sabato 29 aprile 2017

La Repubblica 29.04.2017
Compie novant'anni l'opera che ha rivoluzionato il pensiero e la cultura del Novecento.
Il lapsus diHeidegger
Così il filosofo che cercava l'essere ritrovò soltanto il tempo
di Massimo Recalcati


Le polemiche sull'adesione al nazionalsocialismo e sul suo antisemitismo rinfocolate con la pubblicazione dei "Quaderni neri" hanno oscurato il potente contributo che Martin Heidegger ha dato alla cultura e al pensiero occidentale. In particolare è stata sommersa dalla polemica storico-politica un'opera grandiosa come "Essere e tempo" la cui prima edizione risale all'aprile del 1927, novant'anni fa. Poche sono le opere che cambiano il nostro rapporto col mondo. "Essere e tempo" è stata per molti suoi lettori una di queste. Il Cogito, la Ragione, lo Spirito, l'Idea, l'Essenza lasciano traumaticamente il posto alla scoperta del territorio accidentato dell'esistenza. Non si dovrebbe trascurare l'effetto spaesante di questa scoperta. Finalmente in un'opera di filosofia dal respiro ampio — all'altezza della "Metafisica" di Aristotele o della "Fenomenologia dello spirito" di Hegel —, non troviamo più al centro la dimensione ineffabile dell'Essenza, ma l'evento singolare dell'esistenza e lo "spessore del mondo", come direbbe Merleau- Ponty. È la tesi di Essere e tempo: l'esistenza non dipende da un'essenza data a priori, ma si determina nel suo progetto, nel suo essere gettata e aperta all'orizzonte del mondo. È un vero trauma che scuote una filosofia insterilita nel dibattito gnoseologico — divisa tra materialismo e idealismo —, conducendola di fronte all'enigma dell'angoscia e della morte. In questo, Essere e tempo rinvigorisce il passo cristiano di Kierkegaard. Si tratta di un trauma che ha generato effetti significativi non solo nella filosofia, ma nella letteratura, nella teologia, nella psichiatria, nella psicoanalisi, insomma in tutta la cultura del Novecento. Ne troviamo tracce in Sartre, Levinas, Bultmann, Tapies, Fautrier, Binswanger, Lacan, Derrida per citarne solo alcuni. Il cammino di Heidegger in quest'opera è stato paragonato al viaggio di Cristoforo Colombo: partito verso il continente ontologico della domanda sul senso dell'essere — il problema dell'essere consiste nel fatto che sebbene l'essere sia la condizione di possibilità di ogni ente, l'essere stesso non è mai identificabile, non è mai reperibile, in nessun ente particolare — , il filosofo raggiunge "involontariamente" le sponde dell'esistenza. Il carattere incompiuto di Essere e tempo sarebbe dipeso da questo sbilanciamento inatteso verso il piano dell'Esserci laddove il compito che Heidegger si prefiggeva era di impostare la domanda sul senso dell'essere e sulla differenza ontologica che distingue l'essere dall'ente in quanto presenza. Essere e tempo sarebbe dunque uno straordinario lapsus di Heidegger? Non è forse questa una convinzione presente in Heidegger stesso quando, rileggendo il suo percorso teoretico, rico- nosce il fallimento di Essere e tempo avvertendo la necessità di distinguere il suo pensiero da quei filosofi — primo tra tutti Sartre — che si erano indebitamente, ovvero "umanisticamente", appropriati delle sue tesi? Nella celebre Lettera sull'umanismo (1946) Heidegger fa i conti con questi lettori eretici che hanno travisato la centralità della sua domanda sul senso dell'essere riportandola abusivamente a quella sull'esistenza umana. In questo snodo si gioca una partita decisiva. L'evocazione dell'essere come "suolo", "piano", "orizzonte" che istituisce e subordina quello dell'esistenza non rischia di riabilitare un dispotismo ontologico che assorbe l'evento singolare dell'esistenza in una nuova forma di alienazione regressiva? È questa l'obiezione di Adorno ad Heidegger in Dialettica negativa: nell'ontologia heideggeriana l'essere s'impone sull'uomo come un nuovo nome dell'assoluto metafisico dal quale ogni soggettività dipende. È indubbio che Heidegger abbia voluto cancellare il suo lapsus per ribadire che anche in Essere e tempo al centro non c'era l'etica ma l'ontologia. Nondimeno, Essere e tempo resta una grande opera etica. Non è un caso che da essa germinino le tesi della psichiatria fenomenologica di Binswanger riprese, attraverso la mediazione di Sartre, da Basaglia e, soprattutto, quelle dell'esistenzialismo filosofico. I temi dell'opposizione kierkegaardiana e nietzschiana tra vita autentica e vita inautentica, la centralità dell'esperienza affettiva dell'angoscia, l'essere per la morte, la decisione anticipatrice, la condizione di ritardo della vita umana rispetto alle sue origini delle quali non può mai "insignorirsi", la sua fondamentale apertura verso il futuro, trovano una ripresa fedele in L'essere il nulla di Sartre. Opera in cui il problema dell'essere dilegua di fronte a quello umanissimo dell'esistenza. È lo stesso passo — con esisti diversissimi — che caratterizza un altro tra i grandi lettori di Essere e tempo, Levinas, il quale subordina l'essere al volto nudo del prossimo, l'ontologia al primato dell'etica. In gioco è come intendere la dimensione della trascendenza. Mentre la svolta ontologica dell'ultimo Heidegger sgancia la trascendenza dall'esistenza, in Essere e tempo la trascendenza resta il modo d'essere dell'esistenza. Non è la trascendenza dell'Essere che sfugge alla "presa" tecnica dell'uomo, ma è l'esistenza umana ad essere animata dalla trascendenza, dalla sua apertura sull'avvenire, dalla possibilità di scegliere ogni volta, scrive Heidegger, la propria eredità. L'ontologia arretra di fronte all'urgenza etica.
Il Fatto Quotidiano 25.04.2017
BILANCI: Mezzo insuccesso per la contro-fiera "Tempo di Libri"
Date sbagliate e troppa fretta: le ragioni del flop di Milano
La disfida dei Saloni La prima edizione della kermesse meneghina è stata organizzata tra due ponti (Pasqua e 25 aprile).
Sarebbe stato più saggio farla debuttare nel 2018
di Silvia Truzzi


Bene non è andata. La prima edizione di Tempo di libri è stata un flop: 60.796 presenze in Fiera, cui se ne aggiungono 12.133 nelle cento sedi del Fuorisalone. Se il buongiorno si vede dal mattino, era tutto chiaro mercoledì, al debutto della prima edizione di questo contro-salone del libro meneghino fortemente voluto dall'Associazione editori, all'indomani degli scandali di Torino (dove sono ancora in corso inchieste giudiziarie sulle passate gestioni). All'inaugurazione ci saranno state sì e no duemila persone, tanto che nella prima giornata più di un evento è stato cancellato per assenza di pubblico e giovedì è stata comunicata l'introduzione di un biglietto pomeridiano ridotto a 5 euro. L'anno scorso il Salone del Lingotto edizione numero 29 chiuse con 127 mila biglietti staccati. TRA "PRESENZE" e "biglietti" c'è una certa differenza: i giornalisti, per esempio, sono entrati a Rho con un unico e-ticket per i cinque giorni di manifestazione; gli operatori delle case editrici con il pass a loro riservato. In questo manico "biglietti" - "presenze" conta - te ai tornelli ha ciurlato a lungo anche la fiera di Torino: basta passare in rassegna i numeri forniti nelle varie edizioni, drasticamente ridotti quando si è deciso di dare il dato dei biglietti. Gli organizzatori di Milano domenica hanno dichiarato che il numero delle presenze è stato relativamente deludente perché se ne aspettavano 70-80 mila (cifra su cui è stato fatto il budget). Andando a rileggere il Sole 24 Ore del 5 ottobre 2016 però, l'allora amministratore delegato di Fiera Milano, Corrado Peraboni (costretto a dimettersi dopo la bufera dell'inchiesta della procura di Milano sulle infiltrazioni mafiose negli appalti di Fiera ed Expo) sosteneva di puntare ad attrarre per la prima edizione "circa 110-120 mila visitatori". Quanto ai costi, il budget preventivato era di "2-3 milioni di euro" (non sono ancora disponibili dati consuntivi). Secondo il Corriere della Sera, Feltrinelli ha venduto la metà rispetto all'ultima edizione di Torino; Laterza e Marsilio un po' meno della metà. Nello stand di Gems, però, il numero di copievendute all'ora nel weekend è stato superiore a Milano rispetto a Torino. Risultati in linea con il Lingotto invece allo stand del Libraccio. Detto ciò: di chi è colpa? Non si può attribuirla alla disattenzione dei media: su Tempo di libri sono usciti oltre tremila fra articoli cartacei e online, servizi radio e tv; gli accreditati nella elegantissima e confortevole sala stampa (Torino se la sogna) sono stati 2.900. E certo non si può dire che la fiera di Milano non sia bella e meglio organizzata, dal punto di vista dei servizi (anche igienici!) di Torino. In realtà - tutti hanno dovuto ammetterlo - la data prescelta è stata il vero guaio: cinque giorni tra il ponte di Pasqua e quello del 25 aprile, in una città che tradizionalmente si svuota anche nei semplici weekend. Assenti, a causa di ritardi nell'organizzazione, anche le scuole che a Torino forniscono una larga fetta di visitatori. Il sindaco Sala guarda già all'edizione 2018: "Sarà certamente in primavera ma voglio essere certo che un evento così importante caschi nei giorni giusti". La nuova fiera (organizzata troppo in fretta, più saggio farla debuttare nel 2018) avrebbe dovuto tenersi a maggio, mese perfetto sia per le scuole che per le case editrici (molti libri escono alla vigilia dell'estate). Ma a maggio c'è Torino (sarebbe stato uno sgarbo grave), così si è scelto l'infausto slot tra i due ponti. DUE PAROLE sulla formula. Si è detto che Milano ha copiato Torino, ma le fiere del libro sono ovunque più o meno fatte così: stand degli editori e presentazioni dei libri di contorno. In questi giorni tutti, a partire dal ministro Franceschini, hanno dichiarato che dopo la chiusura del Salone di Torino si vedrà. È presumibile che al Lingotto (che può contare su un pubblico affezionato) le cose non andranno male, ma è fuori discussione che Milano decida di arrendersi dopo un tentativo: è un progetto di medio-lungo periodo. Dunque, salvo sorprese, ci ritroveremo almeno per un po' con due Saloni del libro.

I numeri
60.000 Le presenze nei padiglioni 1, 2 e 4 della Fiera di Rho dal 19 al 23 aprile 2017
12.000 Le persone che hanno partecipato agli eventi organizzati nelle 100 sedi del Fuori Fiera tra Milano, Rho, Sesto San Giovanni e Monza 500 i partecipanti a MIRC - Milan International Rights Center: il padiglione dove si "scambiavano" diritti internazionali sulle opere
La Repubblica 25.04.2017
Milano, prove tecniche di una fiera ancora senz'anima
Il "numero zero" di Tempo di Libri ha sancito che "si può fare"
di Simonetta Fiori


Oggi a Torino festeggiano per lo scampato pericolo, mentre a Milano sono costretti a fare i conti con un risultato modesto: la metà del Lingotto, forse anche meno, sia nelle presenze a Rho (60.796 contro le 150mila preventivate al principio e ridimensionate a 100mila in corso d'opera), sia nelle vendite dei libri. Un esito moscio, soprattutto per una fiera che rivendicava orgogliosa il primato del mercato contro i riti stanchi della burocrazia, la prima fiera solo di publisher nella capitale italiana dell'editoria. Questo sul piano dei numeri. Gli artefici di Tempo di libri forse l'avevano pure previsto: organizzare la fiera nella settimana dei ponti tra Pasqua e 25 aprile, a ridosso del Salone del mobile appena finito, comportava non pochi rischi. Però hanno preferito correrli, mettendo in opera le prove tecniche di un salone milanese contrapposto a Torino. Un collaudo logistico, una verifica di spazi e tempi, un numero zero, come l'ha definito qualcuno. Stabilito che si può fare, non è da escludere che l'anno prossimo Tempo di libri possa essere realizzata perfino in contemporanea con Torino: non sappiamo ancora se in collaborazione oppure no. Ma quel che è mancata alla fiera di Rho è soprattutto un'anima, il profilo riconoscibile di una comunità civile, quell'identità che traspare in modo nitido al Lingotto, nel cuore della fabbrica novecentesca, specchio di una città-laboratorio con una forte tradizione politico-culturale. L'anima però non è qualcosa che si possa improvvisare, soprattutto se prevalgono tra gli stessi editori corporativismo imprenditoriale e pulsioni campanilistiche. In questi mesi non ha aiutato l'atteggiamento rigido di un'associazione di categoria come l'Aie nei confronti del ministro della Cultura che ha tentato pazientemente di ricomporre lo strappo da Torino. Né ha pagato una visione milanocentrica, che ha privilegiato gli interessi dell'editoria lombarda, usando la retorica dei "cinque milioni di potenziali lettori" e del "grande complesso fieristico" (che in molti casi non ha saputo scegliere i giusti spazi per gli incontri e i dibattiti confinandoli in sale troppo piccole o troppo grandi). E ora che succede? Tutto si può aggiustare, lucidare, smerigliare, dicono gli organizzatori: abbiamo fatto tutto in 225 giorni. Dietro questa apparente calma fervono i ripensamenti. E forse anche i regolamenti di conti. Anche dentro la galassia Mondadori è possibile che si confrontino due visioni differenti: sulla stessa identità della fiera e sul suo rapporto con la città. Intanto quel che già si vede è l'effetto benefico su Torino: ferita nel suo orgoglio piemontese, la vecchia signora del libro lavora da mesi all'edizione che si aprirà il 18 maggio. E ancora più capillare s'annuncia il lavoro con le scuole, l'apertura alla comunità della lettura nelle sue diverse articolazioni: proprio ciò che è mancato alla Fiera di Rho. E a proposito del Lingotto: fa un po' sorridere che il presidente degli editori Motta voglia paragonare la mesta partecipazione a Rho con la prima edizione del Salone torinese, nel 1988 (nell'ultima edizione sono stati staccati 126mila biglietti). «Miracolo a Milano», evocava ancora ieri un comunicato ufficiale dell'Aie dai toni inopinatamente trionfalistici. Sì, certo: per ora il miracolo d'avere dato la sveglia al Lingotto
Le Monde Diplomatique
il manifesto - Marzo 2017
Gli intellettuali e il suffragio universale
In Cina, la democrazia… quando il popolo sarà maturo
A Pechino, la stampa ufficiale ha ironizzato sulle elezioni statunitensi e sulle contestazioni negli Stati uniti dopo la vittoria di Donald Trump. Un’occasione per mettere in ridicolo il sistema politico occidentale. Numerosi intellettuali cinesi discutono sulle vie democratiche da immaginare per il loro paese, ma tutti ritengono che il popolo non sia pronto. Una riflessione che ricorda quella di certi politologi francesi
di Jean-Luis Rocca*


Da una parte i «democratici», difensori di un governo dal popolo e per il popolo; dall’altra gli «autoritari», fautori della dittatura del partito unico: ecco il paesaggio politico cinese, secondo la maggior parte dei media occidentali. In realtà, i due campi non sono così lontani. Entrambi sembrano voler determinare a quali condizioni il governo da parte del popolo possa permettere la promozione dell’interesse generale nella stabilità e nella concordia. Anche per i liberali e i dissidenti cinesi, la democrazia diretta non sembra in grado di farlo. Il popolo - essenzialmente i contadini e gli operai-migranti (1) - è preda delle proprie passioni, dei propri istinti, vulnerabile a ogni manipolazione. Una «vera» democrazia ha dunque bisogno di élite capaci di orientare la decisione popolare contando sulla frangia «cittadina» della popolazione, cioè la classe media urbana.
Questo modo di concepire la democrazia non è né nuovo né tipico della sola Cina. Non era solo il XIX secolo europeo a concepire le elezioni unicamente in un sistema adatto a guidare il popolo: ancor oggi, molti intellettuali occidentali sostengono una democrazia inquadrata. Nella Cina di oggi, la questione della democratizzazione e della rappresentazione domina il dibattito politico. Del tutto logicamente, i fautori di uno Stato forte e di un sistema stabile si oppongono a riforme che darebbero troppo spazio a un’espressione diretta della popolazione. Che prendano a riferimento l’esperienza rivoluzionaria cinese o propongano il ritorno a un certo confucianesimo (2), questi «conservatori» ritengono che l’interesse del popolo possa essere difeso solo da una élite di governanti carismatici e sordi rispetto ai bassi interessi materiali.
È forse più sorprendente il fatto che anche quelli che passano per essere i più liberali sono molto prudenti in materia di ampliamento della sovranità popolare. Come fa notare la sinologa Émilie Frenkiel (3), sono per il diritto di voto ma ritengono che, prima di goderne, gli individui debbano diventare cittadini pienamente coscienti delle proprie responsabilità, altrimenti rischiano di scegliere cattivi dirigenti. In questo senso lo storico Xu Jilin insiste sulla necessaria gradualità delle riforme, mentre, per il professore di filosofia Ren Jintao, «l’ideale sarebbe che il Partito [Partito comunista cinese, Pcc], riconosca che deve per forza riformarsi, che non ci sono alternative» (4).
Un elitismo di vecchia data.
Spiega Deng Zhenglai, professore all’università Fudan a Shangai: «La Cina è immensa, i suoi abitanti nu-merosissimi. Non basta una politica a cambiare le cose. La riforma economica non è stata applicata uniforme-mente su tutto il territorio nello stesso periodo. È una forma di saggezza che hanno i cinesi. (…) Occorre essere pazienti. (…) Questo consente di tornare indietro, se necessario.» Dal canto suo, il politologo Li Qiang sostiene che prima di dare il diritto di voto occorre costruire uno Stato moderno e un’economia di mercato, accordare libertà individuali e un po’ di spazio alla società civile - una «prima tappa» che precede riforme più ambiziose. In ogni modo, queste ultime non corrisponderanno alla «democrazia moderna oc-cidentale», perché «il peso delle nostre tradizioni non ce lo permette».
Uno dei liberali cinesi più noti all’estero, Yu Keping, identifica la democrazia nella «buona governance», cioè nel regno di onesti tecnocrati (5). Tagliente il punto di vista del celebre blogger Han Han: «Le persone educate [wenhuaren] identificano la democrazia con la libertà. Ma per la maggior parte dei cinesi, la libertà non ha niente a che vedere con la stampa, la letteratura o l’arte, le elezioni, l’opinione pubblica e la politica (…). Per chi non ha relazioni [sottinteso: per chi non conosce persone potenti e non ha capitale sociale], essere libero è poter gridare, attraversare la strada o sputare per terra a piacimento. Per chi ne ha un po’, libertà consiste nell’infrangere le leggi, approfittare delle falle nel diritto e nelle regole per fare tutto il male che si vuole (6).» Per dirla in altro modo: solo le persone educate possono comprendere caratteristiche e implicazioni della democrazia.
Forse questi giudizi tanto negativi dipendono solo dalla potente propaganda del partito, o da una tradizione autoritaria ancora presente. Ma anche Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, firmatario della Carta 08 (7) e in carcere dal 2008 per i suoi scritti, non dice niente di diverso: «Di fronte alla me-diocrità rappresentata dal predominio dell’interesse, solo una minoranza elitaria può nobilmente mettere in primo piano la libertà (…). Dopo la scomparsa degli aristocratici dei tempi antichi, la qualità di una società moderna si misura con la capacità da parte di una minoranza di controbilanciare la mag-gioranza (…). Questa élite minoritaria si preoccupa della sorte dei deboli e critica il potere politico; è capace anche di resistere ai gusti delle masse, nel senso che conserva autonomia e spirito critico nei confronti sia del potere che delle masse; fa da supervisore al go-verno con la critica, e guida le masse.» Inoltre: «Quello che le masse vogliono, è la felicità materiale e mediocre» (8).
L’elitismo degli intellettuali più democratici si fonda forse sull’amara e disillusa constatazione secondo la quale, dopo trent’anni di crescita spettacolare dei livelli di vita, i loro concittadini pensano solo a consumare? Ma anche prima del «miracolo cinese», i difensori della democrazia non amavano troppo la vicinanza con il popolo, come risulta evidente rileggendo le analisi del movimento di piazza Tienanmen, nel 1989. Negli Archivi di Tienanmen, Zhang Liang fa notare che le ragioni principali del fallimento del movimento furono «la debolezza dei riformisti ai vertici del Pcc, i disaccordi all’interno del movimento studentesco, la separazione fra gli intellettuali da una parte e gli operai e i contadini dall’altra [sottolineato dall’autore], oltre all’assenza di un’organizzazione rigorosa e di un programma dettagliato (9)».
Questa cesura si spiegava con la preoccupazione degli studenti di preservare la purezza della loro iniziativa. La loro critica al regime doveva essere politica e morale, non motivata da interessi economici. Cercavano di presentarsi come garanti del bene della nazione, sforzandosi di mantenere l’ordine e di preservare la produzione economica. Per preservare «purezza» e serenità, i leader studenteschi e i digiunatori erano protetti da un servizio d’ordine destinato a tenere a bada gli intrusi, la gente del popolo che veniva a presentare il proprio punto di vista. Per incontrarli occorreva essere raccomandabili (10).
Si può anche andare più indietro nel tempo ed esaminare le proposte dei primi liberali cinesi. Liang Qichao (1873-1929), considerato come colui che introdusse la democrazia in Cina e che ne fu il principale pensatore, non aveva subito l’influenza delle forze del passato e del totalitarismo. Eppure, come riecheggiando le proposte di Liu Xiaobo, ecco quanto scriveva al ritorno dai suoi viaggi negli Stati uniti: «Nessuna comunità è tanto disordinata quanto quella cinese di San Francisco. Perché? La risposta è la libertà. La natura dei cinesi di Cina non è superiore a quella dei cinesi di San Francisco, ma almeno, in patria, sono governati da funzionari e controllati da padri e fratelli maggiori. Allo stato attuale, la libertà, il costituzionalismo e il repubblicanesimo significano il governo della maggioranza (…). Se dovessimo adottare oggi in Cina un sistema democratico, sarebbe semplicemente il suicidio della nazione. Insomma, il popolo cinese, per ora, non può che essere governato in modo autocratico (11)…».
Fine del dibattito. In ogni periodo storico, la maggior parte degli intellettuali cinesi non è riuscita a concepire la democrazia come l’esercizio sovrano e diretto del potere da parte del popolo ma, al massimo, come un insieme di libertà civili concesse per consentire a tutti l’espressione dei rispettivi punti di vista e la difesa degli interessi, e anche l’indicazione di preferenze, ma nel quadro di un’oligarchia di governanti e sotto il suo controllo.
Questa concezione appare sconfortante agli occhi dei militanti occidentali della «causa democratica», ma piace ad altri osservatori, per i quali una democrazia alla cinese potrebbe costituire una soluzione di ricambio rispetto al modello occidentale. Si tratta anche di osservatori non sospetti di essere influenzati dalla tradizione cinese confuciana o da quella del Pcc. Emblematico di questa corrente di pensiero è il libro di Michel Aglietta e Guo Bai La voie chinoise. Gli autori assicurano che per il cambiamento politico esiste una via diversa dalla democrazia rappresentativa. E’ quella imperniata su «istituzioni burocratiche, nelle quali responsabili di alto livello, formati al ruolo dell’etica in politica, controllano strettamente i responsabili di rango inferiore». Al cuore di questo sistema, «una burocrazia controllata secondo i principi etici del confucianesimo». Di fronte agli effetti negativi del capitali-smo e della globalizzazione, «è la superiorità intellettuale e morale a determinare la vera nobiltà, e va ricompensata con status sociale, funzioni politiche e ricchezza materiale adeguati» (12).
I due autori concordano con i liberali cinesi circa la necessità di affidare il potere a una élite selezionata attraverso un sistema meritocratico definito dall’élite stessa. A differenza dei liberali cinesi, però, essi pensano che la burocrazia cinese attuale rappresenti l’élite di cui c’è bisogno perché è efficiente e giusta.
Ma in fondo, chi è questo popolo del quale si tratta di soddisfare i bisogni impedendogli però di arrivare al potere? Dal XIX secolo, è l’insieme delle persone poco fortunate o poco educate: contadini, piccoli commercianti e, in seguito, operai (fino alla fine degli anni 1990) od operai-migranti (attualmente). I membri di queste classi sociali sono ritenuti incapaci di esercitare un ruolo di cittadini per mancanza di «qualità» (suzhi), termine che si riferisce al livello di istruzione, ma anche al buon gusto, alle buone maniere, al livello di cortesia, igiene, civiltà, elevazione di spirito. Ancor oggi, la distinzione fra l’«urbano» (educato) e il «rurale» (incolto) è la principale linea di frattura all’interno della società cinese. L’essenziale dell’ex classe operaia ha raggiunto le fila della classe media, dunque degli educati; al fondo della scala rimangono i contadini e gli operai-migranti. Il problema è che sono loro la grande maggioranza della popolazione, e dunque dei potenziali elettori. Da qui la reticenza nell’affidare loro le chiavi del paese.
I democratici cinesi non sono certo i soli a diffidare del popolo. Non è forse tipico di tutti i liberali voler limitare l’esercizio della democrazia? Pensiamo ai dibattiti politici in Francia nella seconda parte del XIX secolo, che presentano molti punti in comune con gli interrogativi cinesi di adesso. L’avvento del Secondo impero fu uno choc per i repubblicani. «I contadini si sono allontanati dagli ex notabili come dai repubblicani al potere, per dare il proprio appoggio (…) a Luigi Napoleone Bonaparte. E la loro fedeltà (…) è di lunga data: gli elettori rurali sono da oltre venti anni i migliori sostenitori dell’Impero», scrive la storica Chloé Gaboriaux (13). La maggior parte dei repubblicani ritiene che il popolo delle campagne (il 70% dei francesi, all’epoca) abbia tradito la democrazia e «considera la maggior parte della popolazione inadatta alla cittadinanza e alla Repubblica». Il contadino è dunque «presentato come l’anti-modello di cittadinanza», non per natura, ma a causa delle sue condizioni di vita, che lo rendono incapace di comprendere le questioni politiche e di «integrarsi nella nazione». E’ la sua mancanza di educazione e di elevazione verso le questioni universali a renderlo politicamente indifferente. «In un capovolgimento del senso destinato a ripetersi nella storia della Francia repubblicana, la difficoltà della Repubblica di integrare una parte dei suoi cittadini è dipinta come la difficoltà da parte di questi ultimi a integrarsi.»
Paura delle classi popolari in Europa.
Nella Cina di oggi come nella Francia di allora, il problema sono i contadini. Ma Gaboriaux fa notare che «Il contadino bonapartista era più spesso istruito che ignorante.» Certo, quei contadini votavano per i conservatori e rifiutavano gli straripamenti rivoluzionari della Comune di Parigi. Ma avevano compreso velocemente come trarre vantaggio dalle pratiche elettorali.
In Europa, i contadini sono stati sostituiti dalle «classi popolari» nella rappresentazione del popolo. Ma continuano a levarsi voci per difendere la necessità di fondare la volontà generale su altro rispetto al principio della maggioranza o alla pratica della democrazia diretta. Alcuni uomini politici si interrogano sulla capacità dei cittadini di comprendere le domande alle quali devono rispondere in occasione dei referendum (14). E auspicano soluzioni «più razionali» fondate sulle analisi di tecnocrati ed esperti. Ma non si dice nulla sulle modalità di selezione di questi giuristi, esperti, governanti. Implicitamente, saranno le «élite» a legittimarli.
Ancora una volta, la Cina si rivela ricca di insegnamenti. Confrontati all’esigenza di contribuire alla modernizzazione del paese, gli intellettuali tornano agli interrogativi ai quali si suppone che le società «moderne» -biano risposto alcuni decenni fa. Cercano di adattare una forma mitizzata di democrazia a una serie di specificità cinesi altrettanto mitizzate. Questo permette di riscoprire come, dal XIX seco-lo fino ai nostri giorni, i grandi principi della democrazia siano stati utilizzati per dare origine a dispositivi e ideologie che paradossalmente limitano l’esercizio democratico.
Alla fine, tutti questi dibattiti si rivelano superficiali e ripetitivi, e la grande maggioranza dei protagonisti si accorda sull’essenziale; le uniche divergenze riguardano le tecniche e le norme da mettere in essere affinché la società sia ben governata. Tutti ritengono che il governo debba favorire l’interesse generale, cioè assicurare il benessere del popolo, ma che solo quelli che sanno, e già governano, ne conoscono le ricette. Da qui la proposta di instaurare una democrazia guidata da una élite meritocratica e dotata - non si sa come - di una capacità superiore e di un’etica adatte ad assicurare l’onestà della sua funzione.
Si ammette dunque il principio di una dissimmetria fra il popolo e l’élite, fra governati e governanti, istruiti e non istruiti. L’istituzione democratica deve sancire questa realtà. Certo, procedure democratiche o meritocratiche possono permettere un rinnovamento delle élite. Si creano concorsi, «commissioni di sorveglianza» di burocrati; si dà più potere ai media, alla legge, alle organizzazioni non governative (Ong); si introducono metodi di democrazia partecipativa. Ma queste innovazioni possono coinvolgere solo quelli che possiedono le qualità definite dai dominanti: avere cultura, essere «distinti», avere competenze tecniche, godere di ricono-scimento sociale e di relazioni. Esistono già relazioni di potere e di selezione nei media, nei tribunali, nelle Ong e nell’amministrazione che definiscono arbitrariamente i criteri di riuscita.
Una società senza rappresentanza democratica come la Cina non sfugge a questo consenso. Tutti - neoconfuciani, liberali, apparatchik, dissidenti - sono d’accordo sulla necessità di un governo per il popolo da parte di una élite. Tutti auspicano l’emergere di una classe media egemonica il cui livello di istruzione, reddito, rispettabilità e serietà garantisca il funzionamento ottimale di una democrazia rappresentativa. La Cina avrebbe allora a sua disposizione una massa sufficiente di individui ben pagati e istruiti, proprietari e consumatori contenti, dunque cittadini pienamente coscienti della realtà. Pronti a difendere i propri interessi - che si suppone coincidano con l’interesse generale -, la legge e la modernità, ma anche la stabilità, di certo sceglierebbero dirigenti illuminati. I conflitti fra i vari pensatori riguardano dunque solo il tipo di élite di cui il paese ha bisogno. Ecco la prova che, anche nel campo politico, la Cina fa assolutamente parte del mondo moderno.
* JEAN-LOUIS ROCCA
Professore a Sciences Po, ricercatore al Centre de recherches internationales (Ceri), autore di The Making of the Chinese Middle Class. Small Comfort and Great Expectations, Palgrave Macmillan, New York, 2017

1) Sono i cinesi originari della campagna che la-vorano in città, chiamati in Cina mingong. (2) Dalla fine degli anni 1990, alcuni politologi intendono articolare l’imperativo della democratizzazione della Cina con i principi confuciani, in particolare la necessaria autorità morale dei go-vernanti. Cfr. Daniel A. Bell, China’s New Confucianism: Politics and Everyday Life in a Changing Society, Princeton University Press, 2010. (3) Emilie Frenkiel, Parler politique en Chine. Les intellectuels chinois pour ou contre la démocratie, Presses universitaires de France, Parigi, 2014. (4) Cfr. Emilie Frenkiel, La Démocratie conditionnelle. Le débat contemporain sur la réforme politique dans les universités chinoises, tesi sostenuta il 25 giugno 2012 alla Ecole des hautes études en sciences sociales (Scuola di alti studi in scienze sociali), Parigi. Salvo diversa indicazione, le citazio-ni che seguono sono tratte da questa tesi. (5) Y u Keping, Democracy Is a Good Thing: Essays on Politics, Society, and Culture in Contemporary China, Brookings Institute Press, Washington, Dc, 2009. (6) Han Han, Lun geming («Sulla rivoluzione»), 23 dicembre 2011, http://blog.sina.com.cn (in cinese). (7) Questo manifesto pubblicato nel 2008 chiede l’adozione di una costituzione democratica. (8) Liu Xiaobo, La Philosophie du porc et autres essais, Gallimard, coll. «Bleu de Chine», Parigi, 2011. (9) Z hang Liang, Les Archives de Tiananmen, Le Félin, Parigi, 2004. (10) Craig Calhoun, «Revolution and Repression in Tiananmen Square», S ociety , vol. 6, no 26, New York, settembre-ottobre 1989. (11) Citato in R. David Arkush e Leo O. Lee (a cura di), Land W ithout Ghosts: Chinese Impres-sions of America from the Mid-Nineteenth Centu-ry to the Present, University of California Press, O akland, 1989. (12) Michel Aglietta e Guo Bai, La V oie chinoise. Capitalisme et empire, O dile Jacob, coll. «Econo-mie», Parigi, 2012. (13) Chloé Gaboriaux, La R épublique en quête de citoyens. Les républicains français face au bonapartisme rural, Presses de sciences Po, Pa-rigi, 2010. (14) Cfr. per esempio Martin Schulz, deputato eu-ropeo del Partito socialdemocratico tedesco il 12 aprile 2016 sugli schermi di Lcl. Si legga Alain Garrigou, «Voter plus n’est pas voter mieux», Le Monde diplomatique, agosto 2016. (Traduzione di Marianna De Dominicis)
ANSA 25.04.2017
Vaccino contro malaria, un successo il debutto in Africa.
Lo sottolinea Gavi, the Vaccine Alliance


Il debutto sul campo in tre Paesi africani, Ghana, Malawi e Kenya, del vaccino contro la malaria "é un vero e proprio successo arrivato dopo 30 anni e rappresenta un passo importante per rendere il vaccino potenzialmente disponibile su scala globale". In occasione della Giornata mondiale contro la malaria, è quanto sottolinea Seth Berkley, Ceo di Gavi, the Vaccine Alliance che rappresenta una partnership di soggetti pubblici e privati con lo scopo di migliorare l'accesso all'immunizzazione per le popolazioni dei Paesi più poveri del mondo, fornendo assistenza sanitaria e contribuendo allo sviluppo di infrastrutture e governance. La malaria, ricorda Berkley "rappresenta un terribile problema per molti dei Paesi più poveri del mondo. I vaccini pilota sono cruciali per determinare l'impatto del vaccino sulla riduzione di questo flagello". Il vaccino sarà reso disponibile attraverso programmi d'immunizzazione di routine per i bambini piccoli che vivono nelle aree selezionate. Il programma prevede quattro dosi: la prima al quinto mese di età, le due dosi intermedie a intervalli mensili e, infine, la quarta somministrazione dovrà avvenire 15-18 mesi dopo la terza dose. La prima fase sarà completata nel 2020 e sarà seguita da una seconda fase la cui conclusione è prevista entro il 2022. I risultati saranno utilizzati per definire un piano su larga scala. Gavi, the Vaccine Alliance ha ideato e sostenuto la Struttura Finanziaria Internazionale per l'Immunizzazione (IFFIm) per accelerare il recepimento di fondi per l'Immunizzazione. Dal 2006 l'IFFIm ha raccolto oltre 3 miliardi di dollari che sono stati utilizzati per il raggiungimento dell'Obiettivo 4 del Millennio che è rappresentato dalla riduzione di oltre due terzi della mortalità infantile nel mondo.
ANSA 27.04.2017
Trovato Dna ominidi in caverne dove non c’erano le loro ossa.
Estratto materiale genetico nei loro sedimenti.


Per la prima volta è stato estratto il Dna degli uomini preistorici dalle caverne in cui finora non
erano state trovati i resti fossili delle loro ossa. Il materiale genetico è stato recuperato dai sedimenti di sette grotte con una tecnica che potrebbe aiutare a riscrivere la storia dei primi uomini e dei loro predecessori. La descrivono sulla rivista Science i ricercatori dell'Istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, guidati da Matthias Meyer. Anche se i siti preistorici con reperti e manufatti dell'uomo abbondano, sono invece scarsi i loro resti ossei. Un problema a cui sembrano aver trovato una soluzione i ricercatori tedeschi. Dai campioni di sedimento di sette siti archeologici hanno infatti recuperato dei minuscoli frammenti di Dna appartenuti a diversi mammiferi, tra cui l'uomo di Neanderthal e di Denisova in Russia. ''Abbiamo voluto verificare se il Dna degli ominidi poteva sopravvivere nei sedimenti dei siti archeologici noti per essere stati occupati dagli antenati dell'uomo'', commenta Meyer. Il lavoro ha coinvolto una vasta rete di ricercatori nei siti presenti in Belgio, Croazia, Francia, Russia e Spagna, che hanno raccolto campioni che coprono un periodo che va da 14.000 a 550.000 anni fa. Dopo di che hanno analizzato i frammenti di Dna mitocondriale (cioè il materiale genetico dei mitocondri che sono le centraline elettriche delle cellule), identificando quelli appartenenti a 12 diverse famiglie di mammiferi, tra cui alcune estinte come il mammut e il rinoceronte lanoso. Dei nove campioni con abbastanza Dna umano per fare analisi più complesse, otto sono risultati appartenere ai Neanderthal e uno al Denisova. ''Così possiamo rilevare la presenza degli ominidi lì dove finora non si era riusciti a farlo con altri metodi'', aggiunge Svante Paabo, coautore dello studio.
La Repubblica 28.04.2017
Politica e società
Pd, Mdp, Sinistra italiana e le tre corone per l'anniversario del fondatore Pci Orfini contestato Tutti da Gramsci ma divisi le sinistre in lite sulla tomba
Di Alessandra Longo.


Tre corone. Una del Pd, che giganteggia: torretta di gerbere rosse, rose, margherite bianche; una di Sinistra Italiana, solo garofani rossi; una, più arretrata, minimalista e raffinata, di Mdp Articolo1, declinazione di rose dal rosso al bianco, dal rosa al pervinca. Se c'è un'immagine plastica della sinistra divisa, è questa: le tre corone deposte al cimitero acattolico di Roma sulla tomba di Antonio Gramsci nell'ottantesimo anniversario della morte. Ognuno il suo messaggio: tutti gramsciani. Tra scrosci di pioggia e lampi di sole, si fa strada la delegazione del Pd. Ecco Lorenzo Guerini e Matteo Orfini, accompagnato da Beppe Vacca, reduce dal palco del Lingotto renziano, dove molto si è evocata "l'egemonia culturale", perciò caduto un po' in disgrazia agli occhi di certi "parenti" che sono qui, fazzoletti rossi al collo. Un ragazzo vede Orfini e quasi gli si lancia addosso: «Che ci fai qui? Sei forse comunista? Gramsci lascialo in pace, lascialo a chi ci crede». Non si litiga davanti ai morti, in un cimitero. Il presidente del partito: «Parliamone fuori di qui». Guerini si sfila, cose tra "compagni". Piccoli flash di una giornata ricca di omaggi. A cominciare dalla mostra Gramsci inaugurata alla Camera dei Deputati con con il capo dello Stato Mattarella, i presidenti Boldrini e Grasso. Per la prima volta si potranno vedere tutti insieme i 33 Quaderni originali scritti in carcere da uno dei padri del pensiero politico. Si può sfogliare tutto, anche in versione digitale, anche gli appunti che Gramsci prendeva dopo aver letto, tra le sbarre, i libri e le riviste che la Fondazione ha fatto uscire dalle mura di casa. Gramsci "patrimonio di tutti", Gramsci "la cui lezione morale è ancora viva" (Mattarella), Gramsci "nel cui ricordo ci si può riconoscere tutti" (Boldrini). E però, davanti a quella tomba, le corone parlano della sinistra divisa, una cosa di adesso, il Pd di Renzi, la sinistra di D'Alema e Bersani, il ruolo di Pisapia. Arriva, in cimitero, anche una delegazione del ricostituito Pci, guidata da Manuela Palermi. I comunisti hanno piantato la loro bandiera a terra: «Stiamo cercando di ricostruire quel grande partito…». Pellegrinaggio anche di singoli, rose rosse, gerani: «Noi divisi? È andata sempre così. Io personalmente ho vissuto otto scissioni», dice il compagno Mario. Una questione genetica. Orfini: «Prima si chiamavano Rifondazione e Comunisti italiani. Le "articolazioni" ci sono sempre state, cambiano solo i nomi. Invito quel ragazzo che mi ha contestato a leggersi Gramsci e il suo netto rifiuto del settarismo ». C'è la commemorazione alla Camera, dove si materializza Bersani, il convegno di Sinistra Italiana con Fassina, Fratoianni e Luciana Castellina. D'Alema, assente giustificato, è in Cile a parlare di socialismo «come necessaria utopia», Gianni Cuperlo a Torino, per le primarie di Orlando, e la corona a Gramsci la deposita nella casa di via Carlo Emanuele II. Il senatore del Pd Ugo Sposetti, molto attivo nell'organizzazione e allestimento della mostra alla Camera, veglia sulla giornata. Gramsci non è un brand di parte, è diventato un «classico», come spiega Silvio Pons, presidente della Fondazione, citando Italo Calvino: «Classico è ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno». Quelle tre corone sulla tomba di un Grande segnalano proprio questo: il rumore di fondo di una comunità lacerata. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Editoria: la crisi infinita dell'Unità
Ansa, 28 aprile 2017
Assemblea a L'Unità: "Domenica non saremo in edicola, non saremo ai gazebo dove il popolo del Partito Democratico sceglierà il nuovo segretario e non seguiremo lo spoglio dei risultati delle primarie".
Stipendio ridotto al 5% in aprile.
Ballo dei direttori: via Bucciantini, si attende la nomina del successore.
Annunciato dall'azienda il taglio di una ventina di redattori su 28.



Roma, 28 aprile 2017. - "Domenica l'Unità non sarà in edicola, non sarà ai gazebo dove il popolo del Partito Democratico sceglierà il nuovo segretario e non seguirà lo spoglio dei risultati delle primarie". Lo annuncia una nota dell'assemblea dei redattori del quotidiano, parlando di "ennesima gravissima provocazione" da parte dell'azienda. "Dopo aver convocato il comitato di redazione per la presentazione del piano editoriale del nuovo direttore Marco Bucciantini che si proponeva di rilanciare il giornale, contenere i costi aziendali e avviare il sito Internet, l'azienda - spiega la nota - ha dato mandato ai propri rappresentanti legali di comunicare che il direttore non avrebbe dovuto partecipare all'incontro in quanto concluso il suo incarico. I legali hanno inoltre comunicato al cdr che a breve sarà nominato un nuovo direttore con pieni poteri che dovrà aderire al progetto dell'azienda che prevede un ingente numero di licenziamenti collettivi. Tutto questo nel giorno in cui l'amministratore delegato Guido Stefanelli ha comunicato l'intenzione dell'azienda di corrispondere alle lavoratrici e ai lavoratori una quota dello stipendio di aprile pari al 5% della retribuzione in seguito ad un pignoramento eseguito per conto di un creditore". Per l'assemblea è "ancora più grave" che "la proprietà abbia di fatto interrotto unilateralmente un confronto appena avviato con il cdr e con la Fnsi in vista della riduzione dei costi aziendali e del rilancio del quotidiano". L'azienda, si legge ancora nella nota, "ha comunicato l'intenzione di procedere al licenziamento di un numero di redattori vicino alle 20 unità a fronte di una redazione che, al momento, è composta da 28 unità". "Per noi - conclude la nota - è arrivato il momento di dire basta e ricordare all'amministratore delegato Guido Stefanelli e all'editore Massimo Pessina che per tutelare i diritti calpestati esistono i luoghi deputati. In primis i tribunali". (Ansa).
Il Fatto Quotidiano 17.04.2017
M5s e cattolici, affinità elettive?.
Grillo ad Avvenire: “Noi al governo, sarà naturale”.
Il direttore: Sensibilità in comune.
di F.Q.


Il leader 5 stelle ha concesso un'intervista al quotidiano cattolico mentre in contemporanea Marco Tarquinio sul Corriere della Sera ha parlato dei grillini come un interlocutore consolidato e di convergenza tra i due mondi. I temi che li accomunano già da tempo: reddito di cittadinanza, lotta alla povertà e alle aperture eccezionali dei centri commerciali (rivendicata da Di Maio il lunedì di Pasqua in difesa delle famiglie). Visione opposta quella di Famiglia Cristiana: "Visioni anti-clericali e laiciste". L’intervista esclusiva di Beppe Grillo ad Avvenire per parlare del Movimento 5 stelle con toni calmi e pacati e in contemporanea le parole del direttore del quotidiano cattolico Marco Tarquinio che, sul Corriere della Sera, non nega le convergenze con i grillini. Il M5s continua le operazioni pre elettorali e dopo l’accreditamento davanti agli occhi degli imprenditori all’evento di Ivrea, è la volta della Chiesa. Un corteggiamento a distanza, ricambiato con entusiasmo da una parte del mondo cattolico, ma condannato da Famiglia Cristiana che nel pomeriggio ha pubblicato un articolo online per mettersi esattamente nella direzione opposta: “Hanno pulsioni anti-clericali e laiciste”. “Non esiste una strategia per arrivare a Palazzo Chigi“, ha detto il leader M5s. “Immagino questo risultato come un auspicabile fenomeno naturale”. I temi che avvicinano i due mondi sono chiari e noti già da tempo: il reddito di cittadinanza (“Che non è assistenzialismo”, ha detto Grillo), la polemica contro le aperture festive di centri commerciali e outlet “che rovinano le famiglie“, ma anche la lotta alla povertà e al gioco d’azzardo. Senza dimenticare che, il leader lo ripete praticamente ogni anno sul suo blog, il Movimento è nato nello stesso giorno (4 ottobre) in cui si celebra San Francesco, simbolo della povertà. Non è un caso che, nei giorni scorsi, persino la sindaca di Roma Virginia Raggi si sia intrattenuta per dieci minuti in un colloquio privato con il Pontefice. Le parti insomma dialogano già da tempo e il passo indietro dei 5 stelle sulla legge per le Unioni civili non passò inosservato (in senso positivo), anche se ancora non è sufficiente per farne il loro partito di riferimento. Grillo, nel colloquio con Avvenire, ci ha provato a dare un’immagine più morbida di sé e dei suoi: “È incredibile che si continui a parlare di ‘forze e leader populisti’ incombenti sui governi dei Paesi della Ue”. E’ qualcosa, ma non basta: “Se guardiamo ai grandi temi (dal lavoro alla lotta alle povertà), nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità”, ha detto Tarquinio. “Per contro, non riesco a capire come possano portare fino alle estreme conseguenze il loro concetto di libertà su temi eticamente sensibili come quello del fine vita e dell’eutanasia“. Proprio questa proposta di legge, la più contestata e invocata degli ultimi anni, dovrebbe ottenere il primo via libera nei prossimi giorni e proprio grazie al contributo fondamentale dei voti dei 5 stelle. “Noi siamo per l’autodeterminazione dei cittadini”, si è giustificato Grillo.
L’intervista di Beppe Grillo ad Avvenire
La lunga intervista del leader del Movimento 5 stelle ad Avvenire inizia con un “autoritratto” del comico e politico: “Io non uso il mio mestiere per convincere”, ha esordito. “Sono semplicemente Beppe Grillo. Con le mie passioni, con i miei limiti, con le mie intuizioni. Lascio che tutto traspaia ed emerga per come è, evitando di vivere nell’enorme vergogna di ciò che ero prima di essere un politico. Un comico può permettersi di fingere, un politico no”. Grillo va oltre e usa parole molto care al mondo cattolico come “la crisi dei valori” che ha colpito il mondo contemporaneo: “C’è stata una strage della decenza. Della lealtà. Della gratitudine. Del perdono”, ha detto. Quindi un attacco all’era di Silvio Berlusconi: “La strage di soldi, di proprietà e di sovranità messa in atto dalle banche è stata preceduta dal massacro dei valori che si è compiuto, in Italia, nell’era del berlusconismo. Bisogna sempre tenerlo a mente, restando concentrati su quello che è successo”. Non solo l’ex Cavaliere è al centro delle accuse, ma anche “la sinistra frou frou” che ogni tanto ha preso il potere. Il leader M5s ha parlato dell’arrivo al governo dei 5 stelle come di un “auspicabile fenomeno naturale, generato da gente decisa a ‘scendere sulla terra’, lontano dagli incantesimi degli agnellini salvati da Berlusconi e dalle palle seriali che vengono dal partito ora al governo. Un partito che ha solo un merito: mantiene al suo comando la persona che meglio lo rappresenta, il bugiardo Renzi”. Alla domanda sugli errori del Movimento, Grillo ha risposto: “Le mie debolezze sono le ‘mamme’ dei miei punti di forza. In vita mia non ho mai creduto nella logica dell’aiutino, per questo sono forse un po’ rustico. Non mi aspetto di essere capito oltre quello che è ragionevole per chiunque di noi. Ma ho ben chiaro che il super-personalismo alla Nembo Kid dei leader politici ci ha quasi ammazzati. E vedo che il maestro è ancora lì ad allattare gli agnellini: è spiacevole la visione di un altro anziano ridotto così…, a mendicare buonismo. La pretesa che l’altro “mi veda per come mi vedo io” è assurda già in una coppia collaudata, figuriamoci in una progressiva orgia di illusioni e rimedi come quelli proposti da personaggi liftati che si imitano a vicenda: Renzi e Berlusconi”. Per quanto riguarda l’Europa, Grillo ha ribadito la sua posizione di polemica sulla struttura e gli obiettivi di Bruxelles. “L’Unione europea di oggi è un sacco contenente 27 popoli che si chiedono come ci siano finiti dentro. Tra questi popoli ci sono connessioni rigide e frustranti, innaturali. L’Unione non può essere tacciata di egoismo. Non può essere tacciata proprio di nulla”. Lo ha definito “un blocco dalla natura indigeribile, regolamentato da banche. Questa Ue non può essere egoista né altruista, perché non è nulla. Non esiste come identità federale o qualsivoglia altra identità. L’egoismo che affiora è quello del vagone dei più rigidi: la Germania”. Il leader ha ripetuto la sua solita posizione fortemente critica verso l’Ue, ma al tempo stesso ha respinto l’accusa di populista: “È incredibile che si continui a parlare di forze e leader populisti“, ha detto, “incombenti sui governi dei Paesi della Ue, mettendo assieme le reazioni meno confrontabili tra di loro con il problema più diffusamente uguale in tutto il mondo: il dopo-sbornia della finanza, delle agenzie di rating, dei cittadini sbattuti sul piatto del business mondiale come manodopera per un’uscita dalla Grande Crisi che è soltanto nominale. E intanto le banche continuano a sfilare dalle tasche dei cittadini i risparmi e i loro beni”. Quindi a Grillo è stata chiesta la descrizione di due leader a cui più volte è stato associato. Innanzitutto Trump: “E’ l’espressione plastica della fine della sinistra frou frou, la gente si è stufata degli Obama e dei Clinton, tutto il loro essere di sinistra trova sfogo nel concedere qualche diritto senza costi e sorridere bene davanti alle telecamere”. Quindi Putin: “In questo caso bastano cinque parole. Putin è quello che è, senza troppi misteri”.
Il vero punto di contrasto è sulle questioni etiche, quindi la legge sul Biotestamento in discussione a Montecitorio e la posizione sull’eutanasia. “Il Movimento è post-ideologico: non siamo qui a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato per e su ogni argomento. Per noi è fondamentale l’autodeterminazione, intesa come la possibilità data ai cittadini di essere cittadini”. Una posizione contestata dall’intervistatore: “Idea manipolata e rischiosa, quella di un’assoluta “autodeterminazione”. Quindi la replica di Grillo: “Il Movimento si è semplicemente impegnato a restituire il Paese in mano alla gente. Per questo non può essere connotato ideologicamente neppure su questioni definite etiche. Per noi conta il ripristino della democrazia in Italia che oggi è sospesa, conta il rientro dei cittadini nelle istituzioni e assistere alla costruzione di una idea di futuro. Cosa vogliamo diventare? Come saremo?”.
Il direttore di Avvenire al Corriere: “Sensibilità in comune con i 5 stelle”
Nello stesso giorno sul Corriere della Sera è uscita l’intervista al direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Che ha spiegato meglio il rapporto del quotidiano con il Movimento: “Sono tanti i cattolici che partecipano alle iniziative del Movimento”, ha detto. “Se guardiamo ai grandi temi (dal lavoro alla lotta alle povertà), nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità”. In particolare, “la sintonia è forte sulla lotta alle povertà e sul valore della partecipazione. Per contro, non riesco a capire come possano portare fino alle estreme conseguenze il loro concetto di libertà su temi eticamente sensibili come quello del fine vita e dell’eutanasia”. Tarquinio ha anche sottolineato la sintonia contro il lavoro di domenica: “Quando abbiamo sollevato il caso di Serravalle speravamo che si riaprisse il dibattito sul lavoro domenicale. Sono lieto che sia avvenuto anche con il contributo del Movimento 5 Stelle”. E che Luigi Di Maio condivida la pozione, secondo il direttore, “è una dimostrazione di sensibilità. Ha capito che il problema non aveva cittadinanza nel dibattito politico ma nella vita delle persone”. Non crede che sia un modo per strizzare l’occhio ai cattolici: “penso sia stato fatto in buona fede. Ho visto che si è documentato. Credo che sia un politico che ha preso coscienza di un problema reale”. Il riferimento è proprio alla presa di posizione il lunedì di Pasqua del vicepresidente della Camera M5s Che ha rilanciato la proposta di legge dei grillini contro la liberalizzazione degli esercizi commerciali: “Ci hanno reso più poveri e sfaldato le famiglie”. Una sintonia che Tarquinio ha detto non mancare anche con altri partiti, “ma sempre con un quarto che fa la differenza”. Alla domanda se i 5 stelle “siano pronti per governare”, però continuano a restare i dubbi: “Chi deve governare lo decidono gli elettori. Poi, certo, conta la qualità e il contenuto dei programmi. Credo che il M5s debba aggiustare il tiro sulla politica estera e lavorare per un rilancio della casa comune europea”.
Famiglia Cristiana all’attacco:“I grillini non brillano per un atteggiamento favorevole alla Chiesa cattolica”
Di fronte alla scena di dialogo e amorosi sensi, Famiglia Cristiana è intervenuta con un articolo online pubblicato in rete dal titolo “Il Vangelo secondo Grillo” e che invece mette in evidenza tutti gli aspetti opposti. “Nella prassi politica”, si legge, “i grillini non brillano per un atteggiamento particolarmente favorevole alla Chiesa cattolica e alle sue istituzioni”. Una vera e propria presa di distanza dal quotidiano della Cei: “Il problema è capire – seguendo il ragionamento di Tarquinio – cosa c’è dentro quell’ultimo quarto in cui questa sensibilità è assente o è addirittura anticristiana”, scrive l’editorialista Francesco Anfossi, che elenca i vari punti di contrasto tra la politica dei 5 Stelle e le posizioni della Chiesa cattolica. Il giornale parla addirittura di “pulsioni anti-clericali e laiciste”: “In Regione Lombardia il gruppo dei 5 Stelle”, ad esempio, “ha osteggiato i finanziamenti regionali in favore della libertà di scelta in materia d’istruzione. E si è opposta, con determinazione, alla visita del cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola nell’aula consiliare del Palazzo della Regione”. Quindi i grillini, scrivono, vorrebbero la Chiesa “relegata a una funzione assistenziale, marginale, quasi catacombale, senza però pretese di sussidiarietà e dunque senza il minimo finanziamento da parte dello Stato. La morale politica grillina è che l’unico ente meritevole di credito è lo Stato. Quello che deve organizzare, finanziare e gestire l’istruzione; che non può accettare ingerenze”. E dunque ecco che la sindaca grillina Chiara Appendino “taglia un quarto dei finanziamenti alle scuole paritarie dell’infanzia, comprese quelle che operano nelle periferie e nelle zone disagiate”. E anche la sindaca Raggi più di una volta ha polemizzato sulla “Chiesa che non paga l’Imu“, vecchio “leit motiv” dei laicisti. I “grillini”, dice il magazine dei Paolini, “sono contrari all’8 per mille, che vorrebbero fosse destinato all’edilizia scolastica o ad altre iniziative gestite dallo Stato”. E sui temi etici, poi, “hanno pochi dubbi: matrimonio gay, adozione da parte delle coppie gay, eutanasia, unioni di fatto, testamento biologico, fecondazione eterologa, legalizzazione delle droghe leggere, fino alla sperimentazione della Ru486, la pillola abortiva. Non c’è argomento etico che non veda il Movimento 5 Stelle sulla sponda opposta alla dottrina della Chiesa”. E quindi la conclusione durissima su Grillo e Gianroberto Casaleggio: “Che in Grillo – al netto di qualche manifestazione blasfema, come la distribuzione di grilli essiccati come fossero ostie ai dirigenti dei Cinque Stelle, il 10 aprile del 2016 – ci sia una sensibilità cristiana è fuor di dubbio. Ce n’era un po’ meno in Gianroberto Casaleggio, soprattutto a proposito della Chiesa ripetuta nell’ormai famoso video ‘Gaia’ supercliccato su You Tube: ‘All’inizio del XXI secolo il fato del mondo è ancora in mano a gruppi massonici, finanziari e religiosi’ dice una voce off record, mentre sullo schermo compaiono squadra e compasso, simbolo del dollaro, e una bella croce cristiana”.
La Repubblica 25.04.2017
La Festa della Liberazione: il Pd si dissocia dall’iniziativa dell’Anpi.
Cronaca: 25 aprile, Roma divisa, il Pd snobba l’Anpi “Noi con la Brigata”.
Doppio corteo nella capitale dopo le polemiche legate all’invito ai palestinesi.
Tensione a Milano
di Alberto Custodero


Roma. Il 25 Aprile divide a Roma: Anpi, Aned, Comunità Ebraica e Pd ricorderanno il 72esimo anniversario della liberazione dal nazifascismo ognuno per conto proprio. E unisce a Milano, che per la prima volta vieta le parate fasciste nella zona del cimitero dove sono sepolti i repubblichini.
Nella Capitale il 25 Aprile spacca le associazioni. Ancora una volta Anpi e Comunità ebraica si ritrovano divisi tra polemiche e reciproche accuse. A nulla sono valsi gli appelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e quelli di tante forze politiche a superare le tensioni.
La Comunità ebraica punta il dito sulla presenza dei movimenti pro Palestina al corteo Anpi, mentre i Partigiani sottolineano di «avere fatto di tutto per includere e ricucire il fronte antifascista ». Non ha aiutato neppure il fatto che la comunità palestinese romana faccia riferimento a Fatah, che da tempo ha riconosciuto lo stato di Israele. Risultato, ognuno per conto proprio. E così, il corteo dei Partigiani confluirà in zona Porta San Paolo, luogo di una delle battaglie cittadine più cruente tra partigiani e nazifascisti. La Comunità Ebraica si è data appuntamento presso l’Oratorio di Castro dove si trova la seconda sinagoga cittadina che al suo interno custodisce una lapide in memoria dei caduti della Brigata ebraica. L’Aned si ritroverà in via Tasso, di fronte al Museo della Liberazione, sede del carcere dove le truppe naziste torturarono gli antifascisti catturati. Il Pd, infine, è sparso in decine di iniziative nei vari Municipi anche se il presidente Matteo Orfini sarà presente fin dall’inizio alla manifestazione in onore della Brigata Ebraica. Il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni depositeranno una corona all’Altare della Patria. In quegli stessi minuti la sindaca Virginia Raggi sarà al Forte Bravetta, periferia sud ovest della città, dove aprirà le celebrazioni della giornata prima di spostarsi in centro. Nel capoluogo lombardo si svolgerà una «grande manifestazione unitaria, pacifica e partecipata». Dal palco parlerà anche una migrante «perché — spiega il presidente milanese Anpi Roberto Cenati — il problema dei profughi è importantissimo e ci vuole un’Europa unita e solidale per affrontarlo». La Brigata Ebraica avrà un cordone protettivo organizzato dal servizio d’ordine Pd — insieme ai city angels — per proteggerla in vista anche di annunciate contestazioni in Piazza San Babila da parte di associazioni filo palestinesi e centri sociali. «È un grande onore — commenta Emanuele Fiano, deputato dem — che il vessillo della Brigata Ebraica possa sfilare dopo che la Camera ha approvato all’unanimità di concederle la medaglia d’oro al valore Militare. Ogni polemica contro il simbolo della Brigata Ebraica, ogni strumentalizzazione contro Israele, va contro la storia del loro eroico coraggio a fianco dei partigiani e degli alleati per la liberazione del nostro paese dai Nazisti e dei fascisti». Ci sarà anche il gruppo Bds, «una sigla — precisa Cenati — che boicotta i prodotti israeliani. Abbiamo chiesto che vadano in fondo al corteo perché la loro presenza non ha nulla a che vedere con lo spirito del 25 Aprile». Per la prima volta prefettura e questura vietano la manifestazione di Casa Pound e Lealtà e Azione per commemorare i morti della Rsi sepolti al Campo X del Cimitero Maggiore. Sono attesi militanti di destra ma inquadramenti, labari militari e saluti romani saranno rigorosamente vietati dalle forze dell’ordine che dovranno controllare che non entrino in contatto con i centri sociali che aderiranno all’iniziativa “Porta un fiore al Partigiano” al Campo della Gloria dello stesso cimitero. Assente la Lega di Matteo Salvini («Non per una presa di distanza dalla Liberazione», precisa il suo entourage). Il leader leghista festeggerà a Verona un 25 Aprile a modo suo, inneggiando «a una difesa sempre legittima».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 26. 04. 2017
Primarie, caccia ai testimonial ma i gazebo non scaldano i vip.
Meno impegno in vista delle urne del 30 aprile.
Jovanotti si defila, Al Bano per Emiliano, ecco chi sta con chi.
Oggi il dibattito tv su Sky
di Tommaso Ciriaco


Roma. C’è quasi un tratto di clandestinità, in queste primarie che si trascinano stancamente verso il 30 aprile. Un solo dibattito tv, stasera su Sky, soprattutto pochissime celebrità disposte a sposare uno dei tre candidati. Certo, Al Bano — non esattamente un “compagno” — presta il proprio volto per sostenere Michele Emiliano, mentre Beppe Vacca si candida con Matteo Renzi. E certo, Maurizio Costanzo tifa Andrea Orlando. Ma sono lontani i tempi degli endorsement di Jovanotti e dei banchieri, in queste ore domina soprattutto l’allarme affluenza. Sia chiaro, uno dei tre sfidanti ha scelto il low profile a tavolino. Ovunque vada Renzi evita microfoni e flash, anche solo reperire gli scatti della sue missioni diventa un’impresa: la strategia è chiara, fare l’opposto dell’ultima campagna referendaria. Orlando, invece, ha mobilitato quanti più vip possibile: Dario Vergassola e Gherardo Colombo, don Tonino Palmese e l’olimpionico di scherma Salvatore Sanzo. E ancora, Alberto Melloni, Luciano Violante, Fabrizio Barca e Gad Lerner, il tastierista dei Nomadi Beppe Carletti. Il Guardasigilli ha fatto presa anche tra i padri nobili. Non su Walter Veltroni, che ha scelto il silenzio, ma sui prodiani: stanno tutti con Orlando. Il Professore non parla, ma invita a pranzo proprio il Guardasigilli. E che dire di Enrico Letta? Defenestrato dall’ex segretario, preferisce l’ex diessino: «Per la sua capacità di unire». È lunga, la lista dei delusi “celebri” del renzismo. Tra gli intellettuali, Emanuele Macaluso, che considera esaurita la spinta propulsiva del leader di Rignano. Come pure Giorgio Napolitano, amico e big sponsor del capo dei Giovani Turchi. La notizia, però, è che molti resteranno a casa. Pochissimi hanno scelto Emiliano: Al Bano, Pino Aprile, Erri De Luca e, chissà, J-Ax. Tanti altri, invece, diserteranno o più semplicemente eviteranno incoronazioni pubbliche. Uno su tutti, Jovanotti. Nel 2009 aveva sposato la causa di Dario Franceschini, nel 2012 quella di Renzi. Perdendo sempre, tanto da commentare: «Oh, io in politica non ne azzecco una». Stavolta, fanno sapere, è in piena fase creativa ed eviterà di schierarsi. E ancora, che fine hanno fatto gli endorsement di Sabrina Ferilli e Claudio Amendola, o di tante altre celebrità “in sonno”? La verità è che si è sfoltita soprattutto la nutrita pattuglia di renziani. Del grande freddo con Alessandro Baricco si è scritto molto. Voterà Renzi il professor Arturo Parisi, regista dell’Ulivo. Basso profilo e silenzio da parte di Roberto Benigni, assai schierato per il Sì al referendum. Resiste al fianco del vecchio amico Oscar Farinetti: «Voterò per Matteo. La sua storia non finisce qui. Anche Churchill fu richiamato».
Il Fatto quotidiano 25.04.2017
Il tracollo
Lo spettro Francia, Olanda, Austria, Irlanda, Grecia, Finlandia: il Pse a rischio scomparsa
Addio ai partiti del socialismo europeo
di Marco Palombi


In Europa s’aggira uno spettro. Non è il comunismo di Marx, ma il socialismo d’oggi e solo nel senso che è oramai ridotto a una presenza impalpabile. Ogni elezione è un altro passo verso il tracollo di quei partiti (quelli riuniti nel Pse) che, nel dopoguerra, hanno innervato il modello socialdemocratico europeo dandosi poi da fare, da almeno vent’anni in qua, per distruggerlo. Dallo scoppio della crisi in poi, con qualche sporadica eccezione (Portogallo, Germania), le grandi sigle del socialismo europeo tracollano nelle urne assai più che i partiti del centrodestra (popolari e affini): se uno, d’altronde, ha come scopo costitutivo la difesa e la promozione dei diritti sociali non può gestirne la cancellazione senza che il suo elettorato lo punisca. Il 6% racimolato da Benoît Hamon in una Francia che usciva da una presidenza socialista non è che l’ultimo caso. In Grecia, per dire, è successo questo: il Pasok - dal 48% dei voti preso alle Politiche del 1981 fino al 43,9% del 2009 - non era mai sceso sotto al 38% dei voti, governando in sette legislature su 11. Nelle due elezioni del 2015, quando il passaggio della Troika aveva ormai dispiegato i suoi effetti, ha preso il 4,6% (a gennaio) e il 6,2% (a settembre) regalando gran parte del suo bacino elettorale e dei suoi quadri politici a Syriza. Anche un altro Paese visitato dalla Troika, l’Irlanda, ha in sostanza cancellato i laburisti: a febbraio 2016, dopo cinque anni al governo, hanno ottenuto il 6,6% dei voti, perdendo quasi 13 punti rispetto al 19,4% ottenuto nel 2011. Più o meno quel che è successo qualche settimana fa in Olanda, dove il locale partito laburista (il Pvda del simpatico presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem) ha racimolato il 5,7% dei voti arrivando dal 24,8% delle elezioni del 2012. Un tracollo epocale. In Austria, invece, le ultime Presidenziali hanno fatto strame dei due partiti (socialista e popolare) che si erano divisi il governo per decenni: nessuno dei due è arrivato nemmeno al ballottaggio – vinto poi dal verde Van der Bellen – ed entrambi si sono fermati all’11% dei consensi. Il declino del partito socialdemocratico austriaco è istruttivo: era più o
meno al 50% negli anni Settanta e da allora ha perso dieci punti a decennio (nel 2013, pur
essendo il primo partito, era al 26%). Anche in Finlandia i socialdemocratici non se la passano
bene: nel 2000 e nel 2006 avevano eletto la presidente Tarja Halonen, nel 2012 al ballottaggio
c’erano due partiti di destra e quello del Ps s’era fermato al 6,2% dei voti. Pure alle Politiche le cose non vanno benissimo: nel 2003 i socialdemocratici avevano il 24,5% dei consensi; nelle tre elezioni
successive sono passati al 21,4%, poi al 19,1% e infine (nel 2015) al 16,5%.
Lo stesso in Spagna, per la locale filiale del Pse: i socialisti spagnoli (Psoe) non scendevano
sotto al 30% dei voti dalle prime elezioni dopo la dittatura; erano al 44% nel 2008 (11,2
milioni di voti per il trionfo di Zapatero), nel 2011 erano già scesi al 28,8% e alle ultime Politiche
erano al 22% (5,4 milioni di voti), mentre alla loro sinistra Podemos e IU superavano
il 21%. Ora il Psoe è spaccato: una buona metà appoggia il governo di centrodestra
di Mariano Rajoy. E pure a Londra Jeremy Corbyn non si sente tanto bene...
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La Repubblica, 24.04.2017
Elezioni francesi: La disfatta della sinistra e del Psf
La corsa all’Eliseo
Mélenchon
Il leader di France insoumise si ferma sotto il 20% “La sinistra siamo noi, non dimenticatelo”
Affonda la gauche ma non passa “Non dirò per chi bisogna votare”
di Fabio Tonacci


Dal nostro inviato
Parigi. Ci hanno creduto fino alla fine. Résistance, résistance, résistance, cantano i sostenitori di France insoumise quando si presenta davanti ai microfoni non il loro leader Jean-Luc Mélenchon, ma l’uomo dei numeri della sua campagna elettorale. «Stiamo calmi, non diamo retta ai sondaggi. Mancano ancora i voti delle grandi città. Stiamo calmi...». E per quarantacinque minuti buoni la soirée électorale al bar Belushi’s contempla un possibile lieto fine, dopo i primi exit poll che li davano al 19.5 per cento.
Poi alle 21.54 è uscito lui. Di nuovo résistance, résistance, résistance. Ecco Mélenchon, alias “el comandante” alias “il Chavez francese”. Gli hanno affibbiato tanti nomignoli durante la campagna elettorale, quando comizio dopo comizio (è un oratore oggettivamente formidabile), sondaggio dopo sondaggio, ha scalato la gauche francese drenando voti ai socialisti di Hamon. «Sono orgoglioso di voi. Quando i risultati saranno noti, li rispetteremo», esordisce davanti ai suoi. Il bar Belushi’s precipita un’altra volta nel silenzio. «Non ho ricevuto alcun mandato da chi ha appoggiato la mia candidatura per esprimermi a nome loro. Ciascuno sa qual è il suo dovere». Applausi poco convinti. E’ andata bene, poteva andare meglio. Nel 2012 Mélenchon aveva preso l’11 per cento alle presidenziali. Ieri alle 23 per gli exit poll era intorno al 19,2 per cento. Ha vinto oltremare a Martinica e a Guyane. Ha distrutto il socialista Hamon, questo sì. Il partito socialista non va al ballottaggio delle presidenziali, e i consensi che ha perso se li è guadagnati quasi tutti Mélenchon. Intercettando la protesta, affascinando con l’idea di una Sesta Repubblica e col rifiuto dell’austerità dell’Unione Europea. La gauche adesso è lui, ma la partita dell’Eliseo se la giocano gli altri. Per il ballottaggio ognuno sa cosa deve fare, dice dunque “el comandante”. Patrice Finel, 60 anni e dirigente dell’istituto delle case popolari di Parigi, un’idea ce l’ha già. «Tra la peste fascista e il colera liberale, scheda bianca». Si aggira deluso bevendo un’ultima pinta di birra. «Non è colpa nostra se la sinistra non ha passato il turno: il presidente Hollande a screditato lo stesso concetto di sinistra». «Mi chiamo Camille Barred, ho 58 anni e odio Emmanuel Macron». Si presenta così questa bibliotecaria con i capelli rossi e una bandiera arcobaleno sulla maglia. Quindi Marine Le Pen? «No, non voto proprio. Non mi piego né alla destra liberale di Macron, né alla destra reazionaria». Se foste stati uniti coi socialisti, sareste voi al ballottaggio. «Loro sono i traditori della sinistra, non noi. Guardate come hanno calpestato i nostri diritti dei lavoratori con la legge El Khomry». Al netto di un clamoroso ribaltamento dei risultati nella notte, la sfida dei populismi l’ha vinta il Front National. Mélenchon esce dal Belushi’s bar così come è entrato, tra i cori. Gli portano una sedia, ci sale in piedi. «La sinistra siamo noi, non dimenticatelo ». Di nuovo tribuno in mezzo al suo popolo. Résistance, résistance, résistance.
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La Repubblica, 24.04.2017
Elezioni francesi: Il centrista Emmanuel Macron, già ministro del governo socialista scelto dal Presidente della Repubblica, Francois Hollande, conquista la Francia.
La corsa all’Eliseo -Verso il ballottaggio del 7 maggio pesano le incognite dell’islamismo radicale Il duello per l’Eliseo non riguarda solo la Francia ma tutta l’Unione europea
L’uomo nuovo.
Da Fillon a Hamon, tutti contro Le Pen - Un “fronte repubblicano” per l’Europa
di Bernardo Valli.


Parigi, si precisano i contorni dell’ottavo presidente della Quinta Repubblica. E indicano Emmanuel Macron. Né il populismo, né il terrorismo sono riusciti a cancellare la figura del giovane garante di una lineare continuità democratica. Alla sua avversaria, a Marine Le Pen, è andata male, anche se ha preso oltre 7 milioni di voti, un bel pezzo di Francia. Il personaggio Macron appare un “uomo nuovo” rispetto al vecchio establishment, il quale è stato relegato in seconda fila. È stato messo in castigo, perché giudicato incapace di affrontare le continue minacce terroristiche e i vasti mutamenti della società quasi senza confini. Dirigenti dell’Europa unita burocraticamente non hanno osato difenderla idealmente. Soltanto tra due settimane è in programma l’ultimo atto: l’incoronazione ufficiale del presidente monarca, che ormai ha la scettro in tasca. Il confronto definitivo sarà una faticosa formalità perché per arrivarci oltre ai i comizi e alle polemiche ci sono le incognite dell’islamismo in collera e assassino. Il duello decisivo sarà tra l’Europa e l’ anti Europa: la prima rappresentata da Emmanuel Macron, ieri arrivato in testa con il 23,9 per cento dei voti, la seconda rappresentata da Marine Le Pen, rimasta sotto il 21,7 percento. Questo è il principale significato del doppio voto. Dopo il primo scrutinio possiamo tirare un respiro di sollievo. Chi teme e rifiuta una disintegrazione dell’Europa può rallegrarsi del 23 aprile francese. Una diserzione elettorale dei transalpini, sulla traccia dei britannici, avrebbe avuto tristi conseguenze. L‘elezione di Macron a presidente della Repubblica è garantita dalla formazione di un “fronte repubblicano”, spontaneo o concordato, per evitare l’ingresso di Marine Le Pen, la leader populista, nel palazzo dell’Eliseo. Lo stacco tra i due finalisti, stando ai pronostici, dovrebbe aggirarsi sul quindici per cento in favore di Macron. L’esito iniziale della maratona elettorale allontana il rischio di gravi traumi, anche istituzionali, alla Quinta Repubblica. Sarebbe infatti problematico per larga parte dell’apparato statale eseguire le direttive di un esecutivo populista.
Il voto di domenica ha comunque sconvolto la società politica. I principali partiti, quelli che hanno dominato, alternativamente, al potere e all’opposizione, la vita politica francese degli ultimi decenni sono stati esclusi dal ballottaggio. Cioè dalla possibilità che uno dei loro esponenti occupi la massima carica dello Stato. Né un socialista né un notabile del centrodestra (seguito bastardo del gollismo), parteciperà al secondo turno. La République ha cambiato connotati. Non è stata una rivoluzione, ma c’è mancato poco. Marine Le Pen è presidente del Front National, partito escluso da quello che definivamo in Italia “ arco costituzionale”. Emmanuel Macron, pur avendo un intenso passato politico, prima come consigliere di François Hollande, il presidente socialista, e poi come ministro dell’Economia, ha creato un movimento nuovo, “In marcia!”, che vuole sfuggire al sistema basato sull’equazione destra-sinistra. Gira le spalle, almeno ufficialmente, all’attuale classe politica. Nonostante il suo netto rifiuto di confondersi con l’establishment alle sue spalle, gli avversari continuano a indicarlo come la continuità, sotto un’altra veste, di François Hollande. Visto che la barca stava affondando, il giovane ministro l’avrebbe abbandonata con il consenso tacito del capitano. Il presidente socialista, afflitto da una pesante impopolarità, non avrebbe osato riproporsi per un secondo mandato, e considererebbe Macron un suo delfino segreto. L’ex primo ministro socialista. Manuel Valls e due ministri pure loro socialisti hanno girato le spalle al candidato ufficiale del partito, Benoit Hamon (che ha ottenuto un modesto 6,3 per cento), e si sono schierati con Macron. Numerose sono le diserzioni socialiste in favore del fondatore di “In marcia!”, che tuttavia accetta quelle adesioni a titolo individuale. Come accetta del resto, secondo lo stesso principio, gli appoggi provenienti dal centrodestra. Riferendosi al suo passato di funzionario della Banca Rotschild, gli avversari indicano Macron come vicino al mondo degli affari. Lui si definisce progressista ed europeo, e come tale parla. Dice: mantengo l’equilibrio democratico della Francia.
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La Repubblica 25.04.2017
Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen conquista consensi tra i ceti meno abbienti.
Le elezioni francesi: le mappe Il Fn vince lontano dai centri urbani e tra le fasce più povere. Laureati e dirigenti scelgono il leader di En Marche - Città contro campagna nel Paese del “voto di classe” Le Pen conquista i delusi.
di Anais Ginori


Dalla nostra corrispondente: Parigi.
Se Marine Le Pen si fosse presentata solo nella capitale non avrebbe superato neppure la soglia di sbarramento per ottenere i rimborsi elettorali fissata al 5%. In alcuni quartieri, come il Marais e Pigalle, la leader del Front National supera appena il 3%, mentre Macron ha conquistato un parigino su tre (34,8%). Se invece la Francia fosse in miniatura quella di Brachay, comune di una sessantina di abitanti nella Marna, lontano da tutto, Le Pen sarebbe già all’Eliseo: ha ottenuto più dell’83%.
La mappa del primo turno delle presidenziali conferma un paesaggio politico destrutturato, con una netta divisione tra le grandi città e quella che il geografo Christophe Guilluy ha chiamato in un saggio la “Francia periferica”. Il divario tra voto nei centri urbani e nelle zone rurali non è mai stato così chiaro. Se a Lione il Fn prende solo l’8,86%, nella regione intera del Rhone sale fino al 16,26%. Lo stesso scarto si verifica tra Bordeaux (7,39%) e la Gironda (18,2%), Lille (13,8%) e la sua provincia (28,2%). «Il voto per il Front National si rafforza via via che aumenta la distanza da un centro urbano», spiega Guilluy. Le 588 città con più di 15mila abitanti, un terzo dell’elettorato, hanno una percentuale Fn inferiore al dato nazionale. Domenica sera lo spoglio in diretta del ministero dell’Interno metteva Le Pen in testa rispetto a Macron finché non sono arrivate le schede delle metropoli che hanno ribaltato il rapporto di forza. L’altra spaccatura che emerge dalla cartografia del voto è quella che taglia in due la Francia da nord a sud, ovvero tra la metà orientale, quasi tutta per il Front National, e quella occidentale, dominata dal voto per Emmanuel Macron. «È una divisione antica tra Francia atlantica, aperta, benestante, moderata, e un’altra continentale, più chiusa, in crisi, reazionaria», spiega il geografo Jacques Levy. Il nord-est si conferma un monocolore Le Pen. Nelle zona tra Piccardia e Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, il Fn supera anche il 30% dei voti. La supremazia dell’estrema destra nelle zone più colpite dalla deindustrializzazione è ormai assodata, ad eccezione della regione parigina. La fascia orientale, verso la frontiera con la Germania, registra sempre una prevalenza del Fn, con il 27,78% dei voti. Si conferma anche la forza del partito di Le Pen verso il sud-est e il Mediterraneo, fino al confine con l’Italia: nella regione Paca (Provence- Alpes-Cotes d’Azur) dove ottiene il 28,17%. La leader Fn segna anche un risultato storico in Corsica, arrivando al primo posto con il 27,88%, superando per la prima volta la destra. La Francia del centro e quella affacciata sulla costa Atlantica ha scelto invece Macron. Il leader di En Marche ha ottenuto il 25,1% in Aquitania, il 26% nella regione della Loira e fino al 29% nella Bretagna. Macron è arrivato al primo posto in 7.175 comuni, di cui più della metà avevano votato il socialista François Hollande nel 2012. Ma il candidato centrista è riuscito anche a conquistare 2.353 città che nella precedente presidenziale avevano dato la preferenza all’ex leader della destra Nicolas Sarkozy. Macron registra il suo miglior risultato a Bigorno, comune di 85 elettori in Corsica, dove ottiene il 77,1%. Tra i francesi residenti all’estero ha ottenuto quasi metà dei voti (40,4%) rispetto al 6,4% di Le Pen. «L’analisi sociologica conferma un voto di classe», spiega Frédéric Dabi, direttore dell’istituto Ifop. Le Pen è la candidata degli operai, degli impiegati, ma anche dei disoccupati (oltre un terzo ha votato per lei), mentre Macron ha i suoi punti di forza nei quadri dirigenti e nei professionisti (uno su tre hanno votato per lui). I due candidati al ballottaggio ottengono la stessa percentuale (32%) nelle due fasce estreme di reddito: Le Pen tra chi guadagna meno di 1.250 euro mensili, Macron tra chi ne guadagna più di 3mila. «Macron è il candidato dei laureati mentre Le Pen quella dei diplomati», conclude Dabi. Gli istituti di sondaggi avevano in parte già analizzato queste distinzioni e hanno preso domenica sera una piccola rivincita: contrariamente a quanto accaduto con Brexit ed elezioni americane, le loro previsioni sul voto si sono rivelate giuste.
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La Repubblica 25.04.2017
Elezioni francesi: In testa al primo turno il centrista Emmanuel Macron, poi Marine Le Pen – Crolla il Psf e non sfonda la sinistra radicale di Mèlenchon
Il primo round elettorale ha lanciato il leader di En Marche - Ma il giovane ex ministro è adesso chiamato a fare i conti con i suoi limiti politici
Macron ha già vinto?
Favorito per l’Eliseo, deve convincere l’altra Francia
di Marc Lazar


Parigi
La domanda potrà sembrare strana, ma facciamola comunque. Emmanuel Macron è in grado di vincere il 7 maggio e diventare presidente della Repubblica? Probabilmente sì, anche se nulla è ancora deciso: un elettore su due ha scelto un candidato della protesta e dell’ostilità verso l’Europa. Ma un conto è vincere, un conto è convincere. L’entusiasmo che si è impadronito dei suoi sostenitori, che hanno festeggiato il risultato del primo turno del loro beniamino come se avesse già vinto il ballottaggio, non deve occultare qualche interrogativo suscitato dal suo incontestabile successo. L’epopea personale di Macron, cominciata un anno fa con un gruppetto di fedeli nello scetticismo generale, presenta dei limiti, innanzitutto di ordine politico. Il candidato di En Marche! ha ottenuto soltanto il 24,01 per cento dei suffragi, un risultato scadente nella storia del Quinta Repubblica per un candidato chiamato a vincere le elezioni. Un sondaggio Ipsos mostra che il 57 per cento dei suoi elettori lo ha scelto per il programma (contro il 79 per cento di quelli che hanno votato Marine Le Pen): quindi è ben lontano dall’aver convinto, tanto più che le sue proposte sono rimaste spesso ambigue. Macron ha beneficiato di un voto «utile» dei francesi che volevano evitare un secondo turno tra Marine Le Pen (che tutti gli istituti di sondaggi davano qualificata per il ballottaggio) e Fillon o Mélenchon. I suoi elettori vengono dalla sinistra (ha raccolto il 47 per cento dei consensi di chi ha votato François Hollande nel 2012) e dal centro (il 43 per cento degli elettori di François Bayrou nel 2012), e poco dalla destra (il 17 per cento degli elettori di Nicolas Sarkozy nel 2012). Dunque ha un elettorato piuttosto sbilanciato sul centrosinistra, come dimostra anche la geografia dei suoi voti. Per il secondo turno Macron dovrà spostarsi a destra, se vuole accentuare il suo vantaggio sulla Le Pen, a rischio di indisporre i suoi elettori di sinistra. L’elemento più preoccupante viene dalla vera e propria frattura sociologica che contrappone gli elettori di Emmanuel Macron a quelli di Marine Le Pen. Due France si delineano. La Francia di Macron, più di otto milioni e mezzo di elettori, è quella dell’Ovest, delle grandi città, delle professioni superiori (il 33 per cento dei dirigenti), delle persone istruite (il 30 per cento dei francesi che hanno un livello di studi superiore a tre anni dopo la maturità), di quelli che dichiarano di vivere «facilmente» dei redditi del proprio nucleo familiare (il 32 per cento) e infine degli ottimisti. Tutto il contrario dell’elettorato di Marine Le Pen, che con il 21,3 per cento dei suffragi ha progredito di oltre un milione e duecentomila elettori rispetto al 2012. È presente nelle piccole e medie città, nelle campagne, in certe periferie delle grandi agglomerazioni urbane. È in testa fra gli operai (il 37 per cento) e gli impiegati (il 32 per cento), fra le persone che dispongono di un reddito inferiore a 1.250 euro al mese (il 32 per cento), fra quelle con livello di istruzione inferiore alla maturità (il 30 per cento), fra chi dichiara di faticare a vivere con il proprio reddito (il 43 per cento) ed è seconda fra i disoccupati (il 26 per cento). Quanto a Jean-Luc Mélenchon, ha ottenuto il 19,6 per cento dei voti (3 milioni in più in 5 anni), sfondando fra i giovani della fascia d’età 18-24 anni (il 30 per cento contro il 21 per cento della Le Pen e appena il 18 per cento per Macron, che in cambio ottiene il 28 per cento dei suffragi nella fascia 25-34 anni), fra i disoccupati (il 31 per cento), gli operai (il 24 per cento contro il 16 per Macron), gli impiegati (22 per cento contro il 19 per Macron) e le persone con un reddito inferiore a 1.250 euro al mese (il 14 per cento per Macron). Nel suo discorso di domenica, che assomigliava più al discorso di un vincitore definitivo della competizione, Emmanuel Macron ha insistito sul consenso trasversale e la rottura che sostiene di incarnare. Rottura in particolare rispetto al «sistema». Il che è abile ma poco credibile. Per via del suo percorso personale di giovane brillante, passato attraverso le scuole più prestigiose e che ha ricoperto incarichi di alto livello nel settore bancario e nello Stato, ma anche a causa di una parte del suo entourage: uomini – di grande valore – che simboleggiano il potere, come Jacques Attali, Alain Minc, Pierre Bergé, senza parlare dei tanti esponenti politici come François Bayrou o Dominique de Villepin, e di esperti e intellettuali di primo piano. Marine Le Pen, che dice di parlare a nome del popolo anche se fa pure lei parte del sistema, lo stigmatizza come il rappresentante per eccellenza della casta europeista e globalista. Queste tematiche possono sedurre una parte supplementare dell’elettorato popolare, a destra, a sinistra e tra gli astensionisti (il 30 per cento dei quali ha meno di 35 anni e il 25 per cento è salariato e disoccupato), anche se non può sperare di prevalere. Emmanuel Macron deve rivolgersi a quella Francia lasciata in disparte dalla globalizzazione, che soffre, che aspira alla protezione, che è tentata dal ripiegamento su se stessa e che potrebbe esprimere con tutti i mezzi la sua collera sociale. Se sarà eletto, vincere senza convincere ostacolerebbe molto presto la sua azione. Lui lo sa benissimo. Ma basterà per riuscire?
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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La Repubblica 26.04.2017
Elezioni in Francia: Mélenchon non dà indicazioni di voto per il ballottaggio
“Non voglio un banchiere” - L’incubo dei voti di protesta dalla sinistra radicale a Le Pen
Eliseo, Mélenchon non ha dato indicazioni per il secondo turno - E almeno un terzo del suo 19% potrebbe andare al Front National
di Pietro Del Re


Grigny.
I casermoni della Grande Borne, catastrofico esperimento di edilizia popolare dei primi anni Settanta, racchiudono tutti i vizi delle banlieue di Francia: povertà, insicurezza, islamizzazione delle frange più giovani della sua popolazione musulmana. Ora, la maggioranza degli abitanti di questa cité che sorge a Grigny, a una trentina di chilometri da Parigi, ha votato per il leader di France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon. Qui, dove il Pcf non ha mai perso consensi e dove il sindaco è ancora un comunista, il candidato dell’estrema sinistra francese è arrivato in testa al primo turno delle presidenziali con il 42% delle preferenze, superando sia Macron sia la Le Pen. Non avendo Mélenchon dato indicazioni di voto per il secondo turno, è lecito chiedersi a chi andranno le sue preferenze (19,6% al primo turno) il prossimo 7 maggio. Bernard Delacase, saldatore pensionato che incontriamo nel solo praticello spelacchiato della Grande Borne, dice: «Non voglio una Francia prigioniera dei burocrati di Bruxelles e degli oligarchi della finanza, perciò sono costretto a votare per Le Pen. Mi costa farlo per via delle divergenze che ancora mi separano dal Front National, ma so che farò la cosa giusta ». È vero, parte dei programmi economici dei due leader si sovrappongono, poiché preconizzano entrambi il protezionismo, la presenza di uno Stato forte, le pensioni a 60 anni, la riforma della legge sul lavoro e il mantenimento di quella sulle 35 ore, il rifiuto dei trattati di libero scambio. Le Pen e Mélenchon condividono anche alcune scelte politiche quali l’uscita dall’Ue, e la difesa della sovranità, nazionale per l’una, del popolo per l’altro. «Ma io tra un banchiere e una fascista preferisco astenermi », spiega una signora che non vuole dire il suo nome e che incrociamo all’ingresso di un piccolo supermarket. «Ero tranquilla, perché sicura che Mélenchon ce l’avrebbe fatta. Adesso sono confusa, anche se è certo che non voterò uno che esce dall’Ena (la scuola che sforna l’élite politica francese, ndr) e che si atterrà scrupolosamente al programma di Hollande. Per noi, Macron presidente significa lavorare di più e guadagnare di meno. Quanto a Le Pen, sono certa che non passerà». Dice il politologo Henri Vernet: «Su scala nazionale, molti elettori di Mélenchon provengono dal Front National. Sono quegli ex comunisti che avevano virato nel tempo verso l’estrema destra e che il candidato gauchiste ha saputo sedurre con una campagna strategicamente ineccepibile. Tutti questi voteranno Le Pen, come chi riconosce analogie nei due programmi. Ciò detto, le ultime previsioni indicano che solo un terzo del bacino elettorale di Mélenchon si riverserà su Marine. Ci sarà poi un terzo che voterà Macron e un terzo che si asterrà dal voto». Sebbene i sondaggi indichino che al secondo turno Macron trionferà, raggiungendo il 62-65% dei consensi, ieri pomeriggio il presidente uscente François Hollande ha comunque voluto strigliare quelli che considerano già vinte le presidenziali. «Non vi siete resi conto di quello che è successo domenica. Tutti hanno guardato il risultato come un ordine d’arrivo ma il punto è che al secondo turno è passata Marine Le Pen». Poco dopo è arrivata la risposta di Macron: «Non ho mai pensato di aver già vinto. Se le cose fossero già vinte, non avremmo visto elezioni all’estero finire come sono finite». Sempre ieri, anche la Cgt, il principale sindacato dei lavoratori si s’è schierato in un comunicato contro Le Pen, sia pure senza mai nominare Macron. Quando chiediamo ad Abdel Jaoud, autista di camion che vive a Grigny, se è d’accordo con chi critica il leader di estrema sinistra Mélenchon per non aver chiesto di sbarrare la strada alla candidata di estrema destra, lui alza le spalle. Poi dice: «È vero, Le Pen ce l’ha con tutti gli immigrati, ma Macron favorirà soltanto i ricchi, quindi ha fatto bene Mélenchon ha non dare indicazioni di voto. Prima di scegliere, io aspetterò di vederli duellare nel prossimo dibattito televisivo».
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Il Fatto quotidiano 27.04.2017
La sinistra si prepara al listone “modello 2013”
Strategie Da Bersani agli ex Sel si ricostituisce la coalizione
“Italia Bene Comune”.
Pian piano arriva pure Giuliano Pisapia
di Tommaso Rodano

Sarà l’effetto Mélenchon. O il piano inclinato che inizia dalle primarie di domenica –
la nuova incoronazione di Renzi – e conduce al voto anticipato in tempi più o meno
rapidi. Quale che sia la ragione, la sinistra italiana sembra aver scoperto all’improvviso
la voglia di rimettere insieme i pezzi, e soprattutto la necessità di preparare una lista comune
in vista delle politiche. Gli indizi sono diversi, e sono arrivati tutti insieme. L’intervista di Massimo D’Alema al l’Huffington Post il giorno dopo il voto francese, quella di Giuliano Pisapia a Repubblica
ieri, poi l’intervento di Nicola Fratoianni in risposta a D’Alema, l’incontro a porte chiuse
tra Pisapia e i gruppi parlamentari di Mdp e quello pubblico, nel pomeriggio, tra Pierluigi
Bersani e Pippo Civati. Non ci si nasconde più: la stessa area politica che era partita ad inizio legislatura (nel 2013) sotto l’insegna “Italia Bene Comune”, dopo anni di rottamazione renziana e scissioni sempre più molecolari dentro e fuori dal Parlamento, è finalmente pronta a ricompattarsi alla sinistra dell’ex premier (che nel frattempo l’ha spogliata di buona parte dell’elettorato).
Il primo a parlarne in termini espliciti, dicevamo, è stato D’Alema: “Auspico una fase
costituente che porti a un movimento unico, aperto e plurale che unisca Articolo 1, Sinistra
italiana, Campo progressista, con l’obiettivo di creare una forza in grado di incidere”.
Gli ha risposto Fratoianni: “D’Alema propone un punto di vista interessante e voglio evitare
che il suo appello cada nel vuoto. L’unità della Sinistra è importante, certamente,
ed è altrettanto vero che presentarsi alle elezioni politiche con tre o quattro liste a sinistra
del Pd potrebbe essere poco intelligente”. La condizione – spiega poi al Fatto – è che il
nuovo incontro sia nel segno di una “radicale discontinuità” rispetto alle politiche renziane.
Ce l’ha con Giuliano Pisapia. L’ex sindaco nell’intervista di ieri si era prestato a un ultimo appello a Renzi per una legge elettorale con premio di coalizione, nell’ottica di una (inverosimile) rinascita del
centrosinistra a guida Pd. L’ex premier ha risposto picche, confermando la totale indifferenza
a tutto ciò che sopravvive alla sua sinistra: ha stabilito con rinnovata spavalderia che
il vincitore delle primarie di domenica (ovvero lui medesimo) sarà anche il prossimo candidato
a Palazzo Chigi. Gli altri si organizzano di conseguenza. I confini del Campo progressista già coincidono, in pratica, con quelli di Articolo 1. Pisapia ha prima sfilato con Bersani, Roberto Speranza, Enrico Rossi e Francesco Laforgia al corteo milanese del 25 aprile, poi ha riunito i gruppi parlamentari di Mdp al Capranichetta, di fronte a Montecitorio. L’ex sindaco – sottolinea qualcuno tra i contraenti
della “nuova”sinistra – si sta autocandidando a prenderne la guida. Ma per trovare quel nome c’è tempo. Pippo Civati invece aspettava questo momento da due anni, da quando ha mollato il Pd renziano per primo, in splendida solitudine. “Ora facciamo un centrosinistra che va da Boccia a Che
Guevara”. Per Boccia intende Francesco, deputato (ancora) Pd e sostenitore di Michele Emiliano.
Il trionfo di Renzi nelle primarie – è convinto Civati, e non solo lui – provocherà nuovi smottamenti in uscita dal Pd. Intanto il fondatore di Possibile incontra Bersani: “Prepariamo giorni migliori”. Si dicono d’accordo su prossima (ennesima) “costituente” della sinistra. Per Civati, “possiamo iniziare anche domani”.
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La Repubblica 27.04. 2017
Le Scelte dei Partiti
di Goffredo De Marchis

Il retroscena. Accelera la costruzione di un nuovo soggetto che sfiderà i dem alle elezioni. “Non deve essere né una riedizione della Ditta ex Ds né un listino di sinistra”. L’obiettivo di coinvolgere Prodi e Letta. I bersaniani offrono la guida all’ex sindaco di Milano
Giuliano lavora al “nuovo Ulivo” dopo Mdp in arrivo Boldrini e Grasso. Civati interessato e ipotizza l’arrivo di Boccia. “Difficile tenere insieme lui e Che Guevara, con un buon programma ci si può riuscire”
ROMA.
Laura Boldrini, com’era naturale. Ma anche Pietro Grasso, meno scontato. «La finestra di una coalizione con il Pd si chiude, mi pare. Prepariamoci a fare il centrosinistra da soli», dice Giuliano Pisapia in un incontro a porte chiuse a Roma. La lista a sinistra del Pd accelera e vede bene i presidenti delle Camere nel proprio recinto. Per dimostrare che è largo, aperto, non solo rosso, comprende movimentisti come Pippo Civati, uomini della vecchia ditta come Bersani e D’Alema ma anche figure istituzionali. Quindi, non estremista, credibile, alternativa di governo. Ci vorrebbe la carezza di Romano Prodi nel nome appunto non di una Cosa di sinistra ma di un soggetto più colorato. Nessuno si azzarda a fare il nome del Professore, a tirarlo per la giacca. Lo fa Pier Luigi Bersani evocandolo per dimostrare la miopia del Pd renziano: «Il Partito democratico è poco generoso. E sembra voglia coltivare l’autosufficienza. Ecco, se gli passasse davanti il nuovo Prodi sono convinto che gli direbbe “ciao ciao”». Il nuovo Prodi, per ora, è lo stesso Pisapia. Appare come un federatore riconosciuto da tutti, al netto delle divisioni sempre in agguato quando ci si muove nel campo ulivista. «Ma l’unità della sinistra è ineluttabile, risponde alla forza delle cose - confidava Bersani ieri ai suoi fedelissimi -. Tutto spinge a prendere un’iniziativa politica vera». Per questo, ricorda l’ex segretario, il partito degli scissionisti si chiama Movimento Articolo 1. Va verso qualcosa di nuovo. Mai pensato di andare da soli, sono nati per creare un’alleanza con altri. E per trovare sponde fuori dalla Ditta che significa ex Pci. Enrico Letta è un altro sogno nel cassetto. Era tutto pronto da due mesi, racconta chi ha partecipato dietro le quinte all’impresa. Hanno seguito il percorso Roberto Speranza, Maurizio Migliavacca, Massimo D’Alemae e altri. Bisognava soltanto aspettare la mossa di Matteo Renzi. «Abbiamo apprezzato molto la prudenza di Pisapia - spiega un bersaniano -. Era giusto dialogare prima con Renzi. Ma la mosse di Matteo sono facili da indovinare, le capirebbe anche un bambino». Quindi sapevano che dal probabile segretario del Pd sarebbe arrivata la porta in faccia all’idea di una coalizione. Ora si può navigare in mare aperto. Pisapia leader sembra andare bene anche a Civati, uno che in nome della coerenza dice di no a quasi tutti, rifugiato nella sua creatura Possibile dopo aver preso il 15 per cento alle scorse primarie dem. «Ci sono arrivati tardi ma ci sono arrivati. Non possiamo frammentarci e una sinistra unita può persino rubare voti ai 5stelle, quelli che erano del Pd e che al Pd non torneranno mai». Il capogruppo di Mdp Francesco Laforgia non ha esitazioni: «Se Giuliano è disponibile può tenere insieme le varie anime di questa forza». Con l’allora sindaco di Milano Laforgia, da segretario cittadino del Pd, ha lavorato prima alla vittoria poi all’amministrazione della città. «Pisapia può essere la chiave per unire ed è un volto fresco. Sicuramente dobbiamo superare - dice Laforgia - il perimetro angusto della vecchia Ditta». Sì, ma come? Aprendosi ai movimenti, alle associazioni, alle esperienze civiche. Secondo Laforgia, tenendo fuori Sel e tutte le anime della sinistra radicale «perchè il pericolo di rifare la Sinistra arcobaleno va assolutamente scongiurato». Civati fiuta il rischio: «Non è semplice mettere insieme Che Guevara e Francesco Boccia, ma con un programma ci si può riuscire». Boccia non è citato a caso. Molti, nella lista di centrosinistra, sono convinti che dopo le primarie altri usciranno dal Pd, soprattutto dallo schieramento che sostiene Michele Emiliano. Oggi sembra tutto già scritto: la vittoria di Renzi domenica, il suo no alle coalizioni, la nascita della lista rossa che punta a riformare lo spirito del centrosinistra. Ma il percorso non è stato così lineare. Pisapia è stato sensibile alle sirene renziane di un’alleanza col Pd o addirittura di una sua presenza nelle liste dem. Gli scissionisti sapevano di non poter tornare a braccetto con l’ex premier. Però l’appello del leader di Campo progressista nel colloquio con Repubblica, è apparso un tentativo disperato di coalizzarsi con chi non ha intenzione di farlo mantenendo fermo il principio di una corsa tra liste e non tra coalizioni. E ieri Pisapia ha vissuto male le parole di Renzi. «La finestra di un dialogo con lui si è chiusa - ha detto nella riunione con parlamentari e consiglieri regionali -. Rifacciamo il centrosinistra. E se Renzi vuole fare il Macron italiano avremo ancora più spazio».
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