domenica 7 maggio 2017

Internazionale 6.5.2017 
Le parole da immaginare
Ci sono termini stranieri impossibili da tradurre perché descrivono qualcosa che appartiene solo a una particolare cultura. Ma in che modo le lingue influenzano il nostro modo di pensare? Il dibattito tra i linguisti è aperto
di Nathaniel Scharping, Discover, Stati Uniti


Immaginate di camminare in una foresta poco prima del tramonto. Intorno è tutto calmo e tranquillo. La luce del sole filtra tra gli alberi e lungo il sentiero. La scena è familiare a chiunque abbia fatto una passeggiata nei boschi. Ma dovendo usare una sola parola per descrivere quest’esperienza, quale termine usereste? Forse dovreste ricorrere a una serie di parole, come “serenità”, “bellezza”, “pace”, “appagamento”. Sono tutti termini che sfiorano la sensazione che si prova in quel momento, senza descriverla con precisione. Ma non in giapponese. Questa lingua ha una parola specifica che racchiude il senso evocato dalla luce del sole che danza tra gli alberi, komorebi. È un modo elegante di far convivere calma, meraviglia e armonia in un’unica parola. Komorebi è un termine intraducibile in inglese o in italiano. È una parola che, come molte altre nelle lingue straniere, cattura in maniera diversa costellazioni di significati e di emozioni. Queste parole sembrano suggerire che, se si parte dal presupposto che il linguaggio ha dei limiti, ci sono dei modi di percepire il mondo che per noi sono inaccessibili. Il dibattito sul perché e sul come diamo un nome alle cose occupa un posto centrale nello studio della linguistica. Le parole ci aiutano a comunicare, certo, ma fino a che punto ci aiutano a pensare? La funzione più elementare delle parole è collegare il nostro subconscio al mondo reale. “Il linguaggio ci permette di fissare nella memoria tutte le informazioni relative a una data categoria e di andare a recuperarle facilmente per poterne parlare con altre persone”, spiega Eve Clark, professoressa di linguistica all’università di Stanford. La maggior parte dei linguisti è d’accordo sul fatto che avere una parola per descrivere una cosa altera la nostra percezione di quest’ultima. È quello che afferma una variante dell’ipotesi Sapir-Whorf, dal nome dei due antropologi di Harvard, Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, che per primi sostennero che cognizione e linguaggio sono intimamente legati. La versione iniziale, o forte, della loro ipotesi prevede che, senza una parola in grado di descrivere una cosa, le nostre menti siano sostanzialmente bloccate, come se non potessimo neanche pensare un concetto a cui non abbiamo dato un nome. Ma, come mostra la parola komorebi, non è del tutto vero. La sensazione che quel termine ci suggerisce ci è familiare anche se noi non abbiamo una parola sola per descriverla. Il fatto di avere un termine preciso, però, aiuta a richiamare il concetto in modo più strutturato. Questa è la base della versione aggiornata, o debole, dell’ipotesi Sapir-Whorf. La versione debole è sostenuta da molti linguisti perché ipotizza che, quando usiamo il linguaggio per fissare un concetto, poi è più facile pensarlo e utilizzarlo. “Non ci sono mai state prove a sostegno della variante forte”, aferma Edward Gibson, professore di scienze cognitive al Massachusetts institute of technology (Mit). “Invece abbiamo le prove del fatto che, quando impariamo una lingua, facciamo caso ad associazioni che prima non notavamo. Un esempio sono i nomi dei colori. Dopo aver imparato cosa sono il blu, il verde e il giallo, abbiamo un’idea più chiara dei confini tra un colore e l’altro”. Il linguaggio quindi classificherebbe l’esperienza in gruppi distinti di informazioni, che contengono ciascuno sensazioni e impressioni. Dopo che abbiamo dato un nome a un’esperienza, siamo in grado di comunicarla a noi e agli altri. Alcuni esperimenti mostrano che se parliamo da soli mentre svolgiamo un compito lo portiamo a termine più facilmente. Ai partecipanti di uno studio è stato chiesto d’individuare un oggetto all’interno di una serie di immagini casuali. I volontari che pronunciavano il nome dell’oggetto ad alta voce riuscivano a trovarlo più rapidamente. Un esperimento simile ha dato gli stessi risultati anche con il discorso interno, cioè con le parole che i partecipanti pronunciavano tra sé e sé. “In in dei conti stiamo discutendo della relazione tra le idee e la lingua. Molte persone sono convinte che possiamo pensare per immagini, ma il più delle volte pensiamo attraverso le parole che usiamo per quelle immagini”, sostiene Deborah Tannen, linguista della Georgetown university. “Parole e immagini sono inestricabilmente legate: se abbiamo una parola per descrivere una cosa, richiamare alla mente l’immagine è più facile”. Ci sono parole intraducibili, come iktsuarpok, che nella lingua inuktitut indica la sensazione che proviamo quando guardiamo fuori dalla finestra aspettando che arrivi qualcuno. Oppure tartle, una parola scozzese che descrive l’esitazione di quando dobbiamo presentare una persona ma abbiamo dimenticato il suo nome. O ancora mokita, una parola della lingua kivila della Papua Nuova Guinea, che indica una verità che tutti conoscono ma di cui nessuno vuole parlare. Questi termini descrivono situazioni molto specifiche e le relative emozioni in un modo che permette a due persone di comunicarle facilmente, anche se i due interlocutori hanno punti di vista molto diversi tra loro. Anche se usiamo diverse sfumature di colori, dipingiamo tutti con la stessa tavolozza. L’analogia dei colori è utile per chiarire le modalità con cui le parole definiscono tutta una gamma di emozioni. Così come abbiamo associato una serie di lunghezze d’onda ai nomi dei colori, le parole descrivono il punto in cui un sentimento comincia e un altro finisce, nonostante le inevitabili sovrapposizioni.
La stessa sequenza
Per molti anni i colori hanno avuto un ruolo importante nello studio della linguistica, a partire dal saggio pubblicato nel 1969 da Brent Berlin e Paul Kay. Analizzando il modo in cui 98 lingue descrivono i colori fondamentali, i due autori dichiararono di aver individuato una serie di regole universali per i nomi dei colori. Le lingue, scrivevano Berlin e Kay, si differenziano per il numero di colori che riconoscono, ma tutte distinguono tra il bianco e il nero. E, se aggiungono altri colori al vocabolario, la sequenza è più o meno la stessa: prima il rosso, poi il giallo e il verde, quindi il blu e così via. Anche se in seguito il loro lavoro ha ricevuto critiche e revisioni sostanziali, è stato il primo a cercare di stabilire se diverse culture dividono il mondo in categorie alla stessa maniera. Se il discorso vale per i colori, ipotizzavano Berlin e Kay, forse può valere anche per esperienze più complesse, come le emozioni. Se tutti tendiamo a suddividere il mondo nello stesso modo, allora dovremmo essere in grado di capirci anche se parliamo lingue diverse.
I problemi, però, potrebbero sorgere se cerchiamo di prendere delle parole da culture che hanno una concezione del mondo molto diversa dalla nostra. “L’esempio che faccio sempre è la distinzione tra mente e corpo. Gli occidentali non riescono a pensare alla mente e al corpo come a un’unica entità perché hanno due parole diverse per indicarli”, spiega Tannen. “Il semplice fatto di usare due termini rende la mente e il corpo due cose diverse per la nostra coscienza. Cerchiamo di abbinarle, e ci riusciamo, ma non lo facciamo in modo efficace, come se avessimo una sola parola che significa contemporaneamente mente e corpo”. Le associazioni evocate da una parola sono sostanzialmente in conflitto con quelle evocate dall’altra, spiega Tannen, e il tentativo di metterle insieme si scontra con la nostra visione complessiva del mondo. La soluzione a questo dilemma richiede uno sforzo ancora più radicale del cercare di conciliare concetti opposti. Per fondere mente e corpo, sostiene Jef ConnorLinton, un altro docente di linguistica alla George town university, dovremmo adottare un sistema di classificazione completamente nuovo. Secondo Connor-Linton, “il problema non è che stiamo cercando di prendere due cose diverse e di fonderle in un’unica parola. Ma è il fatto che una parola, o una serie di parole in un’altra lingua, ha definito tutto il suo campo semantico, in un modo diverso da come lo facciamo noi”.

Il vocabolario che ci manca
Banyengo Bambara (Mali) Politici senza scrupoli che, per impedire a un avversario di raggiungere il successo, fanno di tutto per ostacolarlo, anche a costo di rimetterci.
Curglaf Scozzese La sensazione intensa che si prova dopo essersi tuffati nell’acqua gelida.
 Elres Tuareg (Africa nordoccidentale) Nascondersi dietro qualcosa di molto grande o di molto piccolo, tra la folla o dietro un ciuffo d’erba, in un buco, in una vallata o tra le foglie di un albero. Gambiarra Portoghese (Brasile) Stratagemma per cambiare il destino, trasformare le proprie debolezze in forza e affrontare qualsiasi avversità.
Gigil Tagalog (Filippine) L’impulso irresistibile di dare un pizzicotto o di stringere qualcuno perché gli si vuole molto bene.
Inemuri Giapponese La capacità di addormentarsi per breve tempo in un luogo pubblico, per esempio al ristorante o in autobus.
Langitjgun Wagiman (Australia) Uomo che cammina nella notte.
Leiliviskaja Estone La persona che crea il vapore nella sauna buttando l’acqua sulle pietre calde. Nunchi Coreano Esprimere i propri desideri, idee e pensieri in silenzio, attraverso segnali subliminali. Puangi Maori (Isole Cook) La sensazione di avere le farfalle nello stomaco, come quando ci si trova su un aereo che attraversa un vuoto d’aria. Qing Cinese Il colore delle montagne viste da lontano, tra il verde e il blu.
Teguk Malese Bere dalla bottiglia a grandi sorsate.
Zapoi Russo Lo stato di ebbrezza nella sua forma più estrema, un’ubriacatura che può durare giorni o settimane. Zhaghzhagh Persiano Stringere i denti per il freddo o la rabbia.
Parole tratte dal libro Les mots qui nous manquent di Yolande Zauberman e Paulina Mikol Spiechowicz (Calmann-Lévy 2016).