sabato 10 dicembre 2016

Repubblica 10.12.16
Non è poi così lontana Samarcanda
Una città splendida, simbolo dell’Oriente. Governata dal brutale Tamerlano che amava arte e filosofia
L’imperatore rimase un nomade. Dormiva in una tenda e mai nei suoi sfarzosi edifici
Una storia che torna in un saggio di Franco Cardini
di Stefano Malatesta


I governanti europei, con la loro supponenza e un forte complesso di superiorità ereditato dai greci, non si sono mai interessati a quello che succedeva fuori dei loro confini. Se non ci fosse stato Marco Polo, ritornato a Venezia con dei racconti meravigliosi, non sapremmo nulla della corte imperiale cinese e dell’Impero di Mezzo. Marinai provetti come i genovesi stavano ovunque e li ritroveremo a Trebisonda sul Mar Nero. Ma la loro attività era di genere strettamente privata, le loro informazioni non erano conosciute dai poteri pubblici che mantenevano una ignoranza totale su quello che succedeva oltre la costa del Levante.
Chiuse nel mondo feudale, le popolazioni dei paesi europei vivevano di miti e di leggende ed erano particolarmente propense a prendere fischi per fiaschi. Quando in Europa arrivò la notizia che un esercito sconosciuto stava facendo una carneficina dei mussulmani nell’Asia centrale, in ogni paese cristiano si festeggiò l’uomo chiamato “il prete Gianni”. Una sorta di zio autorevole e benevolo che proteggeva i cristiani dalle angherie dei mussulmani, ma che nessuno aveva mai visto. Poi lo zio si rivelò non tanto benevolo quando Subotai, il più grande tattico militare di tutti i tempi, venne mandato insieme ai giovani nipoti di Gengis Khan a invadere l’Europa con un esercito di 40mila uomini. In breve tempo Subotai, al comando dell’esercito di quelli che gli europei chiamavano “tartari” sconfisse i russi del Khanato dell’Orda d’oro, per metà mongoli anche loro, i russi del nord, i cavalieri teutonici, poi i polacchi ed infine i cavalieri ungheresi. E stava per dirigersi verso Parigi, che sarebbe caduta, se non fosse arrivato l’annuncio che il Gran Khan era morto. E Subotai dovette prendere la via del ritorno lungo un itinerario di 12mila chilometri.
Duecento anni più tardi gli europei caddero nello stesso errore di identificazione: presero per l’arcangelo Gabriele il più demoniaco dei predatori : Timur, o Tamerlano, detto “lo zoppo”. Verso la fine del Quattordicesimo secolo, l’Europa era terrorizzata da tribù turche che dall’Asia si stavano spostando celermente. L’imperatore di Costantinopoli, Giovanni V Paleologo, era andato invano a bussare alle porte dei sovrani europei per farsi dare aiuti militari e venti anni più tardi la situazione si era fatta tragica, quando una spedizione contro i turchi, guidata dal re di Ungheria, venne spazzata via dai giannizzeri del Sultano. Sembrava che nulla potesse fermare la hubris turca quando arrivò la notizia che Ankara era stata presa d’assalto dalle truppe di Timur, gli abitanti massacrati e il sultano Bajazet fatto prigioniero. Era l’ultima conquista in ordine di tempo, dopo Aleppo, Damasco, Bagdad e il Cairo. Ora l’impero timuride andava dall’Asia centrale al Mediterraneo, Tamerlano non doveva più temere attacchi alle spalle dall’Occidente e stava realizzando il sogno di un impero globale che non era riuscito a Gengis Khan.
Per un progetto simile era necessario avere una capitale adeguata e l’imperatore scelse Samarcanda, una città che aveva da sempre amato. Durante trent’anni Samarcanda non fu una metropoli, ma un cantiere pieno di giardini, di fontane e di marmi pregiati, dove si costruivano i più grandi, fastosi, anche un po’ volgari, edifici di tutta l’Asia. Si vedevano più di 400 cupole di moschee, di scuole coraniche, ricoperte di mattonelle azzurre, blu e oro con quella sfumatura turchese che risaliva all’Antica Mesopotamia. Tutto veniva eretto secondo i canoni della monumentalità. Gli architetti che avevano costruito un mausoleo che non aveva la grandezza prevista furono impiccati. L’Imperatore aveva riempito Samarcanda di studiosi, architetti, musicisti, artigiani, deportati dal loro paese di origine, che spesso non avevano trovato posto in città e dormivano nelle caverne, tanto erano numerosi. Samarcanda, raccontata in un bel libro del medievista Franco Cardini ( Samarcanda. Un sogno color turchese, il Mulino) diventò un ibrido di città con un tasso altissimo di cultura, paragonabile alla Firenze dei Medici, ma nello stesso tempo schiava dei capricci di un solo uomo.
Tamerlano, non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva un amore straordinario per le belle arti e per le filosofie che non capiva. È rimasto celebre un incontro con Ibn-Khaldun, l’intellettuale più famoso di tutta la storia dell’Islam. Khaldun sapeva di avere di fronte un feroce assassino che non manteneva la parola data e che dopo ogni battaglia costruiva piramidi con le teste dei nemici, ma non poteva fare a meno di essere attratto dalla sua persona che irradiava potere assoluto.
Alla battaglia di Ankara avevano partecipato come osservatori due inviati del re di Castiglia, Enrico III. I due osservatori chiesero di essere presentati a Tamerlano. E Tamerlano li invitò a venire a Samarcanda.
Le ambasciate a Tamerlano furono due, la prima guidata da Hernán Sánchez de Palazuelos, ma quella che ebbe un successo straordinario fu la seconda, guidata da un giovanotto sotto i 30 anni, Ruy González de Clavijo. L’itinerario partiva dalla Spagna, passava per le coste tirreniche, poi raggiungeva la Grecia, attraversava l’Ellesponto e arrivava a Trebisonda. Ormai erano entrati nell’impero dello “zoppo” e a ogni posta trovavano cavalli magnifici che venivano dal Turkmenistan, mandati dall’imperatore per accelerare il loro viaggio. A ogni tappa gli spagnoli venivano accolti con doni e omaggi in nome dell’imperatore. E finalmente giunsero a Samarcanda.
Il libro che Clavijo scrisse al ritorno è completamente diverso da quello di Marco Polo. Il veneziano era un commerciante particolarmente attento a descrivere le merci e i mercanti, mentre rifugge, quando è in Cina, di parlare delle cinesi che si fasciano i piedi o dei cormorani con l’anello al collo allevati per pescare senza inghiottire, o della grande Muraglia cinese. Lo spagnolo è il suo contrario e parla di tutti i palazzi in cui è ospite e delle meravigliose città che visita. L’incontro con il grande imperatore è uno dei momenti culminanti di questa fantastica spedizione. Timur era rimasto un nomade e non dormì mai in quegli sfarzosi edifici che aveva fatto costruire. Viveva in una immensa tenda, addobbata gloriosamente (una buona idea la può dare il San Marco di Venezia costruito come la tenda di un gran Visir).
La presentazione degli ambasciatori si svolse secondo uno stretto rituale. Gli spagnoli furono portati al cospetto dell’imperatore, circondati da una folla di alti militari e si dovettero inginocchiare tre volte facendo le lodi di Timur. Finalmente l’imperatore, che si riteneva padre di tutti i potenti, aprì gli occhi, che aveva sempre tenuto socchiusi, e guardando Ruy Gonzáles de Clavijo, facendo cenno di avvicinarsi, mormorò: «Come sta mio figlio, il re di Castiglia?».
IL LIBRO Franco Cardini, Samarcanda Un sogno color turchese (Il Mulino, pagg. 325, euro 16)
Repubblica 10.12.16
Distrazione elogio filosofico di una virtù troppo umana
Non solo la letteratura, ora lo dice anche la scienza: la mente che vaga stimola la creatività
Guardare a Dio o al mondo è il dilemma dei grandi mistici Il grande Oliver Sacks indagò sulla percezione allargata
di Marco Belpoliti


Una buona notizia per i distratti, cioè per tutti noi. Distrarsi non è un male, anzi. È salutare, è necessario, è un bene. Senza distrazione non c’è creatività. Alla faccia di maestri, professori, educatori, genitori. «Il cervello non è mai inattivo, la mente non è mai ferma», scrive un professore di psicologia dell’Università di Auckland, Nuova Zelanda, Michael C. Corballis, in “La mente che vaga” (Raffaello Cortina). Per almeno la metà della nostra vita la mente si distacca dalle incombenze quotidiane, spiega Corballis. Il cervello non stacca mai, anche quando la mente è impegnata, oppure è dedita a vagare lontano dal compito assegnato. Senza distrazione non c’è pensiero. Lo diceva anche Steve Jobs: la creatività è il risultato di un collegamento inusuale, significa vedere qualcosa che non c’era. Il che si ottiene proprio con la distrazione; meglio: con il vagare della mente. Se lo diceva Mister Apple sarà vero, no? Un etimo della parola “intelligenza” la fa derivare da “legare insieme”. Naturalmente si tratta di connettere cose che non erano collegate. La divagazione mentale gode ancora di cattiva stampa; prosperano le forme di meditazione concentrata, mindfulness, in cui si dirigono i pensieri dentro di noi e si resta ancorati al presente. Tutto sbagliato, dice lo psicologo neozelandese, o almeno non bisogna fare solo quello. Serve una buona dose di distrazione.
Uno studioso di etimologia ha trovato che distratto, inteso come contrario di concentrato, deriverebbe dall’uso che ne facevano i mistici medievali: il distratto sarebbe colui che gli svaghi esterni distolgono dalla concentrazione in se stesso e in Dio. Insomma, uno che è “distratto da Dio”. “Concentrato” deriverebbe invece da “concentrico”; secondo Leonardo si tratta di due o più enti geometrici che hanno un centro in comune.
La religione ha cose in comune con la geometria? Probabile. Ma torniamo a Corballis. La prima cosa che lo psicologo esamina nel suo viaggio dentro la mente che vaga è la memoria. Tutto comincia e finisce qui. La memoria appare composta di almeno tre livelli. Al più basso ci sono le abilità apprese, come camminare, parlare, scrivere, andare in bicicletta, giocare a tennis, digitare i messaggi sugli smartphone. Il secondo è la coscienza, ovvero il nostro magazzino di fatti sul mondo: enciclopedia e dizionario combinati. Il terzo livello riguarda la memoria degli eventi specifici, ovvero la “memoria episodica”, quella che corrisponde al ricordare; la riattivazione dinamica del passato: il primo bacio, un incontro molto gratificante, la nascita dei figli, un film, un libro. Emozioni rivissute e ripercorse con la mente. Corballis propone una bella immagine: il cervello è un po’ come una piccola città, in cui brulicano persone assorbite nelle proprie faccende. Quando c’è qualcosa d’importante, come una partita di calcio, la gente si riversa allo stadio, mentre il resto della città appare silenzioso.
Perciò quando la mente non è concentrata su qualche evento, vaga. Vagare non è solo un andare a zonzo liberamente. Può essere un’attività soggetta a controllo. Ad esempio, quando riviviamo ricordi passati o pianifichiamo attività future. Sono distrazioni preordinate. Ma ci sono quelle involontarie, cui il libro è in gran parte dedicato: il sogno e le allucinazioni, sia quelle derivate da stati alterati della mente che quelle indotte mediante droghe. Ma c’è anche un’altra straordinaria divagazione: l’empatia. Ovvero entrare nei panni degli altri. Anche questo è un vagare con la mente. Poi esiste la divagazione che diventa racconto. Corballis ritiene che molto del nostro vagare con la mente sia narrato sotto forma di storie.
La mente umana possiede una grande capacità di costruire racconti complessi e di condividerli con gli altri mediante il linguaggio: «Il vagare con la mente è nelle mani o nella voce di chi racconta storie; chi ascolta o chi legge è davvero trasportato in un viaggio guidato». Da cui si può anche evincere che la divagazione non esiste, se non come ipotesi, perché tutto quello che sottolinea Corballis ci riporta lì: la distrazione è una speciale forma di concentrazione, e viceversa.
Possibile? Lo conferma la parte più affascinante del libro, quella che riguarda coloro che sentono voci e che vedono cose che non ci sono. Chi ha letto Allucinazioni (Adelphi) di Oliver Sacks sa di cosa parlo; chi non l’ha letto, lo faccia subito. Alla fine del capitolo sulle visioni, dopo aver parlato di quelle indotte dalle droghe, arriva a concludere: «Può darsi che esageri, ma le allucinazioni ci dicono che c’è nella percezione più di quello che incontriamo con i nostri occhi». I mistici lo sanno bene, e proprio per questo sono “distratti da Dio”, il che vuol dire che rischiano di non concentrarsi sulla divinità. Però anche concentrandosi totalmente su Dio, si distraggono dal mondo, ed è proprio così che si vedono cose che gli altri non vedono. Beati loro. A noi — a me — non resta che la distrazione degli scolari: vagare con la mente per ricordare cose belle del passato, progetti e speranze per il futuro. Non è poco. Può bastare.
il manifesto 10.12.16
L’Onu bacchetta Aung San Suu Kyi sul destino dei Rohingya
Myanmar. 20mila profughi sono ammassati in Bangladesh, sottoposti a violenze e omicidi
Aung San Suu Kyi
di Emanuele Giordana


Una situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in Bangladesh. Denunce ripetute di violenze e omicidi a danni di civili in un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano del Rakhine (Arakan). È la storia che da ottobre avvolge l’ennesima epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
VIJAY NAMBIAR, consigliere del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. È solo l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012.
IN QUESTO QUADRO DI VIOLENZE, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese da ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare le sue frontiere.
Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai separatisti) che per il Myanmar non sarebbero veri cittadini birmani ma immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la cittadinanza birmana né lo status di minoranza. Il governo birmano, che pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune parti del Paese ha ripreso a combattere.
Infine perché la gente ha fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati uniti e Ue sembrano aver altro cui pensare.
SOLO LA MALAYSIA ha alzato il tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato con Kofi Annan, incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan, reduce da una visita nell’area rohingya, la parola «genocidio» non va ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw il 1 dicembre. Annan è al corrente delle difficoltà di Aung San con i militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio. Pesante come un macigno.
La Stampa 10.12.16
“Sistema Russia, dopati più di mille atleti”
Coinvolti almeno 12 medagliati di Sochi 2014 e 30 discipline, tra cui il calcio: un’ombra sui Mondiali 2018
di Giorgio Viberti


Doping di Stato. Il rapporto McLaren, l’ultima inchiesta dell’agenzia Wada, aggiunge altre pesantissime accuse contro la Russia. Coinvolti 1115 atleti di oltre 30 discipline sportive, in un sofisticato sistema di doping di Stato con l’insabbiamento da parte delle autorità istituzionali. Nel mirino ci sono i Giochi invernali, estivi e paralimpici, non solo per quanto riguarda gli sport minori ma anche il calcio. Le anticipazioni del rapporto McLaren, pubblicate lo scorso luglio, avevano portato all’esclusione di numerosi atleti russi dai Giochi di Rio e di tutta la Nazionale dalle Paralimpiadi. Ora queste nuove rivelazioni potrebbero avere gravi conseguenze sui Mondiali di calcio di Russia 2018 e prima ancora su quelli di bob e skeleton di Sochi 2017.
Il doping di Stato sarebbe partito nel 2011 e avrebbe coinvolto fra gli altri anche 4 ori di Sochi 2014 e 5 di Londra 2012. McLaren non esita a parlare di «cospirazione istituzionale» con l’aiuto dei servizi segreti russi e del governo di Mosca. «Un ricorso così sistematico a sostanze dopanti non ha precedenti nella storia dello sport - ha detto Richard McLaren, professore di diritto alla Western University di Ontario, Canada, e incaricato dell’inchiesta dalla Wada -. C’è stato un insabbiamento a tutti i livelli istituzionali per favorire il conseguimento dei risultati con l’inganno».
Sale e caffè nelle provette
Alcune provette dei test antidoping sarebbero state «inquinate» con sale da cucina o addirittura caffè, altri 12 medagliati avrebbero scambiato i propri campioni con altri, tanto che in alcune provette sono state trovate sostanze fisiologicamente impossibili, come tracce di Dna maschile nelle urine di giocatrici di hockey. Oltre a Londra 2012 e Sochi 2014, ci sarebbero stato numerosi casi di positività anche ai Mondiali di atletica 2013 a Mosca. Immediata la presa di posizione della Iaaf, la Federatletica mondiale: saranno ritestati tutti i campioni prelevati ad atleti russi dai Mondiali di Osaka 2007 in poi. «È tempo che questa manipolazione si fermi - si legge in una nota della Iaaf -. La nostra federazione ha lavorato in stretta collaborazione con McLaren e la Wada, oltre metà degli atleti coinvolti nel rapporto sono già stati sanzionati. E continueremo su questa strada non appena le documentazioni delle indagini saranno disponibili».
Bach: «Squalifiche a vita»
Durissima anche la reazione di Thomas Bach, presidente Cio: «McLaren ci ha chiesto di testare altre 100 provette di Sochi, ma noi riesamineremo i campioni di tutti gli atleti russi di quei Giochi. Se verrà provata la strategia della truffa, io sono per la squalifica a vita di atleti e dirigenti». Il Ministero dello Sport di Mosca respinge le accuse: «Non esiste un sistema di doping di Stato» hanno dichiarato Vitaly Smirnov, capo della Commissione indipendente antidoping russa (Ipadc) e il nuovo ministro dello Sport russo Pavel Kolobkov. «Il rapporto McLaren verrà analizzato con attenzione - ha aggiunto Dmitri Pesko, portavoce di Putin -. La Russia è pronta a collaborare». Il vice presidente del Comitato olimpico nazionale, l’ex schermidore Stanislav Pozdnyakov, ha invece proclamato l’innocenza dello sport russo e dichiarato di non temere l’esclusione degli atleti di Mosca dalle Olimpiadi invernali in Corea nel 2018.
il manifesto 10.12.16
A pensionati e accoglienza i regali di Natale di Tsipras
Avanzo primario . Il governo di Atene decide di redistribuire l'aumento dell'avanzo primario di bilancio per misure di redistriduzione agli assegni pensionistici più bassi e sgravi fiscali alle isole più impegnate nell'accoglienza ai profughi
di Teodoro Andreadis Synghellakis, Fabio Veronica Forcella


Alexis Tsipras ha deciso di rafforzare la politica sociale del governo. Il leader di Syriza ha annunciato, infatti, che 617 milioni di euro verranno redistribuiti a 1 milione e 600 mila pensionati che ricevono meno di 800 euro al mese. Si tratta di un sostegno che in realtà gli permetterà di avere nuovamente la tredicesima, tagliata per volere della Trojka. Una misura resa possibile grazie al buon andamento dell’avanzo primario: era stato fissato a 0,5% del Pil, mentre si attesterà all’1,09% a fine anno. Risorse che saranno distribuite in modo equo: più il reddito dei pensionati è basso, maggiore sarà l’aumento di cui avranno diritto.
Va detto che in sei anni di politiche di austerità, con tagli lineari e indiscriminati, i pensionati sono stati tra quelli più duramente colpiti, pur essendo, per molte famiglie, l’unica fonte di reddito certa.
Da Berlino – come prevedibile – già filtrano i primi malumori, ma il governo a guida Syriza assicura che non ci saranno ripensamenti. Inoltre, si è deciso di sospendere l’aumento dell’Iva per tutte quelle isole che sono in prima linea nell’affrontare l’emergenza dei profughi, tra cui Chios, Lesbo, Samos e Kos. Per Lesbo in particolare, dove nelle ultime ore gli arrivi di profughi e migranti sono tornati ad aumentare, secondo quanto filtra sinora, potrebbero venir decise delle ulteriori agevolazioni fiscali.
«L’aumento dell’Iva è una misura che è stata decisa e che ci siamo impegnati ad applicare – ci tiene a precisare il premier greco Alex Tsipras – ma non nel momento in cui i nostri concittadini portano sulle loro spalle il peso di tutta l’Europa, nell’affrontare la crisi dei profughi».
Queste misure rappresentano, quindi, una prima boccata di ossigeno. Malgrado ciò, la situazione rimane difficile e le organizzazioni sindacali dei pensionati hanno comunque deciso di scendere in piazza il 15 dicembre, per chiedere maggiore sostegno alle politiche sociali, visto che secondo il volere dei creditori, «le pensioni dei greci sono state saccheggiate».
Per quanto riguarda l’annosa questione del debito pubblico, l’Eurogruppo che si è riunito lunedì, ha deciso, tra l’altro, che i tassi di interesse scendano all’1,5% e che gran parte di quanto dovuto ai creditori possa essere saldato non in 28 anni, ma in 32 anni e mezzo. Rimane aperto, tuttavia, il capitolo dell’avanzo primario, visto che i creditori vorrebbero che nel 2018 si arrivasse al 3,5% del Pil, rimanendo a questo livello per una periodo indefinito, che potrebbe arrivare anche quasi a un decennio.
Il governo di Syriza sa bene che il Paese non può sopportare obblighi così pesanti, che costringerebbero a sacrificare le politiche di contrasto alla povertà, e sta cercando di farlo comprendere all’Europa e all’Fmi. La posizione greca è che il programma di aiuti – e quindi, gli interventi pattuiti – si concluderà nel 2018 e, quindi, non deve essere decisa o richiesta nessun’altra misura per gli anni a venire.
L’obiettivo è riuscire a far tornare il Paese sui mercati entro l’anno prossimo, e stabilizzare, per un lungo periodo, la crescita economica. Le sfide, tuttavia, sono continue e molto impegnative: bisognerà vedere come si concluderà la trattativa sui diritti dei lavoratori. Migliaia di greci, che hanno scioperato questa settimana, hanno chiesto di dire «no» alla liberalizzazione dei licenziamenti (come vorrebbe il Fondo monetario internazionale) e di lottare per il ripristino dei contratti collettivi di lavoro.
Quanto alle elezioni, Tsipras e il governo ripetono che si terranno nell’autunno del 2019, alla scadenza naturale della legislatura. Tuttavia, secondo molti osservatori, in caso di dati economici molto favorevoli (anche se molto difficilmente influiranno subito sulla vita dei greci) si potrebbe andare alle urne anche nella primavera o nell’estate del 2017.
A meno che il primo ministro greco non decida di aspettare, convinto che l’Europa debba comunque uscire dal vicolo cieco dell’austerità (difesa ormai a spada tratta quasi solo da Schauble), puntando anche a rendere più visibile la tanto agognata ripresa, soprattutto con un calo percepibile della disoccupazione.
Repubblica 10.12.16
Una spilla da balia per simbolo ma agli “anti” manca un leader
di Anna Lombardi


UNA SPILLA da balia sulla giacca per dire «con noi siete al sicuro». Per dirlo a immigrati, musulmani, afroamericani, latinos, omosessuali: e a tutti coloro presi di mira da Trump. Eccolo il nuovo simbolo delle proteste che dal giorno delle elezioni stanno scuotendo l’America. La “safety pin”, spilla di sicurezza appunto, è l’unico comune a quello che per ora è un arcipelago di sigle unito solo dall’avversione verso il presidente eletto. Un gruppone che marcia insieme, sì, ma ciascuno con il suo slogan e il suo obiettivo. Cacofonia di voci che nei cortei mixa l’antirazzista Black Lives Matter al femminista My body my choice.
Mentre studenti d’ogni razza alludono a se stessi cantando al ritmo della marcia dei marines,
This is what America looks like, a questa somiglia l’America.
«Non siamo ancora di fronte a un movimento» spiega Ralph Young, professore di Storia del dissenso in America alla Temple University di Philadelphia, e autore del saggio
Dissent: The History of an American Idea.
Manca un leader, manca coesione. Ma un obiettivo comune c’è già, la manifestazione di Washington del prossimo 21 gennaio: solo allora capiremo se diventerà una forza capace di focalizzarsi su obiettivi come l’aborto, il razzismo, l’ambiente».
I pullman che porteranno manifestanti da tutta l’America alla One Million Women March, l’appuntamento del 21 gennaio appunto, indetto per protestare contro la misoginia del nuovo presidente sono già sold out.
Ma l’organizzazione di quella che potrebbe essere la più grande manifestazione contro un insediamento presidenziale (nel 1973 a protestare contro Nixon c’erano “solo” 60 mila persone) è «caotica e spontanea» secondo il Washington Post.
«Mai avrei immaginato che sarei tornata a protestare a Washington come ai tempi del Vietnam. Ma se Trump ci riporta agli anni Cinquanta noi rispolveriamo i nostri slogan» dice Patricia Lakin, 72 anni, autrice di biografie di grandi donne americane per bambini, da quella first lady rivoluzionaria Abigail Adams all’aviatrice Amelia Earhart. Le fa eco Melissa Chang, madre colombiana e padre cinese, che non ha votato (ha solo 17 anni) ma protesta sotto la Trump Tower con un cartello dove ha scritto “not my president” in inglese e cinese. «Non appartengo a nessun gruppo. Sulle manifestazioni mi informo su Facebook». Sì, perché sono soprattutto i social a portare la gente in piazza o alle assemblee organizzate nei campus e nei comitati di quartiere. Eventi lanciati da singoli, come la protesta che ha mobilitato 18 mila persone all’Università del Maryland, promossa su Facebook de Olivia Antezana, diciannovenne che a una manifestazione non c’era mai stata. O da sigle d’ogni genere: dai trotskisti di Socialist Alternative, un centinaio di militanti appena, che pure hanno indetto le più partecipate manifestazioni di New York, ai pacifisti di
Answer Coalition che nel 2003 scatenarono le proteste contro la guerra in Iraq. Senza dimenticare organizzazioni più conosciute come Black Lives Matter, l’Arab American Association e quella MoveOn nata nel 1998 per reagire alla minaccia di impeachment verso Bill Clinton che ha già organizzato più di 350 sit-in, o la National Association for the Advancement of Colored People del reverendo Al Sharpton che pianifica una sua manifestazione a Washington, indovinate quando? Nell’anniversario della nascita di Martin Luther King, il 14 gennaio: sei giorni prima del Trump day.
Repubblica 10.12.16
L’America che resiste a Trump
All’assemblea di lotta dell’Upper West Side
di Federico Rampini


Un avvocato: “È dagli anni Sessanta che non si respirava un’aria così pesante, angosciosa” Distribuito il calendario di cortei e sit-in e l’elenco dei legali specializzati nella difesa delle libertà

NEW YORK Riuniamoci per discutere le nostre paure sui diritti civili, l’ambiente, la situazione degli immigrati». La convocazione mi arriva via email, firmata dalla consigliera comunale Helen Rosenthal, rappresentante del mio quartiere al City Council: Distretto 6. Appuntamento al Jay College, una facoltà di giurisprudenza, al 524 West sulla 59esima strada. Alle 18 in punto di giovedì sera l’auditorium è già strapieno, traboccante di cittadini del quartiere: almeno duemila posti seduti, tanti altri rimangono in piedi.
E ci resteranno per due ore e quarantacinque, è un pezzo dell’Upper West Side di Manhattan che prepara «la resistenza a Donald Trump». Giovani e pensionati, mamme coi bambini sul passeggino, afroamericani e immigrati ispanici: la risposta all’appello è corale, in sala c’è un pezzo della società multietnica newyorchese. All’ingresso ci hanno distribuito un kit di sopravvivenza: calendario delle prossime manifestazioni di protesta, sia qui che a Washington; indirizzi di avvocati specializzati nella difesa delle libertà individuali; un lungo elenco di ong e movimenti della società civile a cui appoggiarsi per combattere insieme contro la svolta reazionaria. Il volantino distribuito all’ingresso dà il tono della serata: “Impariamo come impegnarci, mobilitarci e organizzarci per reagire alle nostre paure”.
Uno dei primi relatori, Norman Siegel dell’American Civil Liberties Union, chiarisce subito lo spirito dell’assemblea di quartiere: «Nessuno venga a dirci per l’ennesima volta che ha vinto Hillary perché ha avuto 2,5 milioni di voti in più. Non serve a niente recriminare, la legge elettorale è quello che è, abbiamo perso di brutto, ora rimbocchiamoci le maniche e prepariamo da subito la nostra rivincita». L’invito viene accolto. Non è una serata di piagnisteo, è l’inizio di un programma di lavoro. «Voglio vedervi qui ogni mese, una volta al mese, d’ora in avanti — ci avverte la Rosenthal — perché venire qui stasera non deve rimanere il vostro unico momento di partecipazione. Cosa ci ha insegnato l’ultima elezione? Che le decisioni le prende chi agli appuntamenti c’è».
Si alternano alla tribuna gli interventi dei cittadini e quelli degli attivisti dei movimenti di base. Qualcuno allenta la tensione con una battuta di spirito: «Il mio medico di famiglia, il dottor Zimmermann, ha visitato così tanti pazienti sotto stress dopo l’8 novembre, che è convinto dell’esistenza di una Sindrome Trump». Effettivamente siamo in un quartiere ultra-progressista, l’Upper West Side di Manhattan ha votato per Hillary al 79%, un plebiscito superiore perfino a quello della California. Lo sgomento è reale, c’è chi pensa che l’autodifesa va organizzata subito, e in senso letterale. «La polizia di New York — ci informa la Rosenthal — segnala un aumento del 110% nei crimini di odio razziale. Sono saliti del 50% anche i gesti di anti-semitismo denunciato». In questo quartiere ad alta densità di ebrei, la vigilanza è contro tutte le forme di discriminazione e xenofobia: oggi se la prendono con i musulmani o gli ispanici, domani potrebbe toccare a te. Uno dei motivi di allarme è lo sdoganamento da parte di Trump della cosiddetta “alt-right”, la destra “alternativa” che è una galassia di suprematisti bianchi, nostalgici del Ku Klux Klan. «Ho cominciato a difendere alcuni di voi negli anni Sessanta — dice l’avvocato Norman Siegel — vi ho tirato fuori dal carcere dopo gli arresti alle manifestazioni per i diritti civili. È da quegli anni che non respiravo in questo paese un’atmosfera così pesante, così angosciosa».
Ma non siamo qui per deprimerci e i messaggi ottimisti arrivano a fiotte. La Public Advocate che rappresenta noi cittadini presso il sindaco Bill de Blasio, la giovane afroamericana Letitia James, ci canta l’elogio del federalismo: «Ricordatevi che ci sono dei limiti a quello che può fare Trump da Washington. La bandiera del localismo era stata impugnata dalla destra quando governavamo noi. Adesso ringraziamo il cielo che la nostra è una Costituzione federalista». E giù un elenco delle barriere che New York sta già innalzando. «Siamo una delle 150 città-santuario degli Stati Uniti, dove gli immigrati sono protetti da regole locali. Il sindaco è determinato: la polizia locale, che prende ordini solo da lui, non collaborerà con l’Amministrazione Trump se quelli lanciano la caccia agli stranieri. E qui da noi anche gli immigrati senza permesso di soggiorno continuano a godere di alcuni diritti fondamentali: scuola, sanità, una carta d’identità comunale che li libera dall’incubo della clandestinità». Non tutti sono così fiduciosi sulle potenzialità della resistenza locale. Pat Almonrode che parla per conto di 350.org, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste, si dice «sgomento che Trump abbia messo all’agenzia dell’ambiente un servo dei petrolieri». Poi però anche lui ci esorta a non disarmare: «Anche in materia di ambiente tante decisioni le prendiamo qui ad Albany (capitale dello Stato di New York, sede del governatore democratico Andrew Cuomo, ndr), e abbiamo in agenda decisioni importanti sulle energie rinnovabili, sulle centrali eoliche offshore». La serata si chiude in poesia, la Rosenthal ci congeda con un’iniezione di speranza: «È nelle notti più buie, che in cielo le stelle brillano più forte».
Repubblica 10.12.16
L’amaca
di Michele Serra


LA FORMAZIONE della squadra di governo di Donald Trump, volendo prescindere dalle probabili ricadute sull’America e sul mondo, ha qualcosa di esilarante. Pare uscita da una sceneggiatura dei Monty Python o dei Simpson. A partire dalla figura del boss, che sembra un cartoon o un attore che ha sbagliato trucco (la sintesi è un cartoon che ha sbagliato trucco). Al momento mister president ha chiamato a Washington miliardari di destra, banchieri di destra, ben tre generali in pensione di destra, una ex campionessa di wrestling di destra. Mancano un latifondista del Sud di destra che tiene nascosti gli schiavi (di destra?) nel pagliaio, un campione di rodeo e un bounty killer e la caricatura della vecchia America reazionaria è completa. Bisognerebbe conservare tutti i ritagli di giornale e le dichiarazioni dei politici e le analisi politologiche che hanno salutato la vittoria di Trump come la presa del potere della classe lavoratrice bianca contro l’establishment politico-finanziario: manco si fosse in un post-scriptum di “Furore” di Steinbeck. E bisognerebbe rileggerli tra un paio d’anni, quando sarà chiaro che i fichetti con l’iPad ai quali i dem alla deriva hanno affidato un potere esagerato sono stati detronizzati (meritatamente) non dal popolo in rivolta, ma da ricconi con gli stivali, affaristi con il sigaro, marines rapati a zero che vogliono spezzare le reni all’Iran e infine pochissime donne, però tutte rigorosamente maschiliste. Si capirà allora che la retrocessione dall’iPad al lazo forse era meglio evitarla.
La Stampa 10.12.16
Trump: resto produttore
del mio reality show
di Paolo Mastrolilli


Presidente degli Stati Uniti, comandante in capo delle forze armate, leader del mondo libero, e produttore esecutivo di un reality show. Sono alcuni dei titoli che Donald Trump potrà sfoggiare dal 20 gennaio prossimo, perché la Nbc ha confermato che nonostante l’ingresso alla Casa Bianca, resterà anche alla guida del programma «Celebrity Apprentice», creando uno dei tanti conflitti di interesse da risolvere per la sua amministrazione.
Il nuovo capo della Casa Bianca ha anche scelto come capo del National Economic Council Gary Cohn, un veterano di Goldman Sachs come il segretario al Tesoro Mnuchin, consegnando così alla banca di investimenti il controllo dell’economia. Per il segretario di Stato si starebbe orientando invece sul ceo della Exxon Rex Tillerson, con l’ex ambasciatore all’Onu Bolton come vice, mentre Rudy Giuliani è uscito dalla lista dei candidati, che continua a contenere Mitt Romney. La scelta del capo della più grande azienda petrolifera americana solleverebbe dubbi sui conflitti di interesse, e confermerebbe un’amministrazione composta da generali, uomini d’affari e banchieri, e pochi politici.
«Apprentice» era stato creato quindici anni fa da Mark Burnett e dall’allora costruttore. La Mgm possedeva i diritti e la Nbc lo trasmetteva, ma dopo la candidatura presidenziale tutto era stato congelato. La Nbc aveva rotto i rapporti con Trump dopo gli insulti ai messicani, definiti criminali e stupratori. Ora tutto è stato superato. Il 2 gennaio «Apprentice» riprenderà con Arnold Schwarzenegger, e Donald comparirà nei titoli come produttore esecutivo. La portavoce Conway ha detto che questo impegno non sarà una distrazione, perché se ne occuperà nel tempo libero, come Obama giocava a golf. Il conflitto di interessi però sta nel fatto che il presidente Usa avrà un ruolo nel programma di una tv che seguirà giornalisticamente la sua amministrazione.
Repubblica 10.12.16
Anne Hidalgo
Oggi dal Papa la sindaca socialista della capitale francese, che ha da poco aperto un centro per i migranti “Non possiamo lasciarli in mezzo alla strada”
“Ai divieti di Le Pen sui bambini stranieri la mia Parigi risponde con l’accoglienza”
di Anais Ginori


La dichiarazione dell’estrema destra sui figli dei sans papiers è spregevole
Purtroppo la sinistra sta scivolando dalla social-democrazia al social-liberismo
Il nostro governo doveva chiedere più flessibilità, Renzi è stato lasciato solo

PARIGI. «L’accoglienza di tutti i bambini nelle nostre scuole è una delle condizioni essenziali per la convivenza e la coesione nelle società». Anne Hidalgo risponde così all’idea di Marine Le Pen di cancellare l’accesso gratuito alle scuole pubbliche per i figli di sans papiers. La sindaca socialista di Parigi sarà oggi in Vaticano per un incontro sui rifugiati voluto da Papa Francesco ed è appena tornata dal vertice in Messico del C40, il Cities Climate Leadership Group, che riunisce i sindaci delle più grandi metropoli del mondo. «Noi siamo in prima linea sulla globalizzazione, ne subiamo l’impatto diretto, vediamo chi ne risulta perdente e vincente» spiega Hidalgo, nata 57 anni fa in Andalusia, eletta quasi tre anni fa alla guida della capitale, uno dei pochi volti ancora popolari della gauche. «Purtroppo la sinistra, non solo in Francia, sta scivolando dalla social- democrazia al social-liberismo» racconta la sindaca a Repubblica, esprimendo un giudizio molto critico anche sull’austerity imposta dalla Germania negli ultimi anni. «Un dogma – commenta Hidalgo - che ha una grande responsabilità nell’ascesa dei populismi in Europa».
Che cosa pensa di quello che ha detto Le Pen sull’istruzione pubblica per i bambini di immigrati non in regola?
«Questa dichiarazione dell’estrema destra è spregevole e contraria alla Dichiarazione universale dei diritti dei bambini. Non ci può essere un’integrazione riuscita senza accesso all’educazione. E poi lasciare da parte i perdenti della globalizzazione significa creare società esplosive. Occuparsi dei più fragili, vuole dire anche proteggere la nostra coesione».
Oggi in Vaticano illustrerà le iniziative di Parigi per accogliere i rifugiati: un tema che le sta particolarmente a cuore.
«Già nell’estate 2015 avevamo lanciato l’allarme sulla situazione che si stava creando. L’avevo anche detto a Hollande: lasciare delle famiglie in mezzo alla strada non è accettabile né per i rifugiati né per i parigini. Senza azioni rapide, avevo aggiunto, rischiamo il caos. Alla fine abbiamo ottenuto dallo Stato di garantire un tetto alle persone accampate in città ma, visto l’aumento dei flussi, non è bastato. È così che un mese fa abbiamo deciso di aprire a Nord di Parigi un centro di prima accoglienza. Ne sono molto fiera».
Perché la sua proposta è stata a lungo ostacolata dal governo?
«Molti politici, anche a sinistra, sono spaventati dall’opinione pubblica, temono di dare una sponda al Front National. Ma il nostro compito è parlare all’intelligenza delle persone, non alle loro paure. Evitare di discutere di immigrazione per timore di far salire il Fn non ha senso. E poi sono convinta che anche l’opinione pubblica non sia qualcosa di statico: possiamo modificarla».
Com’è possibile combattere i populismi non solo in Francia ma in tutta Europa?
«Ho molto rispetto per quello che ha fatto Angela Merkel sui rifugiati, ma sulla dimensione economica e sulla visione dell’Europa è stata una catastrofe. È giusto vigilare sui conti pubblici, però l’obbligo del 3% deficit sul Pil è diventato un dogma. Penso che il nostro governo socialista avrebbe dovuto chiedere più flessibilità, in particolare per rilanciare gli investimenti. Matteo Renzi ha tentato di farlo. Purtroppo è stato lasciato solo, non è stato sostenuto dalla Francia».
La sinistra di governo è più in crisi che mai?
«Viene spesso citata la Terza Via di Tony Blair, ma è vecchia di 30 anni. Non sono sicura che queste riforme siano adatte alla situazione di oggi. Noi social-democratici veniamo spesso accusati di essere arcaici, dinosauri keynesiani. E chi ci accusa sposa il nuovo dogma della globalizzazione. Io sono per una sinistra umanista, ambientalista, pragmatica, e sono convinta che il nostro ruolo sia di governare e mettere delle regole alla globalizzazione».
Perché non si candida alla leadership nazionale?
«La mia battaglia si fa a Parigi. Le mie convinzioni le difendo nei fatti, come sindaca della capitale. Dimostro in modo concreto che altre scelte sono possibili».
Hollande ha fatto bene a non ripresentarsi?
«Non voglio commentare la sua scelta. L’ha fatto con molta dignità, ma si tratta di una decisione abbastanza eccezionale. Ci dovremmo adesso interrogare sui nostri errori. Come siamo arrivati a questo punto?».
Lei ha una risposta?
«Di certo il governo ha lanciato progetti che hanno profondamente spaccato la gauche. Penso alla revoca della nazionalità (per i cittadini accusati di terrorismo, ndr.) e la riforma del Lavoro. Rappresentano eventi traumatici per la sinistra e ci vorrà tempo per superarli».
Intanto la gauche rischia di dividersi ancora di più alle primarie. Darà il suo sostegno a qualcuno?
«Al momento non vedo nessuno che rappresenti una linea social- democratica ed ambientalista. Se la sinistra è così divisa è anche perché il risultato del modo di governare degli ultimi anni. Per governare servono degli alleati, delle coalizioni, non si può fare da soli».
E la candidatura di Emmanuel Macron?
«È un prodotto del sistema elitista, esprime una visione colbertista e giacobina. Non lo trovo assolutamente moderno. È un gran seduttore, un illusionista, ma l’illusionismo va bene per lo spettacolo, non in politica».
il manifesto 10.12.16
Adesso diciamo Sì all’attuazione della Costituzione
di Felice Besostri


La stampa e i media generalisti, partecipi del disegno di deforma costituzionale, non sono pentiti e sono in campo per attribuire la vittoria alla Lega Nord e Fratelli d’Italia e, in subordine al M5S e tanto per semplificare a Salvini, Meloni e Grillo. Del Pd e di Renzi si ammette la sconfitta, ma si li si racconta come detentori dell’unico pacchetto di voti politicamente omogeneo, un consistente 40%. La questione della costituzionalità della legge elettorale è ora la questione centrale e prioritaria. Proprio l’esperienza del Porcellum insegna che l’incostituzionalità va dichiarata prima che la legge elettorale sia applicata. Dopo non c’è ritorno alla democrazia: i parlamentari eletti con una legge incostituzionale restano al loro posto, grazie al precedente creato dall’allora Presidente Napolitano, in spregio al suo compito di garante della Costituzione e di leale collaborazione tra gli organi costituzionali (presidenza della Repubblica e Corte costituzionale). Non solo hanno rifatto una legge elettorale incostituzionale, ma hanno anche tentato di manomettere la Costituzione.
La manovra è fallita grazie alle italiane e agli italiani di ogni classe di età e classe sociale, sensibilizzati da uno spettacolare mobilitazione civica dei Comitati per il No, tra i quali si è distinto quello promosso dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e dall’Anpi, che ha aggregato cittadini e movimenti di multiforme ispirazione, esperienza e formazione politica. Da una costola del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale è nato anche il gruppo degli Avvocati Anti-Italikum, un centinaio di professionisti liberi, autonomi, democratici e progressisti, che mi son limitato a coordinare, che hanno promosso 23 ricorsi contro la legge elettorale preso altrettanti tribunali di città capoluogo di distretto di Corte d’Appello a partire dal Novembre 2015. Tra i ricorrenti, oltre che cittadini, figurano parlamentari del M5S, di SEL-SI e una parlamentare di Innovatori e Civici. Ebbene l’azione contro il Porcellum, iniziata nel 2008, ha dovuto attendete il 17 maggio 2013 per essere rimessa alla Corte Costituzionale, che l’ha discussa in dicembre e decisa nel gennaio dell’anno seguente con la storica sentenza n. 1/2014.
Nel caso dell’Italicum, invece, a meno di un anno dal primo ricorso la Consulta avrebbe discusso le ordinanze dei tribunali di Messina e di Torino lo scorso 4 ottobre e ne ha fissate tre, con l’aggiunta del Tribunale di Perugia, per il 24 gennaio 2017, mettendo fine alle chiacchiere, al limite del golpe istituzionale, di sciogliere le camere senza attendere il giudizio di costituzionalità . La decisione è stata giusta, ma si spera che la Corte costituzionale possa tenere conto anche delle ordinanze dei Tribunali di Trieste e Genova. La questione è politica, come non disperdere le risorse umane e politiche dei comitati territoriali e tematici per il No. Partendo dall’opposizione, come suggerisce Luciana Castellina (il manifesto, 6 dicembre), ma per dire Sì all’attuazione della Costituzione. Che significa avere un programma per una diversa politica economica e sociale, come richiesto dall’articolo 3 comma 2 Costituzione, che mette in primo piano la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini come individui, ma anche come appartenenti alle formazioni sociali dove si svolge la loro personalità agli affari pubblici, cui tutti hanno diritto di concorrere in condizioni di uguaglianza (articolo 51). Non bisogna dimenticare nel ricostituire un politica per la maggioranza dei cittadini, che a loro spetta di determinare la politica nazionale, perché i cittadini e non i partiti sono i soggetti destinatari dell’articolo 49 della Costituzione. La ricostituzione di una sinistra ha bisogno di tempo, senza purgatorio non ci sarà paradiso. I comitati per l’attuazione della Costituzione e per la democrazia costituzionale, nati da quelli per il No referendario, devono essere un movimento civico pluralista, aperto, senza capi autoreferenziali autonominati. Primo impegno da prendere è quello di una legge elettorale, che restituisca al popolo la sovranità che gli appartiene e che gli è stata rubata in nome della governabilità. La Costituzione è il loro bene comune da difendere e sviluppare. Nella Prima parte – compreso il Titolo terzo, Rapporti economici – hanno il loro riferimento programmatico.
il manifesto 10.12.16
Sinistra, un’alternativa costituzionale
Sandro Medici e altri


L’iniziativa si svolge a Roma domani 11 dicembre, ore 10, al Roma meeting center, Largo Scoutismo 1

È un sollievo sentirsi ancora felicemente protetti e difesi dalla Costituzione. Con la soddisfazione dei giusti, ci sentiamo protagonisti della vittoria referendaria di domenica scorsa e guardiamo con maggiore fiducia al nostro futuro. Ci siamo schierati per il No non solo per salvaguardare la Costituzione, ma soprattutto per valorizzare la sua preziosa cultura giuridica, riproporre la sua sensibilità sociale, impegnarci ad attuarla compiutamente. Non un riflesso di retroguardia, dunque, ma uno slancio, una tensione che siamo sicuri aiuteranno il paese a diventare migliore.
Con un risultato squillante sono state sconfitte le oligarchie liberiste e le centrali finanziarie, strapazzato il conformismo interessato e gli istinti rassegnati. In quel voto si scorge soprattutto una rivolta sociale, che ha largamente oltrepassato bacini elettorali e indicazioni di partito. E’ stata l’Italia sfruttata, impoverita, precaria, deprivata a vincere il referendum. Un’Italia sfinita e sfiduciata che ha tuttavia trovato la forza di chiedere un cambiamento, quell’alternativa che gran parte della politica non sembra in grado di raccogliere e rappresentare né, tanto meno, di imprimere. Ed è esattamente a questa furente domanda che dovremmo provare a offrire un’adeguata risposta. Superando le incertezze e le cautele che ci imprigionano, abbandonando movenze e liturgie consunte e inutili, se non proprio impedienti.
Ci siamo serenamente ritrovati in una battaglia che non era scontato potesse vederci tanto uniti e motivati. Associazioni, partiti, sindacati, movimenti, intellettualità, civismo. Ed è innanzitutto per questa ragione che il nostro contributo è risultato così prezioso: per vincere il referendum, ma anche per dimostrare, intanto a noi stessi, quanto sia proficuo ed efficace lottare insieme.
Sentiamo pertanto l’esigenza di mettere a disposizione un’occasione d’incontro collettivo, dove poter valorizzare il protagonismo dei tanti che hanno partecipato alla battaglia referendaria, chiamando tutti noi, tutte noi a riflettere, discutere, ragionare, progettare. Riteniamo necessario un confronto politico che raccolga le nostre energie e le nostre passioni. Per provare a comporre nuovi percorsi da condividere, in grado di poter incidere sullo scenario politico, sociale e culturale che si sta delineando con la vittoria del No. E cominciando finalmente a costruire insieme quell’alternativa al neo-liberismo di cui il paese ha urgente bisogno.
Con lo stesso sentimento unitario con cui abbiamo lottato in questi ultimi mesi abbiamo promosso l’appuntamento di domenica prossima: un’assemblea libera e plurale, inclusiva e partecipata, in cui tutte le componenti, le soggettività, le singolarità possano manifestarsi ed esprimersi. Con la speranza che tutti i nostri No si trasformino presto in una “politica in comune”.
Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Adriano Labbucci, Stefano Fassina, Giulio Marcon, Sandro Medici
La Stampa 10.12.16
I 5 Stelle a muso duro
“No a Gentiloni è l’avatar di Renzi”
Di Maio: voto subito. Grillo: esecutivo dei prestanome
di Ilario Lombardo


«Al voto subito, al voto subito!». Il M5S, il primo partito ad aver proposto le urne e la soluzione di una legge elettorale (l’Italicum), si trova spiazzato dagli eventi e dalle accelerazioni del Quirinale. Le voci di un governo affidato molto probabilmente al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni irrompono nell’assemblea del M5S, aggiornata a ieri sera dopo il mezzo psicodramma degenerato in rissa di mercoledì sera.
Il M5S è costretto a trovare unità su una linea che oggi alle 17 verrà illustrata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Essere ricevuti l’ultimo giorno delle consultazioni, subito prima di Forza Italia e del Pd, pone i grillini nelle condizioni di aggiustare la strategia anche in funzione di quale disegno si sta delineando per Palazzo Chigi e delle scelte delle altre opposizioni, Lega Nord e Fratelli D’Italia su tutti.
Il No dei 5 Stelle, insomma, deve apparire più grande di quelli di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. Un conto era l’ipotesi di un Renzi che continua a governare da dimissionario, che nei piani di Luigi Di Maio sarebbe stata la condizione ideale per aggiustare la legge elettorale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, e andare al voto, con i grillini ancora favoriti dal vento buono del referendum. Un altro è la prospettiva di Gentiloni premier, senza data di scadenza. «Sarebbe un governo avatar» dice il vice presidente della Camera Di Maio, allineandosi a quanto il sodale Alessandro Di Battista aveva scritto su Facebook nel pomeriggio: «Sapete a cosa stanno pensando i politici del Pd? A quale presidente scegliere per far la legge elettorale contro il M5S senza che vi sia il rischio di oscurare Renzi che certamente si ricandiderà a Palazzo Chigi. Per questo nelle ultime ore si fa il nome di Gentiloni, renziano di ferro e poco carismatico». «Gentiloni è l’avatar di Renzi», insiste Di Maio: «Noi chiediamo le elezioni il prima possibile e basta». Che qualcuno dica che saranno a giugno non è sufficiente per il possibile candidato premier del M5S: «Chi ce lo garantisce? Fanno un nuovo governo e tirano a campare. Basta con i governi che non passano per il popolo». Di Maio e Di Battista offrono l’antipasto del post, in preparazione, di Beppe Grillo, che sarà pubblicato nel caso in cui domenica venisse confermato il nome di Gentiloni: «E’ il prestanome di Renzi - sosterrà il comico - Hanno solo fatto un gioco di prestigio».
Dunque, il M5S, associandosi a Salvini e alla Meloni, ribadirà a Mattarella la necessità di tornare alle urne, anche per evitare «il trucco di una legge anti-5 Stelle». Solo che Meloni ha già evocato la piazza, se il voto non ci sarà. Che faranno i grillini? Si adegueranno? O cercheranno di smarcarsi? Sul punto c’è stata una discussione e non si esclude niente, anzi. Prima i capigruppo di Camera e Senato Giulia Grillo e Luigi Gaetti saliranno al Colle, poi si vedrà. In realtà il M5S sta ragionando su come sfruttare lo scenario che si profila di un governo in continuità con Renzi. I grillini sono pronti a chiedere, un giorno sì e l’altro pure, di tornare a elezioni, con mobilitazioni e proteste permanenti, seppur ancora da definire nei modi. «Non ci siederemo ad alcun tavolo tecnico perché sarebbe un modo per dilazionare ulteriormente i tempi» conferma Gaetti. «Aspettiamo la Consulta e andiamo al voto con la legge che ne uscirà, trasferendo quelle modifiche pertinenti che possano essere applicate al Senato. Questo governo, che ha operato in maniera scandalosa, non deve rimanere».
Unica concessione del M5S è sul salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. I grillini sono favorevoli alla nazionalizzazione. «Pensiamo prima ai risparmiatori. Mps può essere salvata solo da un aiuto di Stato. Non è il momento di avere paura dell’Unione Europea e di una possibile procedura d’infrazione» spiegano gli europarlamentari in un post sul blog di Grillo. A questo punto, c’è da credere che non si opporranno al decreto salva-Mps che il governo presenterà nei prossimi giorni.
Repubblica 10.12.16
La Bce fischia la fine del match
di Marcello Esposito


IERI, dalla Bce è arrivato il messaggio che non ci sarà alcuna proroga per trovare una soluzione di mercato alla ricapitalizzazione da 5 miliardi di Mps. La decisione di Francoforte non è certo un fulmine a ciel sereno: il tempo per Siena era scaduto già la scorsa estate con gli stress test europei, da cui Mps era emersa come la peggiore tra le grandi banche.
Dal 29 luglio si è perso tempo prezioso, alla rincorsa di un progetto di ristrutturazione su basi “private” che, dati alla mano e indipendentemente dall’esito del referendum, aveva ben poche speranze di essere realizzato. E su cui è lecito dubitare che gli stessi proponenti riponessero particolare fiducia. Basti pensare alle condizioni leonine imposte dal consorzio di garanzia per assicurare il buon fine dell’aumento di capitale: una banca totalmente ripulita dei crediti in sofferenza, che avrebbero dovuto essere ceduti al “sistema” finanziario italiano, rappresentato da Atlante, ad un prezzo del 50% più elevato rispetto a quello di mercato, per evitare di accollarsi perdite rispetto ai valori iscritti a bilancio; una parte dell’aumento di capitale ottenuta attraverso la conversione in azioni delle obbligazioni subordinate e l’altra parte prenotata da investitori istituzionali internazionali. Investitori così di lungo periodo da aver subordinato la partecipazione di controllo nella banca più antica del mondo alla durata del governo in carica.
Bene fa, quindi, la Bce a far capire che fischia la fine del match. A maggior ragione, alla vigilia dell’estensione del Quantitative Easing che comporterà nei prossimi 12 mesi acquisti di titoli da parte della Bce per circa 800 miliardi, di cui un centinaio destinati all’Italia. In questo contesto, i 15 miliardi che dovrebbero essere necessari per rimettere a posto il Monte Paschi non rappresentano un problema né per le finanze pubbliche né per la capacità di assorbimento del mercato, nemmeno se dovessero aggiungersene altrettanti per sistemare le situazioni più critiche del nostro sistema bancario.
Tutto sommato, rispetto alla soluzione privata, per il contribuente italiano la nazionalizzazione di Mps potrebbe non essere un cattivo affare. In primo luogo, per una questione di trasparenza. Le operazioni private di salvataggio non sono gratuite e alla fine ne pagano il conto i clienti, attraverso l’aumento dei costi. In secondo luogo, l’intervento statale potrebbe evitare il progressivo indebolimento del sistema finanziario italiano e consentirebbe di riaprire il canale del credito all’economia, sfruttando le condizioni eccezionalmente favorevoli create dalle politiche della Bce di Mario Draghi.
D’altro canto, nel frenare la richiesta di proroga a Mps, la Bce deve aver valutato che le condizioni di mercato potrebbero non rimanere così favorevoli anche nel prossimo futuro. Il 2017 si presenta infatti come un anno decisivo per l’Europa, con i principali paesi dell’Eurozona che dovranno affrontare elezioni difficilissime. Meglio evitare che nella gestione di una crisi bancaria entrino considerazioni di basso cabotaggio politico a rendere tutto più complicato.
E deve anche aver valutato che la situazione della banca rischia di deteriorarsi in maniera significativa, se a cavallo d’anno dovesse ritrovarsi con la liquidità su livelli inaccettabilmente bassi a causa della perdita di fiducia dei clienti. Il governo e le autorità italiane farebbero bene a non sottovalutare la variabile temporale. Venti giorni possono sembrare poca cosa, ma nella soluzione di una crisi bancaria anche le ore contano. Spostare un deposito non costa quasi nulla e nessuna banca al mondo è in grado di sopravvivere ad una corsa agli sportelli. Strutturalmente, le banche si reggono sulla leva finanziaria e sulla fiducia. Se perdono la fiducia, la leva finanziaria funziona in maniera inversa, determinando il collasso immediato della banca.
La frenata della Bce è arrivata venerdì, per lasciare al governo italiano un intero weekend per definire ed approvare il decreto con cui lo Stato interviene per salvare Mps. Il fatto che non sia previsto alcun Consiglio dei ministri nel weekend è molto preoccupante. Se fosse vero, significa che lunedì i clienti di Mps, prima ancora che gli azionisti o i mercati, non avranno la certezza di quale soluzione sia stata trovata per la loro banca. La fuga dei depositi può sempre essere frenata, chiudendo fisicamente gli sportelli. Ma quale sarebbe l’effetto sul clima di fiducia del paese? Nel settembre del 2007, le code di persone all’ingresso delle filiali della Northern Rock segnarono l’inizio della crisi finanziaria in Inghilterra. Ne vale la pena? Un decreto che doveva essere varato parecchi mesi fa, non può aspettare adesso i tempi lunghi del passaggio del testimone da un governo all’altro.
Repubblica 10.12.16
Se il test politico passa da Siena
di Stefano Folli


IN ATTESA di conoscere la scelta di Mattarella, e al di là del solito valzer dei nomi, il vero tema di ieri è stato il Monte dei Paschi. Dopo mesi di ritardi e rinvii, il presidente del Consiglio Renzi, ancorché dimissionario, è posto di fronte alla necessità di procedere per decreto al salvataggio pubblico dell’istituto. A meno che non riesca a passare il tizzone ardente al successore.
LE IMPLICAZIONI economiche e sociali dell’operazione sono rilevanti e c’è, non secondario, anche un risvolto politico. Si parla molto di riunire il Paese dopo le nevrosi del referendum e ci si interroga sul profilo del governo che verrà, dopo aver stabilito che votare subito non è possibile per via del pasticcio della legge elettorale. L’intervento sulla banca di Siena può diventare allora il primo esperimento di coesione nazionale dopo mesi laceranti.
Le forze politiche di maggioranza e di opposizione che dovranno esprimersi in Parlamento sul testo del governo avranno due scelte: sfruttare l’occasione per continuare la campagna elettorale; oppure mostrare quel senso di responsabilità che è stato invocato in questi giorni come possibile mastice del nuovo, imminente esecutivo. Si tratta di verificare come il caso del Monte entrerà nelle dinamiche della crisi: se prevarrà il processo ai colpevoli del degrado ovvero se emergerà una linea meno conflittuale del Parlamento, da Forza Italia ai Cinque Stelle, in nome dell’emergenza. Se così fosse, le Camere non avranno anticipato le “larghe intese”, né fornito la prova che la grande coalizione è alle porte. Avranno più semplicemente segnalato la sospensione, sia pure temporanea, delle ostilità. In fondo il lavoro di Mattarella si propone lo stesso obiettivo: favorire la nascita di un esecutivo che, entro certi limiti, rassereni gli animi; e fare in modo che le convulsioni interne del Pd non si scarichino su Palazzo Chigi in forme distruttive.
Ecco perché l’intervento sul Monte dei Paschi merita tutta l’attenzione che si deve a un evento drammatico, sì, ma in grado di segnare un cambio di passo della politica non meno di quanto avvenga con il referendum o, appunto, con la nascita della nuova compagine ministeriale. La quale, a parte le banche, avrà il compito prioritario di dare al Paese una legge elettorale accettabile senza rimettersi in tutto e per tutto alla sentenza della Consulta. Anche perché, come ha osservato il costituzionalista Ugo De Siervo, non è per nulla sicuro che la Corte in gennaio cavi le castagne dal fuoco a una classe politica in cerca di alibi.
In questo scenario sembra tramontare l’ipotesi, peraltro molto vaga, di un nuovo governo Renzi. Emerge il nome del ministro degli Esteri, Gentiloni, come figura in grado di dare una duplice garanzia: continuità sulla base della stessa maggioranza che ha sostenuto l’esecutivo dimissionario; e lealtà al primo ministro uscente. Forse questo secondo aspetto è quello che più preme a Renzi. Ci sono questioni di potere che attendono soluzione (il ventaglio delle nomine di primavera), senza trascurare che gli equilibri del governo s’intrecciano, come è inevitabile, con i rapporti di forza dentro il Pd.
Colpisce, in ogni caso, la singolare procedura inaugurata da Renzi. Una specie di consultazione parallela a quella che si svolgeva nelle stesse ore al Quirinale. E l’indicazione, fatta filtrare agli organi di stampa, della preferenza per Gentiloni. In altri tempi si sarebbe parlato di sgarbo al Capo dello Stato. In ogni caso il risultato è quello di porre Mattarella di fronte a una specie di fatto compiuto. Il Quirinale, che deve ancora completare i colloqui protocollari, si trova a essere scavalcato dai media. Potrebbe non essere il miglior viatico per il nuovo incaricato. Alla fine, chiunque sia, Gentiloni o Padoan o un improbabile terzo personaggio, si ripete lo schema che all’inizio del 1995 portò a Palazzo Chigi Lamberto Dini come successore di Berlusconi, indicato da questi dopo la caduta del suo primo governo. Doveva essere poco più di un governo elettorale, ma durò un anno e mezzo e al termine anche la maggioranza era cambiata.
il manifesto 10.12.16
Il premier, le tessere e i candidati. Il Pd verso il Big Bang
Democrack. I bersaniani: «Un altro Pd è possibile». Emiliano: Matteo si dimetta anche da segretario. Pressing su Orlando per il congresso, lui nega. Un’ora di colloquio fra l’ex presidente e Franceschini. Messaggio chiaro: comando ancora io
di Daniela Preziosi

ROMA La crisi di governo incanalata verso la soluzione potrà forse presto tamponare le fibrillazioni degli organismi europei sul governo italiano. Ma difficilmente potrà fermare la slavina che si è messa in moto nel Pd dal momento della sconfitta al referendum e ancora di più dal momento delle dimissioni di Renzi da Palazzo Chigi. «Non si può rimettere il dentifricio nel tubetto», direbbe Bersani. Anche se i protagonisti negano le manovre di sganciamento dal leader, dal momento dell’incarico del nuovo governo niente più sarà come prima. Gli appelli all’unità cadono nel vuoto. Ieri il governatore pugliese Michele Emiliano ha chiesto le dimissioni di Renzi da segretario: «Se ha voglia di guidare la transizione fino al prossimo segretario lo fa, se si vuole dimettere prima ci sono i suoi vice.Nella sostanza, dimessosi da premier è come se si fosse dimesso anche da segretario. Perché è evidente che se ha sbagliato in una veste ha sbagliato anche nell’altra».
Intanto i bersaniani convocano per il 17 dicembre un’assemblea pubblica a Roma per discutere del referendum. Spiegano: «Se il Nazareno non vuole discutere della vittoria del No, lo facciamo noi. Se non vuole discutere di quello che deve fare il nuovo governo, noi sì». La polemica è contro la direzione-comunicazione di mercoledì scorso. In realtà la direzione, sarà riconvocata all’inizio della prossima settimana. Comunque appena il presidente Mattarella tirerà le fila.
I bersaniani sono già moderatamente soddisfatti: ha vinto il No, Renzi è fuori da Palazzo Chigi; di fatto sarà costretto a fare solo il segretario, realizzando quella divisione di ruoli da loro sempre auspicata, anche se non è chiaro quanto resisterà da questa collocazione senza bombardare il governo (con Enrico Letta ha resistito due mesi); comunque dovrà convocare il congresso, visto che «elezioni subito» si sta rivelando per quello che è: solo uno slogan. Il voto non si può celebrare senza una legge elettorale. E la nuova legge elettorale avrà bisogno di tempo.
Qui arriva il nodo del futuro del Pd. Da qualche giorno i renziani diffondono notizie di nuove iscrizioni al partito. A pacchi di mille. «Non è che scopriamo che in alcune città abbiamo più iscritti che voti al Sì?» è la battuta degli antirenziani. Ma non è una battuta. È l’avviso che la battaglia congressuale sarà ruvida.
Certo, a prendere sul serio tutte le smentite fioccate dai presunti congiurati, Renzi ha ancora la maggioranza del partito. È ancora il «dominus». Ieri ha tenuto a dimostrarlo ricevendo due volte il papabilissimo Gentiloni a Palazzo Chigi e organizzando una sorta di contro-consultazioni in competizione mediatica con quelle del Quirinale. Il prossimo governo sarà cosa sua, è il messaggio per gli incerti pronti a cambiare casacca. Che sono tanti, però. Il ministro Franceschini usa l’ironia per smentire le «trame» a lui attribuite dalla stampa: «Niente male i retroscena: ieri ho fatto accordo con Berlusconi,oggi con D’Alema. Anticipo per i giornalisti: domani con Grillo e poi Salvini» ha scritto in un tweet. Ma nel pomeriggio è salito a Palazzo Chigi per un’ora di colloquio con il segretario. Un «chiarimento» cordiale, filtra. Ma anche in questo caso nulla sarà come prima. Franceschini sarà confermato ministro? Con il suo plotone di postdemocristiani è la chiave di volta per cambiare gli equilibri del partito, almeno in parlamento. Anche i Giovani turchi di Matteo Orfini e Andrea Orlando hanno i numeri per far ballare Renzi. La pressione su Orlando si fa forte: sarebbe l’unico candidato in grado di unire ben al di là delle sinistre interne. E competere a congresso. Non Emiliano, che pure si fa avanti, non Roberto Speranza, giovane bandiera dell’area bersaniana. Ma lui, il ministro della Giustizia, smentisce l’intenzione di fare un passo avanti:
Repubblica 10.12.16
L’ex premier prepara la resa dei conti nel Pd “Primarie a marzo”
Renzi convoca l’assemblea nazionale il 18 dicembre Congresso subito. Svolta De Luca: “Matteo strafottente”
di Giovanna Casadio

Boccia chiama i senza corrente: “Sono un apolide, il nome giusto può essere Emiliano”
“Se vuole gestire la fase di transizione verso il congresso, il segretario si dimetta anche da capo del partito”
“Il No è stato spinto dall’esuberanza e dalla strafottenza di Matteo. Sua moglie Agnese è meglio di lui, se lo lasci dire”

ROMA. «Chiusa la partita-governo, partirà l’operazione-partito». Matteo Renzi lo va ripetendo nonostante le ore convulse a Palazzo Chigi. In un Pd lacerato e confuso, sotto schiaffo per le divisioni tra il Sì e il No sul referendum costituzionale, è saltato il gioco delle parti: non è la sinistra dem a fare pressing per una resa dei conti nel congresso anticipato, ma è lo stesso Renzi a giocare in contropiede. E convoca l’Assemblea dei mille, il “parlamento” del partito, tra una settimana, il 18 dicembre. Lì Renzi si presenterà con una proposta per il congresso subito, a marzo-aprile. Si dichiarerà stabilmente in sella per traghettare il Pd a congresso.
Del resto il rimescolamento tra i democratici è totale. Decisivo per Renzi è il rapporto con Dario Franceschini, il ministro dei Beni culturali con cui i rapporti sono diventati tesi negli ultimi mesi, e che resta tuttavia l’azionista di maggioranza del cosiddetto PdR, il Pd di Renzi. Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, un tempo lettiano («Ma le vecchie correnti non esistono più») fa partire il tam tam sul congresso senza porre tempo di mezzo: «Ce lo chiedono gli iscritti, i militanti, il congresso va fatto e subito: è l’unica chance in un Pd lacerato». Boccia si definisce un «apolide» che insieme agli altri «apolidi dem», cioè democratici senza corrente, è in cerca di un candidato per le primarie prossime.
Tutti a caccia dello sfidante di Renzi. Per gli “apolidi” come Boccia, in pole position c’è Michele Emiliano, governatore della Puglia, che al referendum ha votato No, ma non ha fatto campagna elettorale contro il Pd renziano: un candidato segretario gradito alla sinistra e che sfonda anche a destra. «I cavalli da corsa si schiereranno quando il congresso sarà fissato», è l’altra riflessione di Boccia. Emiliano ieri dichiara: «Se vuole gestire la transizione verso il congresso, Renzi dovrebbe dimettersi da segretario». Poi precisa che l’importante è avviare il congresso, se «Renzi vuole guidare la transizione fino al prossimo congresso lo fa, se no ci sono i due vice segretari, non cambia niente».
Roberto Speranza, leader della sinistra bersaniana che si è impegnata per il No, è il candidato in pectore più quotato della sinistra dem. Non è ancora una candidatura ufficiale. Continua a non confermare: «Certo congresso presto, perché è urgente parlare del partito. Ma noi siamo concentrati sull’iniziativa del 17 dicembre a Roma». Argomento: «Un nuovo Pd per ricostruire il centrosinistra. E restiamo a questo». Il 19, poi, manifestazione dell’altra sinistra dem, quella di Gianni Cuperlo, reduce dal Sì al referendum, a Bologna: ci saranno il sindaco Virginio Merola, Andrea De Maria, Sandra Zampa e Giuliano Pisapia, l’ex sindaco di Milano che si propone di federare la sinistra.
Tempo di riposizionamenti. Ma anche gara tra “renziani” e “renzisti” - definizioni coniate da Arturo Parisi, il padre con Prodi dell’Ulivo - per distinguere tra i “ragionevoli” Graziano Delrio, Matteo Richetti (renziani) e gli “ultrà” Luca Lotti e Francesco Bonifazi.
A sorpresa una critica nei confronti di Renzi la fa Vincenzo De Luca, il governatore della Campania che ha sollevato un putiferio per l’invito agli amministratori dem di fare di tutto, «anche offrire una frittura», pur di convincere al Sì. Dichiara ora, De Luca: «Un apprezzamento va a Agnese Renzi, è meglio del marito, senza che Renzi se la prenda: su di lui hanno pesato certi atteggiamenti di esuberanza e strafottenza giovanili». Nelle grandi manovre verso il congresso in molti sondano lo spazio di una candidatura. Andrea Orlando è tentato, ma molti nella sua corrente, quella dei “turchi”, gli consigliano di trovare un accordo con Renzi.
Corriere 10.12.16
Primarie per il candidato alle elezioni Renzi apre subito il congresso dem
Assemblea il 18 e assise a marzo per scegliere il leader che correrà anche al voto
di Marco Galluzzo

ROMA Un governo Renzi senza Renzi. Per completare alcuni dossier vitali per l’economia. Per fare la legge elettorale, dopo la sentenza della Consulta, il 24 gennaio. Presiedere il G7 a Taormina, a maggio, e poi andare a votare, a giugno.
Renzi e i renziani, che restano maggioranza nel partito, che per Mattarella hanno l’onere di garantire continuità alla funzione di governo, hanno in sostanza blindato in questo modo la loro posizione. Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, che ieri è andato due volte a Palazzo Chigi a colloquio proprio con Renzi, avrebbe il compito di guidare un esecutivo di transizione, con poche modifiche (le ministre Maria Elena Boschi, Stefania Giannini e Marianna Madia sarebbero date in uscita).
La decisione di Renzi farebbe il paio con un’altra scelta: il 18 dicembre si terrebbe l’Assemblea nazionale del Pd, gli stati generali del partito, per convocare il congresso a marzo e iniziare un percorso che porti a confermare la leadership e la sua candidatura alle prossime Politiche. Di entrambe le cose dovrebbe discutere oggi la delegazione del partito con Mattarella, nell’ultimo giorno di consultazioni.
Il premier dimissionario ieri mattina è rientrato da Firenze e ha iniziato una giornata di colloqui che sarebbero serviti a blindare entrambe le decisioni. Ha visto due volte il ministro degli Esteri, poi il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan e il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina.
Ma l’altro incontro clou della giornata è stato certamente quello con Dario Franceschini: un’ora di faccia a faccia e, sembra, incomprensioni delle ultime ore superate. Anche il gruppo parlamentare che fa riferimento al ministro dei Beni culturali sarebbe a questo punto d’accordo con l’opzione Gentiloni.
La soluzione, al momento, sarebbe una sorta di mediazione fra il desiderio del capo dello Stato di completare la legislatura, le richieste di quasi tutte le opposizioni di andare al voto prima possibile, l’iniziale posizione renziana di un governo di transizione solo a patto che anche gli altri partiti lo sostenessero.
Questo è lo schema di Renzi e dei renziani, si vedrà se terrà. Permetterebbe anche di preservare gli equilibri delicati e strategici delle partecipate di Stato, da Eni a a Finmeccanica, sino ad Enel: per moltissime aziende i vertici scadono in primavera, in questo modo potrebbero essere riconfermati o cambiati con una supervisione dell’ex premier.
La Stampa 10.12.16
Col proporzionale il partito ad personam sarà la regola
di Marcello Sorgi

Chi voleva farsi un’idea di come sarà la nuova (vecchia) Italia del proporzionale, dopo che la sentenza della Corte costituzionale il prossimo 24 gennaio avrà cancellato l’Italicum e invitato il Parlamento a omogeneizzare i sistemi elettorali di Camera e Senato, avrebbe dovuto prestare attenzione alla seconda giornata di consultazioni al Quirinale, in cui 17 (dicasi 17) partiti hanno sfilato con le loro delegazioni. L’elenco dei mini-gruppi parlamentari spazia dalla destra al centro alla sinistra, alle più svariate minoranze linguistiche mescolate ai socialisti di minoranza, a diversi localismi, agli eredi di storiche formazioni come i repubblicani e così via, citare tutte le sigle sarebbe impossibile oltre che inutile.
Costituiscono il precipitato finale di una legislatura in cui centinaia di deputati e senatori (soprattutto questi ultimi), eletti nelle file di uno dei tre principali schieramenti, centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 stelle, hanno preso altre strade, confluendo nei gruppi misti di entrambi i rami parlamentari e poi fuoruscendone, alleandosi e spaccandosi (prevalentemente al centro) e moltiplicando i loro spostamenti soprattutto adesso, nella fase finale della vita della legislatura, in cui bisogna cercare un posto in lista e trovarne uno che funzioni per essere rieletti.
Insieme con la classica «Navicella», il libretto che contiene le foto e le biografie di tutti i parlamentari, occorrerebbe dare alle stampe un’altra pubblicazione che documenti tutti i passaggi da un fronte all’altro e ritorno, oppure commissionare una «app» come il navigatore «mappe» che abbiamo sui telefonini, per tracciare i percorsi tortuosi che ciascuno dei transfughi ha seguito e spiegare in nome di chi, cosa e per quale motivo hanno mollato gli ormeggi. Un piccolo partito come quello fondato alla vigilia del voto del 2013 dall’ex-premier Monti s’è diviso in due, tre o quattro parti; un ex-grande partito come quello di Berlusconi, dominante nella precedente legislatura e autore di un’imprevedibile rimonta elettorale, è ora frammentato in altri quattro o cinque gruppi; il Pd che governa l’Italia e la maggioranza delle regioni è in realtà una federazione di una decina di correnti, collegate a due a due o a tre a tre, cosicché anche la (ex) granitica direzione renziana che approvava qualsiasi proposta del leader, ora è in grado di metterlo in minoranza. L’unica vera differenza, tra la realtà di adesso e quella che verrà, è che ciò che è avvenuto abusivamente, come sintomo di una malattia, nell’ultima stagione del maggioritario, ora diventerà la regola con il proporzionale: un partito personale per tutti!
Corriere 10.12.16
I cento passi di Lotti
di Francesco Verderami

Cento passi separano a Roma la sede del Pd dagli uffici della Fininvest. E in quei cento passi Lotti avrà ripercorso i mille giorni del renzismo, dai fasti del patto del Nazareno alla sua passeggiata solitaria verso l’altra sponda del Nazareno.
Tre giorni fa, in quel luogo dell’anima che ha segnato una fase della storia politica italiana, non era più Berlusconi a recarsi da Renzi. Tre anni dopo, è stato il braccio destro di Renzi a recarsi da Gianni Letta, magari per sapere quale fosse la linea di Berlusconi, e per tentare di capire se davvero avesse stretto accordi con gli avversari interni del suo amico e segretario democrat. Non è dato sapere se e in che modo l’uomo delle mille mediazioni per il Cavaliere abbia riportato le volontà del leader di Forza Italia, è certo che Berlusconi — prima del referendum— si diceva pronto se del caso a un cambio di cavallo: «Sulla legge elettorale siamo pronti a trattare con il Pd. Con Renzi o con chi verrà dopo Renzi».
La politica è spietata, la politica è rapporti di forza. E per quanto giovane, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ne conosce le regole. L’hanno visto sconsolato, l’altra sera, camminare per piazza della Signoria a Firenze, con il figlioletto a mitigare la sofferenza. Perché Lotti — che intreccia con il premier dimissionario il rapporto personale e quello professionale — ha sofferto più di tutti l’esito del voto, e fatica a metabolizzare la sconfitta: «Non siamo stati capiti». E l’angoscia va oltre la perdita del potere, che in questi tre anni ha pure gestito: con «temperamento» secondo i fedelissimi, con «arroganza» secondo i suoi critici.
Lotti è stato l’uomo del «me la vedo io», «aggiusto io», e soprattutto del «con Matteo ci parlo io». In un sistema di check and balance si è occupato dei servizi nonostante quel ruolo sia di Minniti, si è interessato di infrastrutture nonostante lì ci sia Delrio, ha disbrigato nel partito nonostante lì ci sia Guerini, e si è occupato di banche perché ritiene che lì non ci sia nessuno. Se resterà a Palazzo Chigi senza Renzi, è perché di Renzi rappresenta l’essenza. Il leader, che voleva occuparsi di tutto, non riuscendoci si era fatto trino: a Lotti aveva affidato la gestione degli affari di governo, alla Boschi il ruolo di ambasciatrice del governo. Ruolo che lascerà, perché le riforme non ci sono più. E non c’è più neanche il governo.
All’indomani del voto referendario, mentre Lotti spingeva per «ripartire dal 40%», lei aveva chiaramente capito ciò che Casini le avrebbe ribadito: «Cara Maria Elena, dovete scegliere quale boccone amaro mandar giù. Riprendervi l’incarico o indicare a Mattarella il nome di un altro presidente del Consiglio. Tre mesi lì, come niente fosse, Matteo non può restarci». Mille giorni e cento passi dopo, Lotti si è rassegnato all’idea che Renzi doveva scegliere il danno minore: lasciare Palazzo Chigi a Gentiloni, con la consapevolezza che si aprirà una fase difficile nel partito. Perché sarà pur vero che nel Pd ci sono molti politici e nessun leader, ma sono proprio la loro capacità di manovra e la vischiosità del correntismo il maggior pericolo per il segretario che da lunedì non sarà più premier.
Il compromesso ha evitato (per ora) l’implosione del Pd, «perché — come spiegava mercoledì il Guardasigilli Orlando ad alcuni compagni — anche solo l’impressione di consumare un complotto contro Renzi, decreterebbe la morte del partito agli occhi del nostro elettorato. Torneremmo a percentuali dei tempi in cui c’erano i Ds, senza più nemmeno la Margherita come alleato». Ma il compromesso sarà l’arte che il segretario applicherà nella quotidianità? Starà solo a lui gestire la trattativa sulla legge elettorale, sulle alleanze elettorali e sulle liste elettorali? E quanti di questi nodi sono già oggetto della mediazione che segna la tregua nel Pd?
«Con Renzi o con chi gli succederà», diceva Berlusconi, che si prepara a impostare la trattativa con Renzi ma anche con i suoi avversari. Cento passi dopo, Lotti ha capito cos’è diventato il Nazareno.
La Stampa 10.12.16
La sfilata dei disponibili “Un governo, purchessia”
Alle consultazioni diciassette delegazioni tra peones e minipartiti
Tutti uniti da un progetto: andare a votare il più tardi possibile
di Mattia Feltri

La parola più pronunciata del giorno è stata «disponibili». Una disponibilità ampia, anzi massima, e naturalmente in nome della «responsabilità». Maurizio Romani di Italia dei valori è «disponibile a un governo di responsabilità nazionale». Daniel Alfreider della Südtiroler è disponibile a «un governo che vari una nuova elegge elettorale». Rocco Buttiglione dell’Udc è «disponibile a un governo di decantazione». Guglielmo Vaccaro di Idea è «disponibile al governo che il paese merita» (espressione un po’ minacciosa). Nello Formisano di Diritti e Libertà è «disponibile a un governo nella pienezza delle su funzioni». Riccardo Nencini del Partito socialista è «disponibile a un governo di scopo e di responsabilità corale». Lorenzo Dellai di Des-Cd è «disponibile a un governo di transizione responsabile». Giovanni Monchiero dei Civici e Innovatori è «disponibile a un governo politico, responsabile e autorevole».
E tutto queste sfumature di disponibilità e responsabilità sarebbero forse racchiuse nella disponibilità di Pino Pisicchio (immortale totem della politica italiana, in Parlamento per la prima volta nell’87, già nella Dc, in Rinnovamento italiano, nella Margherita, nell’Idv, in Api, nel Centro democratico e altri partiti ancora, e giustissimamente adesso presidente del Comitato d’attuazione del codice etico dei deputati), «disponibile a un governo senza aggettivi, un governo e basta»; se non fosse che Pisicchio è superato da Karl Zeller, che ha un nome tedesco ma un’indole molto italiana, ed è «disponibile a ogni nuovo governo» che, ha aggiunto, pensi «al bene del Paese», discriminante lodevole ma abbastanza auspicabile. E, insomma, sette ore abbondanti di consultazioni, con questi elevati contributi, erano forse inutili, se la sacralità della democrazia non pretendesse rispetto della liturgia, e se tutti si fossero riconosciuti nella formidabile sintesi di giornata proposta da Maurizio Ferrara di Grandi autonomie e libertà, «disponibile ad appoggiare tutte le soluzioni prospettate dal Presidente della Repubblica».
Ora, fatta questa lunga e centrale premessa, può essere che il lettore si stia chiedendo chi siano Zeller e Vaccaro e Monchiero e Formisano, e non è escluso che la stessa domanda se la sia posta il presidente Sergio Mattarella, per cui non è un problema. E Mattarella si sarà anche chiesto quali elettori abbiano affidato le loro sorti alle visioni e alle strategie di formazioni che si chiamano Alternativa Libera Possibile o Movimento Partito Pensiero e Azione. Per contribuire alla soluzione della crisi, ieri erano chiamate al Quirinale diciassette delegazioni, alcune della quali composte da due, tre, quattro fino a sei-sette diversi partiti, e di queste diciassette delegazioni sono conosciute al mondo soltanto quelle di F.lli d’Italia di Giorgia Meloni e della Lega di Matteo Salvini. Che, infatti, sono le uniche indisponibili: vogliono elezioni subito, o quasi.
Ma la nerboruta decisione di Meloni e Salvini che può di fronte al fiuto politico di una Renata Bueno, parlamentare nata a Brasilia e capofila della delegazione sudamericana, e «disponibile a un governo ampio», ampio abbastanza almeno da contenere lei? Qui tutte le sottosigle di palazzo hanno compreso con una certa rapidità e altrettanto sollievo che il presidente della Repubblica non vuole elezioni - non con la legge elettorale che c’è. E dunque si rimane a galla ancora per un po’ di tempo, che gli ignoti leader transitati ieri sul Colle impegneranno (hanno detto ai microfoni di reti unificate) per «affrontare l’emergenza terremoto», «mettere in sicurezza i conti dello Stato», «completare le riforme avviate», «affrontare il problema delle povertà emergenti», «mettere in sicurezza il sistema bancario» e «affrontare le sfide a livello internazionale». Dopo di che al governo che verrà dopo non resterà più niente da fare.
Corriere 10.12.16
Tonini: tocca al ministro degli Esteri? Sarà come avere ancora in sella Matteo
di Monica Guerzoni

Il senatore dem: «Nel Pd la leadership del segretario uscirà rafforzata»
ROMAGiorgio Tonini, presidente della commissione Bilancio del Senato. È ancora renziano, lei? «Sì, sono un convinto sostenitore della linea politica di Matteo Renzi».
Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi come lo vede? Meglio di Grasso, Padoan, Delrio e Franceschini?
«Non sono in grado di fare previsioni sui nomi, perché per fortuna non ho questa responsabilità». Eppure sono in tanti a prevedere che toccherà al ministro degli Esteri: non è come metterci Renzi?
«Si, in un certo senso l’affinità politica è del tutto evidente. D’altra parte è necessario un governo che porti alle elezioni attraverso la legge elettorale e gli scenari possibili sono due. Il primo è che sia Renzi stesso a gestire questo passaggio, visto che anche qualche forza di opposizione chiede questa soluzione».
È ancora uno scenario possibile?
«Sarà il segretario del Pd, con il presidente della Repubblica, a sciogliere questo nodo. Il Pd ha detto che intende aiutare il presidente in tutti i modi in un passaggio così difficile e delicato, ma l’ultima parola sarà del presidente Sergio Mattarella».
Secondo scenario?
«Che sia un altro esponente del Pd, il quale abbia una autorevolezza sufficiente per poter assumere una responsabilità così rilevante».
Paolo Gentiloni è sufficientemente autorevole?
«Certamente chi è stato ministro degli Esteri ha queste caratteristiche».
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti e il portavoce Filippo Sensi resteranno a Palazzo Chigi?
«Non credo che gli italiani siano in apprensione sui temi di staff. Sarà il nuovo presidente del Consiglio a decidere l’assetto del governo».
È vero che i ministri Boschi, Giannini, Madia e Poletti sono destinati a saltare?
«Il nuovo premier proporrà la lista, è una sua prerogativa in cui è difficile entrare».
Perché l’ipotesi del governo Franceschini è tramontata, Renzi non si fida?
«Io sto a ciò che Franceschini ha dichiarato e sono certo che sta lavorando come tutti i dirigenti del Pd per una soluzione positiva per il Paese, che presuppone una forte unità interna attorno al segretario Renzi».
Il segretario del Pd vuole votare il prima possibile, ma tanti «dem» puntano al 2018, giusto?
«Si voterà appena risolta la questione della legge elettorale, non credo abbia senso andare oltre questa scadenza. Bisogna prendere atto che la legislatura è politicamente finita, si tratta di accompagnarla in modo ordinato alla sua conclusione e a un sistema di voto che consenta il massimo possibile di governabilità».
Non temete che Grillo sparerà in chiave elettorale su un governo che avesse sempre in Renzi il suo ispiratore?
«Noi abbiamo chiesto a tutte le forze politiche di condividere la responsabilità di governare, non mi pare che nessuno si sia dichiarato disponibile. Se nelle prossime ore questa indisponibilità sarà confermata, non resterà che un governo a guida Pd, con questo obiettivo circoscritto».
Se lascia Palazzo Chigi, Renzi rischia di essere indebolito al punto da non tenere più il partito?
«Il Pd deve dare vita a un grande confronto democratico, da cui la leadership di Renzi uscirà rafforzata».
Corriere 10.12.16
il doppio segnale da Palazzo Chigi
di Massimo Franco

La teoria di candidati che ieri ha sfilato nello studio di Matteo Renzi a Palazzo Chigi manda un segnale in due direzioni: all’interno del Pd e al Quirinale. Al suo partito, il premier dimissionario comunica che il suo passo indietro è stato compiuto solo in parte: resterà come segretario e dal 18 dicembre comincerà la campagna congressuale. Dunque, qualunque congiura allo stato nascente dovrà fare i conti con il suo gruppo di potere, determinato a mantenere comunque il controllo sui dem e, in caso di elezioni, sulle liste per Camera e Senato. Al capo dello Stato, forse senza nemmeno volerlo, Renzi mostra che sta tenendo «consultazioni parallele» a quelle ufficiali, perché le chiavi della crisi e della maggioranza parlamentare le ha in mano lui.
Ricevere uno dopo l’altro prima il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, poi quello degli Esteri, Paolo Gentiloni, dato nelle ultime ore come possibile successore di Renzi, rendendo noti i colloqui con un comunicato ufficiale, significa additare a Sergio Mattarella la possibile soluzione. E incontrarli a Palazzo Chigi e non nella sede del partito, sottolinea la singolarità di un premier che dice di essere fuori ma non rinuncia al ruolo di capo del governo. Anzi, vuole farlo pesare fino all’ultimo per condizionare l’esito dello psicodramma apertosi con la disfatta referendaria del 4 dicembre. La sensazione è che una strategia tesa a sfruttare a proprio favore quel risultato miri a piegare entrambi i destinatari.
Tra i dem la sensazione che Renzi li possa portare a sbattere involontariamente è diffusa. E sta crescendo la preoccupazione di trasformare il dialogo col presidente della Repubblica in un confronto arrischiato. È come se Palazzo Chigi vedesse il Quirinale e le sue prerogative non per quello che sono secondo la Costituzione, ma come sarebbero state in caso di vittoria dei Sì al referendum: e cioè un capo dello Stato espresso dalla maggioranza di governo e incline ad assecondarne le indicazioni. Il fatto che Mattarella sia figlio del maggiore successo renziano, un’elezione quirinalizia che ricompattò il Pd, rafforza questa controversa convinzione dell’esecutivo.
Quanto al partito, sottovoce magari si parla di un segretario-premier che sta dissipando un patrimonio di voti e di valori. Lo si accusa di avere «mistificato il significato del referendum», e di non avere capito l’Italia. Si parla di un rischio reale di «suicidarsi politicamente», e non solo nelle file della minoranza. Eppure, nessuno appare in grado di trasformare il mugugno in uno scontro aperto. Sulla nomenklatura, meno ormai sull’elettorato, Renzi mantiene una presa a prova di rivolta. Il risultato è quello di evocare una sorta di «sindrome dei lemming»: i piccoli roditori artici che secondo la leggenda si suicidano in massa senza rendersene conto durante le loro migrazioni.
L’obiettivo del segretario-premier dimissionario, secondo gli esegeti più fedeli, rimane quello di dimostrare che dopo di lui non ci sarà nulla di duraturo: al massimo una compagine che ha il compito di approvare una riforma elettorale e portare il Paese alle elezioni entro giugno al massimo, mantenendo un controllo ferreo sulle nomine col sottosegretario Luca Lotti. Sulla scadenza, assicura un esponente governativo, ci sarebbe una convergenza di massima col Quirinale. La tesi è da verificare. Nel momento in cui nasce un nuovo governo, sarà tale «senza aggettivi». E non potrà limitarsi a archiviare l’Italicum. Dovrà anche sbloccare provvedimenti sociali urgenti a favore dei terremotati e delle fasce più povere, insabbiati da mesi in Parlamento per colpa del referendum.
Altrimenti crescerebbe la rabbia antisistema. Anche perché la convinzione è che sarà complicato arrivare rapidamente a una riforma elettorale condivisa: a meno che una coalizione guidata dal Pd, magari da un Renzi tornato clamorosamente sui propri passi, non opti di nuovo per norme fatte passare ponendo la questione di fiducia. Ma procedere a strappi, con altre forzature dopo il responso popolare del 4 dicembre, equivarrebbe a non volere capire; e accelerare la marcia di avvicinamento al potere del M5S e della Lega, sempre più in sintonia anche nella richiesta di elezioni al più presto.
L’esito di questa crisi rimane dunque aperto. E dopo una campagna referendaria avvelenata e dispendiosa, Renzi si trova a un bivio: o riconoscere la responsabilità di quanto è avvenuto, e rimanere premier indebolito; o indicare un candidato alternativo, sapendo che potrà porre condizioni ma non dettarle al capo dello Stato, e nemmeno a tutto il Pd e a tutto il Parlamento. L’odore della Prima Repubblica si sta già diffondendo. Il paradosso è che a spargerlo sia proprio il politico che doveva archiviare la Seconda e entrare trionfalmente nella Terza, con una Costituzione a immagine e somiglianza della nuova era.
La Stampa 10.12.16
Da Renzi luce verde al suo ministro dopo l’intesa con i capi corrente Pd
Accordo in vista con Berlusconi sulla legge elettorale. Si lavora alla squadra: esce Boschi
di Fabio Martini

Il nuovo «Patto Gentiloni» è stato fortissimamente voluto da Matteo Renzi, che ieri mattina è approdato a Roma dalla sua Pontassieve, alfine convinto ad abbandonare per davvero Palazzo Chigi. Ma l’accordo per un nuovo governo guidato dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è diventato più fattibile e quasi fatto, quando hanno dato il loro via libera i notabili della fronda interna al Pd - Dario Franceschini e Andrea Orlando, soddisfatti per aver indotto Renzi a lasciare - e quando è stato avallato per vie informali da Forza Italia e da Mediaset. Da Silvio Berlusconi e da Fedele Confalonieri - che ha un buon rapporto personale con Paolo Gentiloni - è arrivato a Renzi un univoco segnale di riscontro: restiamo all’opposizione, ma non ci metteremo di traverso. Purché ci sia un accordo sulla riforma elettorale. Un accordo, che a quel che dicono voci molto informali, si sarebbe trovato su un «semi-maggioritario», un sistema che escluda le preferenze (detestate da Berlusconi) e consenta a Forza Italia di eleggersi un drappello di parlamentari «nominati». L’uovo di Colombo, ma su questo non ci sono ancora certezze, potrebbe essere un Mattarellum riveduto e corretto, che elegga gli onorevoli nei collegi, ma lasciando un’ampia quota al proporzionale e dunque a parlamentari indicati dai partiti. Ma ovviamente la candidatura Gentiloni non avrebbe preso quota se dal Quirinale non fossero pervenuti a Palazzo Chigi ampi cenni di riscontro, per un ragione eguale e contraria a quelle che hanno spinto Renzi a sostenere il suo amico Paolo: proprio perché vicino a Renzi, a Gentiloni dovrebbe essere risparmiato quel logoramento pretestuoso e gratuito, che il Quirinale teme in qualsiasi governo. E un Gentiloni premier viene considerato perfettamente in grado di affrontare gli appuntamenti internazionali che attendono l’Italia: l’anniversario dei Trattati di Roma, a marzo, il G7 di Taormina, a fine maggio, la riforma del Trattato di Dublino.
Certo, per tutta la giornata è continuato a rimbalzare anche il nome di Pier Carlo Padoan, «rilanciato» dal pericoloso destino nel quale sembrava essersi infilato il Monte dei Paschi. Le notizie, poi rivelatesi infondate, di un no della Bce sulla vicenda dell’aumento di capitale, non soltanto aveva rimesso in pista Padoan ma per almeno un’ora, ha indotto il Quirinale ad accarezzare un’ipotesi paradossale: poiché un decreto-legge di «salvataggio» del Monte sembrava urgentissimo (lunedì mattina) e poiché soltanto un governo in carica avrebbe potuto adottarlo, Matteo Renzi sarebbe stato costretto a rinunciare alle dimissioni. Poi la vicenda Bce si è ridimensionata, Renzi è ridisceso dal trono e Paolo Gentiloni è tornato ad avvicinarsi all’incarico.
Un episodio più di tante voci dimostra che l’operazione-Gentiloni è ad un passo dal traguardo. Ieri il «presidente in pectore» ha avviato una sorta di «pre-consultazioni». Incontrando il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, capo della fronda anti-Renzi; il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, capofila di una corrente di ex-Ds filo-Renzi; Maria Elena Boschi, una dei pochissimi ministri ad essersi spesi nella campagna referendaria è anche la ministra di una riforma costituzionale che è stata severamente bocciata. Come aveva detto lei su stessa, la Boschi lascerà il suo incarico di governo? Seguirà Renzi al partito, destinato a diventare il fortino dal quale il segretario lancerà la sua battaglia per riconquistare Palazzo Chigi? Oppure avrà un nuovo incarico nel governo? Ieri sera la Boschi non ha fatto commenti ma alla fine sarà lei a decidere, non subirà consigli più o meno interessati.
Una cosa è certa. Nei due colloqui che Renzi e Gentiloni hanno avuto ieri a palazzo Chigi si è iniziata ad ipotizzare la squadra del nuovo governo. La parola d’ordine è continuità, ma con alcuni «tagli». Sono quattro i maggiori indiziati ad uscire: oltre alla Boschi, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, colpita dall’insuccesso della «buona scuola»; il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia; il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. Sembrano destinati ai loro posti Andrea Orlando (Giustizia) e Dario Franceschini (Beni culturali), anche se ieri sera si era diffusa la voce di un suo passaggio agli Esteri. Voce che non ha trovato conferma, mentre per gli Esteri in pole position la segretaria generale della Farnesina l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, un ottimo rapporto con Gentiloni.