoi parlare? Di donne, delle ore a mostrarsele sui telefonini, quella più nuda e quella più puttana. Su una cosa tutti d’accordo, essenziale è non conoscere la donna con cui si va, non ha che da esser questo: sesso, l’altro sesso.
C’era una playstation sulla nave, che lusso, e si faceva ginnastica sul ponte per ore: per stancarsi, per far passare il tempo. Raccontano che la compagnia ha un’altra nave che fa solo appoggio in mare ovvero porta viveri e munizioni ai “cacciatori” come la “Ohio”, si chiama “Sultan”, la comanda pare un italiano e tiene a bordo anche la moglie nigeriana, uno splendore. Dicono che ci sia internet a bordo e una palestra, io non l’ho mai vista e forse son solo cazzate.
La nave è come il carcere: dopo tre giorni sai tutto degli altri e gli altri di te, come reagiscono alla fatica, quello che non si lava perché l’acqua è sporca e quello che non si lava perché è un sudicio. Ci sono dei pazzi lì, un inglese che ogni tanto saltava sul ponte urlando e cominciava a sparare raffiche di mitra in tutte le direzioni. Ci sono anche le notti, in mare. Senti che tutto dentro di te si indurisce, si attorciglia, e si mette in guardia. Gli occhi vedono meglio, l’udito si affina come nei gatti. La tensione è alta, ti aspetti tutto e sei pronto a tutto.
C’è il momento in cui ti accorgi che sei entrato nella zona calda, ci siamo e cominci a pensare: cazzo, sei solo su questa nave schifosa abbandonato da tutti, se ti succede qualcosa ti pagheranno? Saltano i nervi, scoppiano risse feroci per una parola, qualcuno resta a terra nel sangue, e il capo sta a guardare.
Vivi con i tuoi pensieri, la nave ti entra nel sangue, diventa tutto per te, esci dalla realtà, non hai nulla da fare se non sparare a qualcuno che non sai chi è, il mondo diventa diverso, non so come spiegarti, non tutti ce la fanno, esser un militare non basta. Hai paura, sì, lo sai che fai cose illegali e puoi essere arrestato. E allora ti ripeti: ma sì quelli son pirati, se possono ti uccidono e allora, chissenefrega, spara.
Adesso vuoi sapere del nostro lavoro: quello normale è la scorta sulle navi, una squadra di tre uomini sale armata e già questo è al limite delle regole della navigazione. Guarda che non è uno scherzo. Salire a bordo per esempio: i mercantili non rallentano per caricarti, il tempo è denaro per gli armatori e allora accosti con un gommone una nave che se è vuota naviga a quindici nodi e cerchi di tirarti su con una scala di corda che ti gettano dalle murate alte come un grattacielo. Se non sei attento e svelto il movimento delle onde ti inchioda tra la fiancata e il barchino. Gambe fracassate, se sei fortunato.
Ma quello è niente. Un giorno il capo, un inglese alcolizzato, ex Sas, comincia a gridare: attivazione! Attivazione! Eravamo davanti a Merka si vedevano le casette bianche. Eravamo dunque armati in acque territoriali somale. Qui incrociamo altri barchini dei pirati, più a nord ci sono quelli di Eyl che si fanno chiamare «guardacosta somali» e quelli di Haradere, i «marines somali». Che stronzi. Allora: attivazione! Ve la facciamo vedere noi, marines.
Prendiamo le armi e corriamo alle murate. Davanti a noi c’è una piccola imbarcazione, sembra un peschereccio, i colori squamati dal tempo. Pirati? Non so come ne fossero certi, erano in contatto radio con la centrale della compagnia, può darsi che quelli abbiano informazioni. Comunque chi li conosce? All’ordine cominciamo a sparare all’impazzata. Per questo ci pagano, no? In mare il colpo singolo lo dimentichi, i cecchini se li mangia il movimento delle onde. Quello che devi fare è scaricare trenta colpi, tutto il caricatore, a raffica, senza prender fiato.
Dal barchino mi pare che rispondano al fuoco, sì, sono colpi che fanno risuonare le fiancate della “Ohio”. Ma dura poco, ormai il battello somalo è così sforacchiato che si è inclinato. Non si vede più nessuno. Fine. «Tutti sotto coperta - grida l’inglese - tutti sotto coperta branco di fottuti. Non so: forse non vuole che assistiamo al controllo dei morti. E al dopo: il fuoco o un buco nella stiva per far affondare il battello. Non bisogna lasciar tracce. Tre volte abbiano attaccato i «pirati».
Una volta, da lontano, prima di sparare mi è sembrato che sulla barca si agitassero dei ragazzini. “Ferma”, ho detto a un altro estone che stava accanto a me, non sparare, sono bambini. “Idiota, non sai che i somali addestrano i ragazzini alla pirateria spedendoli a fare da esca controllando se le navi sono armate? Spara prima che ti ammazzino loro”.
Una notte il capitano era ubriaco: ha cominciato a gridare andiamo a divertirci un po’. Abbiamo virato verso terra, si vedevano luci sulla costa poi una più piccola in mare che ondeggiava al moto delle onde. Abbiamo iniziato a sparare come se fossimo pazzi, caricatori su caricatori, gridavamo come belve, come se su quella barca ci fossero tutti i guai e i fantasmi della nostra vita. Spero fossero davvero pirati perché non è rimasto molto di loro. La lucina si è spenta. Silenzio».