sabato 10 giugno 2017

SULLA STAMPA DI SABATO 10 GIUGNO

La Stampa 10.6.17
“Con l’app che trilla mai più bambini dimenticati in auto”
Ideatori sono due diciottenni torinesi
Come funziona Se c’è un bimbo solo in auto la app suona sul cellulare
di Federica Vivarelli


Se con l’ultimo caso di cronaca si allunga la lista delle piccole vittime dimenticate in auto dai familiari, c’è chi a, 18 anni appena compiuti, ha pensato a un sistema per evitare altre tragedie. È un’app per il cellulare di una semplicità disarmante. Basta scaricare il sistema sul telefono e un sensore «rileva se c’è qualcuno seduto sul seggiolino. Nel caso in cui ci si allontanasse dall’auto, dimenticando un bambino, arriva una notifica sul cellulare che continuerà a suonare a mo’ di sveglia».
I nostrani Bill Gates della sicurezza stradale si chiamano Lorenzo Bergadano e Gionatan Cernusco: hanno appena finito il quarto anno all’istituto Avogadro di Torino e «hanno sviluppato questa idea completamente da soli – racconta la professoressa di informatica Emanuela Mormile – hanno addirittura girato uno spot pubblicitario, con il coinvolgimento dei loro familiari».
Tutto inizia dal caso di cronaca precedente: «Circa un anno fa abbiamo letto la notizia di un bambino morto perché dimenticato in macchina dal padre, un fatto che ci ha davvero sconvolti – racconta Lorenzo – anche perché aveva proprio l’età di mio fratello. Ma soprattutto potrebbe capitare a tutti. Lo vedo anche nei nostri genitori, nello stress si fa difficoltà a tenere a bada tutto». Si ritrovano così a parlarne in classe, e arriva l’idea.
Con il compagno Gionatan bastano giusto un paio di mesi per mettere mano al software. Arriva così We Drive: «ancora da commercializzare. Ma noi siamo pronti», sottolinea Lorenzo. Insieme alla notifica «ricorda bambino» c’è anche quella che ricorda quando la macchina si sta avvicinando alla riserva, e rileva i benzinai nelle vicinanze. E ancora: la notifica «trova parcheggio», per localizzare dove è stata lasciata la macchina. Infine l’app è collegata anche al sistema airbag: in caso di scoppio il sistema manda in automatico tre messaggi con richieste di aiuto e l’indirizzo di dove si trova la macchina. «Sembra assurdo, ma succede che si dimentica un bambino in macchina ma non il telefono – conclude Lorenzo – ci è sembrato interessante sfruttare allora il cellulare per necessità che rientrano nella vita di tutti i giorni. Poi, l’idea di utilizzare le nostre conoscenze informatiche per salvare delle vite ci rende contenti».

Repubblica 10.6.17
L’obbligo della sinistra
Stefano Cappellini


IL FALLIMENTO della legge elettorale depositerà un’altra coltre di veleni sulla politica italiana ma potrebbe lasciare in dote un regalo prezioso alla sinistra: il tempo. Tempo di riflettere, di ridarsi una strategia comune e, se non è troppo chiedere alle sue rissose componenti, un progetto condiviso di governo del Paese. Ora che la corsa alle elezioni in autunno sembra aver ricevuto uno stop, questo tempo non andrebbe sprecato.
Renzi ha fatto una mossa, offrendo a Giuliano Pisapia un’alleanza al Senato. La legge in vigore, scheletro del vecchio Porcellum, prevede infatti la possibilità di coalizzarsi per Palazzo Madama. Pisapia ha spiegato che la proposta arriva tardi e male. La partenza del dialogo è faticosa e piena di ambiguità. A chi parla Renzi? Al solo Pisapia? O è disposto ad aprire anche ai compagni di strada dell’ex sindaco di Milano, cioè l’ala scissionista di Mdp? E quest’ultima è disposta a trattare o l’unico obiettivo è ormai sfidare il Pd alle elezioni in uno scenario di probabilissima sconfitta comune?
Al momento la certezza, poco rassicurante, è che si discute poco di contenuti e molto di veti personali. Renzi avanza la pretesa di scegliere alleanze ad personam in casa altrui — Pisapia sì, i suoi alleati no — con la conseguenza esplicita che il dialogo naufraga prima ancora di cominciare e quella implicita di alimentare il sospetto che l’interlocutore privilegiato della prossima legislatura sia già stato individuato in Silvio Berlusconi. Dall’altra parte, però, c’è chi vaneggia di eventuali intese solo con un Pd derenzizzato nei contenuti, trascurando il piccolo particolare che sarebbe servito battere Renzi al congresso per pretenderlo. Dal momento in cui l’ex premier ha vinto le primarie, è con il suo Pd che bisogna trattare altrimenti siamo alla replica speculare degli ostracismi personali.
Un accordo tecnico al Senato, ammesso e non concesso che sia raggiungibile, non avrebbe senso. Gli farebbero difetto valori, ideali e programmi. Soprattutto, un’alleanza non si decide perché lo consente una tecnicalità della legge elettorale. Al di là delle chiacchiere e della propaganda incrociata, il bivio dovrebbe essere chiaro a tutti. Se Pisapia e Mdp intendono costruire un polo di centrosinistra vocato al governo, con il Pd devono cercare una convergenza. In caso contrario, volenti o no, le loro ambizioni rischiano di tradursi in velleità e l’unico vero obiettivo rimarrà, per qualcuno di loro, ottenere tramite le elezioni politiche ciò che non si è avuto la forza di ottenere al congresso: disarcionare Renzi. Il quale, per parte sua, sembra aver capito almeno in parte quali disastri possano prodursi se il principale partito non si preoccupa di organizzare uno schieramento più ampio o, peggio, si compiace dell’esistenza di nemici esterni, come a dimostrare di aver bonificato la purezza della razza. Ora Renzi deve scegliere, e non solo per paura che qualche padre nobile prenda posizione contro il Pd. Il punto è decidere se sfidare Grillo con la forza di un campo di idee non ridotto al presunto potere taumaturgico del leader oppure rinunciare a quel campo e, di fatto, rincorrere il M5S in una gara a chi più si dichiara fuori dai vecchi schemi di destra e sinistra. È nota l’obiezione di chi si è già rassegnato alle due sinistre elettorali l’una contro l’altra armata: il proporzionale consente a tutti di correre in proprio e rimandare a dopo il voto le eventuali convergenze. Ma il dopo, in politica, si costruisce. Oppure, quando arriva, è sempre peggiore di come si era sperato.

Repubblica 10.6.17
Pisapia risponde a Renzi “Ora vuole l’unità? Solo se fa le primarie”
E il leader dem non chiude: “Trattiamo, il tempo c’è” L’ex sindaco di Milano: subito ius soli e reato di tortura
Tommaso Ciriaco


ROMA. Matteo Renzi “chiama” Giuliano Pisapia, l’ex sindaco di Milano risponde. E rilancia: «Se davvero vuole la coalizione di centrosinistra, faccia le primarie. Poi vediamo chi le vince». Dopo il siluramento grillino del sistema elettorale tedesco, la svolta del segretario del Pd smuove le acque progressiste. Al centro torna l’ipotesi di un accordo organico al Senato, dove un’intesa abbasserebbe la soglia d’accesso dall’8% al 3%. E il leader di Rignano come valuta la contro-proposta? «Teniamo aperta la porta – detta la linea ai suoi – Certo, ho appena vinto ai gazebo ed eviterei un’altra campagna, ma è anche vero che il tempo non manca, visto che non vogliono mandarci a votare...». E a sera, un petalo del Giglio magico come Francesco Bonifazi muove un altro timido passo in avanti: «Facciamo le primarie e vediamo chi vince? Bene. Chi perde che fa, caro Giuliano: resta o scappa?».
La prima reazione di Pisapia al ramoscello d’ulivo renziano è rigida, quasi ostile. «Sono per il massimo dell’unità – premette ma non si può fare un’apertura dopo mesi in cui abbiamo cercato un’alleanza e dopo una sconfitta su una riforma elettorale che presupponeva coalizioni diverse ». L’ex sindaco di Milano avrebbe preferito un’assunzione di responsabilità pubblica, aperta, ufficiale. In ogni caso, poco dopo sfuma i toni e sfida Renzi a essere conseguente. In fondo, i gazebo sono l’orizzonte indicato mesi fa per evitare le larghe intese con Berlusconi: «Solo così potremo costruire una coalizione ampia e unita, capace di governare».
Gli ostacoli sono tanti, ovviamente. Nella galassia di sinistra Pisapia è tra i pochi a considerare Renzi qualcosa di meglio di un avversario da archiviare. «Noi dobbiamo vedere le carte di Renzi – sostiene il suo braccio destro, Massimiliano Smeriglio - Naturalmente serve discontinuità politica e programmatica». L’ostilità contro il leader di Rignano, invece, è cavalcata innanzitutto da Massimo D’Alema. Ma anche tra i bersaniani c’è disagio per un nuovo “abbraccio”: «Sono scettico – confida Miguel Gotor – perché non ne vedo le condizioni politiche. Renzi si è già fatto il suo plebiscito e non credo voglia rimetterlo in discussione». Eppure, Pierluigi Bersani non si farà schiacciare sulla linea dalemiana. E nel Pd crescono i fan della coalizione: «Noi - ammette l’orlandiano Andrea Martella - siamo per le primarie di centrosinistra ». E poi c’è il “fattore P”, nel senso di Romano Prodi. Il Professore è sempre più vicino al leader milanese e lavora per ribaltare gli equilibri progressisti.
Tocca a Renzi, adesso, decidere. Nei momenti di sconforto il segretario dem continua a tirarsi su profetizzando un incidente parlamentare che potrebbe ribaltare di nuovo il quadro. Ma è chiaro che l’orizzonte della legislatura torna ad essere quello del 2018, tanto che proprio Pisapia in linea con la campagna di Repubblica - invita il governo a condurre in porto alcune leggi chiave: «Anziché fare accordi con FI, M5S e Lega sulla legge elettorale prendiamo l’impegno di un percorso comune per approvare lo ius soli, il reato di tortura, le disuguaglianze, il codice antimafia».
Per adesso, insomma, ragionare di nuove primarie sembra davvero l’unica strada per ricucire un’alleanza frantumata da scissioni e veleni. Il punto di caduta, poi, potrebbe essere una coalizione organica a Palazzo Madama, con tanto di listone, oppure soltanto una “desistenza”. Quel che è certo è che l’onda unitaria si ingrossa di giorno in giorno: «Matteo ha vinto le primarie del Pd va ripetendo in giro il capo della minoranza dem Andrea Orlando - ma perderà le elezioni. È un problema con cui fare i conti».

Corriere 10.6.17
Le condizioni di Pisapia a Renzi



ROMA Un nuovo patto sulla legge elettorale? «Non sono ottimista», dice Matteo Renzi. E non è l’unico, visto che i 5 Stelle puntano diritti al voto e gli altri partiti sembrano disorientati da quello che lo stesso segretario del Pd definisce un «fallimento impressionante».
Fallimento che prefigura nuovi scenari. Se restasse la legge attuale, che prevede uno sbarramento regionale dell’8 per cento al Senato, il Campo Progressista di Giuliano Pisapia sarebbe probabilmente fuori. Forse anche pensando a questa ipotesi, Renzi nei giorni scorsi ha lanciato un segnale di apertura all’ex sindaco di Milano e ieri ha spiegato che «Corbyn adesso aprirà sicuramente un dibattito nella sinistra europea». Pisapia risponde non troppo entusiasta: «Leggo di una proposta da parte del segretario del Pd quantomeno insolita». Anche perché, spiega Pisapia, viene rilanciata a poche ore dal «tentativo fallito di far approvare con Forza Italia, M5S e Lega una legge elettorale che avrebbe portato all’ingovernabilità o a larghe intese». L’ex sindaco si dice disponibile al dialogo, ma tenendo fermo il no «a qualsiasi alleanza con il centrodestra». Non solo: «Se Renzi vuole la coalizione di centrosinistra, faccia le primarie e vediamo chi le vince». E in Parlamento si impegni in tre cose: ius soli (il diritto per cui si è cittadini del Paese in cui si nasce, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori, ndr ), introduzione del reato di tortura e codice antimafia. Gli risponde a distanza, via Twitter, il tesoriere del Partito democratico, Francesco Bonifazi, raccogliendo la sfida lanciata dall’ex sindaco di Milano e rilanciando: «Facciamo le primarie e vediamo chi vince? Bene. Chi perde che fa, caro Pisapia: resta o scappa?».
Renzi, nella sua rassegna stampa mattutina, definisce i 5 Stelle «inaffidabili»: «Hanno tradito il patto con gli iscritti al blog». Grillo risponde in serata: «Abbiamo lottato contro dei mentitori seriali». Sulla futura legge Renzi precisa: «Non chiediamo un decreto. Vedremo se ci saranno le condizioni per un nuovo testo, ma non sono ottimista». Comunque «una legge già c’è, ha bisogno solo di alcuni accorgimenti tecnici». Tesi condivisa dai 5 Stelle. Silvio Berlusconi spera di riuscire a portare a casa un accordo sul proporzionale perché, come spiega Giovanni Toti, «vuole arginare le spinte dell’antipolitica».
E il governo? Renzi assicura «pieno sostegno». Intanto si avvicina un’altra data da tenere d’occhio: martedì 13 giugno. Arriva in Aula, infatti, il ddl di riforma del processo penale, sul quale incombe lo spettro di altri franchi tiratori. Ieri il Consiglio dei ministri ha autorizzato il voto di fiducia sul decreto, ma la decisione finale spetterà al premier Gentiloni. La questione è controversa: la fiducia è voluta dal ministro Andrea Orlando, ma finora non è passata per non scontentare i centristi. Intanto Orlando, in vista delle Amministrative di domenica, da Padova rilancia il messaggio: «Basta con gli uomini soli al comando».
Al. T.

Il  Fatto 10.6.17
Sinistra unita, il cammino può essere comune
di Stefano Fassina

L’appello di Tomaso Monatanari e Anna Falcone per “Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” pubblicato martedì dal Fatto ha il merito di proporre un terreno di gioco senza barriere d’accesso: assume, correttamente, il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre come discrimine di fase, ma il No al quesito non è la password per entrare in gioco. L’ingresso in campo è “filtrato” soltanto dalla griglia programmatica a maglie larghe e dalla disponibilità a praticare un metodo partecipativo per le scelte fondamentali di programma e protagonisti.
Inoltre, libera il percorso unitario potenziale da astratti richiami a formule politiche e da vincoli a leadership predefinite. Segnala un asse distintivo – un neo-umanesimo fondato su lavoro e conversione ambientale – non i “vicini di casa” da escludere. Ancora la difficile navigazione ai territori, in particolare alle esperienze in corso delle liste unitarie e di alternativa nate in tante città nelle tornata amministrativa dello scorso anno e per il voto dell’11 giugno.
La rete de “Le città in comune”, comunità aperta e in progress di centinaia di amministratrici e amministratori comunali e regionali, eletti in tutta Italia in liste unitarie e composite, partecipate dai partiti della sinistra storica extra Pd e da tante energie fresche di movimenti per i beni comuni, comitati tematici, associazioni di cittadinanza attiva, personalità della cultura e della rappresentanza economica e sociale, c’è.
Noi, amministratori e amministratici da Torino a Trento, da Milano a Bologna, da Firenze a Roma, da Napoli a Messina e in uno sciame di medie e piccole città, riconosciamo la nostra prospettiva nell’orizzonte dell’appello di Montanari e Falcone.
Le liste unitarie e di alternativa delle città sono ancora parziali. Ma sono la prima proxy reale della virtuale “Lista Unica” a sinistra sulla quale ha registrato un alto potenziale di consenso la rilevazione di Antonio Noto illustrata dal Fatto. Al crepuscolo della famiglia socialista continentale, spenta o snaturata dal virus neoliberista blairiano, sono determinanti per la rinascita della sinistra di popolo, già cresciuta in Spagna con Podemos, in Francia con La France Insoumise, in Portogallo in forme articolate e in Uk grazie al Labour trainato dal neo-keynesismo di Corbyn.
La rete delle città in comune parteciperà con entusiasmo all’assemblea del 18 giugno. Sarebbe un segnale di responsabilità e di credibilità generale la presenza all’assemblea proposta da Montanari e Falcone anche di chi è impegnato in Mdp e in Campo Progressista.
A tale fine, le parole di Enrico Rossi e Roberto Speranza, tra gli altri, sono incoraggianti. Altrettanto incoraggiante sarebbe riconoscere la possibilità di partecipare anche all’iniziativa del primo luglio di Campo Progressista e Mdp.
Le differenze tra di noi esistono: sulla declinazione del nesso Italia-eurozona-Unione europea; sullo statuto economico e politico del lavoro; sulla regolazione dei mercati interni e internazionali; sui limiti ai diritti individuali. Attraverso meccanismi partecipativi estesi possono, però, convergere su un programma ambizioso e classi dirigenti adeguate. La sfida non è superare la soglia del 5% per sistemare uno spicchietto di ceto politico.
La sfida è ridare voce e presenza politica a chi, spiaggiato da regressione economica e sociale, è stato abbandonato. Proviamo a camminare insieme.

Repubblica 10.6.17
La doppia anomalia
Massimo Giannini


LA “CONFIDENZA” del boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano, che in carcere rivela a un camorrista «Berlusca mi chiese questa cortesia…», non è solo una voce lontana che sale dall’Oltretomba della Repubblica per farci risprofondare nell’eterno mistero delle stragi mafiose. E non è neanche la “prova giudiziaria” definitiva che inchioda il Cavaliere alle sue responsabilità penali.
NON basta una chiacchiera, intercettata durante l’ora d’aria, per stabilire una volta per tutte che lui è davvero il mandante occulto della tragica mattanza che insanguinò l’Italia tra il 1992 e il 1993. Ma è senz’altro la “prova politica” di quanto sarebbe stata e sarebbe tuttora innaturale, dissennata e suicida la prospettiva di un “governissimo” tra Renzi e Berlusconi.
Un irriducibile manipolo di franchi traditori, insieme a un inaffidabile esercito di malpancisti grillini, si è preso la briga di assassinare in Parlamento l’accordo neo-proporzionale “alla tedesca”. È stata una farsa. Ma è stata anche una fortuna. Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se fosse andato in porto lo scellerato “patto extra-costituzionale” nato solo sulla base delle “convenienze” dei leader (secondo la definizione impeccabile di Giorgio Napolitano). Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se il caso Graviano fosse esploso dopo le elezioni anticipate del 24 settembre e dopo l’auspicata nascita della Grosse Koalition de’ noantri tra Pd e Forza Italia. Ci ritroveremmo a fare la manovra economica d’autunno e la riforma del fisco, le misure straordinarie sulla sicurezza e sull’immigrazione, la nuova legge sulla giustizia penale e sul codice antimafia, con un alleato nuovamente sospettato di aver trattato con le cosche quell’attacco al cuore dello Stato che 25 anni fa preparò il terreno alla sua “discesa in campo”. E considerato “un traditore” da un capobastone (in prigione dal ’94 per aver organizzato materialmente gli attentati di Milano Roma e Firenze) perché nonostante i «favori » ricevuti (cioè le bombe), «lui mi sta facendo morire in galera…».
Le parole di Graviano andranno attentamente vagliate dai magistrati, e sono state fermamente smentite dagli avvocati. Ma confermano la persistenza di una “anomalia berlusconiana”, che in tutti questi anni nessuna Procura della Repubblica e nessun tribunale della Storia sono mai riusciti a dissolvere. E non sono solo i “soliti sospetti” di collusione con Cosa Nostra, a pesare in questo giudizio. Sono tutti i capitoli che compongono l’infinito e spesso dimenticato “Romanzo del Cavaliere Mascariato”. È la condanna definitiva per frode fiscale su Mediaset, scontata tra i vecchietti di Cesano Boscone. È l’innumerevole filiazione dei processi Ruby, arrivati a quota “quater”, dai quali emerge ogni volta un quadro di misfatti e di ricatti ormai quasi più penoso che criminoso. È quel grumo gigantesco di interessi, privati e pubblici, passati e futuri, che ieri lo ha spinto da premier “ in chief” a varare con impudenza 38 leggi ad personam, e che oggi lo induce da leader “in attesa” a guardare con impazienza alle scelte sulla governance della Rai o sulle norme anti-scalata che dovrebbero difendere il suo impero tv dalle mire di Vivendi. È quella certa idea dello Stato come “ res propria”, più che ” res publica”. Delle istituzioni come strutture serventi, più che “organi di garanzia”. Del principio di legalità come vincolo burocratico, più che valore democratico. Insomma, tutto ciò che abbiamo imparato a conoscere in un Ventennio, che ha costellato la sua avventura politica e che continuerebbe ad accompagnarlo sempre, in qualunque nuova maggioranza bipartisan lo si volesse ingaggiare.
Per tutti questi motivi è sorprendente che Renzi abbia pensato non solo di scrivere la nuova legge elettorale, ma anche poi di governare insieme al Cavaliere, schierandolo dalla parte sbagliata nel derby “responsabili contro populisti”. È preoccupante che un segretario, privo di questo “mandato straordinario”, si sia illuso di poter traghettare il Pd (giustamente depurato di ogni ideologia, ma colpevolmente svuotato di ogni identità) verso uno sbocco che ne stravolge la natura e il destino. È inquietante che la “talpa cieca” del Nazareno (come l’ha definita Ezio Mauro) abbia pensato non di scavare il suo tunnel a sinistra, ma di scavarsi la fossa con la destra.
Ma in questa vicenda oscura resta da segnalare anche un’altra anomalia. Il problema non è che le scottanti rivelazioni di un “mammasantissima” escano proprio adesso, nei giorni in cui il Palazzo si scontra sul sistema elettorale e si incontra sulle Larghe Intese: il sacro anatema dell’Unto del Signore, “giustizia a orologeria!”, lascia il tempo che trova in un Paese in cui quell’orologio, che incrocia inchieste giudiziarie a raffica e scadenze elettorali a ripetizione, non smette mai di ticchettare. La coincidenza spiacevole è un’altra, e cioè che tra i quattro pm di Palermo che proprio ieri mattina hanno depositato la solita Treccani da 5000 pagine di intercettazioni ci sia anche Nino Di Matteo, toga anti-mafia di primissima linea, che giusto dieci giorni fa al seminario sulla giustizia organizzato dai Cinque Stelle a Montecitorio, rispondendo a chi gli chiedeva se si sentisse pronto a fare il ministro tecnico di un governo pentastellato, aveva risposto testualmente: «L’esperienza di un magistrato può essere utile alla politica».
La sala grillina lo ha acclamato con una standing ovation. Luigi Di Maio lo ha accolto con un «siamo contenti della sua disponibilità ». Non ci sogneremmo mai di pensare che ci sia un nesso tra questo endorsement e il caso Graviano. Primo, perché Di Matteo è magistrato integerrimo. Secondo, perché la procura palermitana è organo collegiale. Ma in questa Italia, che scivola ormai verso il “teatro dell’assurdo”, almeno chi opera nelle istituzioni ha il dovere di non recitare troppe parti in commedia.

Repubblica 10.6.17
“Non avevamo capito che sul Trentino saltava tutto”
“Ma anche i dem sono rimasti sorpresi dal numero di franchi tiratori tra di loro. Trattare ormai è impossibile”
Annalisa Cuzzocrea


ROMA. Onorevole Toninelli, è possibile un nuovo tavolo sulla legge elettorale?
«Il tentativo è completamente fallito. Impossibile che si possa ripartire. Qualunque legge elettorale sarà affossata dai franchi tiratori pd».
Prima o poi al voto bisognerà pur tornare.
«Magari con calma, modificando i regolamenti sui voti segreti, ci si potrà ancora lavorare. Non a tre mesi dalla fine della legislatura per correre al voto».
Il Pd dice che avete violato i patti. Che lei sapeva bene che l’emendamento sul Trentino era un problema. È vero?
«Se estendere questa legge elettorale anche in quella regione era un problema così grande, dovevano fermare loro quell’emendamento».
Come?
«Restando in aula. 36 assenti su 288 è una percentuale enorme in un giorno del genere. Se fosse come dicono, alla dichiarazione di voto favorevole di Fraccaro avrebbero dovuto interrompere i lavori o accantonare l’emendamento».
Crede che il Pd non aspettasse altro?
«No. Penso che loro la legge la volessero. Solo, contavano di avere un numero di franchi tiratori inferiore. Rosato è scattato in piedi per lo stupore, ma non davanti al nostro voto. Davanti a quelli che sono mancati a loro».
Secondo l’Huffington Post il tabellone che per sbaglio ha mostrato il voto segreto prova che lei e Andrea Cecconi stavate votando no. Volevate dare una mano al Pd?
«Non è così. Il video dimostra che abbiamo votato sì. Io il 30-40 per cento delle votazioni le inizio sbagliando ».
Cos’ha pensato quando ha visto dietro di sé colleghi che esultavano?
«Che nessuno conoscesse l’effetto di quel voto. Avevano ascoltato le dichiarazioni di Fraccaro, sapevano che era un emendamento giusto. Nessuno aveva capito che su quello poteva saltare tutto».
Nemmeno lei?
«Sebbene sapessi che era importante, non avrei mai pensato che il Pd ammazzasse un percorso miracoloso per un patto d’acciaio con un partitino».
Le vostre divisioni interne hanno pesato. Vi hanno spinto a non blindare l’intesa. Ci sono strascichi?
«No. La discussione ha aumentato le ore di lavoro, ma era fondamentale. Passare dal Rosatellum a dove stavamo arrivando significava aver scalato l’Everest ».
Come si fa a siglare un accordo se poi si portano in aula emendamenti non condivisi?
«Sarebbe stato sufficiente che avessero inserito il voto disgiunto. Non ce l’hanno concesso, e abbiamo deciso di tenere cinque emendamenti per far capire che facevamo sul serio».
Se avessero detto sì al disgiunto avreste ritirato tutto il resto?
«Sì. Ci bastava quello. Garantiva agli elettori la libertà di scelta che chiedevamo».

Repubblica 10.6.17
Sul programma si gioca la possibilità di una coalizione che somigli all’Ulivo
Da Berlusconi a Corbyn un Pd che guarda alla sua sinistra deve cambiare identità
di Stefano Folli


NEL giro di poche ore, la rotta politica di Matteo Renzi è cambiata in modo radicale. Al punto che ancora una volta non è chiaro dove finisce la tattica e comincia la strategia. O viceversa. Fino a tre giorni fa il faro era l’anticipo delle elezioni al 24 settembre, grazie alla nuova legge elettorale fondata sul patto a quattro e nella prospettiva di un’alleanza con Berlusconi subito dopo il voto. L’incidente parlamentare su un dettaglio minore e tutt’altro che irrimediabile ha stravolto lo scenario. Con uno dei suoi repentini colpi a effetto, il segretario del Pd ha ribaltato l’ordine delle priorità.
Fine dell’interesse per la legge elettorale, fine della rincorsa al voto anticipato, fine apparente dell’asse privilegiato con Forza Italia. Di contro, improvvisa apertura a sinistra, con la promessa di mettere al centro i problemi reali delle persone e “la povertà”. A Giuliano Pisapia e al suo gruppo si offre di condividere il progetto di un rinnovato centrosinistra, attraverso la riscoperta della coalizione (o almeno così sembra). Il Campo Progressista sarebbe chiamato a concorrere alle fortune di un “grande Pd” e al recupero del profilo riformista. In poche parole, l’esatto contrario del sentiero percorso fino all’altro giorno. Il capo solitario è un po’ sprezzante lascia il campo a un Renzi inclusivo, capace di annodare dei fili e non solo di spezzarli. Addirittura disposto a cercare qualche alleato, sia pure attraverso modalità da definire.
Non è la prima volta, in verità, che l’ex premier si presenta con un volto diverso dopo un passo falso. Accadde anche all’indomani del referendum, nei giorni tormentati delle dimissioni da Palazzo Chigi. In quell’occasione il Renzi spavaldo e perentorio dei mesi precedenti si era trasformato in un politico che chiedeva amicizia e consigli per meglio assorbire il trauma. Ma bastarono poche settimane e il leader ritrovò l’autostima. Oggi la storia si ripete, con la differenza che le macerie sono aumentate. Aver dato l’impressione che l’alleanza con Berlusconi fosse ineluttabile è stato un errore tale da aprire spazi imprevisti a sinistra. Quando Romano Prodi fa capire a chiare lettere il suo rifiuto di restare in un partito che si è consegnato a un’intesa di potere con Berlusconi, vuol dire che la soglia di guardia è stata superata. E non a caso un’aggregazione stile Ulivo comprendente, sì, Pisapia ma soprattutto Prodi e un certo mondo legato al cattolicesimo sociale viene vista ben oltre il 5 per cento.
LA priorità renziana diventa quindi impedire che nasca questo nuovo soggetto a sinistra. Si tratta, una volta tanto, di ridurre il numero degli avversari invece di accrescerli. Del resto, il segretario del Pd aveva già provato ad assorbire Pisapia, simbolo dei neo-ulivisti. Finché si trattava di un tentativo di annessione, l’ex sindaco di Milano ha avuto buon gioco a sottrarsi. Adesso però c’è da capire se qualcosa è cambiato. E in cosa consiste l’apertura a sinistra. Senza dubbio Renzi è rimasto colpito dal successo di Corbyn in Gran Bretagna, quel riemergere di temi antichi che contraddicono in modo clamoroso l’assunto secondo cui non esiste più la dialettica destra-sinistra. Ma è difficile riuscire a essere al tempo stesso Macron e Corbyn. Ed è ancora più arduo voler sedurre l’elettorato di centrodestra senza perdere quello di centrosinistra.
L’idea che Pisapia possa essere una mera copertura rispetto a una linea che continua a essere decisa in solitaria dal segretario del Pd, è poco realistica. E infatti la risposta è stata: «Facciamo le primarie di coalizione e cambiamo gli impegni programmatici». Al primo posto di tali impegni Pisapia mette lo “ius soli”, questione che certo fisserebbe una netta discriminante rispetto alla destra di Salvini ma anche a quella di Berlusconi. In altre parole, se la nuova rotta di Renzi è una cosa seria e non una mossa per uscire dall’angolo, essa comporta notevoli cambiamenti per il Pd. Più Corbyn che Blair, si potrebbe dire. Senza dimenticare che la legge elettorale non è un capriccio che si può abbandonare a piacere. Essa rimane sullo sfondo. Ma riprenderla in esame vorrà dire accettare la logica del voto disgiunto e delle preferenze. Abbandonando invece il patto post-voto con Berlusconi.

Repubblica 10.6.17
Matteo Orfini.
Il presidente Pd: “Giuliano sbaglia, senza coalizioni niente primarie”
“Col proporzionale le intese si fanno dopo le elezioni”
di Giovanna Casadio


ROMA. «A meno di un miracolo… ». Matteo Orfini ai miracoli non crede. Quindi non ritiene «realistico» mettersi daccapo a trattare su una nuova legge elettorale. Per il presidente del Pd il governo deve arrivare a fine legislatura. E a Pisapia suggerisce: «Tessa la sua tela politica», perché tanto con la legge elettorale proporzionale le alleanze si fanno dopo le elezioni, quindi «le primarie non avrebbero senso».
Orfini, sulla legge elettorale, si può ricominciare a trattare?
«Ricominciare si può, ma riuscirci è complicato e irrealistico. Anche perché Di Maio ha dichiarato l’indisponibilità dei 5Stelle, a dimostrazione che quanto accaduto in aula non era un incidente ma una linea».
Date la colpa ai 5Stelle, ma avete avuto sempre il problema dei franchi tiratori?
«Al Pd sono mancati pochi voti, lo ritengo fisiologico. La legge elettorale è saltata perché nei 5Stelle Fico ha messo in minoranza Di Maio e Di Battista. Forse dovevamo interloquire con Fico e non con Di Maio.
Cosa farete, adesso?
«Ci sono due leggi elettorali, figlie di due sentenze della Consulta quindi perfettamente costituzionali, ambedue di impianto simile, proporzionale, che noi avremmo voluto rendere omogenee, raccogliendo l’appello del presidente della Repubblica. Ci abbiamo provato, pagando un prezzo alto di critiche ingenerose per l’accordo, venute anche da dentro il Pd, da Prodi, da Veltroni, da Bindi. Fallito questo tentativo per responsabilità di altri, si può andare a votare a fine legislatura con le leggi vigenti» Servirebbe un decreto?
«Ritengo insidioso e sconsigliabile l’utilizzo di un decreto sulla legge elettorale».
Il Pd sosterrà davvero il governo fino a fine legislatura?
«Noi dem abbiamo assunto l’impegno a completare la legislatura e lo manterremo. Però vorremmo passare i prossimi mesi ad affrontare i problemi degli italiani, non come in un eterno gioco dell’oca, a parlare di legge elettorale ».
Però Alfano gongola per il caos sulla legge elettorale; la Svp minaccia di uscire dalla maggioranza: il governo Gentiloni è più vicino all’implosione che a una sicura navigazione?
«Ognuno si assumerà le sue responsabilità. Quelli che ci accusavano di volere produrre la crisi, sistematicamente votano contro il governo come Mdp o alzano i toni come fa Alfano. Io penso invece che dobbiamo capire quali sono le priorità dei prossimi mesi: abbiamo molte riforme da completare ».
Renzi farà un patto con Pisapia
per il Senato, prevedendo primarie di coalizione come lo stesso Pisapia chiede?
«Con il proporzionale i patti si fanno dopo le elezioni e non prima. Ovviamente ritengo Pisapia più congeniale di Berlusconi, con cui non ho intenzione di immaginare alleanze. Ma con questo sistema elettorale ognuno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in Parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno. C’è una legge proporzionale che non prevede le coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso. Invito a evitare insopportabili ipocrisie ».
Chi è ipocrita?
«Ho letto che Bersani dice “votateci, noi con la destra non andremo mai”. Gli ricordo che lui con Berlusconi ha fatto il governo Letta e ci ha chiesto di votargli la fiducia. E ci ha fatto anche una campagna referendaria insieme ».

Il Fatto 10.6.17
E ora Renzi vuole rifare la coalizione di centrosinistra
di Marco Palombi


Non sarà la grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa, ma una coalizione da Carlo Calenda a Giuliano Pisapia sì. È la “nuova” giravolta di Matteo Renzi nel giorno in cui appare chiaro che la legge elettorale tedesca è sostanzialmente un ricordo del passato. L’ultimo chiodo sulla bara del “tedeschellum” lo hanno messo gli altoatesini della Südtiroler Volkspartei, che ieri hanno scritto una lettera a Paolo Gentiloni e ai capigruppo del Pd. Contenuto: se l’iter della legge elettorale che vuole estendere il proporzionale al Trentino Alto Adige (dove vige il Mattarellum) continuerà, noi usciremo dalla maggioranza.
Per l’esecutivo in Senato sarebbero dolori: i bersaniani di Articolo 1 hanno già un piede fuori e dunque a Palazzo Madama i 5 senatori autonomisti di Trento e Bolzano hanno il loro peso. Provvede ad archiviare tutto il renziano Lorenzo Guerini: “Niente e nessuno minerà l’amicizia tra Pd e Svp. Insieme continueremo a sostenere con forza il governo. Non uscirà da questo Parlamento nessuna legge elettorale che leda le giuste richieste di Svp”.
Addio sistema simil tedesco allora e avanti con la legge che c’è. Renzi e il Pd sono convinti che non ci sia possibilità di fare alcun accordo e dunque, a parte le correzioni sulle quote di genere da fare all’ultimo secondo, si voterà (nel 2018) con le leggi elettorali disegnate dalla Consulta nelle sentenze che hanno bocciato prima il Porcellum e poi l’Italicum. Funzionano così: alla Camera c’è un sistema proporzionale con soglia di sbarramento al 3% e un premio di maggioranza (fino al 55% dei seggi) per la lista vincitrice che superi il 40% dei voti; in Senato, invece, niente premio di maggioranza, ma diversi sistemi di sbarramento (all’8% per le liste, al 20% per le coalizioni, all’interno delle quali, però, eleggono senatori le liste che superano il 3%). In sostanza, il prossimo sarà un governo di coalizione e qui arriva l’ennesima conversione di Matteo Renzi.
Negli ultimi due giorni dal Nazareno, tra le altre, sono partite due telefonate di un certo rilievo per ciò che qui interessa: una a Giuliano Pisapia, una a Carlo Calenda. L’idea sottostante è riproporre lo schema degli anni 90: una vasta coalizione genericamente “riformista” con al centro il Pd.
I rapporti di Renzi col ministro dello Sviluppo economico erano tesi da parecchio tempo: ora, però, l’ex premier ha rassicurato Calenda sull’unica cosa che gli preme, cioè il voto alla scadenza della legislatura (marzo 2018). L’idea renziana è che il ministro amato dall’establishment italiano ed europeo possa essere la figura di riferimento di una lista moderata: modello Monti o, volendo, Macron con pezzi di centristi come i ministri Galletti e Costa. Calenda, va detto, non ci pensa proprio e ha ripetuto che non è disponibile a impegni pre-elettorali. Tradotto: in un futuro governo forse, candidato no, grazie.
Con Pisapia, invece, la faccenda è più complicata: intanto, come ha spiegato l’interessato, l’opzione è praticabile solo se si fanno le primarie di coalizione (Renzi-Prodi vs Pisapia-Bertinotti), ma il segretario del Pd non pare propenso. Qualora il tempo e i sondaggi dovessero portargli consiglio, però, sarebbe Pisapia a trovarsi male in arnese: una coalizione col Pd è improponibile per Sinistra Italiana e poco digeribile pure per Articolo 1, che ha fatto del “superamento del renzismo” una sorta di parola d’ordine.
Paradossalmente quello che può affrontare il futuro con l’animo più sereno è il precario per eccellenza: Paolo Gentiloni. Ora starà saldo per un po’, puntellato dalle debolezze dei parenti serpenti della sua maggioranza: si sente talmente a posto che ieri, dopo aver sedato un po’ di discussioni in Consiglio dei ministri, ha dato il via libera alla questione di fiducia sul ddl penale, cioè l’ircocervo da 40 e dispari articoli che contiene, tra le altre cose, il prolungamento dei tempi per la prescrizione e la delega per riformare le intercettazioni. Era bloccata alla Camera per il veto di Alfano e soci: ora, però, i centristi non possono disturbare il governo, l’ultimo argine tra loro e una campagna elettorale in cui tutti (Renzi e Berlusconi in primis) vogliono farli fuori.

Il Fatto 10.6.17
“Intesa col Pd possibile, ma solo con le primarie”
Pisapia replica all’ex premier. Il renziano Bonifazi: “Ok, ma chi perde si adegua”
“Intesa col Pd possibile, ma solo con le primarie”
di Tommaso Rodano


Se Renzi vuole davvero rifondare il centrosinistra allora faccia le primarie, poi vediamo chi le vince”. Giuliano Pisapia apre a metà. È il giorno dell’ennesima giravolta dell’ex premier: dopo anni di patti con Berlusconi e governo con Alfano, Renzi torna a guardare a sinistra. L’ex sindaco di Milano lo aspettava lì da mesi. La richiesta di primarie non è una novità, Pisapia la ripete da quando ha lanciato Campo Progressista: per ipotizzare una coalizione, la leadership dev’essere contendibile. Primarie dunque.
Fino all’altroieri sembrava poco più che una provocazione. Ora che il segretario del Pd pare avere il fiato corto, mentre annuncia l’ennesimo cambio di strategia, l’ipotesi appare un po’ meno inverosimile. Al punto che in serata arriva il messaggio possibilista del renzianissimo Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd: “Facciamo le primarie e vediamo chi vince? Bene. Chi perde che fa, caro Pisapia: resta o scappa?”. Si attende la controreplica.
Nel frattempo Massimiliano Smeriglio – luogotenente romano di Campo Progressista – fissa le regole d’ingaggio: “Non ci interessano ‘patti tecnici’ come quello che Renzi ci propone al Senato, per entrare in lista e allungare il brodo. Ci interessa una coalizione vera, con una leadership veramente in discussione. Ma aspettiamo qualche giorno, in genere Renzi cambia idea ogni 48 ore”.
Pisapia parla dal palco della festa di Radio Popolare, a Milano: “Intanto prendiamoci un impegno. Anziché fare accordi con Forza Italia, Cinque Stelle e Lega sulla legge elettorale, facciamo un percorso comune per fare approvare leggi come lo ius soli, il reato di tortura, le disuguaglianze, il codice antimafia, che sono già approvate in un ramo del Parlamento”. Dice “percorso comune” come se sedesse in Parlamento, forse già conta come suoi i voti dei bersaniani di Mdp. Seduto accanto a lui c’è anche Emanuele Fiano, relatore Pd del fu “tedeschellum”. È piuttosto scettico: “Sarei anche d’accordo ma la somma dei nostri voti non fa l’approvazione di una legge, c’è anche la matematica”.
Nella giornata del dietrofront, invoca a gran voce il centrosinistra anche il solitamente silenzioso Maurizio Martina, numero due del nuovo Pd renziano: “Il nostro impegno è e sarà sempre il centrosinistra, alternativo a destra e grillini. Nessuno ha mai pensato ad alleanze impossibili con partiti di segno opposto”. Se ne deduce che l’abbraccio politico a Berlusconi, Verdini e Alfano fosse un’allucinazione collettiva.
Tra gli osservatori più interessati di questo maldestro riavvicinamento renziano ci sono i suoi ex compagni di partito. Pisapia e i fuoriusciti dal Pd una decina di giorni hanno siglato un’intesa di massima sulla nascita di una formazione di centrosinistra radicalmente alternativa al partito della Nazione. Un progetto verso cui hanno già espresso interesse Romano Prodi ed Enrico Letta. I confini di quest’Ulivo in sedicesimo sono tutti da definire (Campo Progressista non vorrebbe includere nel progetto né D’Alema, né la Sinistra Italiana di Fratoianni) ma l’appuntamento per l’inizio della costituente è già fissato al primo luglio, a Roma. E se nel frattempo Pisapia si facesse davvero (ri)sedurre dalle sirene renziane?
Roberto Speranza – forse per esorcizzare l’ipotesi, forse perché ne è davvero convinto – lo esclude categoricamente: “Con Pisapia siamo d’accordo. Il nuovo centrosinistra sarà alternativo al Partito democratico. Abbiamo stabilito insieme che il renzismo non può essere temperato, bisogna superarlo. E poi Renzi il patto vero l’ha già stipulato con Berlusconi. Un patto politico, di sostanza: basta vedere come vanno d’accordo sui voucher. Ora torna a parlare di centrosinistra solo per tentare di coprire la sua sconfitta in Parlamento”. È la linea comune dei bersaniani di Articolo 1, che su Pisapia hanno investito ad occhi chiusi, nonostante le incertezze delle settimane passate. Dicono di fidarsi. Tra le dichiarazioni di ieri dell’ex sindaco, preferiscono quelle della mattina, nelle quali il fondatore di Campo Progressista sembrava più risoluto: “Sono per il massimo dell’unità, ma Renzi non può fare un’apertura dopo mesi e mesi in cui abbiamo cercato un’alleanza di centrosinistra e, soprattutto dopo una sconfitta come quella di ieri, che presupponeva coalizioni diverse”. Chissà quelle nuove, quanto dureranno.

La Stampa 10.6.17
Pisapia lancia la sfida a Matteo
“Alleati? Facciamo le primarie”


«Matteo Renzi faccia le primarie se davvero vuole la coalizione di centrosinistra, poi vediamo chi le vince». Dopo il flop del proporzionale alla tedesca giovedì alla Camera, Giuliano Pisapia dalla festa di Radio popolare a Milano rilancia lo schema che aveva accarezzato per mesi: una coalizione come quella che nel 2013 vide insieme Pd e Sel, con il candidato premier scelto dagli elettori nei gazebo. Quella dell’ex sindaco di Milano non è una semplice proposta, ma un’ultima chiamata all’indirizzo del leader Pd: solo con le primarie, spiega, «ci può essere una coalizione ampia e unita, che possa governare in futuro. Ma ci vuole una discontinuità importante da parte del Pd rispetto a quanto fatto fino ad ora». Pisapia giudica «insolita» la nuova apertura di Renzi ad una alleanza tra Pd e sinistra: «Crediamo nel centrosinistra. Rimango sempre favorevole al dialogo, ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori». Il leader di Campo progressista chiede ai dem una prova concreta della loro buona fede: «Mettiamoci subito al lavoro insieme in Parlamento su alcune riforme come ius soli, il reato di tortura, il codice antimafia. Queste devono essere le priorità per i prossimi 6 mesi. Vediamo chi ci sta».
Tra le varie anime della sinistra molti dubbi sulle nuove avances di Renzi. «Speriamo che il suo sia un convincimento ragionato e definitivo: servono primarie vere», spiega il vicepresidente del Lazio Massimiliano Smeriglio, vicino a Pisapia. Gelo da Mdp. Emanuele Fiano del Pd rimanda la palla a Pisapia: «Sono le persone con cui lui si vuole alleare che hanno bocciato in Parlamento un sistema elettorale semi-maggioritario, il Rosatellum, che piaceva a lui e a Romano Prodi». [a. c.]

il manifesto 10.6.17
Renzi ricambia verso ora vuole Pisapia (sempre senza ex Pd)
Democrack. Il leader Pd ha tentato la stessa mossa dopo il flop referendario Cauto l’ex sindaco: «Faccia le primarie. E dica mai con la destra». Mdp resta gelido sul dialogo Rossi: «Serve una sinistra forte in parlamento»
di Daniela Preziosi


«Non è la mia sconfitta. È la sconfitta di Grillo. E degli altri». La botta è forte, la seconda botta forte dal 4 dicembre, ma l’ex premier Matteo Renzi ha tempi di reazione (anche troppo) rapidi e tenta subito una manovra diversiva. Ai suoi spiega che il pasticcio non l’ha fatto lui, che si è limitato a stringere accordi politici, semmai è stato il Pd alla camera ad aver sottovalutato quello che stava succedendo nel passaggio fra la commissione e l’aula: doveva prevedere e sventare «l’imboscata dei 5 stelle». L’allusione è al relatore della legge Emanuele Fiano e al capogruppo Ettore Rosato, non proprio due assi di diplomazia, che ora attaccano alzo zero il tradimento grillino.
MA SE IL PIANO B di Renzi, e cioè andare al voto comunque prima della finanziaria con qualche correttivo al Legalicum fatto per decreto, viene subito frenato dal Colle, ieri dall’infaticabile ma non infallibile ex premier è arrivato subito un piano C.
ANZI, UN PIANO «P», nel senso di Pisapia. Un cambio di strategia raffazzonato in fretta e furia sulla falsa riga di quello post referendum. Il piano prevede un repentino cambio di verso sul tema delle coalizioni: contrordine, dunque, il Pd non è più possibilista sulle larghe intese con Forza Italia, ora si orienta verso il centrosinistra. O, più precisamente, si offre di caricare sul suo carrozzone azzoppato il Campo progressista di Pisapia. È la stessa mossa fatta all’indomani della sconfitta del referendum costituzionale, finita poi su un binario morto.
commento pisapia 12
«ORMAI È CHIARO che in questo parlamento non c’è spazio per una riforma e si voterà con le leggi attuali. Per questo, ho già detto a Giuliano di correre divisi alla Camera, ma in coalizione al Senato», fa dunque sapere Renzi a mezzo Repubblica, quotidiano che ha avuto sempre un debole per l’ex sindaco di Milano, e che lo preferisce coalizzato con il Pd.
La risposta di Pisapia in prima battuta è piccata: «Prima bisogna ragionare partendo da una constatazione oggettiva: quel tipo di alleanza con la destra o centrodestra è perdente per il Paese e per la buona politica». L’ex sindaco ha già esperienza di un Renzi mobile qual piuma al vento. E oggi ormai ha messo in piedi la rete Campo progressista che prepara per il primo luglio il lancio di un fronte comune con Mdp di Bersani e D’Alema. E cioè quelli che il leader Pd non vuole vedere neanche dipinti. Ricambiato.
L’IMMINENTE VARO di una legge elettorale con lo sbarramento al 5 per cento e la precipitazione al voto avevano spinto la sinistra a (provare a) unirsi. Il crollo dell’ipotesi finto-tedesca e il ritorno del voto al 2018 però cambiano tutto. Dal lato del Pd, ma anche dal lato della sinistra variegata che affrontava la mission impossible dell’unità con una serie di incontri pubblici, ora presumibilmente tutti da ricalibrare.
COSÌ NEL POMERIGGIO si misura tutta la confusione che regna nel virtualissimo campo del centrosinistra.La scena va in onda in diretta su Radiopopolare che nel corso della sua festa costringe sullo stesso palco lo stesso Pisapia, Fiano, Enrico Rossi (Mdp) e Nicola Fratoianni (Si). E lì succede che Fiano attacca Rossi (finisce male, il dem che si deve scusare «per l’arroganza») e invece corteggia Pisapia. Il quale a sua volta fa la mossa di accettare il dialogo ma avanza condizioni irricevibili per Renzi: «Sono per il massimo dell’unità e rimango sempre favorevole al dialogo ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori. Renzi accetti  le primarie di coalizione, ci vuole discontinuità rispetto a ora. E ripristini i diritti a chi li ha tolti con l’art.18». Rossi, sulla carta  già alleato di Pisapia (Mdp e Campo progressista siedono nello stesso gruppo alla Camera), boccia invece la richiesta di primarie: «Non sono un punto fondamentale». Poi scarta decisamente l’idea di un accordo con il Pd e chiede invece a Pisapia e Fratoianni di fare «una larga sinistra che punti a mandare in parlamento più eletti possibile».
GRANDE È LA CONFUSIONE sotto il cielo,  la sinistra stenta a capitalizzare la nuova sconfitta di Renzi. Pisapia prova a fare il pontiere ma sbaglia ponte: chiede che nel finale di legislatura il Pd abbandoni l’alleanza a destra e assicuri l’approvazione di ius soli, reato di tortura, codice antimafia e provvedimenti sull’uguaglianza sociale. Replica scontata di Fiano: «Certo, ma i  voti nostri e vostri anche uniti non bastano».

il manifesto 10.6.17
L’identità prima delle alleanze nell’assemblea della sinistra
di Livio Pepino


Dalla riproposizione di un maggioritario ormai privo di ogni appeal e di qualsivoglia praticabilità alla disinvolta rincorsa di proporzionali di importazione, di risulta o misti. Con la sola preoccupazione di arrivare al più presto al voto e di non intaccare il potere degli apparati di designare i futuri parlamentari.
Poi, in un giorno, è di nuovo cambiato tutto. La spallata referendaria del 4 dicembre, che ha chiuso una stagione politica fallimentare, non ha travolto – né era realistico pensarlo – un’idea di politica e un ceto di governo.
E oggi il re è nudo. È in questo contesto che si colloca l’appello di Falcone e Montanari per un soggetto politico a sinistra del Pd: proposta interessante, soprattutto per il suo collocarsi nel solco della vittoria referendaria del 4 dicembre, ma non a qualunque costo, essendo sempre in agguato – come mostrano le prime reazioni – letture che tendono a riportarla nella prospettiva di un centrosinistra morto e sepolto o nella pura sommatoria dei vari (e non rigogliosi) cespugli nati fuori dal suo recinto.
Per non ripetere esperienze del passato ci sono alcune condizioni.
1) Nella costruzione di un nuovo soggetto occorre abbandonare ogni logica di schieramento e puntare esclusivamente sui contenuti. Tanto più se si voterà con un sistema proporzionale (come è di fatto il Consultellum), il punto fondamentale sarà portare in Parlamento posizioni chiare e impegnative da immettere nel confronto politico in una prospettiva di medio termine e non di (irrealistiche) immediate alleanze. E il ricatto del “voto utile” o del “meno peggio” perderà di senso, qualunque sia la soglia di sbarramento.
2) Sui contenuti, la grande questione, evidenziata nell’appello di Falcone e Montanari, è quella della disuguaglianza, accentuata a dismisura dalla crisi. Alcuni – le destre, il Pd e i suoi satelliti – la considerano, nei fatti, un dato inevitabile, se non positivo, e ritengono che la ricetta per uscire dalla crisi sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall’abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall’espansione del privato, dall’investimento in opere faraoniche: è una linea politica che viene da lontano e solo chiudendo gli occhi si può pensare che, senza una sconfitta elettorale, possa cambiare nei tempi brevi.
Altri pensano che la strada sia quella opposta, cioè una rinegoziazione delle politiche europee a partire della esigenze dei paesi del Sud e un nuovo corso (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici sull’obiettivo della piena occupazione, sulla razionalizzazione del welfare, sul reddito di cittadinanza, sulla riconversione ecologica, sul riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, sulla valorizzazione delle migrazioni e via elencando.
Sono due prospettive inconciliabili tra cui non esistono vie intermedie. Occorre scegliere in maniera esplicita senza furbizie tattiche (e il voto inglese di ieri mostra che una scelta netta può essere pagante anche in chiave elettorale);
3) Non si va da nessuna parte senza una forte discontinuità in punto di metodo, persone, linguaggio. Una discontinuità che accantoni apparati impresentabili (anche al di là delle loro reali responsabilità) e sappia aggregare movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza.
Una discontinuità che sappia anche fare i conti con un sistema comunicativo semplificato, assertivo, spesso demagogico che non ci piace ma da cui non si può prescindere (pur mantenendone il necessario distacco critico). Già sentito, certo, e più volte. E negli ultimi dieci anni vi si è risposto con proposte verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008 e di Rivoluzione civile del 2013… Cosa autorizza a pensare che, oggi, si possa voltar pagine?
Un punto di partenza c’è: la mobilitazione referendaria che ha dimostrato come, qualche volta, l’impossibile diventa possibile.
4) C’è un ultimo problema. In tutti i recenti tentativi di costruzione di esperienze alternative ci si è mossi sul presupposto che le buone idee siano da sole capaci di produrre l’organizzazione necessaria (e sufficiente).
Non è così. Lo dico pur consapevole, da vecchio movimentista, delle degenerazioni burocratiche e autoritarie che si annidano nell’organizzazione. Contro queste derive va tenuta alta la guardia ma la sottovalutazione del momento organizzativo (e della sua legittimazione) è stata una delle cause principali della rissosità e della inconcludenza di molte aggregazioni politiche ed elettorali dell’ultimo periodo, a cominciare da quella di “Cambiare si può” (nata con grande entusiasmo e partecipazione ma presto paralizzata dalla mancanza di luoghi di decisione e, per questo, diventata facile preda di una nefasta e alienante occupazione).
C’è – pare – un po’ di tempo prima delle elezioni: sarebbe bene sfruttarlo sin dal 18 giugno.

il manifesto 10.6.17
Né lista arcobaleno, né Italia-Bene Comune
di Fabio Vander


Giusto e politicamente tempestivo l’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari per una «nuova sinistra».
I termini sono chiari: un soggetto politico che assuma per asse centrale la «lotta alla diseguaglianza», vera «grande questione del nostro tempo». La sinistra come «spazio politico nuovo», capace di «rottura» con il vecchio centro-sinistra; «per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro», da «una classe politica che si diceva di sinistra ed è andata al governo per realizzare politiche di destra».
In questo senso l’appuntamento per il 18 giugno, lanciato dai promotori dell’appello, va segnato in agenda, perché costituirà il vero momento di lancio della nuova proposta politica di sinistra.
Un appello volto ad includere, ma a partire da alcune opzioni strategiche precise: nuova sinistra, alternativa rispetto alle politiche liberiste, centralità del lavoro, continuità con lo spirito democratico del 4 dicembre, superamento del vecchio centro-sinistra, radicamento sociale e insieme vocazione di governo.
Forze come Articolo 1 – MdP, che ha avuto il merito non solo di abbandonare il Pd, ma di farlo in nome di una radicale alternativa politica e sociale, ma anche Sinistra Italiana, laddove dimostri di saper contemperare alternativa e responsabilità di governo, dovranno essere il fulcro dell’operazione politica che si va a costruire. Pisapia potrà essere della partita, ma nella chiarezza circa la responsabilità che viene dalla vittoria del No al referendum e circa i rapporti con il Pd.
Ma poi conta soprattutto il vasto mondo della società e dei movimenti, quello spirito democratico che è stato davvero la grande scoperta del risultato referendario. Non solo un “no” a Renzi, ma una nuova, potente, giovane domanda di democrazia, partecipazione, decisione.
L’Italia è un paese vivo, che chiede interpreti sensibili e intelligenti. Attenzione a non ripetere l’errore del referendum sull’acqua, che fu la vittoria di un giorno, perché poi le politiche liberiste e privatiste continuarono come prima e più di prima. La nuova sinistra è chiamata a raccogliere il senso profondo di una diffusa domanda di politica e di giustizia.
Un problema però dell’appello di Falcone e Montanari va segnalato: Sinistra unita non può essere un generico spazio politico nuovo tutto votato solo a realizzare una sola lista alle prossime elezioni politiche. Il politicismo uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra. Riducendosi il discorso ad una mera lista elettorale, magari animata dalle migliori intenzioni, ma alla fine tesa soprattutto a superare la soglia di sbarramento.
La proposta politica e anche i suoi risvolti organizzativi sono decisivi proprio per la buona riuscita della lista unitaria di sinistra. Giustamente Asor Rosa ha rilanciato sul manifesto la parola d’ordine della “Costituente della sinistra”. Partito-lista-coalizione sono parti integranti di un nuovo indispensabile progetto politico.
Anche qui si rischiano vecchi errori. Se non vogliamo una nuova Sinistra Arcobaleno, di certo non vogliamo neanche una nuova Italia Bene Comune, cioè la pura somma di sinistra moderata e sinistra radicale. In entrambi i casi si è visto come è finita.

La Stampa 10.6.17
Bersani
“Sono solo apprendisti stregoniMa un’intesa è ancora possibile”
Il leader di Mdp detta la linea: “Voto disgiunto e preferenze La riscossa dei laburisti dimostra che la sinistra è necessaria”
Andrea Carugati


«Il patto a quattro sul voto estivo è stata l’origine di tutti i guai sulla legge elettorale. Ora è il momento che questi apprendisti stregoni raffreddino la testa e abbandonino l’idea delle urne in settembre. È ora che le responsabilità vengano messe un po’ prima delle convinzioni e delle convenienze. In Parlamento, con il buon senso, si può ancora fare una legge simil-tedesca con voto disgiunto, preferenze e una ridefinizione aggiornata dei collegi, e con una larga maggioranza. O come ultima spiaggia si possono armonizzare le due leggi partorite dalla Consulta con uno sbarramento al 5% e doppia preferenza di genere. Ma nessuno pensi a decreti sulla legge elettorale». Pier Luigi Bersani ha l’aria di chi stavolta aveva previsto la frana di giovedì a Montecitorio: «Era un’intesa raffazzonata, zoppicante, con Grillo, Berlusconi e Salvini convinti di poter trarre un vantaggio dalle urne in estate, e Renzi determinato a evitare la legge di Stabilità».
Di chi è la colpa per la fine dell’accordo sulla legge elettorale?
«Mi pare inutile star lì a spulciare i tabelloni. Nel Paese c’era sconcerto su questa cosa e non mi stupisce che un po’ di parlamentari se ne siano fatti carico. I parlamenti a comando esistono solo nelle democrature».
Ora Renzi sembra di nuovo guardare a Pisapia per un’alleanza. Lei come risponde?
«Gli consiglio di non perdere tempo in improvvisazioni tattiche o furbizie. Noi con Pisapia stiamo lavorando a un centrosinistra in netta discontinuità con il Pd degli ultimi anni. E non sarà Renzi a dare le carte in questa nuova stagione, non si affanni, per lui è fatica sprecata».
Pisapia ha risposto a Renzi rilanciando le primarie di coalizione come condizione per allearsi. C’è ancora questa possibilità?
«Le primarie per il candidato premier le avremmo volute tutti. Ma per farle ci sarebbe voluto un sistema maggioritario, un programma e un simbolo comune. Il Pd ha bocciato il Mattarellum, e ha proposto una legge come il Rosatellum per allearsi con Alfano in Sicilia e con noi in Emilia. In ogni caso sono cose che non esistono più. Chi vuole un nuovo centrosinistra deve dar forza alla cosa nuova che stiamo costruendo. Decideranno gli elettori, sapendo che noi non faremo mai alleanze con la destra. Dopo il voto ovviamente ci rivolgeremo al Pd, loro andranno dove li porta il cuore».
Voi farete i Corbyn italiani?
«Non mi piace scimmiottare o cercare di attribuirsi le esperienze straniere. Ma è chiaro che dietro la riscossa del Labour ci sono proposte chiare che affrontano il disagio popolare. Per noi significa investimenti e non sgravi, stop ai bonus, diritti del lavoro da ricostruire, progressività fiscale, scuola e sanità pubbliche da rilanciare. Milioni di italiani faticano a curarsi e la politica neppure ne parla. Insomma, una sinistra che riprenda i suoi valori».
Il cammino della nuova cosa di sinistra procede a fatica. Sceglierete il leader con le primarie o Pisapia è già incoronato?
«C’è più entusiasmo che fatica. Siamo in uno stato nascente, abbiamo più pane che denti. Ma abbiano toccato un nervo vivo, c’è uno spazio molto largo, vedo tornare all’impegno tanta nostra gente che era tornata a casa o votava M5S. Noi non metteremo barriere all’ingresso, ma serviranno dei paletti: il primo riguarda l’Europa, di cui dobbiamo restare protagonisti».
Cercherete di coinvolgere anche personalità come Prodi?
«Noi gli vogliamo bene, deciderà con la sua testa. Mi stupirei che chi è affezionato all’Ulivo restasse insensibile a questo ritorno in campo del nostro popolo».
E il leader?
«Il proporzionale ha tanti difetti e una qualità: non pretende l’uomo solo al comando, un’idea che ha stancato. Noi abbiamo bisogno di un federatore, e vedo benissimo Pisapia, e di una squadra».
Il governo riuscirà a sopravvivere fino al 2018 in questo clima? Il Pd vi accusa di sabotare.
«L’ipotesi di una accelerazione verso il voto si è indebolita. Noi la fiducia l’abbiamo sempre votata, tranne quando si sono inventati una provocazione sui voucher e sull’abolizione del referendum. Se Gentiloni vuole governare seriamente noi ci siamo, anche per le scelte difficili che ci aspettano».

Corriere 10.6.17
«Tedesco» o sistema post Consulta? La maggioranza comunque non c’è
di Nando Pagnoncelli


A un asse Pd-FI servirebbe la sinistra. In un caso M5S-«sovranisti» vincenti
Dopo l’«incidente» di giovedì alla Camera sull’emendamento presentato da Michaela Biancofiore di Forza Italia appare difficile immaginare un nuovo accordo di massima sulla legge elettorale tra le quattro principali forze politiche del Paese. Lo scenario odierno conferma la situazione di stallo che si protrae da diverso tempo, indipendentemente dal modello elettorale che verrà adottato.
Un italiano su due vorrebbe votare al più presto, mentre uno su tre preferirebbe che la legislatura si concludesse nel 2018, alla scadenza naturale. Sono soprattutto gli elettori dei partiti di opposizione a reclamare il voto rapido, in particolare i leghisti (82%), seguiti dai pentastellati (75%) e da quelli di Forza Italia (63%). Solo il 22% degli elettori del Partito democratico esprime questo auspicio, denotando una certa distanza rispetto alla volontà del segretario Renzi.
La proposta di nuova legge elettorale che è naufragata in realtà godeva di un buon livello di consenso: il 47% ha dichiarato di apprezzarla molto o abbastanza, il 30% poco o per niente e il 23% non si è espresso. I più favorevoli risultavano gli elettori del Pd (72%) e del M5S (71%) che, peraltro, in precedenza si erano già espressi largamente a favore nella consultazione online promossa dal Movimento.
Quest’ultimo risulta in testa nelle intenzioni di voto con il 30,6% delle preferenze, seguito dal Pd (29,3%, in calo di un punto rispetto a due settimane fa) e, a distanza, da Forza Italia (13,5%), Lega (12,4%) e Fratelli d’Italia (4,8%). Più staccati i partiti alla sinistra del Pd, Sinistra italiana e Mdp, entrambi al 2,7%, e Alternativa popolare (2,1%).
Sulla base di queste stime se si adottasse un modello con lo sbarramento al 5% entrerebbero in Parlamento 4 forze politiche oltre ai rappresentanti delle liste autonome e degli elettori italiani all’estero al momento non attribuibili. Un’alleanza tra Pd, FI e liste autonome più italiani all’estero, come pure un accordo tra M5S, Lega e FdI non risulterebbero sufficienti a ottenere la maggioranza di 316 deputati, fermandosi a 315.
Qualora una lista unica di sinistra superasse lo sbarramento e contemporaneamente FdI non raggiungesse la soglia, un’eventuale alleanza tra Pd, FI, Lista unica di sinistra e liste autonome più estero, indipendentemente dalla effettiva praticabilità, potrebbe ottenere una maggioranza di 333 seggi. Maggioranza che si avrebbe anche nell’ipotesi di superamento del 5% da parte del partito di Giorgia Meloni, sia pure con un vantaggio davvero risicato (317 seggi).
Se la legge elettorale fissasse la soglia al 3%, mantenendo il Consultellum, questa intesa «extra large» produrrebbe un risultato identico, in termini di seggi (317). Ma con una sinistra divisa che non supera lo sbarramento, un asse «sovranista» di M5S, Lega e FdI avrebbe 331 deputati.
Ovviamente si tratta di un puro esercizio teorico, in attesa di conoscere quale sistema di voto verrà adottato e, soprattutto, quale sarà il livello della soglia di sbarramento. Ma anche la data delle elezioni è tutt’altro che trascurabile ai fini del comportamento di voto. Una data troppo ravvicinata, infatti, penalizza i soggetti politici nuovi (come pure le nuove aggregazioni di liste già esistenti) che necessitano di tempo per farsi conoscere dagli elettori e per affermare il proprio «brand».
Al momento le incognite principali sono due e riguardano le liste alla sinistra del Pd e l’area centrista.
Nel primo caso si profila una questione di amalgama, sia per le diverse anime che compongono le due formazioni politiche, sia per il rapporto con il governo Gentiloni (Mdp fa parte della maggioranza mentre SI è all’opposizione), sia per le future possibili alleanze post elettorali. A ciò si potrebbe aggiungere una probabile riconfigurazione dello spazio politico a sinistra del Pd qualora decollasse il progetto di Giuliano Pisapia (Campo progressista) che verrà presentato il primo luglio.
Quanto all’area centrista, l’annuncio della nascita di Alternativa popolare e di un progetto federativo delle forze centriste era stato salutato con favore. Nel sondaggio pubblicato in questa rubrica in aprile si registrava infatti un consenso pari al 5,9% dei voti validi. Il progetto finora non ha fatto progressi e ne sta pagando le conseguenze il partito di Angelino Alfano che da allora risulta in calo di consensi. Sulla carta, tuttavia, le formazioni che si richiamano al centro sono numerose e non è affatto escluso che possano organizzarsi per dar vita a un soggetto in grado di rappresentare un elettorato moderato che oggi appare orfano.
Insomma, regna ancora molta confusione sotto il cielo politico italiano. Chissà se dalle elezioni comunali di domani emergerà qualche segnale interessante in prospettiva nazionale.
@NPagnoncelli

Il Fatto 10.6.17
“Rassegnatevi, i governi li fa il Parlamento”
“Il voto inglese conferma: i consensi non bastano, vanno costruiti accordi con gli altri”
“Rassegnatevi, i governi li fa il Parlamento”
di Luca De Carolis


Il risultato in Gran Bretagna conferma che le maggioranze di governo le formano i parlamenti, non il voto. Avviene così in tutte le democrazie parlamentari occidentali. Dovrebbero saperlo, quelli che volevano l’Italicum…”. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, risponde da un aeroporto estero. E infila la battuta: “Certo che da voi in Italia non succede nulla…”.
Partiamo da Oltremanica: neanche con il loro sistema maggioritario si hanno maggioranze certe.
Ma non è certo una sorpresa, lì funziona così da oltre cento anni. Quello britannico è un sistema maggioritario a turno unico con collegi uninominali, il cosiddetto first past the post: ossia, quello che prende un voto in più ottiene il seggio. Poi però per la maggioranza spesso servono accordi. D’altronde la stessa Theresa May ha sostituito Cameron come premier in base a intese in Parlamento.
La traduzione è che la legge elettorale perfetta non esiste?
Non può esistere. Ma il bello della politica è questo, la capacità di fare coalizioni.
Il maggioritario è comunque meglio del proporzionale?
Le più antiche democrazie del mondo usano il maggioritario, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. E 900 milioni di indiani votano così.
Tutti Paesi dove sono passati sono gli inglesi: che ora dovranno tenersi una May fragile…
Prima delle elezioni il suo bicchiere era piuttosto pieno: ora invece è vuoto per più di metà.
Anche per colpa del sistema elettorale, lo ammetta: con un premio di maggioranza sarebbe più forte.
Per vincere bisogna prendere i voti. E poi bisogna costruire maggioranze.
In Italia le Camere non riescono neanche a varare una legge elettorale. Perché?
Semplice, non ne sono capaci. Ma dovrebbero ricordarsi che i collegi uninominali sono previsti in tutti i maggiori Paesi, comprese Germania e Francia. E servirebbero anche a noi: per tornare a partecipare, i cittadini chiedono un volto e un corpo da votare, una persona che spieghi cosa fa e perché.
Nel tedeschellum erano previsti, seppure in misura minoritaria rispetto alla quota proporzionale.
Se volessero davvero riprovare ad adottare il sistema tedesco, dovrebbero prenderlo così com’è: ovvero con il voto disgiunto.
Difficile, non crede?
Anche secondo me.
E allora che si fa?
La soluzione può essere quella di leggere bene le sentenze della Consulta e di capirle, per ricavarne una legge elettorale.
Attualmente di leggi ce ne sono due, il Legalicum, frutto della sentenza che ha demolito l’Italicum, e il Consultellum, che riscrisse il Porcellum.
Vanno armonizzate, innanzitutto uniformando le soglie di sbarramento. Non vedo altre alternative, ad oggi.
E il voto anticipato?
Sono assolutamente contrario. Del resto il grande errore di Matteo Renzi è stato proprio quello di legarlo all’approvazione della legge elettorale.
Perché ha stimolato i franchi tiratori nel Pd?
È evidente. Anche se il grande franco tiratore è stato Giorgio Napolitano.
Quattro giorni fa li aveva avvisati con quell’attacco alle urne anticipate e alla legge (“patto abnorme”)?
Diciamo che la sua cultura politica è molto superiore a quella di Renzi e di Rosato.

Corriere10.6.17
Il JobsAct non cammina
di Dario Di Vico


E se alla fine il Jobs act si stesse rivelando troppo «di sinistra»? I dati Istat sull’occupazione ogni qualvolta escono alimentano il dibattito sul passato, presente e futuro dell’occupazione. Molte di queste riflessioni hanno un obiettivo a cortissimo raggio ovvero influenzare i titoli dei telegiornali. Chi non ha di queste preoccupazioni può ragionare con maggior equilibrio e cercare di capire la relazione che si è andata stabilendo tra nuove norme e le tendenze del mercato del lavoro. Il Jobs act aveva l’esplicito obiettivo di stabilizzare l’occupazione precaria grazie a generosi incentivi che dovevano spingere le aziende a superare dubbi e incertezze ed ad ampliare la pianta organica. Si sperava poi che fatto il primo passo il mercato allungasse l’onda anche senza bisogno di finanziamenti pubblici ad hoc.
Così non è stato, almeno nelle proporzioni sperate.
Il grosso dell’occupazione in crescita — come dimostrano le tabelle Istat — riguarda gli over 50 ed è un effetto della legge Fornero sull’età pensionabile. Con questo non intendo disprezzare affatto i risultati raggiunti nelle fasce più giovani, mi domando solo se la manovra del governo è riuscita a convincere stabilmente il mercato. E la risposta (purtroppo) è no. Un’analisi non viziata da pregiudizi politici porta a dire che gli incrementi di occupazione maggiori riguardano in prevalenza contratti a termine, il part time e la cosiddetta somministrazione operata dalle agenzie private del lavoro.
Complici evidentemente non solo lo stop agli incentivi ma anche la ripresa lenta, finora le imprese che hanno avuto bisogno di allargare gli organici alla fine si sono servite di svariati strumenti di flessibilità. E non del Jobs act, almeno come scelta prevalente.
Non è la fine del mondo, si tratta però di prenderne atto serenamente e come risposta privilegiare le politiche attive del lavoro. Solo su una gamba, anche se di «sinistra», il Jobs act non cammina.

Il Fatto 10.6.17
Un Nazareno Doc sul trono della Rai ridotta a Telerenzi
di Giovanni Valentini


“La quotidiana azione di mediazione, la vacuità dell’impegno in forma mediatica dell’uomo politico, ingaggiato ogni sera in trasmissioni televisive orripilanti per dare voce al proprio vaniloquio, non prevede più alcuno spazio per dire no”
(da “Il trono vuoto” di Roberto Andò – Bompiani, 2012 – pagg. 128-129)
Chi conosce personalmente Mario Orfeo e ha lavorato per qualche anno insieme a lui nella redazione di Repubblica, com’è il caso del sottoscritto, non fa fatica a ricordare le sue doti originarie di “uomo di macchina”, efficiente e solerte. Né può dimenticare il cursus honorum del nuovo direttore generale della Rai. Prima di salire sul trono di Viale Mazzini, Orfeo ha diretto due giornali come Il Mattino di Napoli e Il Messaggero di Roma, entrambi del Gruppo Caltagirone, e due testate televisive come il Tg2 e il Tg1.
Sono state tutte esperienze di successo: in particolare, l’ultima in ordine di tempo, sebbene il maggior telegiornale della tv di Stato – sotto la sua gestione – sia diventato l’house organ del Partito democratico, contravvenendo alle funzioni e ai doveri del servizio pubblico. Tanto da insinuare oggi il sospetto che questa nomina sia in realtà un riconoscimento retroattivo. Un guiderdone, insomma, per i servigi resi.
Una prima riserva è d’obbligo, dunque, sulle capacità manageriali di Orfeo, dal momento che la “riformicchia” del governo Renzi ha unificato le funzioni di direttore generale e amministratore delegato. E per quanto l’informazione rappresenti il core business della Rai, lascia tuttavia qualche perplessità l’accoppiata con la presidente Monica Maggioni, anche lei di estrazione giornalistica, sotto l’aspetto dell’integrazione e della complementarietà. Ma, sul piano della gestione, bisognerà giudicare il nuovo dg alla prova dei fatti, in base alle scelte e ai risultati.
Ciò su cui si deve eccepire, piuttosto, riguarda il criterio e il meccanismo di nomina, in forza di quella pseudo-riforma che induce a rivalutare persino la famigerata legge Gasparri. Un’investitura diretta da parte del ministero dell’Economia e quindi del governo, in spregio a tutte le sentenze della Corte costituzionale che in nome del pluralismo attribuiscono al Parlamento il controllo della Rai. Questo è, per così dire, il “peccato originale” di Orfeo, come lo era già di Antonio Campo Dall’Orto e lo sarebbe domani di chiunque altro nella medesima situazione.
Dopo la “strasconfitta” del referendum costituzionale e il fallimento della riforma elettorale, il Pd di Renzi avrebbe potuto approfittare di questa occasione per correggere la rotta e lanciare un segnale al sistema politico, e soprattutto all’opinione pubblica, designando al vertice della Rai una figura di garanzia, “super partes”, indipendente e autorevole, al di sopra di ogni sospetto. E invece, l’ex rottamatore ha imposto un suo “uomo di fiducia”; un professionista tanto esperto e navigato quanto subordinato al partito di maggioranza o, meglio ancora, all’attuale maggioranza del partito di maggioranza. Un “Nazareno doc”, insomma, per richiamarsi alla casa madre del Partito democratico.
Senza ripercorrere qui tutta la “galleria degli antenati”, il nuovo dg della Rai ricorda l’Ettore Bernabei della vecchia Rai di regime, all’epoca del monopolio televisivo: il “padre-padrone” della tv pubblica che tutelava il potere democristiano, come ha fatto il Tg1 nel corso dell’ultima gestione con il “caso Etruria” o il “caso Consip”, i fischi a Renzi o le censure al M5S. Ma Orfeo, rispetto a Bernabei, può solo augurarsi di essere all’altezza del suo predecessore.

Il Fatto 10.6.17
Rai, alla fine arriva Mario Orfeo. Il primo dg del Nazareno 2.0
Renzi impone a Gentiloni, che voleva Rizzo Nervo, il direttore del Tg1
La scelta annunciata la sera precedente ai consiglieri di maggioranza da Lotti e Giacomelli
di Silvia Truzzi


L’antefatto si svolge nella tarda serata di giovedì quando, al termine della convulsa bagarre alla Camera sulla legge elettorale, i consiglieri Rai di maggioranza vengono convocati dal sottosegretario allo Sviluppo con delega alle telecomunicazioni, Antonello Giacomelli, e dal ministro con delega all’editoria Luca Lotti. Oggetto dell’urgente comunicazione (urgente perché il consiglio d’amministrazione è convocato alle 10.30 del giorno successivo, cioè ieri) è la decisione del capo (Matteo Renzi) di nominare nuovo direttore generale il direttore del Tg1 Mario Orfeo.
Il segretario del Pd, ricevuto nel tardo pomeriggio a Palazzo Chigi, aveva risposto picche alla proposta del premier Paolo Gentiloni che per quel posto fortissimamente voleva Nino Rizzo Nervo, ex consigliere Rai, suo amico e attuale vicesegretario della Presidenza del Consiglio: non che avessimo dubbi su chi comanda davvero. Adda passà ’a nuttata e la pochade mattutina inizia con un tweet, solo apparentemente neutro, di Maurizio Gasparri che alle 9.49 – dunque addirittura prima dell’inizio del cda – dà la nomina di Orfeo come cosa fatta. Fatta e approvata anche da Gianni Letta che con Renzi ha mediato la nomina per conto di Silvio Berlusconi: il Nazareno delle tv.
Alle 10.30 inizia la seduta consigliare – assente Franco Siddi, arriverà mezz’ora dopo – con un’impettita Monica Maggioni che propone la nomina di Orfeo. Il consigliere Carlo Freccero si dice contrario e si autocandida, chiedendo un’audizione alla commissione di Vigilanza per comparare i curricula. “Il tweet di Gasparri – dirà più tardi alle agenzie – è la dimostrazione che tutto era stato deciso tra Renzi e il centrodestra. Di fronte a questo ho ritenuto di contrapporre il mio nome a quello di Orfeo, chiedendo un’audizione della Vigilanza per valutare le competenze di entrambi”.
Intanto però il cda incorona Orfeo. Unico voto contrario quello di Freccero: con lui il neodirettore generale, appena fatto il suo ingresso in consiglio, ha un vivace scambio di battute a sfondo calcistico. Che si conclude con Freccero che gli rinfaccia la sua doppia fede calcistica (mezzo milanista, mezzo juventino, che per uno di Napoli non è male): “Trasversale anche nel calcio”. Il consiglio si riaggiorna a mercoledì 14, giorno in cui si discuterà della “questione delle questioni”: il tetto ai cachet delle star, da cui dipende anche il destino di alcuni volti Rai (Fabio Fazio, Alberto Angela, Massimo Giletti). E poi – ma questo è il problema minore – bisognerà pensare alla successione del direttore del Tg1: il più accreditato è Antonio Di Bella, attualmente direttore di RaiNews, dove potrebbe approdare Gerardo Greco. Maretta anche sulle direzioni di rete: Daria Bignardi avrebbe già un piede fuori dalla porta di Rai3, più complessa la situazione di Ilaria Dallatana che con Rai2, sperimentando, ha avuto buoni risultati. Tornando a Orfeo, già prima di pranzo arrivano – 5Stelle a parte, che gridano al “colpo di mano” dei renziani – gridolini di gioia a reti pressoché unificate. Il consigliere Guelfo Guelfi non teme il ridicolo: “Il direttore del Tg1 Mario Orfeo è un collezionista di record, che ha portato la testata a essere invidiata in tutto il mondo e fonte autorevole del sistema informativo non solo del nostro Paese”. Il collega Franco Siddi è in versione camomilla: “Ora ciascuna componente aziendale può tornare tranquillamente a operare al compito per il quale è stata chiamata ad agire, come sempre sul merito delle cose”.
Un grande merito, visto che da sistemare c’è quella cosuccia chiamata palinsesti, che dovrebbero essere presentati tra due settimane ma sono in alto mare, a causa dello stallo di questo periodo. In molti hanno osservato che l’attuale organigramma vede a capo della Rai due giornalisti e nessun manager che sappia qualcosa oltre l’informazione. Chiaramente ai partiti interessava blindare la campagna elettorale, ma resta un problema di competenze specifiche, capacità di dialogo in vista dei palinsesti con gli altri mondi Rai (fiction, intrattenimento, cinema). Tipo: di Sanremo, una macchina piuttosto complessa, chi si occupera? Dentro Viale Mazzini, peraltro, Maggioni è considerata la grande sconfitta: la presidente avrebbe cercato in tutti i modi di tenere per sé le deleghe all’informazione, ma non c’è stato verso, Renzi non s’è fidato. A margine, ma mica tanto, ieri si è dimesso anche il direttore finanziario della Rai, Raffaele Agrusti. Del suo addio si sapeva, quel che non si sapeva era il contenuto delle slide presentate prima dell’addio, ovvero i numeri del bilancio di previsione 2018. Molto rossi: il risultato ante imposte senza correttivi sarà negativo per 89 milioni. Che diventerebbero 100 se la Rai, come ha intenzione di fare, acquistasse un pezzo di Champions League. Auguri ai nuovi vertici.

Repubblica 10.6.17
Fino all’alba a Londra con i giovani che in massa hanno scelto il laburista, tra birra e canzoni dei Beatles
Tra i ragazzi di Jeremy il capitano che fa rinascere l’utopia del socialismo
Francesco Merlo


LONDRA Sino a mezzanotte abbiamo brindato «all’Inghilterra socialista» nei pub, che sono le vere piazze di Londra, i suoi mondi più aperti e più simbolici. E qualcuno, magari per conformismo, ma sempre con l’imprinting dell’avventura e della fantasia, si è spinto a dire che «il peggio di Corbyn è sempre meglio del meglio della May». Non c’è infatti nessuna pietà per la vincitrice bastonata: «Theresa May ha perso le elezioni che ha vinto. E Corbyn ha vinto le elezioni che ha perso ». La vittoria dello sconfitto e la sconfitta del vincitore sembrano un’idea troppo contorta per l’empirismo inglese. Ma neppure qui i giovani sono empiristi.
Dunque ho passato la notte di giovedì con un gruppo di studenti universitari, una decina che, via via, sono diventati venti, tutti laburisti. E alle 4 del mattino il brindisi di birra è stato un «cheers alla repubblica popolare d’Inghilterra». C’è stato pure qualche capogiro collettivo, un piccolo e gioioso pandemonio di sudori e di contatti, di festa di strada, di folla ma non di adunata, e non solo perché «è vero, una rimonta non è una vittoria e due sconfitti non fanno un leader», ma perché l’Inghilterra, ferita e impaurita dal terrorismo, è cool, calm and collected (fresca, calma, composta) come la terra saggia e buona del Kent, e al tempo stesso rough, stormy, unruly (agitata, tempestosa, e indomabile) come il mare sconfinato della Land’s End, la punta Ovest della Cornovaglia.
E così i ragazzi hanno preso di peso il più robusto, Paddy, che studia, nientemeno, Matematica Finanziaria, e lo
hanno tirato su come un trofeo. E mentre pioveva hanno cantato: «Here comes the sun / and I say it’s all right». Ho fatto notare che questa canzone era stata scelta da Theresa May per il suo ultimo comizio, a Solihull vicino Birmingham, dove aveva ripetuto la promessa di «sospendere i diritti umani ». «Evidemente è ancora quella dei Beatles la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi». I Beatles, insomma, si possono usare contro il terrorismo, sia da destra e sia da sinistra, perché sono la colonna sonora dell’ identità aperta dell’ Occidente, del suo cuore e dei suoi eccessi: Lady Madonna contro la mortificazione delle donne, We Can Work it Out contro l’asfissia e la violenza di un terribile mondo arcaico, Hey Jude contro le caverne ideologiche. E appunto Here Comes the Sun, qui arriva il sole, come metafora del socialismo.
Da ieri infatti nella mental map della nuova generazione, alla quale erano state tolte le utopie, l’Inghilterra di Corbyn è la sinistra del mondo. Per il vecchio ribelle marxista antimonarchico di Chippenham, l’elegante città mercato, per questo leader statalista senza
degree hanno votato soprattutto i ragazzi. Sognano appunto l’isola del socialismo, come variante dell’isola del tesoro, come fierezza di essere diversi, necessari al mondo proprio perché unici e migliori, ed è un altro codice apparentemente inattuale e perciò dirompente, sorprendente e scandaloso come la Brexit «che è allo stesso tempo dice Kay - disagio di uscire e disagio di restare, come dappertutto in Europa, anche se cambia la misura del disagio».
E, infatti, almeno sino alle 4 del mattino di giovedì sino a quando cioè lo spoglio elettorale ha decretato - non senza saggezza - la doppia sconfitta della «tory capace ma senza scrupoli» e del laburista «incapace ma pieno di scrupoli», i ragazzi si sono eccitati a rimescolare la geografia, con «i tedeschi della Merkel nel ruolo degli agili e fragili marines della libertà dell’Occidente» e gli americani in quello dei nuovi panzer, «la Wehrmacht del populismo di Trump» dice Kay, che è di mamma ungherese, ha 22 anni, studia Filosofia della Storia e aggiunge che «la bici di Corbyn diventerà quello che negli anni settanta del secolo scorso fu il balcone di Lukács, a Budapest. Vi andavano in pellegrinaggio i marxisti di tutto il mondo. Aveva infatti una vista mozzafiato sul Danubio e sul futuro».
Dunque Londra, che ieri ha completamente cancellato il populismo e il nativismo di Farage e del suo successore Paul Nuttall, nella notte di giovedì è stata la capitale mondiale del socialismo, che non è più antiquariato, il divertimento intellettuale di alcuni professori di Cambridge.
E tutti ora celebrano Corbyn «sul quale si erano affannati come mosche sulla carne». È l’eroe perdente di queste snap election, elezioni a sorpresa, l’imprevedibile ritorno alla sinistra prima di Blair, «la sinistra-sinistra contro la sinistra di destra». Lo avevano accusato di essere «il compare dei jihadisti », supporter dell’Ira, degli Hezbollah, di Hamas, della Corea del Nord..: «Come si può mandare a Downing Street un uomo che non supererebbe il test di sicurezza dei Servizi Segreti inglesi? » aveva scritto sul Telegraph Richard Dearlove, che di quei servizi è stato il boss. E invece per i ragazzi «Cor-bin», dove bin sta per spazzatura, è diventato, e magari senza meritarlo, il ritorno del romanticismo e dell’utopia; «la grande, inarrestabile voglia di sinistra come luogo del risarcimento ideale e reale».
Eppure, giovedi notte, quando ha parlato in tv, il confuso leader di questa vecchia nuova sinistra che, in sintonia con i ragazzi che hanno votato davvero in massa (72 per cento) è comunque un estremista con vaghe simpatie antisemite, più che un redentore, più che un leader rivoluzionario, sembrava un impacciato, goffo e improbabile Savonarola, un gabibbo del socialismo diremmo noi italiani. E invece i ragazzi lo vedono come «il capitano di una nave corsara nel mare dell’imprevisto, della creatività, del riscatto sociale, della libertà». «Bum!» ho detto io. E solo i capelli bianchi mi hanno salvato dallo stesso buuu che ha salutato l’apparizione in tv di Theresa May: alla quale ormai non perdonano più nulla. Per esempio, solo ora si è scoperto che la sua durezza esibita era «inadeguatezza », che il mezzo sorriso non era timido ma «incattivito e sprezzante»; e chi la celebrava come la nuova Thatcher celebra la Thatcher contro di lei.
Eppure è ovvio che non si dimetta e cerchi di adeguare la politica alla realtà e governare con l’appoggio esterno (proprio così, come nelle alchimie nostre) con i nord irlandesi del Dup (Democratic unionist party), stretta stretta nella sua vittoria risicata. Nonostante la stanchezza di nazione ferita, l’Inghilterra «è in un momento cruciale ha detto May - e ha bisogno di un governo: let’s get to work ». Perciò, veloce nei riti, nello sventolio di bandiere e nei ricambi istituzionali, il governo fra dieci giorni comincerà le trattative europee per la Brexit.
Ne parlo con Jack, il govane avvocato che martedì scorso mi ha guidato nella Londra pachistana e ora mi presenta ai colleghi del suo ufficio. Siamo nei giardini della Royal Courts of Justice, quattro inaspettati angoli di pace e di bellezza nel cuore di Holborn, a due passi dalla London School of Economics. «Corbyn - mi dicono - combina il bisogno di uscire con la voglia di restare ». Parliamo, di fronte a un prato rasato e libero, della burocrazia di Bruxelles che è un eccesso di geometria, come gli arabeschi cromatici dei giardini continentali all’italiana e alla francese. Mi raccontano che le grandi banche e le grandi società di consulenza finanziaria vogliono lasciare Londra: la JP-Morgan Chase sposterà sino a 4000 persone a Dublino, dove ha comprato uffici per 120 milioni di euro. Goldman Sachs e Morgan Stanley stanno valutando cosa trasferire a Francoforte, a Parigi, a Lussemburgo. Theresa May non li garantisce abbastanza? «Chi ha detto che la sinistra di Corbyn è piu vecchia della destra di Theresa May? Forse di nuovo, per ora, c’è solo il modello Macron in Francia, che è un’invenzione, una sintesi, un modo per ripartire ». È questa la saggezza della doppia sconfitta: metà di qua e metà di là, «in attesa di qualcuno che ci riporti in alto mare, nell’Open Sea di Winston Churchill».

La Stampa 10.6.17
Millennials, minoranze e poveri Il popolo di Corbyn alza la voce
Le nuove generazioni dietro la sua rimonta: l’ha votato il 63% degli under 35 Ora chiedono di non essere più ignorati: “Non siamo cittadini di serie B”
di Alberto Simoni


L’abusivo è diventato il padrone della casa. Anche i più acerrimi nemici - e fra le file di Westminster targate Labour, Jeremy Corbyn ne ha parecchi - posano le armi e fanno mea culpa. Non credevano nella leadership di Corbyn e continuano a non credere nel suo manifesto di equità sociale ed economica da vecchia sinistra, ma senza il 68enne di North Islington e il suo entusiasmo, la partita con i conservatori sarebbe stata ben diversa. Owen Smith che fu avversario per la segreteria chiede scusa, David Miliband si entusiasma «per la nuova generazione che si è raccolta attorno a Jez» e Chuka Umunna, 38enne di belle speranze, saluta il boom dei Labour con toni entusiasti.
Nel 2010 Gordon Brown si fermò a 258 seggi, nel 2015 Ed Miliband a 232, nel 2017 Corbyn va a quota 261. Labour al 40,1%, più 9,6% rispetto al 2015. Era dai tempi di Attlee - nel 1945 - che i laburisti non facevano un simile balzo. Il premier del secondo dopoguerra fece più 10,4%. Blair nel 1997 si fermò a più 8,8%. Però vinse. E questo qualcosa conta. Peter Mandelson guru della Terza Via, ha un po’ di amaro in bocca. «Corbyn deve essere più ecumenico». Significa riuscire a parlare con quella parte della società britannica che non lo sopporta per il suo radicalismo dottrinale. Servirebbe a poter vincere.
Ieri mattina a giochi ancora aperti, Corbyn e il vice John McDonnell si erano detti pronti a fare un esecutivo di minoranza. «Abbiamo vinto», ha detto il leader dal quartier generale del Partito dove l’entusiasmo era così alto che Corbyn ha sbagliato un «cinque» e palpeggiato la sua ministra ombra per gli Esteri.
Poi alla Bbc aveva invitato May a farsi da parte e freddato tutti coloro che continuano a considerare i laburisti degli europeisti convinti che si sono distratti nel referendum sulla Ue. «Avanti con i negoziati - ha detto Corbyn - vogliamo una job-Brexit-First». E infatti nei collegi che votarono Remain, il Labour recupera appena 8 punti ai Tory.
Corbyn ha congelato la partita per la leadership. Ma soprattutto ha scoperto di avere un popolo con un’identità precisa. David Goodhart, scrittore e autore di «The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics», ricorda come è composto: «Ceti urbani, le classi più povere delle periferie, le minoranze, sono queste le tribù di Corbyn, la cui forza è stata da molti sottostimata». E poi ci sono i giovani conquistati dai temi - sanità pubblica, abolizione delle tasse universitarie, minimo salariale - e dal suo essere controcorrente. Come fu contro Hillary Bernie Sanders che si è congratulato con il britannico.
Corbyn ha trascinato i ragazzi prima ai comizi e poi alle urne. Si sapeva della loro fascinazione, non che avrebbero invaso le «polling station». Ha votato il 66,4% degli under 35 contro il 43% del 2015 e il 63% ha preferito Corbyn; la registrazione alle liste elettorali ha avuto un picco nei giovanissimi, 246 mila contro i 137 mila di due anni fa. Numeri che hanno spinto l’affluenza totale al 68,74%, (32 milioni di elettori) più bassa solo del 1992. Nei seggi dove la partecipazione è salita del 5%, i laburisti hanno prevalso. Le città, i centri universitari sono color rosso Labour. Molti ex elettori dello Ukip e «brexiteers» sono tornati dai laburisti anche se - spiegano alcuni analisti - la classe operaia bianca del Nord e del centro dell’Inghilterra ha optato per i Tory.
Anche le minoranze avrebbero trovato conforto nel Labour: secondo alcune fonti in 38 collegi la comunità musulmana potrebbe essere stata decisiva. Il «Telegraph» scriveva di un messaggio recapitato agli elettori da due candidati musulmani delle Midlands. Invitavano i correligionari a votare Corbyn per bilanciare il ruolo che altre minoranze hanno nella società britannica. Le radio del mondo arabo hanno salutato il successo di Corbyn, l’amico dei palestinesi, come il frutto dell’impegno dei 3 milioni di musulmani del Regno Unito. Spiega Robert Ford, università di Manchester: «Che molti musulmani si sentano quasi di serie B è evidente, il terrorismo e le preoccupazioni per la sicurezza hanno spinto le autorità a considerare gli islamici un sottogruppo fra le cosiddette minoranze». Vivono nelle periferie delle grandi città, e insieme ai neri e ad altre minoranze - dati del Runnymeda Trust - due sue tre hanno sostenuto i laburisti risultando decisivi nel sottrarre ai Tory seggi come Croydon Central o Ilford North. È con questo popolo che Corbyn sfiderà su ogni punto la May.

Repubblica 10.6.17
I Tories perdono 5 seggi

La sinistra si conferma maggioritaria nella capitale
Londra si conferma terra favorevole ai Labour e a Jeremy Corbyn, che in effetti ha concentrato qui gli sforzi durante le sette settimane di campagna elettorale. A scapito dei Conservatori, che perdono cinque collegi, il Labour conquista il centralissimo Battersea, Enfield Southgate e Croydon Central: salgono a 48 i seggi “rossi” sui 72 in palio a Londra. A Barking, il quartiere dove vivevano i tre terroristi della strage di sabato scorso, l’Ukip sprofonda di 15 punti, a favore della candidata laburista.
Battersea, quartiere di Londra, passato ai laburisti

Repubblica 10.6.17
Loach: “Corbyn esempio per l’intera Unione solo così la sinistra vince”
Il regista. “Tutto il continente deve cambiare marcia”
Antonello Guerrera


Corbyn, l’uomo più odiato dei tabloid, il “terrorista”, ha preso quasi gli stessi voti del primo Blair, nel 1997. Per lei sarà stata una notte meravigliosa, Ken Loach.
«Absolutely. Mentre i socialdemocratici di tutta Europa stanno fallendo, come in Francia, un vero uomo di sinistra come Jeremy Corbyn affossa Theresa May. I cittadini oggi rivogliono lo Stato, il welfare, le sicurezze, il diritto alla salute, la possibilità di comprare o affittare una casa a Londra senza non dover fare il pendolare a 80 chilometri di distanza, l’istruzione libera, lo stop all’austerity, le tasse alle multinazionali. Corbyn ha stupito per questo. È un esempio per la sinistra europea: appiattirsi al centro non paga. Bisogna andare a sinistra. Ma sul serio. Perché gli Hollande, i Blair oggi sono perdenti. Anche l’Ue, se non vuole essere lasciata indietro, deve cambiare marcia. Pensare di più alle persone, ai loro bisogni, ai loro diritti. Non alle grandi aziende o alle privatizzazioni ».
Ken Loach ha una tosse faticosa. Ma il celebre regista inglese, da sempre attivista di sinistra, non molla nemmeno a 80 anni, la sua romantica lotta per il socialismo britannico. «Saluto i compagni italiani, solidarietà in questo momento difficile», azzarda. Le vittorie delle sue battaglie sono poche. Ma quando arrivano, anche se a metà, sono più belle.
Loach, si aspettava un risultato simile da Corbyn?
«Sì. Se l’establishment blairiano del suo partito non lo avesse ostacolato, oggi avrebbe persino la maggioranza assoluta. La base elettorale laburista ama Corbyn. I suoi nemici interni ora rispettino il programma del partito».
E aveva anche quasi tutti i media contro.
«Già, persino un giornale progressista come il Guardian lo ha sminuito fino a una settimana fa. Lo stesso il Daily Mirror, uno dei pochissimi tabloid di centrosinistra, lo ha spesso detestato. Tutti gli altri lo hanno umiliato, ne hanno violentato l’immagine ogni giorno. Ma lui non ha mai risposto alle provocazioni. È rimasto sempre lo stesso. Per questo le persone lo hanno apprezzato».
Dove hanno sbagliato tutti?
Qual è il segreto di Corbyn?
«La sua autenticità. A differenza di altri leader laburisti, non fa finta di essere un altro. Parla direttamente alle persone. È empatico e genuino. Non pianifica niente. Perciò la gente gli vuole bene. Non è un politico-macchina, come molti altri».
Gli attacchi terroristici e le polemiche sulla sicurezza hanno influito sul voto?
«Sì. Eventi del genere favoriscono i partiti law and order. Ma stavolta c’è stato l’effetto opposto, dopo tutti i tagli di May alle forze di sicurezza».
Ma la premier non molla.
«May ha il destino segnato. Nuove elezioni sarebbero inutili: perderebbe altri seggi. Anche se ora farà il governo, in autunno i Tories cambieranno leader».
Corbyn ha rubato molti voti all’estrema destra Ukip in decomposizione. Da uomo di sinistra, ciò non la turba?
«No. Parte dei votanti Ukip sono dei razzisti patentati. Ma molti altri erano laburisti, spesso operai, che adesso son tornati a casa. Avevano abbandonato il partito perché erano arrabbiati, alienati: non si sentivano più rappresentati dal Labour. Corbyn ha ricominciato a parlare di lavoro e di diritti a quelle persone che, in silenzio, soffrivano ogni giorno».
Forse quegli stessi elettori si sono pentiti anche di Brexit?
«Non credo che questo voto sia stata un replay del referendum sull’Ue. La gente si stanca presto delle stesse notizie. Basta andare in un pub per accorgersene ».
Corbyn ha avuto una valanga di voti dei giovani. È stata una rivincita dei “Millennials”?
«Non è una rivincita. È solo la speranza in un mondo migliore per loro. Sono stati la generazione più svantaggiata del Dopoguerra. Quindi lo meritano».

Il Fatto 10.6.17
Jeremy indica qual è la retta via
di Gian Giacomo Migone


Se mai vi è stato un esempio inequivoco di vittoria di Pirro, ovvero di una vittoria risicata e ambigua, foriera di future sconfitte, è quella della prima ministra May che di nulla si è dimostrata capace, se non di abbarbicarsi allo scranno con l’aiuto di una manciata di deputati unionisti irlandesi. Dopo una campagna elettorale inesistente e un tracollo della propria politica di sicurezza, resa visibile dalla tragedia di Manchester, la May ha perso 12 seggi pur avendo assorbito larga parte dei voti fascistoidi dell’Ukip. Quanto a a Corbyn, con un programma chiaro di riforma sociale, i laburisti sono rimasti a meno del 3% dei conservatori, che sotto la May quelle elezioni anticipate hanno fermissimamente voluto, avendone recuperato circa 20, e hanno guadagnato 31 parlamentari.
Sono cascati dal pero, l’una dopo l’altra, le grandi testate mediatiche (quelle italiane, buone ultime). Sempre troppo tardi e di malavoglia si sono dovuti rassegnare al fatto che la sua candidatura ha reso incerto l’esito del responso del voto. Nella prima versione, colui che avrebbe addirittura potuto emergere come primo ministro del Regno Unito, che comunque si è già affermato come punto di riferimento di una sinistra non solo britannica, veniva liquidato come un rottame del secolo scorso. Un Michael Foot o Tony Benn politicamente appena redivivo dal coma in cui si è trovato il Partito laburista, facile bersaglio del suo gruppo parlamentare, blairiano più o meno ortodosso, più o meno dedito alla nobile arte dell’inseguimento della destra sul terreno che a essa si addice. Cioè quello della crescente ineguaglianza, liberismo e liberalizzazioni senza regole a scapito del welfare, coltivazione di una politica fondata su una grandeur sepolta nel tempo, mosca cocchiera, piuttosto che barboncino (secondo la vulgata antiblairiana), degli Usa nelle imprese belliche più sconsiderate.
Prigionieri della propria disinformazione, la linea guida essendo “faccio accadere ciò che desidero accada”, i suddetti media, in parte assecondati dai sondaggi, nemmeno cambiarono linea quando Jeremy consolidò la leadership nel congresso che avrebbe dovuto spodestarlo, grazie all’opa favorevole di 200.000 giovani – denominato Momentum, dallo slogan significativo “For another Europe” – aggiuntisi alla base sindacale che lo aveva sostituito allo sconfitto Ed Miliband.
Nel frattempo, un numero crescente di cittadini si stava accorgendo che il Jeremy reale era assai diverso da quello dipinto dagli avversari politici e coltivato dai media. Assolutamente fermo sui principi e sul programma – definiamolo neokeynesiano, vicino a una leva di economisti tipo Piketty, Stiglitz, Mazzucato; assai simile a quello sostenuto da Bernie Sanders con non poco successo – Jeremy si è distinto nello stile, oltre nella sostanza, dalle esibizioni di muscoli (inflacciditi) della prima ministra in carica, May, e da quelle, sempre più concitate, del ministro degli Esteri, Boris Johnson. Trattasi di un garbato signore che prima ascolta e poi risponde puntualmente alle domande che gli vengono rivolte; che non offende né cerca di “asfaltare” alcuno, alla Renzi o alla Johnson; che, insomma, rompe con la strumentalità che determina l’isolamento del ceto politico occidentale. Inaspettatamente, è il tema della sicurezza che offre il colpo di grazia non necessariamente alla credibilità politica e umana dei Tories. Quel tema prediletto da un terrorismo con vocazione elettorale e dalle forze politiche che hanno una maschia vocazione allo Stato forte e repressivo nel proprio Dna. La risposta dignitosa della comunità di Manchester, in tutte le sue articolazioni di fede religiosa e politica; il sindaco musulmano peraltro moderato, di Londra che, nel condannare le efferatezze commesse, si rifiuta di cedere alla sindrome della paura invocata da Trump; le responsabilità oggettive della May, ministra dell’Interno prima che capo di governo, che ha contribuito alla palese incapacità di prevenzione della polizia e dei servizi segreti, con la passione per la riduzione di posti di lavoro e finanziamenti pubblici, anche in questo settore: sono tutti fattori che fanno percepire Corbyn come la persona in sintonia con la più nobile e duratura tradizione di quel popolo. Non la caduca vocazione imperiale, il cuore di tenebra collocato nella City da Joseph Conrad, ma la pacifica e ferma resistenza senza la quale l’umanità sarebbe rimasta in balia di Hitler. Con una promessa di nuova Europa che Corbyn farebbe bene a coltivare, sullo stimolo dei suoi giovani sostenitori e dei suoi potenziali alleati parlamentari, nazionalisti scozzesi e liberal-democratici. Sulla scia della sua promessa di continuare ad ammettere nel Regno Unito tutti i cittadini dell’Ue, al di fuori di qualsiasi negoziato. In tutto e per tutto un buon esempio che la sinistra italiana, frammentata e divisa, farebbe bene a seguire.

il manifesto 10.6.17
Jeremy Corbyn, simply red
Gran Bretagna. Il leader ripropone un Labour mai visto da decenni: in difesa del welfare, dell’occupazione, contro la guerra. Il fatto più straordinario però è un altro, che naturalmente sfugge al malevolo Pd: la grande mobilitazione dei giovani
di Tommaso Di Francesco


Theresa May considera i Tories il primo partito, secondo i risultati ufficiali del voto britannico. Altrettanto vero è che i numeri registrano la perdita della maggioranza assoluta che le permetteva di governare; ma non di rafforzare la trattativa «dura» per la Brexit con l’Unione europea che sui costi dell’uscita alzava la voce e ora rialza la posta.
Incredibilmente, per la governabilità – una parola che abbiamo già sentito – non solo non si è dimessa, ma è corsa dalla regina a presentare la sua coalizione col partito nazionalista di destra degli unionisti nordirlandesi.
Eppure le chiedevano di dimettersi voci autorevoli dall’interno del partito conservatore Tory. E glielo ha chiesto espressamente Jeremy Corbyn, il leader «vintage» del Labour. Che arrivando secondo a questa consultazione in realtà appare come il vero vincitore morale di questa rischiosa tornata elettorale voluta a tutti i costi da Theresa May per essere più forte.
Oltre alle profonde incapacità e responsabilità della premier, ha pesato anche la dinamica degli attentati jihadisti, da Manchester al London Bridge. Che hanno messo a nudo la crisi di sicurezza, personale e istituzionale, della realtà britannica.
In una improbabile proiezione britannica di Matteo Renzi, il Pd sul voto a Londra ha avuto la spudorataggine di dichiarare ieri che «con un altro leader il Labour avrebbe vinto». Già nel settembre 2015 quando Jeremy Corbyn vinse le primarie nel Labour Party, il Pd parlò di «una sciagura, il Labour condannato alla sconfitta, conservatori felici».
Ora invece è sotto gli occhi di tutti questo Jeremy Corbyn che fa avanzare il Labour per la prima volta dall’era di Tony Blair a quella di Ed Milliband; e che torna ad affermarsi in Galles e in Scozia a scapito del partito nazionalista di Glasgow di Nicola Sturgeon.
Ma soprattutto ripropone un Labour mai visto da decenni. Con parole d’ordine in difesa del welfare, dell’occupazione, contro la guerra – è stato l’unico leader politico europeo ad avanzare il fondato e ragionevole «dubbio» che esista un collegamento tra radicalismo terrorista jihadista e le guerre occidentali in Medio Oriente.
Insomma, simply red.
Il fatto più straordinario però è un altro, che naturalmente sfugge al malevolo Pd. La grande mobilitazione dei giovani intorno a questo vecchio-giovane leader della generazione del ’68. Anche perché non ha esitato a richiamare il valore della gratuità dell’insegnamento, a partire dall’abolizione delle mostruose tasse universitarie.
Per Jeremy Corbyn dobbiamo parlare non solo di consenso elettorale, ma di nascita di un movimento. Come è stato negli Stati uniti per Bernie Sanders che, a differenza di Corbyn, non è però riuscito come ha fatto il leader laburista, a riprendersi in mano il «suo» partito.
Un movimento con un insegnamento verso quella che ci ostiniamo a chiamare sinistra in Italia: un’altra linea oltre al neoliberismo, a sinistra è possibile. E che apre un interrogativo.
Corbyn è stato contrario alla Brexit, ma in modo tiepido. Le sue parole d’ordine sociali erano e restano contro l’austerity, sia di May che di Merkel; e che sono all’opposto dell’ordoliberismo che guida la Commissione Ue, con la nuova rivendicazione di centralità della Germania ora perfino contro l’America di Trump e con l’arrivo del tecnocrate francese Macron.
Che cosa accadrà ora? Corbyn resterà dell’avviso che la sinistra, quella britannica, può vincere solo fuori dall’Europa? Oppure – vista anche la sua affermazione in molte realtà dove vinse il Remain contro la Brexit- riaprirà il contenzioso per tornare in Europa e per trasformare con le altre sinistre europee quel che resta della credibilità politica dell’Unione?

il manifesto 10.7.16
Sassoon: «Il successo di Corbyn, nonostante tutti»
Intervista a Donald Sassoon. «È il seppellimento del blairismo. Ma i partiti laburisti sono due: quello degli iscritti e quello parlamentare»
di Leonardo Clausi


LONDRA Abbiamo chiesto a Donald Sassoon, professore emerito di storia europea comparata al Queen Mary College, University of London, raggiunto telefonicamente in Francia, di condividere le impressioni a caldo sulla straordinaria nottata di giovedì.
Cosa pensa di quest’esito elettorale?
È il miglior risultato che realisticamente ci si potesse aspettare. Era fuori discussione che il Labour potesse conquistare una maggioranza assoluta. È straordinario che la campagna di Corbyn abbia avuto successo nonostante lui avesse contro quasi tutto il gruppo parlamentare del partito, che ha “approfittato” della sconfitta di David Cameron al referendum per votare una mozione di sfiducia nei confronti del segretario. Poi gli hanno mandato un candidato sconosciuto contro, che la base ha rifiutato immediatamente. Poi è descritto da tutta la stampa come un trotzkista mezzo pazzo. Ha avuto un risultato positivo nonostante tutto questo. Si è proposto come una figura alternativa. Certo, ha 68 anni. Potrebbero sì esserci le elezioni fra sei mesi, non sappiamo, ma qualora fossero fra cinque anni, deve creare il suo successore, qualcuno che per il momento è ancora sconosciuto. E che possa succedergli entro i prossimi due anni: non è pensabile che una persona di quell’età, diventi premier nel 2022.
E i Tories sono di nuovo nel caos.
Theresa May va alle elezioni anticipate con un vantaggio che secondo la maggioranza dei sondaggi e di ben venti punti, che equivalgono a più di 100 seggi di maggioranza; lo fa con molta esitazione perché prudente, dopo aver detto che non avrebbe convocato elezioni anticipate. E con lo slogan ripetuto incessantemente della leadership «forte e stabile» per poter negoziare con l’Ue. Invece il governo Tory di oggi è debolissimo. E questo potrebbe voler dire che si barricherà in una posizione di hard Brexit per un anno e mezzo. Il Paese resterebbe senza un accordo. May si troverà a negoziare in una posizione di minoranza e con i conservatori senza una direzione precisa. I laburisti e gli altri continueranno a chiederne le dimissioni, mentre la fronda interna dei conservatori non potrà che aumentare.
Magari usando l’Evening Standard diretto da Osborne come organo ufficiale.
Diciamo ufficioso, visto che il buon George non le perdonerà tanto facilmente di averlo fatto fuori.
Com’è possibile che questo partito che ha espresso in sequenza ravvicinata i due peggiori leader del secondo dopoguerra continui a essere il primo partito?
Dipende dal sistema elettorale. Se ci fosse il proporzionale, sarebbe un partito di minoranza. È anche vero che i laburisti hanno perduto la Scozia che era la loro roccaforte e lì la partita è fra loro e il Snp. Senza la Scozia il laburisti non avrebbero mai potuto formare un governo dopo il 1945, sarebbe un po’ come se il Pci avesse perduto 30 anni fa Emilia, Umbria e Toscana. I Tories hanno conquistato pezzi della Scozia non nazionalista, e recuperato il voto Ukip. Ma la cosa più preoccupante è a lungo termine, cosa che i politici non considerano mai: il voto giovanile. Ormai non si ragiona più in termini di classe ma di generazioni e regioni. Se i giovani che non volevano la Brexit avessero votato come gli anziani, la si sarebbe evitata. Dunque nel lungo periodo il cambiamento demografico farà si che i conservatori non abbiano più molte chances. Direi anche che la distribuzione dei seggi favorisce i laburisti. Se ci fosse – e con ogni probabilità ci sarà – una riorganizzazione dei collegi elettorali questo giocherà a favore del Labour.
L’uninominale secco ha prodotto due parlamenti senza maggioranza. Vede possibile una riforma costituzionale che introduca il proporzionale?
Fino a oggi avrei detto che è improbabile giacché per cambiare il sistema bisognerebbe che i due maggiori partiti che godono proprio dei vantaggi del sistema attuale decidessero contro i propri interessi impedendo che un unico partito conquisti la maggioranza. È stato sempre questo l’ostacolo più grande. Sono sempre stati partiti piccoli avere questo interesse. Se uno considera che i Verdi hanno ottenuto un unico seggio con 500.000 voti… ma se dovesse esserci un clima di instabilità cronica non solo questa ma anche la prossima volta si potrebbero aprire spiragli verso un sistema meno sproporzionato di quello di oggi.
Con i Tories spietati e avidi di potere potrebbe esserci il regicidio di May.
In questo sono specializzati, ma si troverebbero di fronte a un compito difficilissimo se eliminassero May. Si torna alle urne tra sei mesi con un nuovo leader? Boris Johnson potrebbe essere il Trump inglese, ma anche no. Potrebbe portare il partito a una vera sconfitta.
Corbyn e il Labour: è il momento delle scuse.
È il seppellimento del blairismo. Ma i partiti laburisti sono due: quello degli iscritti e quello parlamentare. La base è cresciuta enormemente e ora sarà galvanizzata. Nel Parliamentary Labour Party (Plp) alcuni si metteranno l’anima in pace e coopereranno, altri forse riconosceranno, dalla bolla di Westminster, di non aver capito il loro partito e nemmeno il paese. La polemica con Corbyn non era tanto ideologica, lo accusavano di non poter vincere: e lui ha preso non solo più voti di Ed Miliband ma anche del Tony Blair delle ultime due vittorie Labour. I casi sono due: o gli elettori hanno votato un partito e non un leader, oppure il personaggio Corbyn li ha affascinati perché ha rifiutato di attaccare l’avversario, di racimolare voti a destra ammiccando alla City. Insomma, la terza via blairiana è stata del tutto rifiutata. Di questo devono farsi una ragione. Ma secondo me non se ne sono per nulla resi conto. Perché la maggioranza dei parlamentari laburisti è composta da incapaci.

La Stampa 10.6.17
La rinascita delle ideologie
di Alberto Mingardi


Vuoi vedere che le ideologie proprio morte non sono? Secondo un sondaggio Sky Data, il 63% degli elettori inglesi sotto i 34 anni ha votato per Jeremy Corbyn. Altre rilevazioni danno valori non troppo diversi. Ammettiamo pure che alcuni abbiano voluto dire un no tardivo alla Brexit, per quanto il leader laburista non sia proprio un fervente europeista. Resta un risultato impressionante. Corbyn è una sentinella attardata della sinistra più «novecentesca». Il suo successo ripropone una situazione simile a quella delle primarie americane, quando il pieno dei voti dei giovani lo fece Bernie Sanders.
Stupì, all’epoca, un sondaggio Gallup per il quale il 69% degli americani under 30 sarebbe stata disponibile a votare un candidato «socialista», etichetta tradizionalmente radioattiva negli Usa.
Per una ricerca della rivista Reason, il 53% dei millennial (i nati negli Anni 80 e 90) aveva un’opinione positiva del «socialismo». A dire il vero la stessa indagine testimoniava una diffusa diffidenza, tra gli stessi millennial, verso lo «Stato imprenditore». E se uno al socialismo toglie la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, è difficile capire che ne resta.
In Inghilterra, mentre il 58% degli elettori della May dichiarano di aver scelto chi votare mesi fa, il 57% dei sostenitori di Corbyn dice di essersi convinta nell’ultimo mese.
E tuttavia sarebbe sbagliato minimizzare. Nel mondo anglosassone la disoccupazione giovanile è assai più contenuta che da noi. A vantaggio di Corbyn e Sanders gioca senza dubbio il profilo donchisciottesco, l’essere e sembrare altra cosa rispetto agli apparati e ai cauti gestori del consenso. Ma li aiuta anche l’esilità della memoria collettiva. Nonostante milioni di morti, non è maturato nessun tabù del comunismo, che rischia di essere ricordato come un episodio generoso e pittoresco. Il genocidio per fame dei contadini ucraini, la grande carestia cinese del ’58-’62, non si studiano a scuola. E’ inimmaginabile che un leader neofascista proclami che il fascismo non è mai stato realizzato per davvero. Non c’è neosocialista al mondo che non lo pensi e non lo dica.
Può sembrare paradossale che una generazione che ragiona per «likes» e stelline come se la vita fosse una grande eBay, senta il richiamo dell’utopia. La facilità di accesso, a tutti i livelli di reddito, alle nuove tecnologie crea forse l’impressione che il mondo sia «facile». Che tutti i problemi possano trovare una appropriata soluzione tecnica. Le molte promesse dei «Big Data» ci illudono che anche l’economia di un Paese possa essere «organizzata» da un’unica centrale di comando. In Inghilterra, la dipendenza dallo Stato sociale per tutta una serie di servizi (dalla sanità all’istruzione) induce a pensare che essi debbano essere garantiti a prescindere dalle condizioni materiali che li rendono possibili, cioè a prescindere dalla crescita economica.
L’elemento forse più sorprendente è la visione di politica internazionale implicita nel sostegno a Corbyn. Clinton e Blair, i capi della sinistra «imborghesita», sono stati ripudiati e con loro l’idea del primato dell’Occidente. Siamo tornati all’imperialismo fase suprema del capitalismo: più o meno esplicitamente, il conflitto con il terrorismo islamico viene ridotto a una faccenda petrolifera - o a un’inevitabile conseguenza del sostegno a Israele.
E’ una visione del mondo molto diffusa nelle università e nelle classi colte, che si riverbera a cascata. La storia della nostra civiltà ce la raccontiamo come un rincorrersi di soprusi: dimenticando tutto il resto. Conquiste che sono il retaggio del nostro pezzo di mondo (la tolleranza religiosa, i diritti delle donne, il rispetto delle minoranze) sono diventate «diritti».
Non c’è bisogno di essere consapevoli di averla, un’ideologia, per esserne condizionati.

il manifesto 10.6.17
Gerusalemme, unita a parole ma sempre divisa
Israele/Territori occupati. Il 10 giugno di 50 anni fa il ministro della difesa di Israele, Moshe Dayan, entrava nella città vecchia e proclamava che lo Stato ebraico non avrebbe mai rinunciato al controllo dell'intera città, anche della zona araba appena occupata militarmente. Viaggio a Gerusalemme Est dove discriminazioni e violazioni sono l'oggi di una città che Israele proclama unita e pacificata
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Questa mattina l’Idf (le forze armate, ndr) ha liberato Gerusalemme. Abbiamo riunito la Gerusalemme divisa, la capitale di Israele che era stata divisa in due. Abbiamo fatto ritorno ai nostri luoghi più sacri e siamo tornati per non abbandonarli mai più». Fu perentorio quel 10 giugno del 1967 il ministro della difesa israeliano Moshe Dayan. Poco prima era entrato nella città vecchia di Gerusalemme Est, araba, appena occupata militarmente, assieme al capo di stato maggiore Yitzhak Rabin e al comandante della regione centrale Uzi Narkis per suggellare la vittoria, rapida e devastante, delle forze aeree e di terra dello Stato ebraico sugli eserciti arabi. Parole come pietre quelle di Dayan. Se in questi cinquant’anni è andato avanti in Israele il dibattito se restituire, tutti o solo in minima parte, i territori palestinesi e arabi occupati nel 1967, su Gerusalemme i suoi leader politici hanno escluso la restituzione ai palestinesi della zona Est. «Dico al mondo intero e nel modo più chiaro possibile che Gerusalemme è stata e sarà sempre la capitale di Israele…Il Monte del Tempio (Spianata delle moschee, ndr) e il Muro occidentale (Muro del pianto, ndr) rimarranno sempre sotto la sovranità israeliana», ha proclamato il mese scorso il premier Benyamin Netanyahu, alla vigilia delle celebrazioni israeliane per il 50esimo anniversario della “riunificazione” di Gerusalemme. Celebrazioni culminate il 24 maggio nella Festa delle bandiere, quando decine di migliaia di israeliani, in maggioranza giovani e coloni giunti dagli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata, hanno festeggiato l’anniversario con una marcia nelle strade di Gerusalemme Est e della Città Vecchia.
Le parole del primo ministro sono il riflesso di una posizione politica ben nota – espressa compiutamente dall’annessione unilaterale e mai riconosciuta dalla comunità internazionale di tutta Gerusalemme a Israele – e dei sentimenti della popolazione ebraica. Secondo un sondaggio pubblicato a inizio mese da Israel HaYom l’84% degli israeliani si oppone a una piena sovranità palestinese sulla Città Vecchia e il 67% è contrario anche a una sovranità palestinese solo parziale. Gli israeliani, notava il quotidiano, «preferiscono Gerusalemme a un accordo di pace». Lilia, una signora di mezz’età con un negozio nella zona ebraica (Ovest) della città, rappresenta questa fetta largamente maggioritaria di israeliani. «Mio padre – racconta – quando immigrò in Israele lo fece prima di tutto per vivere a Gerusalemme e per rimanere in questa città. Per noi ebrei Gerusalemme è tutto e deve rimanere intera sotto il nostro controllo». Gerusalemme, aggiunge perentoria, «non potrà mai essere la capitale di due Stati, è solo la capitale di Israele. Però la voglio aperta alle altre fedi, chiunque potrà avere il diritto di pregare nella nostra capitale».
Che questo diritto sia già garantito ai turisti stranieri che entrano in Israele è vero. Ben diverso è il caso di chi vive a ridosso di Gerusalemme, avendo in molti casi le sue radici, la storia della sua famiglia nella città. Persone che non possono entrarvi senza un’autorizzazione israeliana. Lo sanno bene coloro che vivono nei sobborghi di Abu Dis ed Ezzariya o a Betlemme e Ramallah, e in generale tutti i palestinesi che riescono, per esempio, a visitare con più facilità un Paese straniero di Gerusalemme. Limitazioni che colpiscono soprattutto chi ha meno di 50 anni, giustificate dalle autorità israeliane con “ragioni di sicurezza”. E che però hanno il fine di affievolire e recidere i legami storici, sociali ed economici tra i palestinesi dei Territori occupati e la zona araba di Gerusalemme che vorrebbero proclamare capitale del loro (sempre più improbabile) Stato indipendente. D’altronde anche per i palestinesi che vi abitano – circa 350mila, quasi il 40% della popolazione – non è semplice vivere in una città dove gli “arabi” sono considerati ospiti indesiderati sebbene in gran parte dei casi possano vantare origini a Gerusalemme che vanno indietro di secoli rispetto a quelle di un immigrato in Israele giunto dalla Mosca o da New York.
Dal 1967 i palestinesi di Gerusalemme Est sono definiti “residenti permanenti”. Il loro status però non è permanente, al contrario è precario. Possono perdere il diritto a risiedere nella città, nel caso dovesse risultare che Gerusalemme non rappresenti più «il centro della loro vita». Non aver pagato, anche solo per ragioni economiche, qualche bolletta dell’acqua o dell’elettricità e le tasse comunali, può diventare il motivo di una espulsione. Criteri che solo nei casi più estremi vengono applicati nella zona Ovest. Maher T., un quarantenne con quattro figli, a Silwan, ai piedi della città vecchia, ci vive da “clandestino” ormai da tre anni. «Trovare una casa (nella zona araba) è impossibile, non ci sono abitazioni disponibili – ci dice – Nel 2011 decidemmo di trasferirci per un po’ a Kufr Aqab (tra Gerusalemme e Ramallah, ndr), giusto il tempo di trovare un appartamento a Gerusalemme. Il ministero dell’interno però l’ha scoperto e un anno dopo ci hanno comunicato la perdita della residenza poi hanno annullato le nostre carte d’identità». Maher e la sua famiglia a Gerusalemme sono tornati in segreto, “illegamente”. «Questa condizione è comune a tanti palestinesi a Gerusalemme» spiega Neve Gordon, saggista e docente di storia all’università di Bersheeva. «Nessuno deve farsi ingannare dai proclami di Netanyahu e degli altri leader politici israeliani» avverte «Gerusalemme è una città in cui si compiono discriminazioni gravi a danno della popolazione non ebraica». Israele – prosegue Gordon – «ha trasformato la zona Est dove ha insediato centinaia di migliaia di suoi abitanti in colonie costruite dopo il 1967 e i palestinesi di fatto vivono in un sistema di apartheid».
Betty Herschman, dell’associazione Ir Amin che sostiene Gerusalemme capitale di Israele e Palestina, ricorda che per i palestinesi è difficile ottenere permessi edilizi e che il Comune sta intensificando le demolizioni di case arabe “abusive”. Aggiunge che si sente parlare di piani per espellere dalla città un numero crescente di palestinesi, nei sobborghi arabi a nord e a sud di Gerusalemme. «Non sappiamo se questi piani esistano davvero, intanto il fatto che il campo profughi di Shuaffat sia già dietro al Muro (di separazione costruito da Israele, ndr) conferma la politica di contenimento o di riduzione del numero dei palestinesi residenti a Gerusalemme», spiega Herschman.
In un mondo, anche in Occidente, dove i miti hanno il sopravvento e i testi religiosi assumono il ruolo di trattati internazionali, il racconto biblico finisce per sentenziare chi ha diritto di vivere a Gerusalemme. Il sindaco israeliano della città, Nir Barkat, parla degli abitanti come «suoi figli», ebrei e arabi. Tuttavia è sufficiente girare per i quartieri palestinesi e quelli ebraici per comprendere la finalità che ispira chi governa la città. Miseria, degrado e sovraffollamento sono la regola in gran parte della parte araba. «La povertà palestinese a Gerusalemme è cresciuta nell’ultimo decennio» denunciava nel 2013 l’agenzia dell’Onu per il Commercio e lo sviluppo (UNCTAD). Quell’anno a Gerusalemme Est l’82% dei bambini palestinesi viveva in stato di povertà contro il 45% di quelli israeliani (figli di coloni) residenti nella stessa zona. Un tasso di povertà, spiegava l’Onu, legato alla separazione della zona araba dalla Cisgiordania – causata dal Muro – che ha provocato perdite dirette all’economia di Gerusalemme Est per 200 milioni di dollari all’anno. Jamil Hilal, sociologo dell’università palestinese di Bir Zeit, però si dice fiducioso: «Nonostante tutto sono ottimista. I palestinesi malgrado le difficoltà resisteranno. Gerusalemme era e resterà una città palestinese, sarà anche la nostra capitale».
GUARDA IL VIDEO GIRATO DURANTE LE CELEBRAZIONI ISRAELIANE PER IL 50ESIMO ANNIVERSARIO DELLA GUERRA DEL 1967. NAZIONALISTI ISRAELIANI INVEISCONO CONTRO I PACIFISTI CHE CHIEDONO CHE GERUSALEMME SIA PROCLAMATA CAPITALE DI DUE STATI, ISRAELE E PALESTINA

il manifesto 10.6.17
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron

Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali. Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.

La Stampa 10.6.17
Cosa significa avere Picasso per amico
A Palazzo Ducale in mostra anche la celebre tela “Ragazza bruna seduta” acquistata dall’artista spagnolo
di Elena Del Drago


Manca poco più di un mese alla chiusura di una mostra che va certamente visitata non soltanto per l’importanza di alcuni dipinti, ma anche per il taglio curatoriale che consente di illuminare alcuni nuovi aspetti del percorso, troppo breve, di Amedeo Modigliani. Nell’appartamento del Doge di Palazzo Ducale, infatti, sono presenti alcuni quadri magnifici, tra i quali, uno, Ragazza con capelli neri, detta anche Ragazza bruna seduta, del 1918, appartenuto a Pablo Picasso che lo acquistò per non separarsene mai più. Proprio Picasso che comprendiamo, grazie a questo taglio espositivo, aver avuto un legame forte con Modì e che sarà protagonista di una grande retrospettiva, in autunno, negli stessi spazi. Ne abbiamo parlato con Stefano Zuffi, co-curatore della mostra insieme a Rudy Chiappini.
Qual è il taglio che avete scelto per questa mostra?
«In questa mostra emergono abbastanza bene alcuni rapporti umani intensi e complessi che Modigliani ha sviluppato durante i suoi anni parigini, che sono soltanto 10 in fondo: dal 1910 alla sua tragica morte nel gennaio del 1920. In questo periodo vive uno strano dualismo: il suo stile è unico, non sembra che abbia seguaci, non entra in rapporto con altri movimenti in una Parigi vivacissima, dove c’erano i Fauves, i Cubisti, i futuristi italiani. Ma pur non facendo parte di nessun avanguardia, ha una vita di relazione molto intensa. Ogni momento libero lo trascorreva nei caffè ed era costantemente in relazione con altri artisti, con i quali condivideva anche lo studio, artisti che venivano da altre nazioni e dalla sua stessa tradizione ebraica, come Soutine, Kisling e Brancusi. Il rapporto con Mose Kisling, in particolare, è stato molto stretto, una sala della mostra non a caso è dedicata a questo autore, ed è l’unica, in tutta la mostra, senza la presenza di un’opera di Modigliani. Tra loro non c’è infatti nessuna affinità stilistica, erano soltanto profondamente amici, tanto che sarà Kisling a realizzare la maschera funeraria di Modigliani, sarà lui ad occuparsi della figlia Jeanne ancora bambina che rimane orfana. Il loro rapporto umano si manifesta perché Kiesling inserisce nei dipinti delle citazioni da Modigliani».
Emerge anche un rapporto strettissimo con Picasso.
«Si, l’altro rapporto umano fortissimo è proprio con Picasso. Ma qui la differenza è enorme. Non sono mai stati davvero amici, eppure si stimavano a vicenda profondamente. Più di una volta Picasso, che non era certamente tenero nei confronti dei suoi colleghi, esprime un’ammirazione anche personale per Modigliani e, d’altra parte, l’italiano quando pensa di potersi confrontare con un artista vivo e presente a Parigi in quel momento, lo fa istintivamente con Picasso. L’esito di questo rapporto è visibile in mostra attraverso il quadro più intenso e poetico di tutta l’esposizione, Ragazza con capelli neri, un dolcissimo ritratto di una ragazzina con i capelli scuri che Picasso ha comprato. Ed è straordinario che proprio Picasso, che ha cambiato tutto ciò che poteva cambiare - case, donne, stili - si è tenuto questo quadro per tutta la vita».
Quale influenza ha la scultura africana sullo stile di Modigliani?
«Una cosa importante da considerare è che se Modigliani avesse potuto scegliere avrebbe fatto lo scultore. Però oltre alle difficoltà di esprimersi attraverso la scultura, c’era un aspetto legato alla sua salute: ha avuto la pleurite, è morto di tubercolosi, e quindi la polvere del marmo non era adatta ai suoi polmoni. Per alcuni anni Modigliani studia la scultura e, in particolare, alcune espressioni, quella africana, polinesiana, della Grecia cicladica, ma anche quella classica. In fondo questi occhi senza iride e senza pupille vengono proprio dalla scultura, l’allungamento del volto appartiene alla cultura africana così di moda al tempo, ma anche alle culture oceaniche. Modigliani è una specie di enciclopedia dell’arte universale, qualcuno che ha imparato a dipingere in Italia, a Firenze e a Venezia, era un toscano innamorato del disegno e a Parigi approfondisce ulteriormente la sua cultura. In mostra questo aspetto si vede molto bene, dagli studi per le sculture e dagli schizzi emerge il rigore del disegno toscano e la sintesi formale ispirata dalla scultura arcaica».
Un artista coltissimo in effetti di cui troppo spesso si ricordano soltanto gli eccessi...
«Si, sono molto belle le parole finali di Jeanne, sua figlia, che dice proprio questo: forse Modigliani è stato un uomo che ha cercato l’autodistruzione, con l’alcol e la droga, ma dobbiamo giudicarlo per la sua grandezza d’artista. E’ stata una pietra miliare, un maestro grande e unico, che non si lega e non influenza, una figura che resta inconfondibile e tutto sommato isolata».

La Stampa 10.6.17
“L’avventura nel Tempio di Erode tra pietre giganti da 600 tonnellate”
L’archeologo israeliano è il massimo conoscitore della storia antica di Gerusalemme
di Ariela Piattelli


Dan Bahat, l’archeologo israeliano considerato il massimo esperto di Gerusalemme, tiene sempre in tasca dei piccoli fogli bianchi rettangolari, dove, mentre spiega la complessa storia della Città Santa, abbozza diverse piantine, passando dal primo Tempio di Re Salomone al secondo di Erode, dall’epoca crociata ai tempi di Solimano, e su cui ricuce una storia plurimillenaria. Per lui, che ha scavato nei siti archeologici più importanti d’Israele, come nella fortezza di Masada e nel tunnel sulla base del Muro del Pianto, e che è stato per lunghi anni l’archeologo ufficiale di Gerusalemme, la città non ha segreti.
Ora, a 79 anni, insegna in varie università e, anche se non scava più, quando c’è odore di scoperta o di reperto da riportare alla luce, lo chiamano in continuazione per un consulto, come adesso che si scava attorno ad un piccolo teatro romano, un Odeon, rinvenuto vicino al Muro Occidentale.
Professore, lei ha scritto «L’Atlante di Gerusalemme» e ha recentemente pubblicato un libro sul tunnel e la storia del Muro del Pianto. Come ha iniziato a studiare la Città Santa?
«Pensi che all’università ho studiato l’età del ferro e quella del bronzo. Ho iniziato ad occuparmi di Gerusalemme nel ’64, tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni e della riunificazione. Il mio professore, Avi Yonah, fece il plastico della città (oggi al Museo d’Israele) ai tempi del secondo tempio di Erode. Gli chiesi come fosse possibile essere aderenti alla storia, visto che a noi israeliani era proibito l’accesso nella Città Vecchia. Lui mi spiegò che aveva studiato Giuseppe Flavio e l’archeologia classica e che per ricostruire le case dei ricchi si era ispirato alle dimore di Pompei della stessa epoca. Lì capii che è la storia che dice all’archeologia che cosa c’è a Gerusalemme. Alcuni archeologi sostengono che l’archeologia è la perla delle materie umanistiche e, invece, è serva della storia. Da quel momento decisi di dedicarmi alla storia della città e mi specializzai nell’epoca crociata».
Quale è il suo metodo per comprendere la complessità di Gerusalemme?
«Vede, io sono stato il primo a capire che questa città rappresenta un mondo a sé. Per capire la complessità di Gerusalemme dobbiamo calarci in essa come con uno zoom per attraversare tutti gli strati della storia e dei popoli che l’hanno cambiata in continuazione. Oggi molti vogliono semplificarla per comprenderla, ma la storia e l’archeologia parlano chiaro. È uno studio talmente profondo che deve essere indipendente. Gerusalemme racchiude tutti i periodi e la sua storia aiuta a conoscere le altre».
Agli occhi dell’archeologia i percorsi spirituali della città coincidono con i luoghi della storia?
«Solo a volte: faccio due esempi. Tutti parlano di un primo e un secondo tempio, ma i templi che si sono alternati lungo i secoli sono quattro. Oppure, io ho scoperto la vera storia della Via Dolorosa e delle processioni. Nell’epoca crociata, dal 1099, si iniziò a fare le processioni due volte all’anno, nella domenica delle palme e il 14 settembre, la Giornata della Croce. Era un percorso rettilineo, che prendeva il via dalla Porta Dorata, che sta al muro orientale, e conduceva direttamente al Santo Sepolcro, senza stazioni. La porta veniva aperta esclusivamente in queste due occasioni. La vicenda delle 14 stazioni arriva dopo».
E come arriva?
«Nel 1187 Saladino conquista Gerusalemme e proibisce ad ebrei e cristiani di salire sulla spianata e, quindi, il percorso della Via Dolorosa è stato cambiato. L’idea dei pellegrini e dei crociati era diversa. Poi ci sono dei luoghi dove la spiritualità e la storia confluiscono. Penso al Santo Sepolcro, luogo in cui veramente Gesù fu sepolto».
Quali sono le scoperte che l’hanno sorpresa di più?
«Nel tunnel trovai pietre del tempio di Erode di 600 tonnellate. Le pietre più grandi che hanno trovato mai nel Paese. Ha idea quanti camion bisogna riempire per arrivare a tale cifra? Ciò rivela la genialità di chi costruiva all’epoca. Non avrei mai immaginato di trovare una cosa del genere».
A che cosa sta lavorando adesso?
«Proprio in questi giorni sto completando un libro sulla spianata del Tempio, “La montagna della casa di Dio”. È, come tutti sanno, una storia complessa, in cui si sovrappongono durante i secoli luoghi sacri alle diverse religioni. L’esempio più lampante è la cupola della Roccia, il santuario islamico, riconvertito in chiesa dai crociati, che hanno tagliato e inciso la roccia. Sotto la cupola dorata, originariamente, c’era il sancta sanctorum, il santuario del Tempio di Salomone e alcuni pensano che non sia vero, ma io ne sono assolutamente certo. Poi sotto la roccia c’è una grotta, dove i visitatori credono di non vedere nulla. Noi archeologi, invece, ci vediamo una tomba cananea di una persona molto importante, vissuta 500 anni prima di Abramo. È qui che Gerusalemme inizia ad essere un luogo santo. Quella collina era un cimitero cananeo di persone molto importanti».
Se voi avete potuto scavare soltanto attorno alla spianata, come avete fatto a capire che cosa c’era sotto al monte del tempio?
«Nel 1867, esattamente un secolo prima della Guerra dei Sei Giorni, un archeologo inglese, Charles Warren, arrivò a Gerusalemme con una lettera della regina Vittoria, che chiedeva al sultano turco di poter scavare e lui acconsentì. Fino ad oggi, lui, che scavò dei pozzi per tutta la spianata, è l’unico che ha fatto una mappatura naturale delle rocce di Gerusalemme, spiegandone la forma. Al centro della sua mappa c’è il Monte Moriah, dove nella Bibbia ha luogo il sacrificio di Isacco ed è li che inizia la storia di Gerusalemme».

La Stampa TuttoLibri 10.6.17
Gli indios annegavano gli spagnoli per capire se fossero degli dei
Le ricerche dello studioso brasiliano sui popoli amazzonici: il rapporto tra natura e cultura nel pensiero “primitivo”
di Gianfranco Marrone


Sembra che nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta dell’America, accadessero cose strane. Gli spagnoli, incuriositi dagli abitanti di quei luoghi, istituivano commissioni d’inchiesta per decidere se gli indios avessero o meno un’anima; e se fossero a tutti gli effetti persone umane. Mentre gli indios, dal canto loro, si occupavano d’immergere i prigionieri bianchi sott’acqua, per esaminare con grande attenzione le trasformazioni fisiche dei loro cadaveri, in modo da capire se quei corpi andassero o meno in putrefazione; e se, per questo, si trattasse a tutti gli effetti di persone umane.
L’aneddoto, ricavato dalla Historia de las Indias di Gonzalo Fernandez de Oviedo (1526), circola molto fra gli antropologi, funzionando come una specie di parabola. Claude Lévi-Strauss lo citava spesso per sottolineare il fatto che la natura umana, volente o nolente, tende a negare la propria generalità, preferendo semmai distinguere, al suo interno, fra uomini «veri e propri» e loro eventuali sottoprodotti, con tutte le orride – troppo umane – conseguenze del caso (razzismi, persecuzioni, stermini di massa e così via). Lo stesso studioso ha poi sottolineato come, al di sotto dell’apparente simmetria fra i due comportamenti, ci sia in essi una forte differenza d’intenti. Gli europei, usando i modelli della teologia, sostenevano che gli «altri» fossero animali; gli indios, assumendo uno sguardo scientifico, sospettavano che gli spagnoli fossero dèi. Il gioco, insomma, è a tre termini (uomini, animali, dèi), non a due (uomini e no). Come dire che l’alterità a cui pensano gli occidentali non è la stessa che hanno di mira i cosiddetti primitivi: laddove i primi riducono l’uomo a bestia, i secondi l’innalzano verso la divinità.
La storiella ritorna adesso in Metafisiche cannibali, lo straordinario libro, finalmente tradotto in italiano, dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro, da diversi anni al centro dei principali dibattiti filosofici, psicanalitici e, ovviamente, etnologici di mezzo mondo. Già nel titolo, apparentemente ossimorico, si coglie l’allusione a uno dei testi più noti dello stesso Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, che cinquant’anni fa attribuiva ai cosiddetti primitivi forme complesse di attività filosofica. Analogamente, Viveiros sostiene che gli antropofagi (voluto stereotipo per indicare, in generale, le popolazioni studiate dagli etnologi) praticano addirittura una metafisica, o se si vuole una cosmologia, che è cosa al tempo stesso più ampia e più precisa della famigerata «cultura» di cui essi, si dice, sarebbero portatori. Avendo a lungo lavorato sulle (ma sarebbe meglio dire con le) popolazioni amazzoniche, Viveiros ha riscontrato in esse un radicale animismo, e cioè una tendenza ad attribuire a un gran numero di esseri viventi o cose del mondo una spiritualità, dunque un’umanità. Per gli Jivaros, ad esempio, le scimmie, i pecari o certi uccelli possono far parte della famiglia allargata, come i parenti acquisiti. E se tutti (uomini e animali e piante, ma anche spiriti o entità oniriche) hanno potenzialmente un’anima, a distinguere fra loro gli esseri viventi sarà il corpo: è nel corpo che si istituiscono le differenze di specie; è il funzionamento fisiologico a determinare la separazione fra esseri propriamente umani e altri esseri viventi, più o meno immaginari.
Si capisce così il senso profondo di quel che gli indios, nella parabola lévistraussiana, stavano facendo con i loro detenuti spagnoli: studiando le reazioni fisiologiche dei loro corpi, andavano in cerca in essi di forme di umanità, per poter conseguentemente respingere la loro supposta natura divina. Gli europei non avevano mai negato che gli amerindi avessero un corpo; dubitavano piuttosto della loro anima. Gli indios, al contrario, sapevano già che gli spagnoli avessero un’anima; ma non erano certi del senso dei loro corpi.
Da qui, per farla breve, l’idea di fondo del libro di Viveiros, che dall’ambito specialistico degli studi antropologici (in dibattito con Wagner, Strahern, Latour, Descola, Ingold e altri) sfocia in una ampia concezione filosofica (in linea con le riflessioni di Derrida, Foucault e, soprattutto, Deleuze e Guattari): non esiste la natura e non esiste la cultura, così come, più che altro, non esiste una maniera univoca di separare questi due ambiti. Se per noi la natura è una, mentre le varie culture sono modi diversi di distaccarsi da essa, per molte altre etnie a essere univoca è la cultura, mentre molteplici sono le nature. Per noi è divenuto ovvio il concetto di multiculturalismo. Per gente come gli Achuar amazzonici, ma per molti altri popoli nel mondo, a essere moneta coerente è invece il multinaturalismo: nozione che gli occidentali fanno grossa fatica a intendere.
Eppure, a ben vedere, anche nella nostra società stanno emergendo contrasti fra modi diversi di relazionarsi con gli esseri naturali, considerandoli talvolta sempre meno tali. Basti pensare all’animalismo, e ai conflitti che genera nelle nostre vite quotidiane. Per sempre più persone, come per gli Jivaros, certi animali fanno parte della famiglia. Come si spiegherebbe altrimenti il gesto dell’allattare con un biberon un tenero agnellino?

La Stampa TuttoLibri 10.6.17
Il tramonto dell’Occidente non tramonta mai
La nuova (e inattesa) traduzione di un classico del ’900 “Non è un simbolo della destra, ma un profeta del socialismo”
di Bruno Ventavoli

Più citato che letto, il Tramonto dell’Occidente è un testo cardine del novecento. Anche perché quel titolo, perfetto come una profezia, calza bene alle crisi della modernità, dal terrorismo, ai dissesti finanziari, alla denatalità che riempie l’Europa di un’umanità arzillamente vecchia (e senza pensioni). E così eccolo tornare sempre di moda, macabro monito, nei ringhi dei leader populisti o negli sproloqui degli haters sul web, anche se pochi hanno digerito quelle 1500 pagine di lingua vibrante, polifonica, erudita. Per restituirlo alla lettura (e ad altre albe interpretative) l’editore Aragno manda in libreria il primo volume di una nuova traduzione, tanto minuziosa nel lessico, quanto rivoluzionaria nell’interpretazione. L’ha realizzata con certosino ardore Giuseppe Raciti, docente di filosofia teoretica all’Università di Catania, già curatore di Jünger, Bachofen, o Lukács.
Il tramonto dell’Occidente fu concepito da Spengler prima dello scoppio della Grande Guerra, nel momento in cui la potenza tedesca sembrava indiscutibile (l’autore si augura che «non sia del tutto indegno delle imprese militari della Germania»). Uscì tra il ’18 e il ’22, in un contesto capovolto per la Germania umiliata dalla sconfitta, e riverbera i borborigmi politici, intellettuali, ideali, che percorsero l’Europa dissanguata dal conflitto. Spengler con vigore quasi messianico (come un «pioniere del domani» «nonostante la miseria e lo schifo del presente»), tratteggia una nuova filosofia del destino - o della storia - che concepisce la civiltà umana come un organismo che, in quanto tale, attraversa varie fasi, dall’infanzia alla maturità. Per studiare la civiltà occidentale, «l’unica il cui compimento sia oggi in atto su questo pianeta», si concentra sui rapporti che essa intrattiene con la vita, l’anima, la natura, lo spirito. Il materiale raccolto è gigantesco. Con vertiginosa scioltezza Spengeler passa dall’analisi dei sistemi socio-economici, all’immane solitudine del Walhalla, dalla saggezza del Talmud alle pietre delle cattedrali gotiche, dalle sette dell’illuminismo arabo alla penombra nelle tele di Rembrandt, al libro dei morti egizio.
In quel magma di pensieri poderosamente faustiani - non a caso Goethe è citato come modello insieme a Nietzsche - chiunque può trovare una stampella teorica. E appropriarsene. Storicamente, tuttavia, Spengler è arruolato dalla destra e da quel pensiero antimoderno, anticapitalistico, pessimista, che ha visto nella «civilizzazione» soggetta al denaro, politicamente fragile, idealmente arida, un terribile segno di decadenza. Mussolini lo leggeva (sebbene Spengler fosse inclemente fino all’ingiustizia con il valore delle legioni romane), Hitler ne era affascinato (sebbene Spegler tenesse le distanze dalla rozzezza nazista).
In Italia il Tramonto è conosciuto soprattutto attraverso la traduzione che ne fece Julius Evola, filosofo della destra più radicale, pubblicata negli anni 50 da Longanesi. C’è stata poi una versione più nuova, curata da Jesi (forse solo formalmente), purgata dei lemmi più politicamente scorretti.
Professor Raciti, che cos’ha cambiato rispetto a Evola?
«Sono intervenuto sul linguaggio per scrostare la prosa dai riferimenti troppo datati. Ansimava spesso nei confronti dell’originale, incapace di coprirne la ricchezza. Evola era preoccupato di fare un altro libro di Evola, più che di restituire la voce a un autore diverso da lui».
Evola è stato infedele?
«È una falsa questione. Perché l’oggettività non esiste. Esistono interpretazioni e il traduttore può essere fedele solo alla propria interpretazione. La traduzione di Evola è pionieristica, ha tracciato solchi importanti, e chi è venuto dopo non ha potuto che trarne profitto. Evola, comunque, tirava acqua al proprio mulino. Grazie a lui il Tramonto è stato letto come documento drammatico della fine di un’epoca».
Qual era invece l’intenzione spengleriana?
«Con la mia traduzione ho sterzato ideologicamente la fruizione del testo. Volevo aprire un’altra prospettiva, che non fosse solo quella destrorsa. E soprattutto non pessimistica».
Che lettura propone?
«Uno degli autori di Spengler era Nietzsche. La parola “tramonto” è da intendersi nel senso dello Zarathustra. Tramonto significa superamento di sé, autosuperamento della crisi dell’Occidente. Non è un libro sulla tragica e irreversibile fine di una civiltà. Bensì sulle energie di cui questa civiltà dispone ancora e sul tentativo di valorizzarle. Non è insomma un pianto sulla crisi, è il documento di una rinascita».
Come può avvenire questa rinascita?
«La civiltà può rinascere in forma tecnica. Il tutto naturalmente affogato in una temperie etica chiamata “socialismo prussiano”. Se ne occupa nel saggio del ’19, Preußentum und Sozialismus. Il socialismo prussiano è la vera filosofia di Spengler. Non un socialismo di tipo economico. Bensì etico, basato sul principio della solidarietà che passa attraverso la disciplina. E’ la cosiddetta libertas obedientiae, prerogativa dell’esercito prussiano e della classe operaia di Bebel. Un personaggio fondamentale nella costellazione spengleriana, di cui parla diffusamente nel Tramonto, mai considerato nel suo giusto peso, è Shaw. Che era un alfiere di questo socialismo a base fabiana».
Un socialismo poco marxista...
«E’ una singolare religione politica, dalla cui azione alchemica dipendono le sorti dell’occidente. Quest’etica socialista è la corretta etica della civilizzazione. È ciò che consentirebbe alla civilizzazione di restaurare, seppure artificialmente, il senso della civiltà».
Lei dunque lo legge in una direzione diametralmente opposta a quella tradizionale di destra: ne fa addirittura un testo socialista.
«Lo dice lo stesso autore. Non invento niente. Spengler è espressamente un teorico del socialismo prussiano. Per Spengler anche Nietzsche, suo malgrado, era un socialista».
Il «Tramonto» è ancora attuale per leggere i sussulti dell’Occidente?
«Assolutamente. Solo che l’apporto di novità non sarebbe venuto dalla sponda dell’atlantico. Spengler non ha nessuna propensione americana. Anzi. L’apporto sarebbe venuto dal cuore dell’Europa. Ma non l’Europa hitleriana».
Che posizione ebbe nei confronti del nazismo
«È morto nel 1936. Troppo presto per poter stabilire una qualsivoglia relazione con i nazionalsocialisti andati al potere. Il lettore più geniale, Jünger, ipotizza addirittura in una pagina di diario che Spengler sia morto a seguito delle continue incursioni della polizia nazista a casa sua. Per dire che il rapporto con il nazismo è molto problematico».
Oltre alle correzioni stilistiche che cosa c’è di nuovo nella sua traduzione?
«Ho scoperto che la prima stesura del Tramonto è praticamente un altro libro da quello che conosciamo. Nel ’18 Spengler scrive la prima parte, nel ’22 la seconda, nel ’23 le unisce insieme. Ma il risultato è un Tramonto parallelo scomparso. Non ho fatto un’edizione critica che sarebbe stata sterminata - non esiste nemmeno in tedesco - e avrebbe fatto esplodere la foliazione gettando nel panico l’editore, ho però cercato di recuperare attraverso cospicue note buona parte dei concetti che Spengler, per logiche non sempre percorribili, ha omesso dall’edizione del ’23, servita a tutte le traduzioni straniere».
La cosa più importante che finì sbianchettata?
«Quella sulla quale ha usato più understatement è la relazione tra cristianesimo e arabismo. Nella versione definitiva del tramonto questa nozione rimane in superficie mentre nella prima era molto più radicale».
Che cosa intende per civiltà araba?
«La chiama suggestivamente “magica”, è caratterizzata dal conflitto di due potenze, bene e male. Una struttura molto semplice che accomuna tutti i grandi monoteismi, ebraico, cristiano, arabo. Per Spengler questa civiltà araba contiene il cristianesimo. Con un gesto assolutamente profetico, che tanto inquietò Croce, scioglie il cristianesimo, vanto dell’Europa occidentale, nelle spire dell’arabismo. “Non possiamo non dirci islamici” sussurrava con velenosa, sconcertante, attualità».

il manifesto 10.6.17
L’onda del Pride per i diritti di tutti. In piazza Cgil e Uil
Roma, Udine, Pavia. La manifestazione del movimento Lgbtqi è itinerante: è partita lo scorso 27 maggio da Arezzo e proseguirà fino al 19 agosto, toccando 24 città italiane
di Stella Levantesi


ROMA Il Gay Pride torna a sfilare oggi a Roma, Pavia e Udine. Nella Capitale, il corteo si snoderà da piazza della Repubblica (ore 15) fino a piazza Madonna di Loreto. A Udine, invece, (la partenza è alle 15 in via Leopardi) è una prima assoluta di tutta la regione Friuli Venezia Giulia.
La manifestazione del movimento Lgbtqi è itinerante: è partita lo scorso 27 maggio da Arezzo e proseguirà fino al 19 agosto, toccando 24 città italiane.
«Corpi senza confini», è lo slogan scelto per l’edizione di quest’anno alla quale aderiranno anche la Cgil e la Uil. Al Roma Pride parteciperà anche la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, come ha annunciato lei stessa un paio di giorni fa dal palco montato sulla Gay Street romana, lo “stradone” davanti al Colosseo trasformato nell’epicentro della cultura Lgbtqi della Capitale. «È un fatto importante per noi, avere il più grande sindacato al nostro fianco, – spiega Sebastiano Secci, portavoce del Pride Roma – ora chiediamo di impegnarci tutti insieme nella battaglia per i matrimoni e le adozioni».
Per inciso, proprio ieri la Corte d’appello di Milano ha imposto ad un comune lombardo di trascrivere la sentenza dello Stato di New York di adozione congiunta da parte di due uomini, di cui uno con doppia cittadinanza, di un minore statunitense. E anche questa è una prima assoluta, che fa sperare.
La Cgil, che nel corteo romano sfilerà con un suo carro, porterà in piazza la nuova Carta dei diritti universali del lavoro, per la quale ha raccolto oltre un milione di firme e che ora è una legge di iniziativa popolare in discussione in parlamento.
La nuova Carta, che verrà distribuita in piazza accompagnata da un preservativo e dallo slogan «proteggi te stesso», è la riscrittura del diritto del lavoro contenuto nell’articolo 11 della Costituzione, in nome di un principio di uguaglianza che impedisce ogni discriminazione per orientamento sessuale.
La Cgil si augura che il popolo del Pride partecipi alla manifestazione contro «lo schiaffo alla Costituzione» di sabato 17 giugno, che si oppone alla reintroduzione dei voucher. Molto è stato fatto per lavoratori gay e lesbiche, molto però resta ancora da fare per l’accesso al lavoro dei trans. «Un compito del sindacato è quello di cambiare una cultura, anche nel momento della contrattazione», ha spiegato Camusso.
Quest’anno dunque si intrecciano diverse realtà e il Pride diventa, per la prima volta, un punto di incontro fondamentale per le campagne dei sindacati. «Il fatto che aderiscano tante realtà nuove – commenta Mario Colamarino, presidente del Mario Mieli – significa che la nostra società sta cambiando. Se uniamo le forze, alla fine un risultato riusciamo a portarlo a casa. La lotta della comunità Lgbtqi non si è esaurita con le unioni civili».
Come dice Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay, le 24 manifestazioni «realizzano a pieno la vocazione dell’Onda Pride testimoniando la mobilitazione vera di un intero Paese per promuovere la cultura dei diritti».

il manifesto 10.6.17
Thoreau, solo in una capanna
Everteen. «Walden, un anno nei boschi»: l'albo illustrato, edito da Gallucci, dedicato alla figura dello scrittore, filosofo, naturalista americano dell'Ottocento, ispiratore del pacifismo internazionale
Arianna Di Genova


Voleva vivere da «gagliardo spartano» e capire i fatti essenziali della vita («succhiarla fino al midollo»), magari con un atto estremo, di totale disobbedienza alle regole, rifondando l’idea di una possibile convivenza civile tra eguali, al di fuori del magnetismo esercitato dal dollaro. Così, fino a un certo punto della sua esistenza Henry David Thoreau, filosofo, saggista, poeta, «attivista» e agrimensore (era nato nel 1817 a Concord, nel Massachussets, dove morì nel ’62, a soli 45 anni) fu un uomo normale. Di modeste condizioni economiche, ma normale. Poi, un giorno decise di mettere in atto il suo piano e di fare un esperimento, buttando alle ortiche anche i «recinti ideologici» (il trascendentalismo): si rintanò nel bosco e visse in una semplice capanna di legno vicino al lago di Walden, un eremitaggio in mezzo alla natura che durò molti mesi senza soluzione di continuità (nel 1845 abbandonò la cittadina di Concord dai cui confini non era mai uscito). Fin qui, niente di speciale se non fosse che Thoreau aveva dalla sua il dono della scrittura e che quel suo Walden, ovvero vita nei boschi divenne un grande classico. Ispirò personaggi come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King e si trasformò in un brillante diario, pieno di considerazioni filosofiche e sociali, sorta di guida spirituale per i movimenti pacifisti americani.
walden
Tutto suo malgrado, perché l’autore non ambiva essere un modello, non voleva seguaci. ogni persona è diversa e deve seguire la sua stella, sosteneva: «È solo avendo un punto fisso e matematico che si può essere saggi, come il marinaio», si troverà a chiosare poi (forse per scoraggiare gli epigoni).
Fino al 10 settembre, a New York una mostra ricorda la sua figura alla Morgan Library & Museum (pagine zeppe di riflessioni, lettere, manoscritti, libri dalla sua biblioteca), mentre dalla fine di settembre la rassegna traslocherà nel suo paese natale, Concord. Intanto, le generazioni più giovani possono avere un assaggio della sua «filosofia» (nel bosco imparò a vivere così da non dover rimpiangere, con la morte vicina, di non averlo mai fatto fino a quel momento) grazie all’albo illustrato appena mandato sugli scaffali italiani dall’editore Gallucci: Henry David Thoreau Walden, un anno nei boschi (con disegni di Giovanni Manna, traduzione di Luca Lamberti, pp. 32, euro 16). «Io non sono più solitario d’un semplice bverbasco o dente di leone in un pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di un tafano o di un’umile ape», scriveva il naturalista ribelle e antischiavista (nel 1846 si rifiutò di pagare la tassa che il governo voleva imporre per finanziare la guerra schiavista al Messico).
Quest’anno ricorre il bicentenario di Henry David Thoreau – precisamente cadrà il 12 luglio – e potrebbe essere l’occasione giusta per rileggere anche il suo Civil Disobedience, il testo che invitava alla resistenza contro l’ingiustizia di leggi o comportamenti governativi, prima fra tutte l’idea che esistano esseri umani inferiori ad altri, corpi da asservire ai propri bisogni.

il manifesto 10.6.17
Il virus letale del potere personale
Saggi. Il regime postdemocratico in un saggio del filosofo Pierre Rosanvallon
Un opera di Kláry Pataikovej
di Gaetano Azzariti


Si avverte uno scarto tra la diagnosi e la prognosi, tanto radicale la prima quanto inadeguata la seconda. Ha ragione Pierre Rosanvallon nel suo ultimo libro (Le bon gouvernement, Edition de Seuil, 2015, pp. 401) quando rileva che occorre far rientrare il potere esecutivo nei cardini della democrazia, mancando un «codice» del governo democratico. Non basta una legittimazione popolare per assicurarsi che il governo risponda alle logiche complesse della democrazia. Non è sufficiente soprattutto quando – come sempre più spesso avviene – le elezioni si risolvono in una mera investitura di potere ad un leader. Fa bene a ricordarlo in tempi in cui molti esecutivi «democraticamente» eletti stanno agendo «contro la democrazia». Oggi appare evidente il caso di Erdogan, ma se si volge lo sguardo al passato è ben noto che molte tra le peggiori dittature conquistarono il potere tramite libere elezioni (Mussolini nel 1924, Hitler nel 1933).
ROSANVALLON, in realtà, non sembra avere in mente vicende drammatiche, pericoli imminenti di torsione autoritaria nell’accezione classica, piuttosto la sua è una valutazione sulle tendenze generali che attraversano i nostri sistemi politici contemporanei: da un lato pare inarrestabile la progressiva conquista di una centralità degli esecutivi, dall’altro sembra accentuarsi l’incapacità di questi di rispondere alle domande della società. La diagnosi non si ferma a constatare questa trasformazione degli ordinamenti democratici, essa fornisce una preziosa indicazione sulle cause. Queste sono da ricercarsi nella incapacità dei governi a «confrontarsi con le contraddizioni del mondo». L’osservazione è di fondo. Personalmente ne dedurrei che la strada da seguire è quella di collegare l’attività dei governi alle logiche della rappresentanza politica plurale; qui è il virus che rischia di far degenerare i nostri poveri ordinamenti politici.
I GOVERNI sembrano somigliare sempre più a comitati d’affari, scollegati dalla realtà dei conflitti. È la perdita del legame sociale che espone i nostri regimi all’autocrazia ed impedisce di definire democratici i nostri esecutivi. Invece – ecco lo scarto – Rosanvallon persegue una diversa strategia, per certi profili opposta: inutile continuare a concentrarsi sul problema della «rappresentanza politica», che sembra venir lasciata al suo destino. Il buon governo si legittima in base ad una fiducia di natura personale (homme de confiance) e ruota attorno alle regole proprie di esercizio del potere. In questa prospettiva sono tre i concetti attorno cui si costruisce la legittimazione democratica dell’azione dei governi: leggibilità, reattività, responsabilità.
Due proposte in particolare sono indicate per dare concretezza a questa «democrazia d’esercizio». Da un lato nuovi controlli che vigilino sull’integrità e onestà del mondo politico, in organismi composti da cittadini estratti a sorte; dall’altro momenti di valutazione più frequenti. In vero, non credo che la democrazia (neppure quella specificatamente legata all’attività dei governi) sia in crisi perché manchino articolati sistemi di controlli, quello della magistratura, ad esempio, appare assai incisivo. Semmai esso è impotente, non riuscendo ad estirpare la mala pianta della corruzione. Moltiplicare i controlli non migliorerebbe di molto la situazione, anzi rischierebbe di produrre sovrapposizioni. Si tratta, piuttosto, di cambiare un sistema politico che, nel suo complesso, concentra il potere nelle mani di pochi, favorendo in tal modo l’uso privato, lobbistico, deviato, se non propriamente criminale, del governo della cosa pubblica. Quel che deve auspicarsi è l’aprirsi dell’attività di governo alla partecipazione politica attiva dei cittadini e non relegare questi al ruolo di passivi controllori.
NON BASTA neppure evocare una generica apertura del kratos al demos, è necessario anche comprendere le modalità di una partecipazione che possa dirsi effettivamente «democratica». La stessa richiesta di una valutazione continua può rilevarsi un obbiettivo fuorviante, entro certa misura addirittura controproducente. Non può dirsi infatti che gli attuali governanti non prestino attenzione all’opinione pubblica. Sembrano in verità ossessionati dai sentimenti del popolo: è sui sondaggi (la valutazione «giorno per giorno» dell’agire politico) che si costruisce il discorso politico. In verità, ciò che sembra affermarsi è una retorica del consenso. Governi post-democratici al servizio di interessi consolidati (mercati, finanza, lobby di vario genere), in grado però di assecondare gli umori del popolo, costruendo una identità privata di consistenza. Come ci ha spiegato Ernesto Laclau, «significanti vuoti», di natura puramente nominale, lontana dagli interessi reali dei soggetti.
IN QUESTO CONTESTO troppi controlli non mediati potranno solo favorire un’azione di governo ancor più accondiscendente nei confronti delle pulsioni – a volte quelle meno nobili – delle folle. Non basta, pertanto, auspicare più frequenti momenti di valutazione in generale, bisogna invece interrogarsi sulla sostanza politica di questi giudizi, sulle modalità di formazione dell’opinione pubblica, sul ruolo promozionale dei governi (delle formazioni sociali, dei leader) per la costruzione di una diversa società civile riflessiva.
Nel complesso, dunque, avverto un salto tra l’analisi e le proposte di Rosanvallon. Se volessimo tentare di recuperare la radicalità della prima e contrastare le debolezze delle seconde non dovremmo accettare l’idea che si possano distinguere le regole del buon governo da quelle della rappresentanza politica.
Scollegare le une dalle altre rende un pessimo servizio alle ragioni della democrazia. Non credo debba accettarsi l’idea che «i nostri regimi possono essere detti democratici, ma noi non siamo governati democraticamente», non penso ci si possa limitare a constatare che in fondo l’elezione intesa come competizione aperta basta a far considerare democratico un sistema politico, anche quando si rileva che il governo non lo è. Ritengo invece che ove il governo non sia democratico (e Rosanvallon dimostra che non lo è) anche l’elezione non può essere ritenuta democratica. Come ci ricordava Pietro Ingrao: il voto, da solo, non basta. Da solo, neppure il governo può bastare. È proprio la complessa relazione tra i due termini che deve essere indagata. Al di là del voto e prima del governo c’è il problema della rappresentanza politica. È da qui che dovremmo ripartire.

il manifesto 10.6.17
L’Islam riscopre la scienza
Scienza. Padova: gli Imam della comunità islamica del Nord est osservano la Luna di Ramadan al telescopio «Oggi purtroppo ci troviamo a vivere un periodo culturalmente e scientificamente difficile. Ma il mondo islamico sta lavorando per una visione nuova»
di Davide Coero Borga


Che cosa ci fanno diciotto Imam – tutti membri della grande comunità islamica presente nel nord est italiano – sulla torre di un osservatorio astronomico con lo sguardo volto all’orizzonte? Osservano al telescopio la prima falce di Luna crescente che decreta, com’è spiegato nel Corano, l’inizio di uno dei mesi più importanti per i musulmani: il Ramadan.
È la sera del 26 maggio a Padova. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ospita nella sua sede patavina un evento unico nel suo genere: una nutrita delegazione guidata da Nader Akkad, Imam di Trieste, e Hammad Al Mahamed, Imam di Venezia, varca i cancelli dell’osservatorio e viene ricevuta dal direttore, Massimo Turatto, e da altri astronomi dell’istituto.
«Siamo venuti per assistere a un evento astronomico molto importante per noi musulmani», spiega l’Imam Akkad. «Un evento che per l’Islam rappresenta uno dei segni che Dio utilizza per comunicare con gli uomini: l’avvistamento della prima falce di Luna che apre il mese sacro di Ramadan, dedicato al digiuno, alla preghiera e alla meditazione». Si tratta di un momento importantissimo per la vita di un musulmano – sono oltre 1,5 miliardi i fedeli coinvolti in tutto il mondo – e il periodo dell’anno in cui si celebra è lo stesso in tutti i Paesi islamici. La sua durata può oscillare fra i 29 e i 30 giorni: nel 2017 il Ramadan si conclude la sera del 24 giugno, ovvero il 29 Ramadan 1438. Quello degli islamici è un calendario lunare e si discosta dal nostro sia per durata (ogni anno ha circa 11 giorni in meno rispetto al calendario solare) che per quanto concerne la numerazione degli anni, calcolata a partire dall’egira (l’abbandono della Mecca da parte di Maometto e il suo trasferimento a Medina).
I movimenti apparenti della Luna e del Sole nel cielo spesso indicano, nel Corano, l’inizio delle ricorrenze religiose o fungono da riferimento per determinare i tempi che un musulmano deve dedicare alla preghiera. Si tratta, com’è facile immaginare, di moti astrali assolutamente prevedibili e piuttosto semplici da calcolare per un astronomo.
Coloro che abbracciano l’interpretazione letterale del testo sacro danno molta importanza all’avvistamento a occhio nudo della crescenza lunare a livello locale. Di più: la considerano una condizione necessaria per dichiarare aperto il Ramadan. Non c’è spazio per alcuna previsione astronomica, o meglio: la previsione è accettata ma non può certificare ufficialmente nulla. La Luna dev’essere dunque “avvistata” perché il mese abbia inizio.
Negli ultimi anni si è però fatta strada anche un’interpretazione più moderata della Scrittura, che privilegia l’approccio astronomico all’avvistamento a occhio nudo della crescenza lunare e, ritenendo il metodo previsionale idoneo a un contesto moderno, certifica l’inizio del mese di Ramadan attraverso la fatwā (e quindi con il contributo di esperti di legge coranica). Un’apertura alla scienza che non solo agevola i fedeli in un mondo veloce, dove è fondamentale programmare per tempo la giornata, ma che tiene fede alla capacità di adattamento del testo coranico grazie all’impiego del ragionamento analogico (ijtihād), strumento fondamentale nell’interpretazione della Scrittura sacra.
«La nostra speranza è che, quella di oggi, possa essere solo la prima di una serie di iniziative volte alla costituzione di un osservatorio lunare islamico in Italia», sottolinea l’Imam Akkad. «È sempre più urgente per la nostra comunità individuare un riferimento locale autorevole che ci dia modo di avvistare la Luna senza aspettare che l’annuncio arrivi da altri Paesi. La sede di Padova dell’Istituto nazionale di astrofisica, insieme agli altri osservatori diventano dunque sempre più importanti per i musulmani residenti in Italia».
Nader Akkad, Imam di Trieste, ha una laura in ingegneria. Quando ha contattato l’osservatorio di Padova lo ha fatto in modo estremamente informale, scrivendo una mail. Come usa fra scienziati.
Dice il Corano: “Egli consacrò le stelle a voi affinché voi, in questo modo, poteste essere guidati nell’oscurità”. È sulla base di questo precetto che i musulmani hanno costruito i primi strumenti affidabili con cui l’uomo ha osservato il cielo. Le stelle del firmamento (Aldebaran, Altair) come molta parte della terminologia scientifica che ancora oggi viene utilizzata in astronomia (alidada, azimut, almucantarat) sono figlie di una tradizione astronomica che affonda le radici nella storia dell’Islam.
Non c’è da stupirsi, dunque, se oggi i figli di questa tradizione scoprono e riscoprono il gusto di osservare il cielo. Attraverso l’oculare di un telescopio o comodamente seduti dietro al monitor di un computer dove, grazie all’ausilio di software e app dedicati possono comprendere meglio i moti del pianeta Terra e del suo satellite: la Luna.
«Sicuramente l’Islam si trova in sintonia con il modo di fare della scienza», spiega l’Imam Akkad. «Il Corano descrive gli scienziati come le figure più vicine ai profeti ed è certamente per questo motivo che l’astronomia ha avuto un così ampio sviluppo in passato. Oggi purtroppo ci troviamo a vivere un periodo culturalmente e scientificamente difficile. Ma il mondo islamico sta lavorando per recuperare il disavanzo che si è venuto a creare: penso che questa collaborazione, questo vivere insieme, queste occasioni d’incontro possano dare una visione nuova agli Imam e ai teologi musulmani. Per essere di nuovo vicini agli scienziati. E dare una risposta alle comunità che stanno aspettando un parere condiviso: religioso e scientifico. Da triestino non posso dimenticare l’esempio fornitoci dal professor Abdus Salam, primo scienziato islamico a essere insignito del Premio Nobel (nel 1979 insieme a Sheldon Glashow e a Steven Weinberg per l’elaborazione della teoria elettrodebole in fisica, ndr) e fondatore, insieme a Paolo Budinich, del Centro internazionale di fisica teorica delle Nazioni Unite a Miramare».
Salam venne nominato direttore a 38 anni. Il New York Times parlò allora di Trieste Experiment: una cortina di ferro separava sulla carta geopolitica Stati Uniti e Unione Sovietica, ma le due superpotenze di trovarono d’accordo nel voler sostenere Trieste come zona franca per la ricerca.
La Carta dei musulmani d’Europa è stata pubblicata nel 2008. A febbraio di quest’anno Ministero dell’Interno e Consiglio per i rapporti con l’Islam italiano – a cui afferiscono molte delle associazioni islamiche presenti sul territorio – hanno siglato il Patto nazionale per un Islam italiano: l’obiettivo è creare un tessuto sociale dove i quasi 2 milioni di musulmani presenti in Italia possano trovare espressione collettiva e unitaria per essere riconosciuti a livello nazionale senza diffidenze e contrasti. Può la scienza essere un veicolo di dialogo in questo caso?
Quando Galileo Galilei scese in laguna per presentare al Governo della Serenissima il suo cannocchiale, il Doge ne fu letteralmente entusiasta. Lo rispedì a Padova con lo stipendio raddoppiato. Galileo poté così dedicarsi con maggiore tranquillità ai suoi reali interessi: il cielo e le stelle. Cambiò la storia della scienza e dell’umanità, con un gesto semplice e rivoluzionario: afferrò il cannocchiale e lo puntò verso il cielo notturno. La Luna non era una sfera perfetta come tutti avevano fino ad allora creduto. Giove possedeva piccole lune che gli orbitavano intorno come satelliti. E non era la Terra a stare al centro dell’Universo conosciuto, bensì il Sole.
A Padova come a Trieste ha sempre attecchito il seme del cambiamento. Speriamo che il nord est ci sorprenda positivamente, ancora una volta.