sabato 24 giugno 2017

SULLA STAMPA DI SABATO 24 GIUGNO
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Repubblica 24.6.17
Gustavo Zagrebelsky “Credeva in una società fondata sui beni comuni”
intervista di Liana Milella

«Per me è un grande dolore. Per il nostro Paese è un grande vuoto». Il professor Gustavo Zagrebelsky parla di Stefano Rodotà, il giurista stimato e il compagno di tante battaglie a difesa della Costituzione. Nella sua voce c’è commozione e rammarico per un amico di meno.
Cos’era Rodotà per lei, prima ancora che come giurista?
«Sto cercando le parole... Un uomo di grande rigore e grande cultura. Di molta moderazione e di molta costanza nel perseguire i suoi ideali. A ciò aggiungerei uno stile asciutto, e, non sembri una contraddizione, molto dolce».
A me suona ancora nelle orecchie la sua voce roca, sempre pacata anche quando il dibattito pubblico non risparmiava eccessi.
«Molti lettori di questo giornale ricorderanno le sue apparizioni in pubblico, anche in televisione, con questo modo di fare sempre chiaro, legato ai temi, slegato dalle persone con le quali poteva polemizzare ».
Ma lui invece è stato oggetto di pesanti aggressioni… «Sì, ne voglio ricordare in particolare una. Quando fu proposto come possibile presidente della Repubblica fu oggetto di un’ignobile campagna di denigrazione ».
Qual è stato il suo contributo alla scienza del diritto?
«Io ho conosciuto Stefano Rodotà alla fine degli anni Sessanta (aveva esattamente dieci anni più di me), in riunioni di giovani e meno giovani giuristi, il cui frutto fu la creazione di una rivista che esiste tuttora, con Rodotà presidente del comitato scientifico, il cui titolo è Politica del diritto. Nel gruppo c’erano colleghi che hanno preso le vie più diverse come Cassese e Amato. La ragione fondativa della rivista era una visione del diritto come strumento di trasformazione sociale. Politico in quel senso, non nel senso della politica dei partiti. Nel senso di una visione politico-civile del diritto. In particolare per lui, per la sua strada successiva, il diritto a protezione ed emancipazione dei più deboli».
Un filone che lo ha accompagnato a lungo…
«Sì, fino all’ultimo, fino al fondamentale volume del 2015 dal titolo Il diritto di avere diritti. Rodotà iniziò come un qualunque giurista prodotto dall’accademia italiana, occupandosi di temi classici del diritto civile e della loro, come si dice, dogmatica. I suoi primi studi sono stati dedicati alla responsabilità civile e al contratto: più classici di così! Il terzo era sulla proprietà, il titolo – Il terribile diritto – dice già molto. Sul diritto di proprietà si costruì la società borghese dell’800 con le sue tensioni, le ingiustizie, le divisioni in classi. La proprietà veniva estrapolata dai concetti giuridici per essere immersa nella grande storia dei rapporti sociali. Il punto finale degli studi storico- prospettici di Rodotà è stato il suo interesse per i beni comuni, sottratti alla partigianeria dei proprietari e attribuiti alla gestione degli utenti».
Ma sul tema dei diritti Rodotà è andato molto più in là fino a guardarli anche nella società futura.
«Per l’appunto. Rodotà è stato un pioniere. Negli ultimi decenni si è occupato a fondo di temi come gli aspetti giuridici della bioetica, l’impatto delle nuove tecnologie sull’esistenza delle generazioni presenti e future, lo sviluppo della tecnica e i rischi di disumanizzazione della vita. E infine della disciplina giuridica e dei diritti della circolazione dei dati in rete ».
Rodotà garante della privacy, paladino di un uso responsabile delle intercettazioni, senza violare il diritto di cronaca. Giudica la sua una posizione equilibrata?
«Era quella di chi si rende conto che esistono, e oggi esistono sempre più numerosi, problemi difficili, e difficili in quanto presentano diversi lati. È evidente che esiste un lato dell’essenziale libertà dell’informazione e uno della difesa della dignità delle persone. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che negli ultimi anni, l’interesse di Rodotà si era allargato dai temi strettamente giuridici, a quelli più ampi di natura culturale e morale».
A cosa allude?
«Ai suoi studi, piuttosto sorprendenti in un giurista che all’inizio professava un rigoroso positivismo – il diritto è nella legge, e fuori della legge non c’è diritto – a prospettive di natura cultural-morale. Mi riferisco ai suoi lavori sulla persona umana, sulla dignità, sulla solidarietà, in cui va oltre la prospettiva legata al diritto positivo ».
L’impegno politico ha mai viziato la sua autonomia di giurista?
«Questa domanda evoca in me un’altra grande figura di giurista, che senza tradire mai la sua radice intellettuale, si è dedicato alla politica, Leopoldo Elia. Rodotà, laico rigoroso; Elia, cattolico rigoroso. Nessuno dei due disposto a compromettere la propria libertà intellettuale ed entrambi legati da un rapporto di stima e di collaborazione feconda».
Contro Berlusconi prima e contro Renzi poi, Rodotà ha difeso con la dottrina e in piazza la Costituzione. Battaglie forti le sue. Era in sintonia con lei, no?
«Sì, ma Rodotà ha attivamente partecipato a scritture e riscritture di testi costituzionali. Penso al suo impegno nell’elaborazione della Carta europea dei diritti e alla sua partecipazione ad alcune commissioni Bicamerali per l’ammodernamento della Costituzione».
Quindi non era un fanatico della Carta immutabile?
«No, non lo era. Infatti era favorevole al superamento del bicameralismo. Questa sua posizione è stata strumentalizzata nel dibattito recente. Quello che voleva Rodotà era il potenziamento della democrazia parlamentare. Si parlava, in quegli anni, di centralità del Parlamento. Ovvio che in una riforma che si potrebbe definire della centralità del capo del governo, Rodotà fosse contrario al depotenziamento del Parlamento che ne sarebbe derivato ».
D’ora in avanti ci sarà un vuoto. Pensando a un “compagno di strada” nelle sue battaglie cosa le mancherà di Rodotà?
«Mi mancherà un collega mite, un maestro di quelli d’altri tempi, il cui sguardo era proiettato nell’avvenire. Ce ne fossero di giovani anagraficamente, ma giovani intellettualmente come Stefano Rodotà».

il manifesto 24.6.17
Un uomo di sinistra, al futuro
Una grande civiltà. Stefano Rodotà fuori e dentro le istituzioni, per i diritti e i nuovi bisogni, la biopolitica e i beni comuni. Fino alla candidatura al Quirinale
di Andrea Fabozzi

«Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità».
Sono le ultime parole di un pezzo scritto da Stefano Rodotà, quando – era l’aprile di quattro anni fa – si trovò a dover rispondere a un attacco pubblicato sul giornale per il quale scriveva da quarant’anni e firmato dal fondatore del giornale. Eugenio Scalfari lo accusava di non essersi ritirato dalla corsa per il Quirinale nel momento in cui era tornato «disponibile» (e poi rapidamente eletto) Giorgio Napolitano.
LA STORIA È NOTA, è la più recente e anche la più clamorosa delle tantissime percorse dal giurista morto ieri all’età di 84 anni. Parlamentare in legislature lontane (dal 1979 al 1992), punto di riferimento per generazioni di giuristi, Rodotà tra il marzo e l’aprile del 2013 si trovò a essere acclamato nelle piazze dai militanti del Movimento 5 Stelle. E non solo da quelli, anche se fu dei grillini l’iniziativa di candidarlo a presidente della Repubblica. Iniziativa malissimo digerita dal Pd, allora a guida Bersani. E «ci si dovrebbe chiedere – scriveva ancora Rodotà rispondendo a Scalfari – come mai persone storicamente di sinistra siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5 Stelle».
Ma anche l’attenzione di Grillo finì nell’acido degli insulti, appena il signore del Movimento fu toccato dalle puntualizzazioni del professore sulla non autosufficienza della rete. Dopo averlo candidato al seggio più alto e aver fatto scandire il suo nome nelle piazze, Grillo rapidamente lo degradò «a ottuagenario miracolato dalla rete», così dimostrando che i king maker non sono necessariamente all’altezza dei loro candidati. E per la verità Rodotà non aveva neanche vinto le «quirinarie» inventate da Grillo sul suo blog che – con una partecipazione scarsina – avevano incoronato Milena Gabanelli e Gino Strada prima di lui, però si erano ritirati. Dopo quella polemica Rodotà continuò a scrivere per Repubblica, anche se con meno frequenza e non sempre in prima pagina. Anche perché l’ultima battaglia del professore è stata quella contro la riforma costituzionale e la legge elettorale di Renzi, due leggi che invece il quotidiano fondato da Scalfari ha sostenuto.
QUESTO SUO IMPEGNO per il no gli era costato l’accusa, per lui particolarmente insopportabile, di conservatorismo. Prima Renzi poi Boschi individuarono in Rodotà l’avversario perfetto durante tutto l’iter della riforma costituzionale e poi nel corso della campagna referendaria. Era lui il «professorone» per eccellenza, che insieme ad altri aveva firmato (sul manifesto) il primo l’appello contro i rischi di autoritarismo. E quanto fu felice il presidente del Consiglio quando gli fecero sapere che proprio Rodotà nel 1985 aveva avanzato con i deputati della Sinistra indipendente (con Gianni Ferrara, suo grande amico) una proposta di legge per il monocameralismo.
Fece presto Renzi a concludere che Rodotà aveva cambiato idea solo per antipatia verso di lui e la sua riforma costituzionale – e il professore dovette spiegargli che con la legge proporzionale (e i partiti) di trent’anni prima quella sua proposta di riforma aveva tutto un altro segno. «L’Italicum è una legge arretratissima», diceva Rodotà nelle assemblee di quei giorni, sempre attento a non perdere di vista la prospettiva del cambiamento. Qualche volta lo si vedeva intervenire con le stampelle: «Non sono un professore pigro».
Nella sua presenza politica quarantennale c’è sempre stata questa spinta all’innovazione. Civilista più e prima che costituzionalista, lo guidava l’assillo dei diritti e dei bisogni, specie quelli nuovi, da garantire e difendere.
Dalla rappresentanza sindacale – tenne un comizio a Pomigliano, davanti alla fabbrica Fiat che non voleva riconoscere la Fiom – all’acqua, decisivo il suo contributo al referendum del 2011, ai beni comuni: a Roma lo ricordano gli occupanti del teatro Valle e quelli del cinema America. La biopolitica, alla quale ha posto attenzione tra i primi, sempre con un atteggiamento profondamente laico anche rispetto all’invadenza del diritto: «La regola fissa è destinata a essere travolta», avvertiva tutte le volte in cui rispondeva sulle grandi questioni della vita e della morte.
GIURISTA DI GRANDE FAMA anche all’estero (ha insegnato in diverse università del mondo) Rodotà è stato tra gli estensori della carta di Nizza, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E poi è stato anche uno dei più attenti alle implicazioni della nuove tecnologie, sia come garante della Privacy (il primo quando fu istituita l’Authority nel 1997) sia più recentemente da presidente della commissione che, alla camera, ha scritto la carta dei diritti in internet.
«Alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me», commentò con un filo di ironia la scoperta di essere il prescelto del blog di Grillo. In quei giorni in parlamento, senza il sostegno ufficiale del Pd, arrivò a raccogliere 250 voti dei grandi elettori; molti di più di quelli dei soli grillini. Ma la diciassettesima legislatura che poteva cominciare eleggendo Rodotà al Quirinale, era destinata a partire invece con la storica conferma di Napolitano per un secondo mandato. È questa legislatura, ormai avviata alla fine.

il manifesto 24.6.17
La passione di un maestro di vita
Ciao Stefano. Con lucidità disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile»
di Gaetano Azzariti

Non è facile scrivere queste poche righe in un momento di profondo dolore per la scomparsa di un amico e di un maestro di vita. Stefano Rodotà non era solo il raffinato intellettuale e il protagonista di trent’anni di battaglie civili, era anche un uomo generoso e appassionato.
Il suo immenso carisma credo avesse molto a che fare con la passione che egli riusciva a trasmettere.
Affascinava e coinvolgeva Rodotà quando, con lucida razionalità, disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile».
Ha iniziato ben presto a rappresentare il cambiamento.
Lo ha fatto da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto civile. Erano gli anni ’60 del Novecento, quando uscirono le sue due prime monografie: una rivoluzione per gli studi del tempo.
Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico e faceva resistenza entro uno specialismo che relegava ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.
L’attenzione per i diritti ha segnato la vita di Rodotà. Non si è mai sottratto dinanzi alla difficoltà di affrontare certi temi. Dalla proprietà («il terribile diritto») ai beni comuni (una formulazione di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta e praticamente da solo a dare valore scientifico). Tutti temi trattati con realismo e mai dimenticando la materialità della dimensione dei diritti. In uno dei suoi libri più affascinanti «Il diritto di avere diritti» Rodotà indica la rotta agli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare ad un «costituzionalismo dei bisogni», scrive.
Dovremmo meditare a lungo la sua lezione, soprattutto in tempi come i nostri che appaiono dimenticare che è delle persone concrete che bisogna parlare.
Tra le ragioni che hanno portato Stefano Rodotà ad opporsi con grande coraggio e rigore all’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che il revisionismo dominante non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati. L’ultima «Carta» di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000.
È il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa: «dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti», come ebbe a scrivere. Dopo la sua approvazione l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta» (sono ancora sue parole). Ancora una volta la politica si è dimenticata dei diritti. Ma, se i diritti diventano deboli spetta a nessun altro se non a noi difenderli. «il codice di questa impresa – scrive – ha un nome, e si chiama politica.
I diritti diventano deboli quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti».
La lotta continua e Rodotà continuerà a farci vedere la rotta. Sit tibi terra levis, Stefano.

il manifesto 24.6.17
Un compagno, che fu subito parte di noi
Sinistra. Perché Stefano non risultò mai esterno e la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi»
di Luciana Castellina

Sapevo, sapevamo tutti, che Stefano era malato da tempo. Ma poiché, sebbene non con la frequenza di sempre, continuava a scrivere e a partecipare, alla fine abbiamo pensato – o ci siamo lasciati illudere dall’idea – che la cosa non fosse grave.
Qualche settimana fa era seduto nella fila davanti a me al teatro Argentina per vedere l’ultima opera di Mario Martone. Non posso credere, non ci riesco, che non sia più con noi.
Come parlare di Stefano Rodotà, come ricordarlo, spiegarlo ai giovanissimi che certo lo conoscevano di fama, ma che non possono capire il significato della sua presenza politica in questo ultimo mezzo secolo, nel quale ha giocato un ruolo qualitativamente diverso da ogni atro protagonista di questo tempo, assolvendo ad una funzione essenziale? Una funzione storica. Mi spiego: Stefano Rodotà non era comunista, aveva una formazione diversa da quella del Pci e dalla nostra de Il Manifesto; ma di sinistra. Qualcuno ha sempre detto di lui che era un liberal democratico, non lo so se era così, era certo un grande giurista ma io/noi l’abbiamo sempre sentito compagno, nel senso più pieno che occorre dare a questa parola. Era entrato nelle nostre vite attraverso quella speciale figura che il Pci nella sua epoca migliore aveva inventato: gli eletti nelle proprie liste non appartenenti all’organizzazione,i c.d. «indipendenti di sinistra». Fu una grande idea, perchè molti di loro ci portarono una folata di nuova e utile cultura. Ma con Stefano fu diverso: ci portò un contributo essenziale alla correzione del nostro modo di essere comunisti. Perché non risultò esterno, fu subito parte di noi, la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi».
Dovremo, vorrei io stessa, scrivere e spiegare molto di più su chi sia stato per noi tutti Stefano Rodotà. Non posso certo farlo ora perché si tratta di una riflessione storica che non può svilupparsi nei 30 minuti che dall’annuncio della sua scomparsa mi sono dati ora per scrivere. Non posso non aggiungere, tuttavia, il ricordo personale di un percorso che mi ha dato il privilegio di lavorare con Stefano gomito a gomito.
Nel 1980, nel tempo della crisi del compromesso storico e prima del pieno dispiegarsi del craxismo, come risultato di un appello firmato da Claudio Napoleoni e Lucio Magri, nasce Pace e guerra, prima mensile e poi settimanale, con l’intento di dar voce ad un’area di sinistra che tentò ancora un’incontro fra sinistra socialista, comunisti critici del Pci e area della cosidetta “nuova sinistra”,il Pdup innanzitutto. Direttori di Pace e Guerra furono Claudio Napoleoni, Stefano Rodotà e la sottoscritta ( più tardi anche Michelangelo Notarianni). Con Stefano in particolare abbiamo lavorato insieme quotidianamente per quasi cinque anni, con una redazione fantastica di cui voglio ricordare fra i tanti nomi solo qualcuno che oggi sembra più eterogeneo: Gianni Ferrara ma anche Paolo Gentiloni, Massimo Cacciari, Giuliana Sgrena e Aldo Garzia. ( Ma anche Carla Rodotà, contributo prezioso al nostro lavoro). E una inedita, larghissima partecipazione della socialdemocrazia europea che in quegli anni vide la prevalenza di una splendide leadership di sinistra. Il nostro tentativo fu sconfitto. Sappiamo tutti come e perché. Ma continuo a credere non inutile. Anche se il Pci, sciogliendosi in malo modo, e il Psi con l’avventura craxiana, seppellirono quel tentativo di alternativa.
Ho ricordato Pace e Guerra perché quella esperienza non è per me e per molti compagni solo un ricordo molto importante, ma perché a quel tentativo politico Stefano Rodotà ha coerentemente lavorato per tutta la vita, nelle sedi in cui si è via via trovato ad operare ( non ultima, per importanza, la «nostra» Fondazione Basso, di cui è stato Presidente). Non era utopia, illusione.
Era un obiettivo possibile.
Anche recentemente: non ci siamo mai arrabbiati abbastanza per il fatto che la sua candidatura a presidente della Repubblica sostenuta dai Cinque Stelle ( per una volta non ambigua) e da SeL sia stata fatta cadere dal Pd.
Ho la massima stima di Mattarella, ma Stefano Rodotà, proprio per la sua storia e la sua personalità, e nonostante i limitati poteri del Qurinale, avrebbe forse potuto contribuire ad evitare il disastro attuale della sinistra.
Ciao Stefano, siamo molto tristi. Un abraccio a Carla e a Maria Laura.

La Stampa 24.6.17
Morto Rodotà, una vita per libertà e diritti
Il giurista aveva 84 anni. Docente emerito, ha sempre legato l’impegno culturale alle battaglie civili Parlamentare della sinistra indipendente, entrò nel Pds. I grillini lo avevano candidato al Quirinale
di Riccardo Barenghi

Si può dire che Stefano Rodotà, scomparso ieri dopo una malattia a 84 anni, è sempre stato dalla parte di quelli che non avevano diritti, o ne avevano pochi, gli immigrati per esempio (lo ius soli è stata una delle sue ultime battaglie), ma non solo loro. Sia come giurista, costituzionalista era la sua «professione» principale, sia come politico, mestiere che cominciò nel 1979 ufficialmente quando fu eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Pci di Enrico Berlinguer. All’epoca faceva coppia con un altro giurista Franco Bassanini, spesso e volentieri le battaglie le facevano insieme. Sono passati quasi 40 anni da quando Rodotà è entrato in politica, senza tuttavia smettere mai di fare il suo mestiere fondamentale, quello appunto di costituzionalista. È stato capace durante tutto questo tempo, di amalgamare politica e diritto, anzi diritti, tenendoli insieme in una produzione enorme di libri, articoli di giornale (scriveva soprattutto su Repubblica e ogni tanto, sul Manifesto), interviste e interventi in convegni, congressi e ovviamente in Parlamento fino a quando c’è stato.
Naturalmente è stato professore universitario, ha insegnato in Italia e all’estero. Da giovane si era iscritto al Partito radicale («L’unica tessera che abbia mai avuto»), Marco Pannella gli aveva anche proposto di candidarlo alle elezioni. Ma lui rifiutò, preferendo entrare in parlamento attraverso il Partito comunista, seppur come indipendente. Non sono anni facili, in Italia le Brigate rosse avevano rapito e ucciso Moro, Rodotà si schierò contro le leggi di emergenza volute da Francesco Cossiga e votate anche dal Pci. Resterà deputato fino al 1993, anno in cui si dimette a sorpresa subito dopo essere stato eletto vicepresidente di Montecitorio. Lapidaria la sua motivazione: «Ingrata politica non avrai le mie ossa».
Ma certo non l’abbandona, la politica, tutt’altro. Aderisce al Pds di Achille Occhetto, ne diventa addirittura presidente senza però condividerne fino in fondo il progetto. La sua presenza si sente ovunque durante gli anni della Seconda Repubblica, di Berlusconi parla e scrive di tutto, naturalmente contro: «Siamo alla rottura dei fondamenti di un moderno Stato democratico», disse a Rina Gagliardi del Manifesto dopo che Berlusconi aveva incassato la sua prima fiducia nell’aprile del 1994. Col primo governo Prodi diventa Garante della Privacy, ruolo in cui resterà fino al 2005. Sono gli anni in cui è nata la rete e con essa tutti i problemi che riguardavano e riguardano la diffusione dei dati personali. Non serve dire che è sempre stato un garantista, di quelli più puri: nel senso che non ha mai avuto secondi fini.
Col partito principale della sinistra (Pds-Ds-Pd), il suo rapporto non è mai stato facile, anzi via via che quel partito si trasformava Rodotà se ne allontanava avvicinandosi leggermente alla sinistra più sinistra, senza tuttavia mai entrarci a pieno titolo malgrado corteggiamenti e offerte. Né nella Rifondazione di Fausto Bertinotti né nella Sel di Nichi Vendola.
Nel 2013, Rodotà è candidato dalla consultazione on line del Movimento Cinquestelle alla Presidenza della Repubblica. Ma non viene eletto, il Partito democratico non gli dà i suoi voti perché non poteva accettare un personaggio troppo autonomo intellettualmente e per di più «grillino» (anche se lui non lo è mai stato). Al suo posto viene rieletto Giorgio Napolitano.
Poco tempo dopo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani si dimette e al suo posto si insedia il «traghettatore» Guglielmo Epifani, in attesa dell’arrivo di Matteo Renzi. In un’intervista al nostro giornale, del 13 maggio di quell’anno, Rodotà non è tenero verso il Partito democratico: «Le due culture politiche che dovevano amalgamarsi non sono neanche riuscite a dialogare tra loro». E di Renzi, cosa pensava? «Non mi piace l’ideologia del nuovismo nel metodo e molti contenuti nel merito, a cominciare da quelli sul lavoro». Una profezia che si è poi avverata, non a caso al referendum sulla Costituzione Rodotà ha votato no.
Il professore lascia la moglie Carla e due figli, fra cui Maria Laura, giornalista che in passato ha lavorato anche per la «Stampa».

Repubblica 24.6.17
È morto a 84 anni il grande giurista e politico Diceva: “L’Italia ha bisogno di democratici adulti” e “non è vero che destra e sinistra sono superate”
L’uomo dei diritti
Addio Stefano Rodotà combattente galantuomo
di Massimo Giannini

«Ti ricordi cosa rispose Prodi al cardinal Ruini, ai tempi della polemica sulla procreazione assistita, no? “Sono un cattolico adulto”… Ecco, sai oggi di cosa avremmo bisogno? Di tanti “democratici adulti”’, di cittadini che hanno sete e fame di partecipazione, e che hanno voglia di rivitalizzare la democrazia. E guarda, io che giro l’Italia ti dico che ce ne sono tante, di persone così. Persone che si mobilitano, e che non hanno bisogno del leaderino di turno che le comandi, o le strumentalizzi». Passeggiavamo intorno a Via Teulada, quella sera di marzo di un anno fa. Stefano Rodotà era appena stato ospite in studio, a “Ballarò”, a parlare dei suoi cavalli di battaglia: i referendum, i
beni comuni, i rapporti tra le élite e il popolo, i migranti. E nonostante stesse già toccando con mano il fallimento imminente di un’altra stagione politica, a ogni passo rinnovava il suo atto di fede illuminista: «Sono vecchio, ma non ho ancora smesso di credere nella ragione umana». Ora che quel magnifico vecchio di 84 anni se n’è andato, di lui ci resta soprattutto questo. La testimonianza preziosa di un “democratico adulto” che non ha mai rinunciato un solo giorno a battersi per i diritti e per le regole, per l’uguaglianza e per la solidarietà. E di questa missione Rodotà ha riempito tutte le esperienze pubbliche che ha vissuto. Il professore universitario a Roma e il garante di Biennale Democrazia a Torino. Il simpatizzante radicale con Pannella e il parlamentare prima da indipendente del Pci poi del Pds di Occhetto. Il presidente dell’Autorità per la privacy e il direttore del Festival del diritto di Piacenza.
Stefano è stato un “combattente galantuomo”. Uno dei “vecchi più giovani” che io abbia mai conosciuto. Per la modernità con la quale ha affrontato tutte le sue sfide intellettuali. La curiosità che lo ha portato a occuparsi di mille cose. L’umiltà che lo ha spinto a studiare fino all’ultimo. Ne ha passate tante da quel 1933 a Cosenza. Le sfilate del sabato dei balilla e il Partito d’Azione scelto da suo padre. L’amore per Balzac e «le domeniche mattina al cinema con Moravia e Pasolini ». Gli insegnamenti di Arturo Carlo Jemolo e di Max Weber. Il rifiuto dell’offerta di lavoro con Adriano Olivetti («mi chiedo come un uomo così abbia potuto vivere e operare in un Paese come il nostro...») e quel po’ di soldi piovuti «dalla collaborazione con il Mondo di Pannunzio». Rodotà era un concentrato di tensioni civiche e di passioni giuridiche. Ma non era un giurista di quelli che si limitano a spaccare in quattro la norma: la calava e la faceva agire nella vita quotidiana. Da studenti di legge, alla Sapienza, ci bevevamo i suoi libri. In pochi hanno avuto la sua profondità di pensiero e la sua fluidità di penna. Quando uscì in prima edizione Il terribile diritto, nell’81, per noi fu un’illuminazione. Lì dentro c’era già tutto. La “macchina della proprietà” che comincia a correre «a tutta velocità in un mondo costruito a una sola dimensione, quella del mercato come legge naturale, della riduzione all’economia di tutte le relazioni sociali». La sproporzione proprietaria come motore delle disuguaglianze, che schiaccia qualunque “idea morale di solidarietà”. E poi il successivo fallimento del mercato, l’urgenza di forme di controllo, «il legame sempre più stretto tra i diritti fondamentali e i beni necessari alla loro attuazione», la riscoperta della teoria dei “beni comuni” (dall’acqua alla conoscenza), il loro “uso sociale”, la “costituzionalizzazione della persona”.
I diritti e i deboli: Rodotà sapeva sempre da che parte stare. L’aveva saputo “senza se e senza ma” nel tumultuoso Ventennio berlusconiano, urlando al mondo il conflitto di interessi, le norme ad personam e le leggi-bavaglio del Cavaliere. Continuava a saperlo in questo confuso decennio di vacuo “oltrismo” identitario. Si indignava: «Basta con questa storia che non c’è più distinzione tra destra e sinistra! La distinzione c’è eccome, per me al centro della politica ci sono la dignità, l’uguaglianza, i diritti, la ridistribuzione delle risorse. Non è sinistra, questa?» Uno così non poteva non incontrare Repubblica lungo la sua strada. Collaboratore fisso dalla fondazione del giornale, nel 1976. E ogni volta che lo chiamavi per chiedergli un editoriale, sapevi che ti sarebbe toccato un quarto d’ora di ragionamento mai banale, sulle cose da dire, sulla posizione da prendere. Ma sapevi anche che dopo un paio d’ore ti sarebbe arrivato un pezzo perfetto, che metteva sempre il giornale al “posto” giusto. Parlavi di diritti negati nel lavoro? «Primo Levi scriveva: per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, può essere manipolata. Difendere la dignità delle persone è difendere la democrazia». Parlavi di biotestamento? «Abbiamo il diritto ad esercitare in piena autonomia il ‘governo’ del nostro corpo. Il legislatore italiano, purtroppo, per la convivenza».
Aveva sempre idee forti, da opporre ai “debolismi” e ai populismi. Aveva un stella polare, che era la Costituzione. E in nome di questa si era schierato contro la riforma e il referendum di Renzi. «La pochezza del contenuto di quel testo è imbarazzante… E poi un manifesto come quello che chiede ai cittadini “vuoi diminuire ha il vizio o la propensione ad impadronirsi della vita delle persone ». Parlavi di privacy al tempo di Internet? «Io non voglio sapere che a 40 anni mi verrà una terribile malattia. Ma ci sarà qualcuno molto interessato a carpire questa notizia: un assicuratore o un datore di lavoro. E io devo essere tutelato». Parlavi dell’ondata xenofoba? «La paura del cittadino è comprensibile, ma gli impresari della paura che la cavalcano per lucrare una manciata di voti sono un pericolo il numero dei politici? Basta un sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica». E se gli facevi notare «però Stefano, non sarete un po’ troppo conservatori, sul piano costituzionale?» lui quasi ti riaggrediva un’altra volta. «Questo lo pensa Renzi, che segue un percorso di riduzione della democrazia costituzionale. Io penso a un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione ». Solo una destra giornalistica cinica e votata al birignao poteva ironizzare sulla sua vana- gloria e sulla sua presunta “deriva grillina”. È vero che nel 2013 Grillò lo chiamò per candidarlo al Colle. Ed è vero che lui accettò. Ma non lo fece per infatuazione politica. «Solo un imbecille si sarebbe potuto illudere di vincere la corsa. Se ci ho messo la faccia lo stesso è perché uno con la mia storia aveva tutto il diritto di dimostrare che un’altra scena era possibile». Gli si poteva anche non credere. Ma per lui parlano le cose che disse dei Cinque Stelle. Nel 2008, quando già intuiva i pericoli del cyberpopulismo: «Approderemo a una nuova utopia tecnopolitica? Vedremo il presidente.com? Una lettura miracolistica dell’Internet 2.0 e delle sue reti sociali sottovaluta il riprodursi di modelli in qualche modo plebiscitari». Nel 2012, quando ammoniva «Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio dei politici, questi movimenti sono estremamente pericolosi».Ci sarà un motivo, se poco dopo il capocomico genovese dettò la scomunica sul Sacro Blog: «Rodotà è un ottuagenario miracolato dalla Rete». Lui neanche gli rispose. Continuavano a sfotterlo a colpi di “Rodotà- tà-tà”, per la sua contraerea sul tetto della “Costituzione più bella del mondo”. Sarcasmo mal riposto, pure quello. Stefano non aveva affatto il culto dell’intangibilità costituzionale, ma semmai della sacralità del costituzionalismo, che è bilanciamento dei poteri. Sapeva quello che tanti capataz contemporanei, a corto di visione e di legittimazione, hanno ormai dimenticato: la democrazia è limite. E la Costituzione non è un libro polveroso: è materia vivente.
Il “democratico adulto”, purtroppo, non vedrà l’esito delle sue e delle nostre battaglie. Non vedrà la fine dell’eterna transizione italiana. Negli ultimi mesi ripeteva spesso: «Chiudetemi in casa, quando comincerò a dare segni di squilibrio». Lui se ne va, senza aver mai cominciato. Gli altri restano, senza aver mai smesso.
L’ULTIMO SALUTO
La camera ardente di Stefano Rodotà sarà aperta oggi dalle 16 alle 20 nella sala Aldo Moro di Montecitorio e resterà aperta anche domani dalle 10 alle 19 I funerali laici si svolgeranno lunedì alle 11 alla Sapienza

Repubblica 24.6.17
Il gran lettore di Balzac che credeva nell’unione tra ragione e sentimento
di Antonio Gnoli

Tra le cose ultime che Stefano Rodotà ha scritto ricordo un libro sull’amore. Restai sorpreso. Non era l’amore un territorio che il mondo giuridico aveva tentato di assoggettare (sotto la forma del vincolo matrimoniale) o espungere come esperienza irrazionale? L’attenzione di Rodotà si posò sul fatto che l’esperienza dell’amore fosse dettata dall’incontro e dal conflitto tra la vita e le regole. Il diritto aveva vissuto vari secoli separato dalla vita civile. Rodotà provò a invertire quella rotta oppressiva, consapevole che ogni forma di ordine nasce dal disordine e dalle conseguenze che l’irruzione del nuovo può provocare.
Quando nel 2015, lo stesso anno del Diritto d’amore, uscì Il diritto di avere diritti, mi colpì l’esplicito richiamo a Hannah Arendt. Cosa significava quell’allusione diretta a un’autrice, ebrea tedesca, esule prima in Europa e poi in America? Da apolide, Arendt raccontò la propria ventennale condizione di profuga. Accanto ai panni della studiosa indossò quelli della vittima. Apparve evidente cosa volesse dire, nella sua drammatica semplicità, perdere il lavoro, la casa, la lingua, la famiglia, le radici. Cosa significava, insomma, per una persona essere privata di ogni diritto. Arendt comprese che non esiste diritto umano senza che l’umanità stessa si faccia garante della sua difesa e realizzazione. Di tutto questo Rodotà fu consapevole. Lo fu in quanto giurista e in quanto politico. Nonostante i dubbi, conservò sempre una forma di ottimismo che per lui fu come una seconda pelle. Fu un uomo duttile e colto. Curioso e libero di posarsi sui punti più critici della materia che aveva segnato la sua vita, cioè il diritto.
Credo che nell’educazione sentimentale giovanile gli avesse giovato la passione per la letteratura, esplorata in lungo e largo nella grande biblioteca del nonno. Fu anche grazie alla lettura di Balzac, alla sua Comédie humaine, che comprese la potente rifrazione del diritto sulla società. In un incontro che avemmo a casa sua si lasciò andare a qualche amarezza. Gli chiesi come avesse vissuto ed elaborato la vicenda della sua candidatura al Quirinale che lo vide bersaglio del fuoco mediatico. Rispose che non c’era molto da dire. In realtà, temo, che una qualche forma di delusione l’avesse provata. Aggiunse che in quella vicenda lui ci aveva messo il suo nome non perché pensasse davvero di farcela, ma perché uno con una storia come la sua aveva tutto il diritto di mostrare che un’altra scena era possibile: «Possibile, non probabile», precisò. Ho la netta impressione che nella differenza e nel confronto tra possibile e probabile si sia svolta l’esistenza di Stefano Rodotà. Il probabile come costruzione, calcolo, tecnica; il possibile come speranza, dignità, passione e, appunto, amore. Nell’allarmata visione degli ultimi tempi, si convinse che occorressero tanto la ragione quanto il cuore per combattere i vasti incendi di questo mondo.
Oltre il dubbio, l’ottimismo fu per lui una seconda pelle
Dei suoi anni giovanili gli restò la passione per la letteratura esplorata in lungo e largo nella maxi biblioteca del nonno
L’umanità di uno studioso diviso tra l’analisi realistica su come riuscire a migliorare la vita di tutti i cittadini e l’idea che non c’è vera giustizia senza amore per la gente

Repubblica 24.6.17
Emma Bonino “Un laico coerente sapeva che la libertà è facile da perdere”
di Giovanna Casadio

«Era un laico coerente, non di quelli a giorni alterni. Mancherà per la sua laicità, per le sue battaglie ma soprattutto per la sua coerenza». Emma Bonino, leader radicale, ex ministro degli Esteri, ricorda Stefano Rodotà con il quale ha avuto un dialogo mai interrotto. Rodotà affidò a lei nel 2012 il compito di parlare delle battaglie civili che hanno reso più moderna l’Italia al Festival del diritto di Piacenza, che aveva ideato.
Bonino, cosa ricorda di più di Stefano Rodotà: la laicità, le comuni battaglie per i diritti?
«Con Rodotà la famiglia radicale ha avuto momenti di grandi sintonie e anche di grandi distanze. Però la questione della laicità e dei diritti ci hanno visto insieme in molte iniziative forse con una accentuazione maggiore, almeno da parte mia, del tema dei doveri che sono inestricabilmente legati alla questione dei diritti: ogni diritto di libertà e responsabilità presuppone il dovere di consentirlo agli altri, che la pensano diversamente. E di Stefano voglio sottolineare la coerenza. Perché è raro un punto di vista laico e coerente. A volte ci sono comportamenti- spot, laici qualche volta e meno laici altre. È difficile, appunto, una posizione laica coerente, costa fatica nella vita politica o personale che sia».
È prezioso in Italia un punto di vista laico?
«C’è sempre più bisogno di laicità. Anche la convivenza tra le varie religioni presuppone che ci siano istituzioni laiche che garantiscano diritti e doveri. Per tutti. La libertà di espressione religiosa, di praticare la propria fede religiosa per me, che sono agnostica, è comunque un diritto basilare. Noi tutti siamo tentati di difendere i diritti quando ci riguardano. Questa è una delle debolezze delle battaglie sui diritti civili: ciascuno si occupa del suo».
A cosa pensa in particolare?
«Alla giustizia. Rita Bernardini ne sa qualcosa. A parte gli operatori del settore, ovvero magistrati, avvocati e carcerati, la gente si interessa alla questione giustizia o alle carceri solo quando ci passa.
Questo lo ricordava sempre Enzo Tortora».
Nella mentalità e nella realtà italiana c’è ancora un vulnus in fatto di laicità?
«Dal testamento biologico al fine vita, alla ricerca scientifica, direi proprio di sì. E Stefano è sempre stato sul fronte di queste battaglie. Per non parlare del dramma vissuto in Italia sulla fecondazione assistita, regolata da una legge oscurantista che è stata abbattuta dai ricorsi di alcune coppie le quali non si sono rassegnate ad andare a Barcellona o in altri paesi europei per gli interventi, e grazie alla testardaggine dell’Associazione Luca Coscioni e di Filomena Gallo».
Diceva Rodotà che è dai diritti che si misura la qualità di una società, è così?
«È così. E, aggiungo io, dall’applicazione dello stato di diritto a partire dalle istituzioni coinvolte».
E che i diritti non si acquisiscono tuttavia una volta per tutte.
«Anche perché ci sono nuovi diritti che la scienza ha scoperto e propone. L’eutanasia, ad esempio. Per noi radicali è una battaglia antichissima. Mi ricordo per la prima volta ne parlarono Loris Fortuna e Marco Pannella, a inizio anni Settanta. Il diritto alla scienza e alla libertà di cure, segnalo, è catalogato dalle Nazioni Unite. Tuttavia si evolve il mondo e anche il modo di stare al mondo. Importante è non farsi guidare dallo schema “io non lo farei, quindi tu non lo devi fare”. Che è un atteggiamento di cui non riusciamo purtroppo a liberarci. Penso al dibattito sulle unioni civili. Si stava discutendo di queste e un gruppo di femministe apre il fronte della maternità surrogata, chiedendone la proibizione a livello mondiale invece di percorrere la strada della regolamentazione per evitare il più possibile lo sfruttamento delle donne».
Raccontava Rodotà di essere stato iscritto solo al Partito radicale. Però non accettò la vostra candidatura al Parlamento nel 1979 bensì quella da indipendente nelle liste del Pci. Pannella riuscì a convincere Sciascia a candidarsi con voi, ma non Rodotà?
«Seguivo in quel periodo la prima campagna per l’elezione del Parlamento europeo, quando Sciascia si candidò con noi. Tutto nasceva da una impostazione diversa: Marco riteneva fosse importante riunire forze nelle liste cosiddette autobus, così da scuotere dall’esterno il corpaccione del Pci. Voleva ci fosse anche Rodotà che esprimeva l’area di cultura giuridica di tipo liberal. Mentre Stefano quello scossone voleva darlo dall’interno e puntò sulle candidature indipendenti nelle liste del Pci. Marco al contrario li chiamava “i dipendenti”».
Non fu Rodotà una personalità accomodante. Quanto è difficile oggi non essere accomodanti o scomodi?
«Oggi io mi auguro che si crei una resistenza rispetto ad accomodarsi tutti nella caricatura anti europeista, nazionalista, sovranista, tanto per citare i cliché che vanno per la maggiore e che non danno risposte ai problemi. Una moda che va forte, anche se ha avuto uno stop in Francia con Macron, ma anche in Austria e in Bulgaria. Non essere accomodanti ma partendo dalla realtà, senza suggestioni pericolose e false come le cose che si sono sentite al Senato sullo ius soli. Le immagini vergognose di quella zuffa hanno fatto il giro del mondo».

Il Fatto 24.6.17
Fu quella strada che l’Italia non ha mai voluto prendere
di Silvia Truzzi

È morto ieri a Roma Stefano Rodotà. Aveva 84 anni: lascia la moglie Carla, i figli Maria Laura e Carlo e la nipote Zoe. La camera ardente sarà aperta oggi a Montecitorio, nella Sala Aldo Moro, dalle 16 alle 20, e domani dalle 10 alle 19.
Igrandi scrittori hanno una caratteristica. Vanno dritti al centro della questione e sanno raccontarla. Ai tempi di quel madornale errore che è stato la mancata elezione di Stefano Rodotà al Quirinale, avevamo chiesto ad Andrea Camilleri un commento: “Appena sentii che i 5Stelle proponevano Rodotà, feci un balzo di gioia. Dissi a mia moglie: ‘Che meraviglia, ora agguantano al volo questa liana sospesa, come Tarzan. E’ fatta’. L’alternativa c’era, era Rodotà. Cosa ostava a Rodotà?”. Siamo partiti da qui per provare a raccontare Stefano Rodotà perché, oltre a una figura di statura straordinaria, è stato, purtroppo per l’Italia, anche una strada non presa. E oggi un grande, incredulo, rimpianto.
Cosentino, aveva imparato l’amore per i libri da ragazzino nella casa dei nonni, invasa da volumi catalogati, stanza per stanza, in ordine cronologico. Li divorava con spensierata avidità: letteratura, storia, filosofia. Quelli di diritto invece no, li ignorava proprio. Dalla Calabria, matricola proprio di Giurisprudenza, era partito con premeditazione: non voleva tornare perché la città che aveva scelto, Roma, era eterna e piena di promesse. All’università incontra la politica, come usava una volta: l’Ugi, l’Unione goliardica italiana, dove tra gli altri incrocia Tullio de Mauro e Marco Pannella. Diventa vicepresidente del parlamentino Ugi nel momento in cui Togliatti decide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e farla confluire nella laica Ugi: i primi transfughi sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome, Asor Rosa e Siciliano.
A ventitré anni conosce Mario Pannunzio ed esce il primo articolo sul Mondo, titolo “L’ideale dei mediocri.” E qui è un destino che si scrive: Stefano Rodotà è stato tutto fuorché mediocre e loro, i mediocri, gliela hanno fatta pagare ogni volta che si è presentata un’occasione. Quando Il Mondo diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del Partito radicale, lui che non aveva mai bazzicato nei partiti, trova l’esperienza interessante. S’iscrive perfino al partito, scelta che non ripeterà mai più.
Bisogna sapere che la frase “Turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc” è di Gaetano Salvemini: l’aveva pronunciata ai tempi della Legge Truffa, cui il professore strenuamente si opponeva. Era una battaglia familiare: sua moglie Carla aveva scritto un libro sull’argomento. Ma – al peggio non c’è mai fine – si troverà a rimpiangere quella legge, ai tempi del Porcellum: “Quanto ci eravamo sbagliati! Paragonato alle attuali proposte era un modello di democrazia”.
Negli anni Sessanta il professore, in parallelo con una brillantissima carriera universitaria che lo porterà a girare il mondo, comincia a scrivere stabilmente sui giornali come commentatore: prima sul Globo, diretto da Antonio Ghirelli, e per Il Giorno di Gaetano Afeltra, poi su Panorama, dove ha tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Dopo, Repubblica, di cui è stato non solo una firma, ma un pezzo di anima fino alla fine. La politica però è sempre lì: alla fine degli anni 70 (anni bui, in cui lui ha il coraggio di opporsi alle tentazioni autoritarie, in nome dei diritti e delle garanzie) accetta la candidatura come indipendente nel Pci, dopo aver rifiutato le avances di Marco Pannella.
Un giurista in Parlamento ha carte da giocarsi, ma guardate l’umiltà con cui raccontava i primi tempi a Montecitorio: “Ci ho messo quasi un anno a capire dove stavo: c’era un’altissima professionalità, non si improvvisava. Si studiava, non si andava a orecchio: bisognava stare al passo”. Dopo la Bolognina, diventa il primo presidente del Pds e la strada non è in discesa, gli fanno ogni tipo di sgambetto: “Chi aveva in mano il partito, voleva gestirlo esattamente come prima. La verità è che mi hanno sempre considerato un corpo estraneo”. Così estraneo che nel giugno del ’92 bisogna eleggere il presidente della Camera e il candidato è proprio il professore, che è già vicepresidente a Montecitorio, e però non ottiene i voti sufficienti. Al quarto scrutinio il partito cambia cavallo: il nuovo nome è Giorgio Napolitano.
Il giorno dopo La Stampa titola: “Sì a Napolitano, sgambetto a Rodotà. Il presidente del Pds, furibondo: lascio tutte le cariche”. In un sommario il giornale sottolinea: “L’anziano leader dei miglioristi si è commosso”. Secondo i retroscena dell’epoca il Pds ha fatto un patto con la Dc per far fuori Rodotà (Occhetto, invece, sostiene sia stato Bettino Craxi a impallinarlo). Comunque, alle elezioni del ’94 non si ricandida. Ma c’è molto altro da fare: dal 1997 al 2005 è il primo presidente del Garante per la protezione dei dati personali, fino al 2002 presiede il gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Ue. Il professore – che insegna diritto civile alla Sapienza – è un pioniere degli studi legati alla privacy e alle tecnologie. Il primo libro sul tema risale a un tempo in cui i computer nemmeno si chiamavano così: Elaboratori elettronici e controllo sociale (Il Mulino, 1973). Molti altri ne seguiranno, la Costituzione sempre a far da bussola.
Gli anni passano, il professore scrive altri libri, interviene nel dibattito pubblico, continua a insegnare, nelle battaglie importanti non si tira mai indietro. Nel 2012, un anno prima delle elezioni per il Colle, per la prima volta al nostro giornale risponde, sorridendo, a una domanda su una sua ipotetica candidatura: “Cosa vuole, se ne dicono tante”. Quell’ipotesi diventa realtà, ma all’ultimo – sempre gli stessi, sempre i cosiddetti “compagni” – gli voltano le spalle. Piuttosto che un signore innamorato della Costituzione e dei suoi valori s’inventano un Napolitano bis. Il mondo è dei miglioristi, raramente dei migliori.

Il Fatto 24.6.17
“Hanno tentato di dividerci. La nostra Carta ci ha uniti”
di Stefano Rodotà

Pubblichiamo l’intervento che Stefano Rodotà ha fatto lo scorso 2 dicembre in occasione della serata “La Costituzione è NOstra” organizzata dal Fatto Quotidiano contro il referendum costituzionale.
Credo che la riunione di stasera sancisca pubblicamente e in modo chiaro che il tentativo di impadronirsi della Costituzione che è in atto da un po’ di tempo è fallito. Questo dobbiamo dirlo, senza voler essere ottimisti, senza voler essere trionfalisti: è fallito. Se guardiamo agli atteggiamenti che vengono tenuti da parte di coloro i quali hanno fatto questo tentativo, c’è una conferma molto evidente. Dobbiamo non essere necessariamente ottimisti o voler dare un senso alle cose che facciamo: questo mi pare un dato di realtà. Il che vuol dire che vale la pena di fare queste cose.
C’è una domanda che viene fatta da tanti. L’altra sera mi trovavo alla facoltà di Economia e commercio e alcuni ragazzi mi hanno chiesto: “Vale la pena di fare queste cose?”. La risposta è sì. Credo che il tentativo di impadronirsi della Costituzione, che è stato condotto con determinazione e aggressività (non ho bisogno di fare riferimenti particolari a come si comporta e a quel che ha detto il presidente del Consiglio), questo tentativo non è arrivato al risultato che si prefiggeva. Questo è il primo elemento che dobbiamo prendere in considerazione.
C’è un dato importante e storicamente significativo: se noi guardiamo a ciò che è avvenuto dal momento in cui la costituzione è entrata in vigore a oggi, in questo momento, in quest’ultima fase – con particolare intensità ed evidenza – i cittadini si sono riconosciuti nella Costituzione. Questo è un dato di novità. Se vogliamo continuare a usare luoghi comuni, c’è stato un boomerang.
Si è cercato di impadronirsi della Costituzione e il risultato è stato quello di richiamare l’attenzione dei cittadini tutti sull’importanza della Costituzione stessa e sulla necessità che rimanga terreno comune, luogo di reciproco riconoscimento. L’ho detto altre volte, lo dico stasera: ritenere che sia un terreno comune non significa che la discussione sia preclusa.
Una seconda considerazione. Le ragioni politiche contingenti – che ci sono sempre – non possono mai essere adoperate come giustificazione del voto o dell’atteggiamento favorevole a una cattiva riforma costituzionale. Le ragioni politiche contingenti ci sono, vanno valutate per ciò che sono effettivamente, ma quando siamo di fronte al tema costituzionale il primo problema è quello di far sì che la Costituzione rimanga luogo di confronto continuo e comune.
In altri termini, il rischio è quello di introdurre elementi divisivi. Credo che uno sguardo alla storia sia sempre importante. L’assemblea costituente fu molto consapevole di tutto questo. Il lavoro di scrittura della Costituzione – qualcuno dice ‘è riuscito a sopravvivere’, ma è una parola non adeguata – è riuscito a continuare anche dopo l’estromissione del Partito comunista e del Partito socialista dal governo. C’era la consapevolezza che si trattava di qualcosa che andava oltre il contingente. Noi non possiamo fermarci alle ragioni politiche contingenti. Ce ne sono tante, alcune sono anche esposte in maniera abbastanza dignitosa. Ma tutto questo non consente di ritenere che queste ragioni possano spingere a dire un sì e a non opporsi in maniera determinata a una riforma cattiva. L’abbiamo detto in vario modo.
Alcuni hanno fatto in questo periodo delle dichiarazioni a mezza bocca, o con un tanto di strumentalità e di astuzia, dicendo “io dico sì, sapendo che”: non si dice “sì, sapendo che” quando è in ballo la Costituzione. Sono dati da una parte di onestà intellettuale, dall’altra di moralità pubblica. Ci sono elementi che non possono essere messi in discussione.
C’è un terreno comune, l’ho detto, c’è un riconoscimento reciproco del dovere di confrontarsi con maggiore intensità quando le questioni sono quelle di cui stiamo parlando.
Il problema ora è quello del non dividersi. All’assemblea costituente, fu possibile non dividersi sui temi fondamentali. Se andate a guardare quale fu il voto finale sulla Costituzione, vi renderete conto che le ragioni contingenti non impedirono questo grandissima confluenza proprio sul voto finale. In questo momento uno dei problemi maggiori è esattamente quello dell’introduzione di elementi di divisione in situazioni in cui la divisione non può essere il criterio al quale fare riferimento. Una cosa è il confronto, che è necessario e indispensabile, altra cosa è la divisione: da una parte ci sono quelli che sono riconoscibili come coloro i quali appartengono alla discussione pubblica comune, dall’altra ci sono quelli che vengono esclusi. L’aggressività che manifesta in tutte le occasioni – e credo che non gli stia giovando molto – il presidente del Consiglio non va nella direzione giusta, non va nella direzione di un presidente del Consiglio che ha ruoli istituzionali particolari. Sono più i tentativi di coprire attraverso l’aggressività le difficoltà interne al governo che non quelli di parlare ai cittadini.
Sono elementi che dobbiamo considerare. Abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare. Tutto quello che ho sentito stasera è ragionamento. Non tutti sono partiti dalle stesse premesse, non tutti arriveranno alle stesse conclusioni. Nel momento in cui la divisione, l’aggressività, il mancato riconoscimento dell’altro sembrano essere divenuti regole, ci sono coloro i quali ritengono e testimoniano con ciò che fanno ogni giorno la necessità del confronto continuo. Mi pare che sia l’unica importante considerazione da mettere al centro della nostra riflessione. Siamo qua stasera per fare questo: non ci sono aggressioni, che invece stanno diventando anche un po’ patetiche – chi ha poco da dire di solito urla. Abbiamo sentito molte urla e poche parole. Stasera siamo tornati al ragionamento.
di Stefano Rodotà

Il Fatto 24.6.17
La voce ironica che difendeva tutti
Riferimento - Per strada lo chiamavano “presidente”. Gli italiani lo avrebbero voluto al Colle
La voce ironica che difendeva tutti
di Tomaso Montanari

Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili. Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E a ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – “l’irriducibilità del mondo al mercato”. La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la Rete. “In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni”. Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, “una società diversa”.
Presidente Libertà e Giustizia

La Stampa 24.6.17
Fabio Fazio resta in Rai per 11,2 milioni in quattro anni
di Tiziana Leone

Un contratto di quattro anni con Rai 1. Undici milioni e 200 mila euro di stipendio. Per trentadue prime serate e altrettante seconde serate. Calcolatrice alla mano, due milioni e 800 mila euro l’anno. Un milione in più rispetto al contratto precedente.
Questa sarebbe la proposta che il direttore generale della Rai Mario Orfeo e il consiglio di amministrazione Rai avrebbero avanzato a Fabio Fazio per convincerlo a restare. E lui, ovviamente, è restato. Anche se da Viale Mazzini fanno notare che l’incremento allo stipendio sarebbe dovuto a un impegno maggiore del conduttore e sulla rete ammiraglia Rai. Come anticipato da La Stampa, Fazio traslocherà la prossima stagione su Rai 1 con il suo Che tempo che fa la domenica in prima serata e il lunedì in seconda, costringendo persino l’inamovibile Bruno Vespa a lasciare il suo appuntamento del lunedì che mai nessuno gli aveva toccato.
«Non mi sento valorizzato», lamentava il conduttore un mese fa, ora potrà dormire sonni tranquilli tra le braccia di Orfeo o di qualsiasi direttore generale arriverà dopo di lui. Per un Fazio che lascia Rai 3, c’è un Michele Santoro che è invece pronto a tornarci: per lui il direttore di rete Daria Bignardi ha già prenotato tre serate speciali in onda a dicembre in prima serata.
Così come Gad Lerner sarà nuovamente in seconda serata con un’altra serie di suoi reportage. Senza più l’intrattenimento cultural-chic di Fazio, Rai 3 avrà sempre più una vocazione informativa, garantita anche dall’arrivo della docu-fiction su mafia capitale e dal debutto di un format dal titolo abbastanza significativo Andiamo a governare.
Rai 2 resta invece la rete in cerca di pubblico giovane e l’arrivo di Luca e Paolo a Quelli che il calcio servirà proprio a garantire questa non facile missione: per il duo comico nel prossimo palinsesto c’è anche Camera Café. Ai due comici genovesi, strappati dalla copertina di diMartedì di Giovanni Floris, costretto ogni anno a ripartire dal via, il direttore di rete Ilaria Dallatana ha affidato le uniche vere novità della prossima stagione che saluterà il ritorno di Mika, ma anche quello dell’Ispettore Coliandro e di due puntate di Giovani e Ricchi, il format sui ragazzi esageratamente ricchi ed esageratamente sbruffoni che tanto aveva fatto gridare alla scandalo. Motivo per cui invece di una sola puntata, Rai 2 ne proporrà due. Si attendono interrogazioni parlamentari ed esposti del Codacons.
L’intrattenimento e la grande fiction sono invece il piatto principale del menù di Rai 1, che oltre allo speciale dal Colosseo con Andrea Bocelli e Elton John proporrà Un, due, tre Fiorella, tre prime serate con Fiorella Mannoia tra musica e ospiti. La musica tornerà protagonista anche nel day-time con Dimmi di te, programma a base di racconti musicali guidato da Niccolò Agliardi.
Ad aprire invece la stagione della fiction saranno Luca Argentero con la serie fantasy Sirene, Bianca Guaccero con la fiction su malavita e danza Sulle punte e Elio Germano con il film-tv su Nino Manfredi In arte Nino

Il Fatto 24.6.17
Altro che tetto, Fazio sfonda: contratto di 11 milioni di euro
di Silvia Truzzi

Tutta la nostra solidarietà – in incipit di questo articolo – va ai dipendenti Rai incaricati di preparare la presentazione dei palinsesti che si terrà a Milano mercoledì. La ragione è semplice: la programmazione, a quattro giorni dall’appuntamento, è largamente per aria. In tutti e tre i canali. Proviamo a mettere ordine nel caos (che non a caso in greco vuol dire vuoto) della tv di Stato, che all’appuntamento più importante si è presentata con il fiato cortissimo. Il primo capitolo è dedicato a Fabio Fazio. Ieri, in un turbolento consiglio di amministrazione, è stata approvata la proposta di contratto per il conduttore di Che tempo che fa: passerà da Rai3 a Rai1 per condurre 32 prime serate domenicali e 32 seconde serate l’anno. La proposta è di 11,2 milioni di euro per 4 anni, ovvero 2,8 milioni l’anno.
L’aumento del cachet (quello precedente era di 1,8 milioni) avviene, dicono fonti Rai, a fronte di un impegno maggiorato e sulla rete ammiraglia: quindi in proporzione ci sarebbe una flessione del compenso. Non la pensa così Michele Anzaldi (Pd), segretario della Commissione di Vigilanza Rai: “Il rinnovo del contratto a Fazio per ben 4 anni, più della durata di questo e del prossimo Cda Rai, con un aumento di ben il 50% sul compenso, fino ad arrivare a quasi 12 milioni di euro totali, è un vero schiaffo ai poveri e al Parlamento (per via della legge sul tetto agli stipendi, ndr). È opportuno e urgente che la Corte dei Conti si occupi in maniera decisa di questa vicenda”. La presidente Monica Maggioni, dopo un lungo silenzio, ha scoperto che Fazio è una risorsa per la Rai: “Lo sforzo fatto per non perdere il valore e la capacità di racconto di Fabio Fazio è direttamente connesso alla volontà di garantire un futuro all’azienda tenendola ancorata al mercato”. La strategia sarebbe risparmiare, per la serata di domenica, i costi (alti) della fiction serale con un prodotto che assicura share e pubblicità. Lo schema dei palinsesti è stato approvato a larga maggioranza, con il voto contrario del consigliere Arturo Diaconale e l’assenza dei consiglieri Giancarlo Mazzuca e Carlo Freccero (quest’ultimo uscito dal consiglio in polemica).
Vediamo il resto. Confermata – ma nessuno aveva dubbi, anche considerata la sintonia con Orfeo – la seconda serata dell’artista Bruno Vespa: per due anni Porta a Porta è garantito. Sempre su Rai1 la domenica sarà orfana dell’Arena di Massimo Giletti (dunque la politica sparisce dal pomeriggio festivo), che condurrà alcune serate speciali sempre sulla rete ammiraglia, il sabato. Marco Liorni e Francesca Fialdini presenteranno La vita in diretta, mentre Benedetta Rinaldi prenderà proprio il posto della Fialdini a Unomattina. La conduzione di Domenica in sarà affidata a Cristina Parodi per l’intero pomeriggio, ma all’interno potrebbe esserci una rubrica divulgativa di Alberto Angela.
Attenzione perché Alberto Angela è uno dei volti più noti di Rai3 e in quella collocazione il suo programma andrebbe in concorrenza con Kilimangiaro, in onda la domenica pomeriggio su Rai3. Che senso ha? A proposito della Rete diretta da Daria Bignardi bisogna dire che, con il trasloco di Fazio, resta un buco la domenica sera. Una proposta era stata fatta a Gad Lerner (a sua insaputa, pare), che però ha rifiutato durante una riunione in cui gli è stata chiesta una disponibilità in diretta, senza preventiva consultazione. Per qualche settimana, da settembre, dovrebbe andare in onda Domenico Iannacone con i suoi Dieci Comandamenti, anche se la soluzione più sensata sarebbe riportare sugli schermi alla domenica sera la squadra di Report capitanata da Sigfrido Ranucci: è una delle poche trasmissioni davvero di servizio pubblico e l’anno scorso è stata ingiustamente penalizzata dalla collocazione di lunedì, contro fiction fortissime come Montalbano. Massimo Gramellini con Le parole della settimana è stato confermato (e allungato, con un’anteprima) per il sabato: visti i buoni ascolti, gli era stata proposta una striscia quotidiana, tutti i giorni alle 20.20, sul modello del Fatto di Biagi, ma il giornalista, che ogni mattina firma il Caffè sul Corriere della Sera, ha declinato.
La striscia, nella fascia che era occupata da Gazebo, non è ancora stata assegnata. Confermata Lucia Annunziata, che anzi raddoppia la sua In mezzora, con una prima parte classica d’intervista e una seconda di talk.
Si continua a discutere della serata del martedì: Bianca Berlinguer sembra non sia molto amata dal direttore generale Mario Orfeo, ma potrebbe comunque restare. Mistero sulla sorte di Salvo Sottile: la seconda serata del martedì di Mi manda Raitre potrebbe saltare (nonostante gli ascolti buoni). Il giovedì sera invece toccherà – ed è un ritorno a casa dopo lunghi giri – a Michele Santoro. I buchi e le contraddizioni, come si evince dal sommario elenco, sono ancora molti. Il tempo invece, è poco.


La Stampa TuttoLibri 24.6.17
All’Est niente di nuovo tranne l’orrore senza fine
Il romanzo di un soldato tedesco che diserta per passare con i russi: uscito dopo 65 anni di (auto)censura diventa uno scandaloso bestseller Il romanzo di un soldato tedesco che diserta per passare con i russi: uscito dopo 65 anni di (auto)censura diventa uno scandaloso bestseller Il romanzo di un soldato tedesco che diserta per passare con i russi: uscito dopo 65 anni di (auto)censura diventa uno scandaloso bestseller Il romanzo di un soldato tedesco che diserta per passare con i russi: uscito dopo 65 anni di censura è diventato uno scandaloso bestseller
di Luigi Forte

Ci sono voluti ben sessantacinque anni perché Il disertore, secondo romanzo di Siegfried Lenz, fosse pubblicato diventando subito un bestseller. Non certo una novità per questo popolarissimo scrittore del dopoguerra che con Günter Grass appoggiò a fondo il partito socialista e la politica di Willy Brandt. Il suo capolavoro, Lezione di tedesco (1968), aveva già venduto a suo tempo oltre un milione di copie. In quel romanzo Lenz rifletteva sul tema dell’autorità e del dovere, su responsabilità e svendita della coscienza individuale alla dittatura nazista, sulle sbornie ideologiche. I tempi erano maturi per un profondo esame di coscienza collettivo. Ma all’epoca di Adenauer con il peggioramento dei rapporti fra potenze occidentali e blocco dell’Est, tirava un’altra aria. E una storia che aveva come protagonisti soldati tedeschi che nell’ultima estate di guerra passano all’Armata Rossa, era nel 1951 pressoché improponibile. Anche per la casa editrice Hoffmann und Campe, che consigliò invano allo scrittore venticinquenne sostanziali modifiche. Le proposte arrivavano però da un editor che era stato un fervente nazista, così Lenz preferì ritirare il romanzo considerandolo come un «indispensabile esercizio, come un allenamento dovuto».
A leggerlo ora nella bella versione di Riccardo Cravero edita da Neri Pozza, scopriamo un autore maturo e consapevole, con una scrittura plasmata sulla forma del racconto classico e oltre fino a Hemingway, per cui Lenz ebbe una vera infatuazione. Colpisce la forte tensione narrativa che afferra mente e cuore dei personaggi nel ritmo incalzante della lotta per la vita. La storia di Walter Proska, assistente militare finito, sul fronte orientale, in una piccola unità addetta alla sicurezza di una linea ferroviaria e rintanata in un fortino di legno, fra boschi e paludi, dove s’annidano decine di partigiani polacchi, è un lungo, disperato racconto sulla vita e sulla morte.
Un’avventura insensata dove ogni valore è capovolto e ogni speranza risucchiata da una sorta di malattia collettiva: l’anelito verso il nulla. Il caporale Willi, implacabile e cinico, non ha peli sulla lingua: questa terra - dice - ci perseguiterà ovunque. E anche Proska non scorge intorno a sé che un orizzonte d’acciaio e una natura selvaggia dove persino la morte fatica a insinuarsi. E’ il crepitio fulmineo di un mitragliatore che falcia Stanislaw e sconvolge l’amico Zwiczos che, a sua volta, con una raffica stende un partigiano nascosto tra il fogliame. E’ la morte del soldato Zacharias che non sa di essere diventato padre così come quella, sul versante opposto, di un parroco che il caporale colpisce alle spalle dopo averlo liberato.
«Guerra è loteria», dice il soldato Zwiczos di origine polacca nel suo stentato tedesco. Non ci sono più confini né limiti a quel disumano sconvolgimento. Ha ragione Proska a pensare che nulla sia più difficile da sopportare che la vita. Eppure Lenz la rievoca con delicatezza nell’incontro di Walter con la giovane partigiana Wanda. E’ l’illusione di un attimo di felicità, ma quel breve amore e lo stupore dei sensi sono troppo fragili nella follia della guerra che farà del soldato l’inconsapevole assassino del fratello di lei.
Destini assurdi di fronte a cui lo scrittore sembra volersi difendere con surreale ironia. Basti pensare alla figura del cuoco Ton infatuato della sua gallina Alma, o allo spilungone Zwiczos che darebbe la vita per poter pescare un vecchio luccio. Dopo aver fallito ancora una volta entra delirante nella chiesa della cittadina di Tamaschgrod per tenere, di fronte a un pubblico allibito, una solenne concione su Gesù «grande luccio», che ha denti e sa mordere.
Ma Lenz non parla solo di una generazione distrutta dalla guerra, priva di radici e di speranze come fece E. M. Remarque nel suo famoso romanzo All’ovest niente di nuovo del 1929. Dà anche voce a chi come il commilitone Wolfgang detto Pandilatte sogna una fratellanza a venire e un pacifismo attivo estraneo ai pifferai dell’orgoglio nazionale. Con lui anche Proska rifiuta la Germania che li ha cacciati in quell’incubo non senza chiedersi chi sia il vero nemico e che cosa conti di più, se il dovere o la coscienza. Un domanda che forse si pose lo stesso Lenz quando giovanissimo fuggì come disertore in Danimarca.
Anche così i conti non tornano, perché l’orrore è senza fine. Walter uccide per sbaglio il cognato e nel dopoguerra rifiuta l’occulta violenza del sistema sovietico fuggendo in Occidente. Non gli resta che la solitudine: la lettera alla sorella in cui confessava le proprie responsabilità resta senza risposta. Non c’è perdono né speranza per chi ha conosciuto l’inferno in terra.

La Stampa TuttoLibri 24.6.17
In nome del popolo italiano voglio una corte impassibile
Le neuroscienze dimostrano che le emozioni influenzano le decisioni: anche il giudice più esperto può cadere nella trappola del “cuore”
di Fulvio Gianaria Alberto Mittone

Da tempo la scienza è penetrata all’interno del processo penale fornendo aiuti rilevanti nell’accertare fatti ed eventi, grazie a nuove tecniche e specialismi vari, dalla medicina all’ingegneria alla chimica per citarne alcuni. Ci si è resi conto che la complessità moderna non ne può fare a meno, sia discutendo sulle conclusioni (basti pensare ai recenti effetti del cellulare sulla salute), sia sul ruolo che può avere il giudice di fronte a conoscenze non giuridiche e spesso estreme.
Non ci si è ancora però resi conto a sufficienza delle ripercussioni sul processo di una scienza settoriale, affascinante quanto perturbante, quale la neuroscienza, cioè lo studio del cervello. In un passato non lontano si riteneva che la coscienza fosse un’entità inafferrabile, invisibile, con echi percepibili solo attraverso canali indiretti, quali la parola e i sogni. Oggi non è più così: strumenti complicati colgono la «radiografia» del cervello, le sue variazioni di fronte ad agenti esterni e le conseguenze negative di eventuali sue imperfezioni.
Ecco così divampare la discussione sul «libero arbitrio», la sua esistenza, la sua limitazione o addirittura la forte compromissione secondo l’assetto neuronale presente nel cervello di ciascuno di noi. Le conseguenze sul processo sono evidenti, come hanno approfondito alcuni studiosi che si chiedono se e quanto siamo ancora liberi (questo il titolo del saggio di Decaro-Lavazza-Sartori, edito da Codice).
Di recente le neuroscienze hanno assestato un altro colpo ai cardini tradizionali del processo. Non si tratta soltanto di verificare se i colpevoli sono stati liberi di agire e quindi di meritare la pena, ma anche di sincerarsi sul come si forma la decisione giudiziaria.
E’ questo il compito che si è prefisso il saggio Il giudice emotivo di Antonio Forza, Giulia Menegon, Rino Rumiat, titolo che sembra sminuirne la portata reale.
Non si tratta infatti di approfondire quando il giudice, nell’emettere la decisione, si emoziona perché emotivo, ma affrontare un tema scomodo e urticante: quanto, e non quando, le emozioni intaccano la razionalità del giudicare processuale. Come osserva un neuroscienziato decisivo in questo settore, Antonio Damasio, «non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano».
Che le emozioni siano presenti nella vita collettiva è un dato tanto palese quanto scontato. Il linguaggio nella politica, nell’economia, nelle piazze mondiali ribollenti di passioni oscilla anche con l’oscillare delle ansie. La vita consociata è esposta a folate istintive che corrodono la metallica forza dei numeri o la persuasione della ragione. Sembrava che la modernità potesse esserne immunizzata, ma il flusso emotivo è stato pervasivo delineando i connotati di una «società eccitata», secondo la brillante definizione di Turke.
Sul piano individuale le neuroscienze e le scienze cognitive hanno sviluppato le indagini sulle emozioni, sul rapporto con le percezioni (quanto mi emoziona quello che percepisco?), incrinando la fiducia in una razionalità rigida e asettica. La conclusione, peraltro già nell’aria, è che esse sono presenti ovunque, hanno una sintassi comune e sono analizzabili nei meccanismi neuronali, come precisa il saggio in esame.
Il processo cerca di stare lontano da queste contaminazioni, ne prende atto talora, per esempio evitando di far testimoniare i parenti per il timore della loro scarsa obiettività, ma esclude che possano intaccare la liberta di agire e di volere. Vuole preservare la serenità-razionalità del giudizio perché quello è il momento cruciale in cui lo stato si afferma, assolvendo o condannando, e i cittadini devono coglierlo affidandosi ad un magistrato equilibrato, vicino alla bilancia non per nulla segno di riflessione ed equità.
Ma non è così per questioni strutturali e non per cattiva volontà, per il complesso di elementi che il libro descrive, perché il nostro cervello è sensibile ad interferenze, perché i paradigmi per valutare sono incrinati dai progressi neuroscientifici, perché il cervello «è emotivo». Con irruenza istintiva il cinema lo aveva già lasciato intravedere in una pellicola esaltata ma non sotto questo versante, La parola ai giurati di Lumet. Lì, in America, la giuria è composta solo da uomini comuni, senza giudici, e le emozioni sono decisive, demoliscono e costruiscono rimanendo da sottofondo alla decisione finale priva di motivazione. Qui, da noi, i cittadini giurati hanno a fianco i magistrati, e sempre esiste l’obbligo di dare ragione di quanto deciso, con l’impegno e i limiti di un intervento postumo, almeno a livello intellettuale. Il problema poi si enfatizza quando le emozioni spingono dall’esterno, provengono da un’opinione pubblica, nella sua più vasta accezione, che chiede la «sua» giustizia, caratterizzata però da tempi e modi dissonanti rispetto a quelli del codice e del processo.
Il saggio espone il tema, con attenzione ed approfondimento, senza fornire soluzioni, peraltro difficili da ipotizzare. Se così è, come pare fondatamente essere, occorre prenderne atto e convivere con questa realtà. Si tratta di ricercare un punto di equilibrio senza dimenticare che la giustizia-equità è un valore irrinunciabile, accettare la crisi della razionalità ma evitare che faccia sprofondare nella perdita dei nostri valori. Occorre ricercare gli antidoti prendendo atto di realtà anche scomode, senza rifugiarsi nella stanca ripetizione di vecchi miti. Il disincanto oramai è un compagno di viaggio non disposto a fermarsi. In questo come in altre realtà. Nel processo penale come altrove.

La Stampa TuttoLibri 24.6.17
Ágnes Heller
“Anche la paura può essere sana se il populismo non se ne appropria”
Torna in libreria la (aggiornata) “Teoria dei sentimenti” che esplora aspettative, timori, sofferenze in chiave razionale
di Francesca Sforza

Scrive di filosofia ma non ama parlare come una filosofa: «Per quello ci sono i libri, io voglio essere capita da tutti». Ágnes Heller, 88 anni, filosofa ungherese, ha attraversato a passo fiero tutto il Novecento: prima sfuggendo ai nazisti, poi agli stalinisti, infine alle etichette. Oggi l’editore Castelvecchi ripubblica, con una nuova introduzione, la sua Teoria dei sentimenti, uscito per la prima volta nel 1978, quando Heller tentò di decostruire l’impostazione della metafisica tradizionale introducendo elementi nuovi: parole come emozione, espressione, relazione, sofferenza e responsabilità entravano a pieno titolo nel dibattito filosofico, non come termini minori, ma di confronto. Ancora oggi, a rileggere quelle pagine, si resta sorpresi dalla naturalezza e dalla modernità delle sue argomentazioni, che evitano le trappole aporetiche per dedicarsi piuttosto alla complessa alchimia umana: «Anche per noi è fondamentale l’analisi del rapporto tra sentimento e pensiero – scrive a un certo punto a siglare il suo grande debito con la filosofia classica –. La preferenza dell’ultima unità di sentimento, pensiero e morale è al contempo il nostro valore ordinatore e organizzatore».
Ágnes Heller, viviamo in un’epoca in cui il sentimento si mostra prevalente sulla ragione?
«Non condivido la tradizionale separazione tra ragione e sentimento. Con la sola eccezione dell’unità, la cognizione è integrata in qualsiasi sentimento. Non c’è la paura in quanto tale, il dolore in quanto tale, la felicità in quanto tale. Si è sempre tristi per qualcosa o qualcuno, felici per qualcosa o qualcuno. Si possono avere buone ragioni per essere disperati, ad esempio se si sta per essere uccisi durante una guerra, e anche buone ragioni per essere raggianti, ad esempio alla nascita di un figlio molto desiderato».
Non vede il pericolo di una caduta nell’irrazionalismo?
«Nessun sentimento in quanto tale è “irrazionale”, solo l’occasione che si innesca su di esso può renderlo tale. Ogni volta che facciamo esperienza di un sentimento, sia esso felicità o tristezza, e non riusciamo a comprenderlo interamente, cerchiamo di scoprire le ragioni per cui lo proviamo. La comparazione tra ragione (nel senso di occasione che si innesta su un sentire) e sentimento decide, di fatto, se il sentimento sia razionale o irrazionale. E la ragione è anche storica. Aver paura del demonio, oggigiorno, è un sentimento irrazionale, ma non era così due secoli fa».
Qual è il compito della filosofia in una fase storica in cui psicologia e antropologia filosofica sembrano offrire categorie più funzionali per l’interpretazione della realtà?
«La filosofia si interroga sin dall’inizio su questioni inerenti l’anima umana (psyché) e la natura umana. Solo le risposte sono state, nel tempo, differenti. La tendenza moderna a distinguere tra specializzazioni non ha modificato queste connessioni essenziali. La psicologia teorica, l’antropologia o la sociologia sono, di fatto, filosofia».
Lei separa gli affetti naturali dai sentimenti appresi nel tempo. Quale dei due è più importante nella strutturazione della personalità?
«La trasformazione di affetti innati in emozioni e disposizioni affettive è il tratto più essenziale nello sviluppo di una personalità».
Che ne è stato del suo progetto originario di fondare un’antropologia che includesse bisogni, sentimenti e Storia?
«Con la Teoria dei bisogni di Marx prima (1974,ndr) e la Teoria della Storia poi (1982), non ho sentito l’esigenza di ulteriori sistematizzazioni. Diciamo che col tempo ho deciso di non rispondere alla domanda “Che cos’è l’uomo?”. Forse perché una risposta non è possibile, o forse perché l’intera filosofia è già una risposta».
La paura è un sentimento diffuso. Abbiamo paura dell’Isis, dei musulmani, degli stranieri, dei migranti. Come si vince la paura?
«Di nuovo, il problema non è la paura, ma “di che cosa noi abbiamo paura”? E chi è questo “noi”? Lei intende probabilmente “noi europei”. E gli europei, oggi, hanno paura degli stranieri, del terrorismo, delle migrazioni, dell’islamismo, così come ieri avevano paura della Guerra nucleare, del comunismo, del contagio da Hiv. Alcune di queste paure erano e sono irrazionali, nella misura in cui non rispondono a un reale incastro con il fattore razionale e sono piuttosto uno strumento di ideologia politica».
Temere di rimanere uccisi in un attacco Isis non è del tutto irrazionale, non trova?
«È vero, non tutte queste paure sono irrazionali. La domanda è sempre se ci sono reali ragioni per questa o quella paura. In caso di ragioni reali, la causa della paura ha bisogno di essere rimossa o neutralizzata. Come oggi, nel caso del terrorismo, che va contrastato con i mezzi della politica e della difesa».
Il populismo ha una grossa presa sulle società di massa. Qual è l’antidoto a una narrazione politica troppo emotiva?
«Nella misura in cui i politici vogliono persuadere, la politica ha sempre fatto largo uso di retorica. La domanda è: quali sentimenti/emozioni vanno mobilitati, per quale fine e contro chi? Quei partiti e movimenti che oggi sono definiti populisti utilizzano, in Europa, soprattutto “identità politiche” come il nazionalismo, il razzismo, l’omogeneità etnica come ideologia, innescando non solo la paura, ma anche l’odio contro “gli altri”».
L’Unione Europea è un tipico caso di istituzione che non scatena grandi sentimenti nei confronti dei propri cittadini. È uno svantaggio?
«L’Unione Europea fino ad oggi ha fatto riferimento a un’identità razionale, l’interesse comune delle nazioni europee, provocando uno scarso entusiasmo. Certamente l’interesse è una sorta di sentimento, combinato però con emozioni come la fiducia, la confidenza, la certezza. Eppure anche l’interesse, in caso di conflitto con passioni che avessero un forte supporto ideologico, potrebbe essere sconfitto. Forse i rischi di una decomposizione dell’Ue, potrebbero innescare la paura tra i cittadini europei, quanto meno nella forma di un presentimento. Una paura del genere, ecco, sarebbe sana, e direi la benvenuta».
È un po’ anche colpa degli intellettuali se l’Europa piace così poco?
«I responsabili del futuro europeo sono i governi e i politici, non i filosofi. Oggi vedo solo due persone in grado di sostenere un compito del genere: Angela Merkel e Papa Francesco. Ma ne servirebbero molti di più. Anche i buoni burocrati possono cambiarsi in uomini di Stato».
Si parla tanto di preoccupazione, terrore, panico. Quanto è importante comunicarli?
«La comunicazione è sempre importante, il problema è che la nuova abitudine di usare un linguaggio da bar nello spazio pubblico finisce per allargare la partecipazione, non sempre la qualità del dibattito».
False notizie e discorsi di odio sono i tratti più problematici della comunicazione attraverso i social network. È un fenomeno nuovo secondo lei?
«È sempre la vecchia propaganda, usata dai cosiddetti populisti per allargare il consenso e incrementare il potere, proprio attraverso la creazione di un clima di odio e sospetto, avvelenando mente e anima dei loro elettori».

(Alamy) - Ágnes Heller, nata a Budapest nel 1929, è stata assistente di Lukács. Espulsa dall’Università nel 1959 fu riammessa nel 1963, e divenne il massimo esponente della «Scuola di Budapest». Licenziata dall’Accademia nel 1973, nel 1978 è espatriata per insegnare prima in Australia e poi a New York, nella cattedra di Hannah Arendt. Nota per la sua «teoria dei bisogni» ha pubblicato decine di saggi. Tra i suoi ultimi libri usciti in italiano,«Solo se sono libera», «La memoria autobiografica», «Breve storia della mia filosofia»

La Stampa TuttoLibri 24.6.17
Guidare il centrosinistra? Meglio leggere la Ferrante
Le nostre società hanno dimenticato l’uguaglianza ma senza pari opportunità la società si sgretola: la crescita rallenta e si apre la strada all’ira populista
di Bruno Ventavoli

Continuano a evocarlo per guidare coalizioni di sinistra, che non si sa più bene che cosa siano, se non che divorano i propri leader con una pervicacia da far invidia a Crono. Ma Romano Prodi preferisce scendere in campo con i libri, che peraltro in classifica vincono. Tra Camilleri, Rovelli, favole per bambine ribelli, il suo saggio contro la disuguaglianza,
Il piano inclinato
, è al vertice dei bestseller. Dice, dichiara, documenta che l’Occidente rivoluzionato da tecnologia e finanza, ha scordato l’uguaglianza, principio fondamentale nei sistemi politici dello scorso secolo. Non uguaglianza assoluta, beninteso - che sarebbe assurda e contronatura – bensì uguaglianza di opportunità per gareggiare nella corsa della vita. Questione di soddisfazione personale, ma anche collettiva, perché gli ascensori sociali che funzionano portano benessere e prosperità diffusa, come si capì in quella zolla di terra emiliana dove ogni operaio di genio potè diventare capitano d’impresa nell’era d’oro del boom. «Mio padre, un impiegato con nove figli, non avrebbe avuto la possibilità di farmi studiare all’estero - dice Prodi -. Io invece, grazie allo Stato, ho ricevuto borse di studio per recarmi a Londra. Erano una mezza miseria, dovevo arrabattarmi, ma mi hanno offerto la possibilità di giocarmi carte che molti giovani oggi non hanno più. Per questo ho a cuore il problema della disuguaglianza e delle pari opportunità per tutti».

Eppure questo sano principio socio-economico è stato accantonato. E nel mondo globalizzato è successo che i ricchi sono diventati più ricchi e che per i figli dei poveri la strada è in salita. Male «inclinata». Prodi invita a invertire la rotta per costruire una società più giusta, più solida, meno esposta alle ira populiste. Con ricette a trecentosessanta gradi dalle tasse, al lavoro, al welfare.
E anche, ovviamente, la cultura.
«La scuola è il primo problema. I grandi Paesi che hanno fatto balzi in avanti ci investono cifre enormi. Prendiamo un paese come la Corea del Sud. Cinquant’anni fa era miserabile, tristissimo. Ora è diventato quello che sappiamo grazie all’istruzione. Che non solo forma cittadini, lavoratori, manager, ma è sentita come qualcosa di essenziale nella vita collettiva. L’apertura dell’anno scolastico è avvertita come una festa nazionale, tutto si blocca, le mamme accompagnano i figlioletti fiere e compunte come se andassero a pregare. La scuola deve essere pensata come un mattone fondamentale del Paese. Sul quale investire risorse. Occorrono politiche di lungo respiro non dettate dall’interesse elettorale del mese dopo, o dal gradimento di un tweet».
Quali compiti ha la scuola?
«Innanzitutto forgiare i giovani per le sfide del lavoro. Non posso tollerare, per esempio, che nella mia città Bologna, ci sia bisogno di 1000 periti e non li si trovi. Ma la tecnocrazia non basta. Porta a una meravigliosa simil-dittatura. Abbiamo bisogno di una democrazia efficace che mantenga saldo il rapporto di fiducia tra popolo e governo, che tuteli diritti e doveri con “uguaglianza”. E qui entra in gioco la capacità di formare i cittadini, educarli alla tecnica ma anche alla cultura, alla lettura, alla libertà».
Quando ha cominciato ad amare i libri?
«I libri erano qualcosa di naturale nella casa della mia infanzia. Essendo l’ottavo di nove fratelli, tutti colti, frequentatori del classico, mi arrivavano infiniti consigli. Si studiava insieme intorno a un grande tavolo tondo. Circolavano idee, letture, consigli. C’era una confusione pazzesca. Ancora oggi, se c’è silenzio, non riesco a concentrarmi. Per lavorare ho bisogno del rumore di fondo».
Quali sono state le prime letture?
«I grandi classici dell’avventura per ragazzi, Verne, Salgari, London, Stevenson. E i fumetti, il Vittorioso, bestseller di oratori e parrocchie, e Topolino».
Che cosa significava la lettura per un bambino di quegli anni?
«Era il sapore dell’estate. Che erano lunghe, felici. Non si andava in ferie. Ci si godeva il tempo giocando a pallone e leggendo. Ogni libro era la scoperta di un mondo. Uno stimolo. Il suggerimento di un fratello da seguire».
C’è un libro che le ha cambiato la vita?
«Direi di no, sono di carattere un po’ contadino. E per cambiare la vita ce ne vuole… diciamo che i libri mi hanno spinto in una direzione e quella l’ho mantenuta».
Quali l’hanno formata?
«Sono sempre stato onnivoro nelle letture. Ma prediligo la Storia. Magistra Vitae. Abitua alla complessità e alla varietà. Obbliga a considerare un fatto sotto diecimila angolature».
Quali i “maestri” di Storia?
«Jemolo, Salvatorelli, i classici dell’analisi storico-politica da Tocqueville in poi. Ma anche la storia della mia città. Sono un cultore di storia reggiana e bolognese. Perché è più facile trarre lezione da quel che è successo accanto e hai visto evolversi piuttosto che dai mille giorni di Kennedy. Prendiamo per esempio l’università di Bologna, mille anni di gloria: la decadenza è iniziata quando la mafia dei professori, cui appartengo, ha deciso che potevano insegnare solo italiani. O il sindacato che nel ‘600 impedisce agli operai fuori dalle mura di lavorare nei setifici bolognesi che erano l’eccellenza mondiale. Per un po’ sono stati bene. Poi la tecnologia è scappata e l’industria è crollata».
Il grande libro che non ha mai letto e si ripropone di leggere?
«Il Corano. Lo conosco solo a pezzetti, in riferimento a saggi che ho letto sull’economia islamica e su come viene aggirato».
Un libro che ha usato per sedurre?
«Il Piccolo Principe. Lo regalai alla mia futura moglie».
Che libro tiene sul comodino?
«Passano e vanno di continuo. E’ una contraddizione tenere lo stesso libro sul comodino. Al massimo, un libro di preghiere».
Lei ce l’ha?
«Questa è privacy».
E dopo il comodino dove finiscono?
«Lì comincia l’incubo. Perché i libri si sparpagliano, occupano ogni angolo, si ammucchiano in terra, si accalcano sugli scaffali. Quando arrivano doppia e tripla fila è la fine. In casa mia c’è un caos di libri vergognoso».
Riesce a orientarsi nel disordine?
«Per istinto (per non usare un termine più volgare ma forse più appropriato) riesco quasi sempre a ripescare il libro che voglio. Due o tre volte all’anno, faccio una revisione e mi libero di molti volumi. Sono obbligato, per le leggi della fisica degli spazi, ma è un dolore. Perché in ognuno c’è un ricordo, una frase, un pezzettino che ti trattiene dal privartene».
Quali sono i libri della coscienza europea.
«Quelli del rinascimento e dell’illuminismo. I primi parlano italiano, i secondi francese».
Forse c’è anche un po’ di tedesco, per la filosofia
«Se con questo vuole chiedermi se leggo libri di filosofia, rispondo di no. Sono di un’ignoranza enciclopedica in materia. Certamente li ho letti a scuola. Ho preso anche otto alla maturità. Ma solo per brutale dovere. Non ho la testa per l’astrazione. Non riesco ad andare avanti con un pensiero che non abbia una storia, un’applicazione pratica»
Che genere legge di più?
«Mi oriento sulla saggistica. Ma la narrativa mi manca. Anche perché mi diverte di più. Recupero un po’ sul mio analfabetismo romanzesco durante i viaggi in treno o in aereo».
Un romanzo divertente?
«I gialli bolognesi. Loriano Macchiavelli e Lucarelli».
Come sceglie i libri?
«Sono loro che scelgono me. Per caso. O su suggerimento di mia moglie. Mi passa dei romanzi per poi discuterne e farmi capire certe cose».
Gli ultimi simposi domestici?
«Devo confessare?»
Sì.
«Sulla Ferrante (anche se non l’ho letta tutta) e la Gamberale».
Ricorda tutto quello che legge?
«Mi piace dimenticare. L’oblio è una bella forza. Anzi, se D’Alema sapesse dimenticare sarebbe un grande leader».

Corriere 24.6.17
«I veti personali stanno bloccando il centrosinistra»
di Massimo Franco

Sono i veti personali a bloccare tutto nel centrosinistra, non la politica». Così Romano Prodi commenta i suoi tentativi di incollare i cocci di quella che fu la maggioranza. Un ruolo da confessore tra incontri e consigli.
«A volte mi sembra di essere un confessore...». Romano Prodi lo ripete con un filo di autoironia. Ma ha la consapevolezza che i suoi tentativi di incollare i cocci del centrosinistra, finora, non hanno fatto passi avanti. Con pazienza cinese, ha incontrato i protagonisti di questo interminabile psicodramma. Ha ascoltato rimostranze, più che ammissioni di peccati. E non ha dato penitenze; al massimo misericordiosi consigli a ragionare, a capire le ragioni altrui. Matteo Renzi, Giuliano Pisapia, Enrico Letta, Carlo Calenda, Laura Boldrini, per nominarne solo alcuni: tutti beneficiari di confessioni a domicilio, per le quali a volte il Professore ha avuto come assistente l’amico di sempre, Arturo Parisi.
Se non apparisse un’attività rubata al Papa, si potrebbe dire che sta cercando di gettare ponti fra tribù di fratelli-coltelli. «Quello che mi ha sorpreso», spiega, «è che non esistono vere divergenze sulla strategia e sulle politiche. A bloccare tutto sono i veti personali: tantissimi contro Matteo Renzi. Ma anche quelli di Renzi contro altri». Muri costruiti sulle macerie dei rapporti umani. Muri di diffidenza, di sfiducia: così spessi da rappresentare il vero ostacolo alla ricomposizione del centrosinistra. Con Calenda infuriato perché il segretario dem avrebbe mandato Luca Lotti a mediare, per poi smentirlo.
Sono questi strappi nei quali si imbatte in continuazione l’ex presidente della Commissione europea e fondatore dell’Ulivo: i più difficili da ricucire. Prodi si rende conto di avere un ruolo paradossale. «Quando la gente mi incontra, le madri mi chiedono quale sarà il futuro dei loro figli e magari si fanno pure un selfie, non penso che in realtà vogliano il mio ritorno. Sono il primo a saperlo e a non volerlo. Piuttosto, ho l’impressione che riflettano la paura di una società senza più bussola, e la loro delusione per la politica di questi anni. È nostalgia per quello che ricordano come meno peggio».
Eppure, oggi risulta l’unico interlocutore accettato da tutti: il solo con il quale parlino e dal quale accettino critiche, o fingano di farlo. Forse perché premette di ritenersi fuori dai giochi, per questioni anagrafiche e non solo. Perché incarna un’epoca di vittorie della sinistra, seppure effimere. Soprattutto, perché riempie il vuoto lasciato da un Pd dove il dialogo sembra ostruito dalla fedeltà al segretario e dal timore di traumi interni. Ma anche perché tenta di ridurre le pulsioni del resto della sinistra, che reagisce a Renzi con le scissioni e con una tentazione pericolosa a rinchiudersi in un’identità passatista.
Prodi teme questa deriva. Stima l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Ha incoraggiato la sua strategia di riaggregazione della nebulosa al di fuori del Pd. Ma non si capisce ancora quale equilibrio Pisapia riuscirà a costruire: con chi, e con quali rapporti con il partito renziano. Il fondatore dell’Ulivo, e non solo lui, gli aveva consigliato di annullare la manifestazione di piazza Santi Apostoli, a Roma. Era stata programmata per il 1° luglio nei giorni in cui sembrava che si precipitasse verso elezioni anticipate in autunno. Ora che le urne scivolano verso il 2018, il rischio di dare un’immagine distorta dell’operazione si intuisce con chiarezza.
Il rinvio è impossibile. E allora Prodi, «confessando» Pisapia, gli ha suggerito di presentarsi sul palco da solo, «senza cognomi ingombranti intorno». Senza, insomma, dare l’impressione di essere usato o strattonato politicamente dagli scissionisti di Articolo 1-Mdp, o da altri, in chiave puramente antirenziana. Gli ha fatto notare che i suoi alleati hanno bisogno di lui più di quanto Pisapia abbia bisogno di loro. Ma è comunque difficile che la ricucitura riesca. Prodi teme che quando si tratterà di indicare il candidato premier, i veti riemergano in modo lacerante.
L’ipotesi del segretario-premier, a suo avviso, non funziona. Meglio sarebbe, per lo stesso Renzi, scindere le due cariche indicando un leader di partito tipo il ministro Graziano Delrio, meno divisivo. E questo nonostante, ripete Prodi, «molti dicano tuttora di Renzi, di fronte alle divisioni: “ma almeno c’è lui”, e lo sostengono». Ma quello di oggi è un Renzi rapito dall’idea di tornare a Palazzo Chigi; rilegittimato dalle primarie ma con un pezzo di Pd in fermento, e i ballottaggi di domani in agguato. Dopo le Politiche del 2018, Prodi non vede probabile una maggioranza Pd-FI, che costerebbe milioni di voti al partito renziano.
L’unica speranza è che il tempo incrini i muri a sinistra, e induca a capire che ognuno deve cedere qualcosa. Altrimenti, non solo si prepara un suicidio politico collettivo: l’instabilità saboterebbe l’accenno di ripresa dell’Italia. Prodi ricorda quando da premier andò a trovare l’allora cancelliere Helmut Kohl, nella vecchia capitale tedesca, Bonn. «Alla fine Kohl mi disse: “La prossima volta chi mi verrà a salutare”? Vedeva l’Italia sempre in bilico. Ecco, il fatto che non si sappia chi verrà dopo Paolo Gentiloni, che non si conoscano né il sistema elettorale né le alleanze, mi preoccupa molto...». Si parla di correzioni alle norme emerse dalle Consulta per Camera e Senato.
L’impressione, però, è che Prodi speri in qualcos’altro, di qui al 2018. La sera di giovedì 22 giugno, a Fano per presentare il suo saggio, Il piano inclinato , un sostenitore voleva chiedere alla moglie, Flavia, se avrebbe dato via libera a una ricandidatura del marito a Palazzo Chigi. Ma la signora Prodi non lo ha sentito: era appartata, a parlare con l’industriale Francesco Merloni, ex ministro e amico di una vita del Professore, e con don Luigi Ciotti, il sacerdote antimafia. Prodi era dieci metri più in là, sotto i portici della piazza gremita. Seduto davanti a un tavolino, firmava copie del suo libro. Le persone, in fila indiana, aspettavano il turno in religioso silenzio: come se andassero a confessarsi anche loro.


La Stampa 24.6.17
La rete di Pisapia trova nuove adesioni e tenta pezzi di Pd
Oggi appuntamento a Napoli con Bersani e due prodiani doc
di Fabio Martini

Il crescente affollamento attorno al «treno» di Giuliano Pisapia sta decisamente accelerando la partenza dell’operazione politica imbastita dall’ex sindaco di Milano. Questa mattina, alla Stazione Marittima di Napoli, Giuliano Pisapia, Pier Luigi Bersani e Bruno Tabacci in qualche modo anticiperanno l’evento-clou, fissato il primo luglio a piazza Santi Apostoli a Roma, quando verrà battezzato il nuovo soggetto politico, «Insieme», voluto dall’ex sindaco.
Da parte sua Pisapia, proprio per dare nuovo lievito all’operazione, sta definendo sempre più chiaramente l’indentità del nuovo soggetto, ora parla di «una sinistra che sappia assumersi la responsabilità di governare», avversaria della «demagogia e del populismo». Un profilo che esclude derive radicali, taglia i ponti con la Sinistra del No e traccia l’identità di un soggetto riformista, chiamato a diventare il principale concorrente del Pd di Renzi. Sul suo stesso terreno. Contendendosi gli stessi elettori.
Proprio per questo motivo dietro le quinte tanti personaggi del centrosinistra, per ora riservatamente, stanno prendendo contatti con Pisapia, ma anche con Romano Prodi, per capire la consistenza dell’operazione. Non è detto che alla fine siano della partita, ma nei giorni e nelle settimane scorsi interessamenti sono arrivati da personalità provenienti da mondi molti diversi: ex Ds come Antonio Bassolino, i governatori del Lazio Nicola Zingaretti e del Piemonte Sergio Chiamparino. Ma anche esponenti cattolico-democratici come Leoluca Orlando, il vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli, l’ex presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai. E tanti altri contatti, che per ora restano riservatissimi.
Ma il secondo effetto a breve determinato dall’operazione-Pisapia potrebbe determinarsi già a partire da domani. Nel Pd la fronda nei confronti di Matteo Renzi si sta ingrossando e, nel caso il risultato delle amministrative fosse sotto le aspettative, «nel partito si aprirà una discussione vera anche nel mondo degli ex popolari», confida uno dei personaggi più influenti di quella tradizione, che ha il proprio capofila in Dario Franceschini. Mentre fuori dal Pd, per tutto questo mondo, il «garante» è tornato ad essere Romano Prodi.
E un primo segnale verrà oggi da Napoli, con la convention di scioglimento del Centro democratico, guidato da Bruno Tabacci, già presidente (Dc) della Regione Lombardia, personaggio stimatissimo da Pisapia, che infatti lo volle al suo fianco come assessore al Bilancio. Oltre a Tabacci, che chiuderà, interverranno due prodiani doc come Sandra Zampa e Franco Monaco, mentre gli interventi clou saranno quelli di Pier Luigi Bersani e di Giuliano Pisapia, in questo sottolineando la doppia leadership del soggetto che sta per nascere.
Dunque, sta per partire l’operazione-erosione del Pd? Dice Tabacci: «Il nostro ruolo in questo fenomeno è indiretto. Dentro il Pd i personaggi di peso o se ne sono andati o sono critici. Dai contatti che abbiamo, posso immaginare che da noi presto arriveranno, non dico troppi, ma tanti…». Nello stop and go che segna tutti i movimenti allo stato nascente, molto dipende da eventi simbolici. Romano Prodi, come aveva spiegato riservatamente a Renzi, non sarà il primo luglio in piazza Santi Apostoli dove verrà battezzato il nuovo soggetto di Pisapia. Ma non è escluso che all’ultimo momento il Professore possa mandare un messaggio.

La Stampa 24.6.17
I veleni di Marra al telefono
“Virginia non ha le palle”
E sullo ius soli per la cittadinanza la frattura aperta da Fico si può allargare
Edoardo Izzo Ilario Lombardo

«Se non ha le palle, allora che c... lo fai a fa ’u sindaco, scusami?». Il 16 novembre scorso, questa domanda, riferita a Virginia Raggi, Raffaele Marra, all’epoca suo braccio destro in quanto vice capo di gabinetto e capo del personale, la pone ad alta voce conversando al telefono con una sua amica. «Sta facendo la principessa che... l’hanno fregata!».
Parole rivelatrici dei rapporti che in effetti intercorrevano tra la sindaca e il suo stretto collaboratore, che voleva imporgli (e poi c’è riuscito) la nomina del proprio fratello Renato a capo del dipartimento del Turismo. Ma anche una dichiarazione di Salvatore Romeo fatta l’8 febbraio scorso al procuratore aggiunto Paolo Ielo e al pm Francesco Dall’Olio, aggrava la posizione della Raggi nel procedimento per falso che la vede indagata dalla procura di Roma. L’allora capo della segreteria, ad un certo punto, per spiegare ai magistrati i rapporti tra Marra e la sindaca chiarisce: «A mero titolo di esempio posso indicare che fu lui a dare concreta attuazione a tutta la procedura di interpello voluta da Virginia Raggi e che poi ha portato alla contestata nomina di Renato Marra a direttore della Direzione Turismo sotto l’Assessore Meloni». La sindaca ha sempre sostenuto invece di aver preso le sue decisione in totale autonomia, aggiungendo anche che Raffaele Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune.
Ma lo spettro del processo alla Raggi non è l’unico ad agitare la vita del M5S. Domani il Movimento andrà al voto con l’incubo di non vincere nulla. O di vincere poco anche se poco è già quello che è rimasto. Tutto è relativo, perché fatti fuori dalle città che contano al primo turno, ora i grillini sperano in tre città: Carrara, Asti e Guidonia. Da lunedì mattina comincerà un’altra storia e la disciplina di partito richiesta per esigenze elettorali nelle due settimane in attesa del ballottaggio, mentre Beppe Grillo smontava le politiche di accoglienza sui migranti guardando al voto di destra, potrebbe saltare. Appena si riproporrà il dibattito sullo ius soli, in Senato, settimana prossima, alcuni parlamentari potrebbero decidere di chiedere un ripensamento al fondatore o addirittura minacciare di votare secondo coscienza, come avevano chiesto di fare in molti. I segnali di un possibile ammutinamento ci sono tutti e qualcosa di imprevedibile potrebbe accadere se un big come Roberto Fico si è espresso a favore della legge sulla cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia: «La voterei» ha detto venerdì, strappando un sorriso di soddisfazione ai molti grillini che sono rimasti al sogno di un Movimento aperto e includente non soggetto a calcoli elettorali. Fico ha taciuto per giorni finché ha indossato i panni del capogruppo alla Camera, perché aveva promesso di mantenersi super partes. Da tempo, i colleghi che in lui vedono un punto di riferimento aspettavano un segnale. Sui diritti si gioca la tenuta di un Movimento che si definisce post-ideologico. I diritti guastano il metodo con cui Gianroberto Casaleggio aveva plasmato il M5S. I diritti dividono e di diritti Grillo vuole che si parli il meno possibile. Ecco perché dal reato di clandestinità alla stepchild adoption allo ius soli, i fondatori hanno sempre avocato a sé l’ultima parola.
Dalla cittadinanza agli stranieri, che sullo sfondo fa intravedere la mai tramontata ipotesi di un’alleanza post-elettorale con la Lega Nord, potrebbe passare una nuova rivolta interna di chi vuole strappare a Luigi Di Maio la leadership costruita dalla Casaleggio Associati.


La Stampa 24.6.17
31 miliardi
È il costo del salvataggio delle banche italiane
Si parte da Montepaschio per passare a Etruria fino ad arrivare alle due banche venete
di Gianluca Paolucci

Non è la cifra in sé, dice Stefano Caselli, docente di economia degli intermediari finanziari all’Università Bocconi. Piuttosto, «sono le risorse sprecate con il temporeggiamento». Sono più di 31 miliardi i soldi spesi per evitare il collasso di sistema bancario definito per anni «solido» nelle dichiarazioni ufficiali. Soldi delle banche sane e dei loro correntisti, soldi dei contribuenti e soldi dello Stato. Poco meno di due punti di Pil. O, se si preferisce, abbastanza per tagliare di quasi un punto e mezzo il debito pubblico. Soo numeri ancora provvisori ma rendono bene l’idea. Più di un miliardo e mezzo di euro al mese, se si considera il primo intervento quello fatto su quattro piccole banche dell’Italia centrale nel novembre del 2015.
Epidemia bancaria
Il «paziente zero» dell’epidemia bancaria italiana si chiama però Mps. Viene scoperto nel gennaio del 2013. Scandali, inchieste e aumenti di capitale si trascinano per quattro anni. A giorni dovrebbe arrivare il via libera europeo per la sua nazionalizzazione. Da solo costa almeno 8,8 miliardi, in parte soldi dei contribuenti e in parte degli investitori che avevano comprato i suoi bond subordinati. Dal focolaio senese, la crisi bancaria italiana passa a colpire soggetti più fragili. In un fine settimana di novembre dello 2015 viene decisa la risoluzione di quattro piccole banche locali che valevano, tutte insieme, appena l’1% del mercato bancario italiano. L’obiettivo dichiarato era evitarne il fallimento e rivenderle in breve tempo, ripulite e di guadagnarci anche un po’. Banca Marche, Etruria, CariFerrara e CariChieti sono costate almeno 5,3 miliardi al sistema bancario, che ha finanziato il fondo di risoluzione. Poi sono state comprate da Ubi Banca e Bper per un euro nei mesi scorsi. Nella primavera dello scorso anno intanto scoppia il bubbone delle popolari venete. Il fondo Atlante, promosso dal governo ma finanziato dal sistema bancario e dalle fondazioni, ci mette dentro 3,5 miliardi di euro. Doveva essere la soluzione definitiva del problema. Passato dall’azzeramento di oltre 200 mila azionisti e da oltre 10 miliardi di ricchezza bruciata. Ma la fornace accesa in anni di gestione sconsiderata tra Vicenza e Montebelluna ha continuato a bruciare e ha cancellato anche i soldi di Atlante, fino all’inevitabile e tribolato intervento statale di oggi.
Contribuenti e correntisti
«Se la soluzione sono i soldi dei depositanti alla fine si tratta sempre dei soldi dei contribuenti», dice Caselli. Perché i soldi bruciati da Atlante erano soldi delle banche, come erano soldi del sistema bancario quelli spesi per le quattro banche e per tre piccole casse di risparmio in crisi (San Miniato, Rimini e Cesena). Il totale dei soldi spesi dal sistema bancario per evitare il collasso del sistema bancario sono stati pari a circa 12 miliardi di euro. Soldi almeno in parte recuperati grazie agli aumenti dei costi dei conti correnti.
Si arriva così ai soldi pubblici, cioè dei contribuenti, senza intermediazioni. Per Montepaschi serviranno almeno 6,6 miliardi, per le due banche venete addirittura di più: forse fino a nove miliardi. Non bastano: altri tre o quattro miliardi arriveranno dall’azzeramento del patrimonio e delle obbligazioni subordinate.
Temporeggiamento
Ci sarebbe da calcolare il costo delle crisi di fiducia, quello del finanziamento sui mercati delle banche italiani e quello per la raccolta per le banche in difficoltà. Intervenire prima, a Vicenza come a Siena o ad Arezzo, poteva servire per risparmiare dei soldi. «Adesso è facile da dire - dice Caselli -. Di certo il tema della vendita dei crediti non performanti è stato sottostimato. Forse la nostra presenza a Bruxelles non è stata così decisiva. Ma che si dovesse intervenire con soldi pubblici io come altri osservatori lo sosteniamo da anni». Alla fine ci siamo arrivati. Nel frattempo abbiamo già pagato tutti.

Il Fatto 24.7.16
Banche venete, lo Stato regala sette miliardi a Banca Intesa
di Carlo Di Foggia

È inutile girarci intorno. Quello di Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, più che un salvataggio è un gigantesco regalo pubblico a Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. Parliamo di una cifra che, stando a più fonti consultate, si aggira sui 7 miliardi di euro. Altri 5 miliardi circa serviranno invece a coprire il buco dei due istituti che saranno messi in liquidazione coatta amministrativa. Un conto da 12 miliardi: soldi dello Stato. Una cifra che il governo sta tentando di ridurre.
Da quando, mercoledì pomeriggio a mercati aperti, la banca guidata da Carlo Messina ha fatto sapere che era pronta a “salvare” i due istituti alla cifra simbolica di 1 euro, prendendosi solo gli asset migliori e lasciando allo Stato il conto da pagare – in concorso con azionisti e obbligazionisti subordinati – il meccanismo si è messo in moto. Ieri una riunione fiume al Tesoro ha provato, come si suol dire, a trovare la quadra. Ma i protagonisti navigano a vista. Si lavora su ipotesi.
Ieri sera è partito il conto alla rovescia. Dalla Vigilanza della Banca centrale europea, il Single supervisory mechanism guidato dalla francese Danièle Nouy è arrivato il verdetto che le due banche venete non sono più in grado di stare in piedi con le loro forze (“sono in dissesto, o prossime al dissesto” e “hanno presentato piani di business ritenuti non credibili”). L’Autorità di risoluzione europea (Single resolution board), che gestisce lo smantellamento degli istituti, guidata dalla tedesca Elke König ha deciso si passare la palla alle autorità italiane.
Da qui l’iter è più tortuoso e incerto. Il ministero dell’Economia predisporrà per decreto ministeriale, su richiesta della Banca d’Italia, la liquidazione coatta amministrativa degli istituti e nominerà i commissari: tre per ognuno, di cui uno in comune, quasi certamente l’attuale amministratore delegato di Popolare di Vicenza, Fabrizio Viola (e forse anche il dg di Veneto Banca Cristiano Carrus). Un decreto legge modificherà quello con cui il 23 dicembre scorso il governo ha stanziato 20 miliardi per salvare le banche, impostato solo sulle “ricapitalizzazioni precauzionali” a carico dello Stato. Che stavolta non entrerà nella banca, come avverrà a luglio con il Montepaschi (il conto è da 6 miliardi) ma aiuterà Intesa a prendersi la polpa delle due banche rimanendo con l’osso da smaltire. Messina non vuole impatti sul patrimonio di rischio: significa che per dargli circa 30 miliardi di impieghi in bonis e alcune partecipazioni, il governo gli garantirà una dote che, stando a quanto filtra, è al momento di circa 7 miliardi. Soldi necessari anche a gestire gli esuberi, attraverso il fondo di incentivo all’esodo. Su questo punto ieri si registrava uno stallo. La cifra di 4 mila esuberi circolata in questi giorni non sarebbe infatti riferita solo alle venete ma anche a una serie di uscite che Intesa vuole inserire nella partita approfittando della situazione (il conto è 1,2 miliardi). Bruxelles ha storto il naso.
L’orientamento delle autorità europee è la chiave della partita. La direzione concorrenza guidata da Margrethe Vestager dovrebbe infatti consentire, dietro il sacrificio di azionisti e obbligazionisti subordinati (5 miliardi di euro), due diversi aiuti di Stato: uno alle banche in liquidazione coatta amministrativa, che servirà a colmare la differenze tra gli attivi (20 miliardi di crediti deteriorati) e il passivo; l’altro direttamente a Intesa, stabilendo un nuovo precedente in Europa da quando, nel 2013, è stata avviata la stretta sugli aiuti pubblici al settore che è poi approdata nel 2016 al famigerato bail-in (salvataggio a spese di azionisti, obbligazionisti e perfino depositanti oltre i 100 mila euro). Lo schema imposto da Intesa permette di evitarlo lasciando al sicuro quasi 16 miliardi di obbligazioni “senior”, tra cui quelle garantite dallo Stato per assicurare la liquidità alle banche.
Dal ministero e da Bankitalia filtra ottimismo. Si parla di un via libera informale ottenuto col placet di alti vertici della Commissione, a partire dal presidente Jean-Claude Juncker. Ieri Bruxelles ha usato toni concilianti.
In una riunione fiume gli uomini del Tesoro hanno provato a ottenere concessioni da Intesa, nell’inedita veste del banco che dà le carte a governo e Bankitalia, pietendo uno sconto. Messina, però, come indicatogli dai grandi azionisti di Intesa, non ha intenzione di sostenere alcun costo, compresi gli indennizzi alle famiglie a cui le banche venete hanno venduto negli anni i bond subordinati violando il loro profilo di rischio: a oggi, dopo gli acquisti dei fondi speculativi, ammonterebbero a 100-200 milioni.
Il governo, che tenta alla disperata di sciogliere tutti i nodi, ha detto di voler convocare “nel weekend” (forse già oggi) un Consiglio dei ministri per l’ok al decreto.
di Carlo Di Foggia

Repubblica 24.6.17
L’intervista.
Carlo De Benedetti: “Repubblica mi è entrata nel sangue, un’esperienza straordinaria che ha contribuito a migliorare il Paese”
“La mia bella ossessione durata quasi quarant’anni ora tradizione e idee nuove”
Dario Cresto-Dina

ROMA. Nella sua casa di via Monserrato, davanti a un bicchiere di tè freddo Carlo De Benedetti ripercorre un film lungo quasi quarant’anni. Metà della sua vita. La famiglia, i figli; un’azienda editoriale e, soprattutto, un giornale, una passione. Confessa un tic della mente: «Quando devo riferirmi al Gruppo Espresso, mi viene sempre di dire invece Repubblica, perché questo è un giornale che riesce a trasmetterti il proprio carattere, mi è entrato nel sangue come una piacevole ossessione».
Non è un giorno come un altro per lui, ammette di essere emozionato ma leggero. Non vuole parlare del passato, meglio l’oggi e il futuro, non ha voglia di ripetere una storia già raccontata molte altre volte. «Non ho rimpianti né rimorsi. Abbiamo fatto un cammino straordinario, da un sottotetto di via Po con le focaccine al prosciutto di Caracciolo a una società quotata in Borsa: giornali nazionali e locali, radio, internet, un gruppo d’informazione integrato. Posso aver fatto qualche errore, ma nessuno che abbia messo a rischio l’azienda. Sono stati errori di coraggio compiuti nel tentativo di fare qualcosa in più che ci sono venuti utili in tempi successivi, errori che inserisco nella categoria di quelli che mi sono piaciuti».
Ingegnere, se la fine è importante in tutte le cose perché questa decisione adesso e in questo modo?
«Ho sempre pensato che bisogna organizzare la propria successione imprenditoriale e familiare finché si è in vita e si ragiona con lucidità. Ho visto troppe catastrofi accadere dopo la morte di fondatori che non hanno saputo o voluto preparare questo passaggio. Così ho cominciato a spogliarmi delle cariche che detenevo nelle società da me create a partire dal 2009 ad eccezione della presidenza del Gruppo Espresso. Colpa dell’amore che avevo e ho per questo mestiere. Inseguivo un sogno: l’accordo con la Stampa, una fusione industriale che creasse la principale azienda editoriale italiana. Ce l’abbiamo fatta, siamo primi, solidi e profittevoli, più forti di un anno fa e attrezzati ad affrontare i cambiamenti che ci attendono. Ho concluso il mio cammino imprenditoriale, ho preso una decisione e sono soddisfatto di averlo fatto».
Il futuro è terra incognita, i giornali perdono copie, stiamo attraversando un mare in tempesta e nessuno di noi sa che cosa troverà sull’altra sponda. Portare il fuoco sarà difficile, non crede?
«Non sono mai tranquillo, se un imprenditore lo fosse sarebbe un incosciente, ma sono fiducioso, questo sì. Assieme a John Elkann e Carlo Perrone abbiamo creato un gruppo la cui tradizione familiare, mi creda, ne rafforza la stabilità. E per quanto ci riguarda più da vicino la scelta di dare continuità all’impegno della mia famiglia è un motivo di grande orgoglio personale e un segnale importante per tutti coloro che lavorano nel gruppo. Oggi comincia un nuovo capitolo, più istituzionale e meno artigianale. La crisi non è di Repubblica né solo italiana, è una sofferenza che coinvolge l’intero sistema dell’editoria mondiale. Dovremo combatterla tutti assieme, è la ragione per cui ho proposto di convocare gli Stati generali dell’editoria d’informazione, iniziativa che mi piacerebbe diventasse europea».
Quali sono le prime raccomandazioni che ha trasmesso a suo figlio Marco nel passargli il testimone della presidenza?
«Gli ho detto semplicemente: credici. Gli ultimi anni non sono stati facili, siamo stati costretti a una ristrutturazione che ha ridotto di un terzo i dipendenti, ma siamo l’unica impresa editoriale italiana che non ha mai perso in un solo trimestre. Ho aggiunto: hai accanto tuo fratello Rodolfo, presidente della Cir, che ti appoggerà. Avrai al tuo fianco un’ad come Monica Mondardini che ha fatto un lavoro ammirevole. Mondardini è una delle colonne su cui si fonda la nostra eccellenza aziendale e ha avuto un ruolo fondamentale nell’operazione industriale con l’Itedi. Vede, in tutto questo mio lungo tempo mi sono sforzato, a volte riuscendoci altre volte forse no, di obbedire alla regola di un filtro magico tra due mestieri che può fare soltanto bene a un giornale: la fantasia e l’ispirazione dell’editore e il rigore nella gestione dell’amministratore delegato. Mi auguro che Marco sappia interpretare al meglio il suo ruolo».
L’impegno della famiglia De Benedetti è dunque garantito anche per il futuro del nuovo gruppo Gedi?
«Il futuro dipenderà dalla volontà dei miei figli, una volontà che proprio dalle decisioni di queste ore appare chiara. Non vedo come potrebbe essere diversamente. Il controllo azionario di Gedi è saldamente in mano alla Cir. La sua posizione finanziaria è liquidissima, più che di realizzare ha il problema d’investire».
Perché è toccato a Marco?
«Marco ha un carattere molto simile al mio. Voleva questo ruolo. Me lo ha detto dal primo momento in cui ho aperto il dialogo con i miei figli sulla successione. Rivelando una determinazione che mi ha sorpreso. Farà benissimo, ha già dimostrato di essere eccellente attraverso un percorso di lavoro indipendente, è un padre attento e un uomo che ama anche divertirsi ».
Entra in un mondo speciale, quello di Repubblica. Dovrà studiare?
«Gli ho mostrato i video e le fotografie delle folle che hanno partecipato alla festa del giornale a Bologna. Un affetto straordinario. Comprare Repubblica è una scelta quotidiana, non un’abitudine, il suo patrimonio non sono i clienti ma la gente che si riconosce nelle idee del giornale, nei suoi contenuti culturali e formativi. Marco è consapevole che la materia prima dell’industria di cui è diventato presidente non è il petrolio o l’acciaio, ma il pensiero. A questo dovrà guardare, a questo dovrà rispondere».
Quando morì, lei riconobbe soprattutto un merito a Caracciolo, quello di avere fondato un gruppo che ha contribuito alla maturazione del Paese, un esempio raro di libertà, un posto perbene che permette a chi ci lavora di dispiegare la propria intelligenza. E’ ancora così?
«Senza dubbio, Repubblica è un giornale che sa trasmettere il proprio Dna. Grazie a Scalfari, Caracciolo e Ezio Mauro l’Italia, per me, è diventata un Paese migliore. E non importa se qualcuno la pensa diversamente. Spero di aver dato pure io un modesto contributo, ho la coscienza di aver lavorato in quella direzione».
Parlando del futuro dei giornali, lei ha detto che non possiamo pensare di stare sul mercato producendo informazioni buone quanto basta. Dobbiamo concentrarci sull’informazione che fa la differenza. Pensa anche lei, come sosteneva Joseph Pulitzer, che ogni numero di giornale rappresenta una battaglia, una battaglia per l’eccellenza alla quale servono accuratezza e scrupolosità?
«Credo che il mondo sia diventato troppo piccolo per i giornali che si limitano alle notizie, la qualità dell’informazione e dei commenti sarà fondamentale. Un giornale per sopravvivere deve orientare i suoi lettori, affascinarli con le idee e indicare una strada, lasciando loro piena libertà nello sceglierla o nel rifiutarla. Deve “vendere” fiducia. I giornali, infine, restano un pilastro della democrazia e per questa ragione la democrazia dovrebbe essere principalmente interessata alla loro sopravvivenza. Un obiettivo che dovrebbe valere anche per Google, Facebook, Apple e gli altri Over-The-Top che dai giornali attingono l’acqua della loro sorgente. Senza pagarla…».
Che cos’è oggi il mestiere dell’editore?
«Preservare la tradizione e non avere timore del futuro. Non è una sciocchezza o una non risposta. Arrivare prima degli altri, pensare ai giovani e ai loro nuovi linguaggi, contribuire con la propria voce al dibattito e alla crescita democratica del Paese. Una volta i giornali erano in bianco e nero, poi si sono accorti che il mondo era a colori. Bastava guardare. Credo che domani non sarà molto diverso ».
Nella sua presidenza ha conosciuto tre direttori di Repubblica. Può farmi una sintesi del rapporto avuto con loro?
«Eugenio Scalfari è stato un artista unico, non può essere paragonato a nessun altro. Ha inventato un modo tutto suo di fare un quotidiano, lo ha settimanalizzato ed è stato copiato da tutti. Ezio Mauro un misto di passione e dedizione. Un grandissimo direttore che per vent’anni ha lavorato ogni giorno come se fosse il primo giorno. Quando ha lasciato la direzione gli ho domandato che cosa avrebbe voluto fare e lui mi ha risposto semplicemente: voglio fare solo il giornalista. Mario Calabresi ha raccolto con intelligenza un’eredità tremendamente difficile e ha dalla sua parte il vantaggio della gioventù. Può diventare non solo un grande direttore di Repubblica, ma anche essere il riferimento della sua comunità».

Repubblica 24.6.17
Tre coalizioni in cerca di pace
di Stefano Folli

ALLA vigilia dei ballottaggi nelle città, i protagonisti della scena politica ostentano più ferite che medaglie. In primo luogo i Cinque Stelle, messi a dura prova dagli sviluppi del caso Raggi, sono in difficoltà sia sul piano locale — dove, come è noto, sono esclusi quasi ovunque — sia a livello nazionale. Appaiono impacciati e sulla difensiva, poco reattivi di fronte alle polemiche che li hanno investiti. E la sensazione è che stiano pagando, oltre alle disavventure romane, anche e forse soprattutto la pasticciata linea seguita sulla fallimentare legge elettorale.
Quanto al leader del Pd, che ostenta distacco e indifferenza verso la campagna elettorale, è difficile credere che il risultato, nel bene o nel male, non lo riguardi. Certo, nessuno pensa che il governo Gentiloni possa scivolare in caso di sconfitta a Genova. O che il Partito Democratico non continui a marciare dietro le insegne renziane, almeno fino al voto politico. Ma il quadro che emergerà domenica sera, da Nord a Sud, dirà qualcosa sullo stato del centrosinistra e sulle sue prospettive.
Infine, il centrodestra. Berlusconi si è dimostrato piuttosto dinamico, desideroso di non lasciare tutto lo spazio a Salvini, il suo alleato scomodo e onnipresente. In fondo il centrodestra ha tutto da guadagnare in questi ballottaggi. Non vincerà ovunque, naturalmente, ma otterrà qualche risultato significativo che peserà sul piano mediatico. È dunque un passaggio da cui Berlusconi ha parecchi vantaggi da ricavare, più che altro per la debolezza dei suoi avversari. Non a caso il fondatore di Forza Italia ha rispolverato un vecchio cavallo di battaglia, raffigurando se stesso come l’argine contro i comunisti. Solo che al posto dei “rossi” oggi ci sono i seguaci di Grillo, quest’ultimo presentato come una specie di nuovo Lenin. Non è solo un gioco di prestigio retorico. È palese che Berlusconi teme un Parlamento ingovernabile. E affinché l’opzione di un equilibrio fondato sull’asse Pd-Forza Italia abbia speranze di successo, è necessario segare la terza gamba del tavolo: i Cinque Stelle, appunto. Solo una caduta del consenso a Grillo può permettere di immaginare una maggioranza, o almeno un patto parlamentare, fondato sul rapporto con il Pd. E quando si dice caduta s’intende proprio un collasso grillino: un modesto ridimensionamento di un paio di punti percentuali non sarebbe sufficiente.
Ecco perché i risultati delle comunali, salvo colpi di scena clamorosi, non avranno riflessi nazionali immediati. Per la buona ragione che tutte le attenzioni sono già rivolte al voto nazionale previsto fra otto-dieci mesi. In uno scenario tutto da costruire, sia a sinistra sia al centro. Sappiamo che Pisapia ha carte importanti da giocare nel rapporto conflittuale con il Pd renziano. Ma anche i centristi, vittime sacrificali dello scontro/incontro fra i due maggiori partiti, avrebbero interesse a vender cara la pelle. Alfano, Casini, un certo mondo ex democristiano che oggi appare in disarmo, sono condannati dai loro errori ma salvati in una certa misura dal sistema proporzionale. Solo che avrebbero bisogno anche loro di un Pisapia: un personaggio in parte nuovo e credibile con doti di comunicatore, capace di non farsi avviluppare nella ragnatela di un vecchio ceto politico. L’unico che viene in mente è Calenda, ma per ora siamo nel regno delle supposizioni.
Un punto è certo. Il rischio di un Parlamento ingovernabile e di conseguenza non idoneo a esprimere una maggioranza di governo, è ben presente alle cancellerie europee e ai mercati finanziari. Per ora domina la bonaccia estiva, grazie al voto in Francia che ha stabilizzato il quadro generale. La Germania non desta preoccupazioni perché Angela Merkel è avviata all’ennesima conferma. È l’Italia che di qui a qualche mese tornerà sotto osservazione. Il che offre qualche vantaggio perché la Commissione non sarà troppo severa con le nostre leggi di bilancio. Tuttavia la possibile instabilità politica a Roma è destinata a generare profonda inquietudine. Non oggi né domani, ma senza dubbio dopodomani. Cioè a cavallo dell’anno. Per questo sarebbe accolta con molto favore la notizia che si torna a trattare sulla legge elettorale. Purtroppo è meglio non farsi troppe illusioni al riguardo.