sabato 23 settembre 2017

Repubblica 23.9.17
Storia letteraria dell’odio
Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante
di Stefano Massini

Che il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un
bisogno fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi di diete vegane, riaffiora insomma l’homo carnivorus e dunque cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.
Nella sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti — sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti — saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida, dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda e infine costretto a mordersi da solo.
A tentare una risposta ci provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro altri (magari in forma anonima sulla app Sarahah): per quanto ci sembri superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne La venticinquesima ora, il romanzo di David Benioff diventato un film di Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi, dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).
Nelle pieghe della differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente massacrato da una rivolta degli africani.
Fu un’ordalia, fu un tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo: troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito: come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle vacche della comunicazione.
Questo per i toni. Ma i contenuti? Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh. Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh, intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.
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il manifesto 23.9.17
L’irreversibilità dell’Ottobre russo
Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 - la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa Mirafiori
di Michele Prospero

Ricostruendo i passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto vocabolo nella tradizione russa.
Le fabbriche che sono insorte, la diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata. Altrimenti l’insubordinazione diventava una pura scintilla di rivolta che si dipanava senza alcun progetto. Il capolavoro di Lenin fu proprio questo: tramutare una ribellione di massa già in atto, e con una forte intonazione plebea, in un grande assalto politico a quello che lui chiamava un «anello di legno» del capitale, pronto a sgretolarsi al primo impeto.
IL SALTO NEL BUIO di ottobre presuppone una rigorosa analisi dei limiti della rivoluzione di febbraio. Per Lenin due erano i nodi irresolubili per la coalizione salita al potere. Il primo era legato alla terra e alla forte pressione contadina per avere il pane. Il nuovo potere rinviava all’infinito il voto per l’assemblea costituente proprio nel timore che avrebbe potuto diventare la cassa di risonanza delle richieste di terra. Il secondo punto di allarme era la guerra. Il governo di febbraio era per la continuazione dell’impresa bellica e anzi ogni tanto proponeva persino sanguinose controffensive patriottiche. Che rivoluzione era mai quella che deponeva lo zar ma proseguiva la sua guerra e lasciava la terra e le fabbriche ai padroni?
Per Lenin la Russia era precipitata in una situazione di emergenza (insieme sociale e bellica) e invece il governo in carica riteneva di cavarsela con la definizione del sistema elettorale per la Duma. La debolezza della soluzione liberale al problema hobbesiano dell’ordine lasciava campo alle suggestioni golpiste dei militari. Secondo Lenin la risposta al dilemma dell’autorità scaturiva dalla stessa aporia esplosa con il «dualismo dei poteri». Con la proliferazione, accanto agli organi fragili rispolverati dal governo provvisorio, di un vecchio istituto inventato nel 1905, il soviet come nuova forma della rappresentanza dal basso, era possibile compiere una rivoluzione sociale.
Non ci sarebbe stata la presa del Palazzo d’Inverno senza la testarda insistenza di Lenin a compiere l’attacco frontale per sciogliere la insostenibile contraddizione tra due poteri che rivendicavano sovranità. Nel suo partito c’era chi invitava a cogliere in maniera tradizionale le opportunità della rivoluzione liberale per cercare di strappare diritti più avanzati. La ricognizione dei rapporti di forza indusse invece Lenin a ritenere che, a differenza del 1905, non era possibile limitarsi a un riassetto della forma politica in un senso più liberale. La distruzione, il caos, l’insubordinazione diffusa richiedevano una diversa prospettiva: il potere ai soviet.
Ha faticato molto Lenin per persuadere la vecchia guardia che non si poneva la questione astratta della preferenza tra organismi liberali e forme autocratiche di potere. Il problema era di rispondere all’emergenza prodotta dalla guerra, e quindi di conquistare il potere vagante per scongiurare il caos. Non c’erano altri antidoti alla dissoluzione generale che una mobilitazione armata e di massa per la pace e la terra. La leggenda narra di un partito bolscevico costruito come una rigida macchina monolitica che raggruppava un manipolo di cospiratori assetati di potere e mossi da violenza. Questa banalizzazione del leninismo come sinonimo di spirito settario non corrisponde ai processi reali.
LA STESSA FAVOLA del centralismo democratico, come congegno della subordinazione gerarchica e della rigida omogeneità d’azione del partito-caserma, urta con la vicenda storica di un Lenin che si trovava spesso in minoranza nella sua organizzazione.
Persino la Pravda lo censurava o prendeva le distanze da un suo scritto. Lo stesso ordine di insurrezione ricevette una accoglienza assai dura. Kamenev denunciò sui giornali nemici le prove in corso di assalto al palazzo e per questo gesto irrituale attirò su di sé solo l’epiteto di crumiro. Cercò addirittura di persuadere il ricercato Lenin a farsi ammanettare. Non esisteva insomma alcun culto della personalità. Nel ’17 quello bolscevico era un partito a maglie così larghe da apparire una federazione di sensibilità eterogenee, un organismo che anche nella illegalità sembrava (un po’ troppo) vivacemente plurale.
Per convincere i riottosi della necessità di una presa delle armi non bastarono un congresso straordinario, due distinte risoluzioni votate a maggioranza dal comitato centrale. Tormentato e teso (Lenin stesso minacciò le dimissioni) fu il cammino per la presa del Palazzo d’Inverno.
L’INSURREZIONE non obbediva a una tattica militare spregiudicata, era invece l’efficace risposta storico-politica alle contraddizioni aperte dalle guerre mondiali (Lenin prevedeva che un altro ancora più distruttivo conflitto sarebbe scoppiato in un tempo sordo ai richiami del «famoso scrittore Keynes»). L’alternativa per lui non era certo tra un costituzionalismo slavo e il potere rosso, ma tra la dissoluzione nel caos del vecchio impero e la brutale dittatura militare. Dopo la quasi incruenta conquista del potere, legittimata da una deliberazione dei soviet che a settembre erano in maggioranza schierati con i bolscevichi, Lenin fu sorpreso dall’esito negativo del voto per l’assemblea costituente (prese solo il 24 per cento). In un primo tempo, anche per convivere con la contraddizione di due maggioranze antitetiche, Lenin era disponibile a un governo di coalizione con la sinistra dei socialisti rivoluzionari (cui fu affidato il dicastero chiave dell’agricoltura).
GLI ACCADIMENTI REALI, le lotte, le posizioni provocatorie dei raggruppamenti socialisti (escludere Lenin e Trotsky dal governo, nella scommessa che i bolscevichi sarebbero presto stati spazzati via) ruppero l’alleanza e portarono alla soluzione di un governo di partito. La vittoria dell’Ottobre era ritenuta un accadimento non più reversibile.
A cento anni di distanza, quell’esperienza che segnò il Novecento, produsse miti, mobilitazioni, speranze, utopie, tragedie non può essere semplicemente archiviata nella galleria degli orrori. La prima grande manifestazione di massa che si tenne a Roma liberata nel 1944 si svolse allo stadio Palatino. Parlarono insieme Nenni e Togliatti perché l’Ottobre era patrimonio comune. I loro discorsi furono stampati dall’Avanti e dall’Unità in un opuscoletto di 31 pagine con il titolo in rosso: Viva la Rivoluzione d’Ottobre! Persino Veltroni, in un cinema romano, nel ’77 celebrò i 60 anni dei soviet. Anche se la rimozione è di moda, la ricostruzione democratica in Italia è connessa con il fantastico scatto del ’17.
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Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 – la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Tra i relatori, Raffaele D’Agata, Andrea Sonaglioni, Alexander Hobel, Angelo d’Orsi, Gennaro Lopez, Guido Liguori, Stefano Petrucciani, Paolo Ciofi. Saranno proiettati documenti d’epoca.

Il Fatto 23.9.17
L’ex fiore all’occhiello della Ddr nuovo cuore nero dei tedeschi
Lipsia - La città era il centro culturale e industriale del regime comunista, dove la Merkel studiò e iniziò la carriera politica
Immigrati “raus” – Una manifestazione contro gli immigrati a Lipsia che accusa la cancelliera “islamica”
di Leonardo Coen

Non esiste luogo più emblematico di Lipsia, per decifrare la complessa personalità di Angela Merkel, che sul suo passato – i 35 anni vissuti nella defunta Germania Orientale prima della caduta del Muro – è abile a depistare tutti. Intanto, per buona pace degli xenofobi che voteranno domani l’Afd, il nome di Lipsia è di origine polacca, significa “dove vanno a stare i figli”. In secondo luogo, è stata la capitale culturale della defunta Germania Orientale, il fiore all’occhiello della scienza e della ricerca, la vetrina dei successi accademici che il regime di Pankow ostenta ai fratelli dell’Ovest. Ed è a Lipsia che la 19enne Angela arriva nel 1973 per iscriversi alla prestigiosa facoltà di Fisica. La precede una fama di studentessa estremamente intelligente, disciplinata e brillante. A 16 anni è stata premiata come migliore studentessa liceale di tutta la Ddr per la sua conoscenza del russo. Il professore di matematica era fiero di lei, la considerava la più preparata, destinata a grandi cose. Infatti eccola approdare all’organizzazione giovanile comunista del Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (Sed), il Partito egemone di Unità Socialista tedesco-orientale, al potere dal 1949 sino alle elezioni politiche del 1990, le prime “libere” tenute all’Est, dopo la Caduta del Muro. Ed è in questa organizzazione che la giovane ambiziosa Merkel comincia il suo tirocinio di leader: perché ben presto occupa incarichi direttivi.
D’altra parte, “non si faceva carriera se non si aveva una buona opinione sul sistema scolastico del regime”, dice il professore Joachim Ackermann di Wittenberg che fu membro del ministero dell’Educazione Popolare (soppresso nel ’90). Senza dimenticare ch’era figlia d’un pastore luterano, ancorché ben visto dal regime tanto che veniva chiamato il “prete rosso”.
Ebbene, Angela si laurea col massimo dei voti nel 1978. Si butta sulla ricerca scientifica, si perfeziona a Mosca, lavora all’Accademia delle Scienze di Berlino-Est fino al 1990. Dimostra comunque d’essere molto brava e preparata. Allora, mi spiega la storica Christa Panzig che dirige l’Haus der Geschchte di Wittenberg (l’unico museo nell’ex-Ddr sul modo di vivere della popolazione dalla Prima guerra mondiale alla fine del regime comunista), “il 30% degli studenti disagiati frequentava l’università. Lo Stato si accollava i costi dei libri, le tasse accademiche erano appena 10 marchi l’anno. Oggi, solo il 2% degli studenti provenienti da famiglie di basso reddito riescono ad arrivare all’università.
I libri scolastici sono molto cari, non parliamo delle tasse…”. Gli internati studenteschi erano gratis, lo Stato dava una sorta di salario agli universitari, il talento era protetto. Oggi conta solo il portafoglio. Per consolarla, dico che succede lo stesso in Italia.
Come mai la Merkel, che pure ha vissuto e si è saputa ben destreggiare nel labirinto comunista scolastico, non interviene per rendere meno classista la scuola attuale? Perché è un argomento che non porta voti in più. E qui s’innesca una problematica trascurata dai media: il conflitto generazionale nei Land della Germania Orientale. La trasformazione degli anni Novanta ha profondamente marcato la generazione di coloro che si sono formati sotto la Repubblica Democratica e, successivamente, nella Germania riunificata. Questo disagio culturale è magistralmente raccontato da Sabine Rennefanz in un libro emblematico: Die Mutter meiner Mutter . Sabine aveva 15 anni quando la Cortina di ferro si sbriciola. La notte della Grande Svolta. Vennero poi gli anni del caos: “La gente dell’Est si è sentita spossessata e svilita. La Ddr era lontano dall’essere un paese perfetto ma era il solo che io conoscevo”. In queste parole, c’è il risentimento nei confronti della democrazia che la Merkel ha impersonato: ma come, sei stata una dei nostri e ci hai lasciato in balìa del potere economico, della globalizzazione, di un’Europa che ci trascura. E in effetti, fuori dal centro di Lipsia c’è un’aria dimessa. Quartieri dormitorio, case dell’edilizia popolare comunista, fabbriche dismesse. Le regole del gioco occidentale fanno tabula rasa. “Molti tedeschi dell’Est non si sono rimessi dalla perdita dei loro punti di riferimento. Vivono su un territorio vuoto, in collera contro tutto ciò che non comprendono”. Lo zero esistenziale.
Questa rabbia si rivolta contro la Cancelliera, contro i rifugiati, i migranti, gli omosessuali, contro l’Unione europea. L’identità multipla si frantuma. La memoria è strumentalizzata, come la nostalgia, alimento della destra più estrema, radicale e anti-berlinese. Lo leggi sui muri sbrecciati: scritte feroci, disperate. Una dice: “Non siamo che stupidi Ossis”, gli stupidi cittadini di serie B venuti dall’Est.
il manifesto 23.9.17
Kipping: «Contro i populismi una sinistra transnazionale»
Intervista . La co-segretaria del partito della Sinistra tedesca Die Linke: «Siamo l’unica voce contro i nazisti dell’Afd»
di Beppe Caccia

BERLINO Incontriamo Katja Kipping, co-segretaria del partito della Sinistra tedesca Die Linke, alla vigilia del voto di domenica per il Bundestag.
In queste ultime ore di campagna uno dei punti caldi è proprio lo scontro tra la Sinistra e i «populisti di destra» di Alternative für Deutschland per la conquista del terzo miglior risultato.
Quale significato assume questa «competizione«?
È un’importante questione simbolica e politica al tempo stesso: sapere se il terzo partito più forte nel prossimo Bundestag si concentrerà sui temi sociali e sulle questioni della giustizia e solidarietà o se, come la destra dell’AfD, farneticherà della «produzione di razze miste» o sarà «orgoglioso» della Wehrmacht. La Linke vuole impedire che un partito, in cui i nazisti hanno diritto di parola, possa diventare la più rilevante forza d’opposizione di fronte alla possibile riconferma della Große Koalition. Dopodiché il fenomeno dei populismi di destra è qualcosa di ben più complesso di vecchi e nuovi nazisti: abbiamo bisogno di una nuova forte offensiva sociale per batterlo.
All’inizio di quest’anno, molti hanno invece pensato alla possibilità di un governo «rosso-verde-rosso» dopo le prossime elezioni. Che cosa è successo invece?
Per la terza volta, dopo il 2009 e il 2013, la Spd non ha avuto il coraggio di aprire a un vero cambiamento politico e ha di fatto rinunciato a candidarsi al Cancellierato. Temo che, dopo domenica, questa speranza per una nuova Spd finisca in una profonda demoralizzazione. Io stessa ho fatto campagna per portare al potere una coalizione capace di mettere assieme «ciò che sta al centro con ciò che sta in basso» (Mitten-Unten-Bündnis), perché sono fermamente convinta che in Germania vi siano oggi maggioranze sociali per un cambiamento politico progressista. Ma la Spd, come i Verdi, hanno rifiutato di compiere questo passo apertamente e di provarci sul serio. E ora, ovviamente, è necessario che ci sia una Sinistra più forte per avviare un processo di ripensamento tra tutti i soggetti interessati.
Anche dall’Italia diverse personalità di tutta la sinistra hanno invitato a sostenere il vostro partito. In che senso un risultato elettorale positivo per la Linke sarebbe cruciale per l’Europa?
È del tutto evidente come il potere europeo abbia la sua sede nella Berlino politica. Lo abbiamo visto nella crisi greca ad esempio. Se la Linke avrà successo in queste elezioni, sarà un segnale incoraggiante anche per l’idea di un’Europa sociale e democratica. La crescita dei populismi di destra non può essere contrastata solo sul piano nazionale, ma abbiamo bisogno di una comune sinistra transnazionale in Europa, che sia più ampia dell’alleanza dei soli partiti della sinistra europea. Ed è solo quando pensiamo in chiave europea, che possiamo affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Penso non solo al movimento delle migrazioni, ma anche alla crisi climatica o all’ingiustizia globale. A volte sembra che il rifugiato, come Brecht scrisse una volta, sia solo «un messaggero di sventura». I rifugiati ci ricordano le nostre vulnerabilità e ci avvertono che anche il nostro piccolo mondo qui non è più in ordine. L’idea europea è sull’orlo del precipizio e noi dobbiamo lottare, anche all’interno del campo progressista, per non tornare alle prigioni nazionali della storia.
Quali scenari strategici immagina dopo il 24 settembre?
Dipende dal risultato. La questione se i populisti di destra o la Linke diventeranno la terza forza politica del paese deciderà anche se saranno il razzismo o la giustizia il contrappeso di un nuovo governo Merkel. Temo che per la socialdemocrazia tedesca possa chiudersi presto una finestra storica. Perché se la Spd entra di nuovo in una grande coalizione, essa prima o poi si pasokizzerà. I Verdi, d’altra parte, se entrassero in una coalizione con la Cdu o anche con i Liberaldemocratici, dovrebbero rinunciare al loro patrimonio storico di battaglie per i diritti civili e l’ambiente. Se si realizzasse infine un’alleanza nero-gialla (Cdu-Fdp), vi sarebbe il rischio del ritorno a un puro neoliberismo.
Quale ruolo per la Linke dunque?
Il nostro compito, come Sinistra dopo il voto, sarà triplice. In primo luogo, rimaniamo l’unica forza credibile per la giustizia sociale dentro al Parlamento. In secondo luogo, saremo allo stesso tempo una voce ben chiara contro il razzismo e i nazisti dell’AfD. Ma abbiamo un terzo compito: la Linke deve iniziare a costruire uno spazio sociale per maggioranze di sinistra che vadano oltre il blocco conservatore e di destra. So che nel paese vi è un sentire progressista, che non si riflette nelle politiche dei Verdi e dell’SPD, e talvolta neppure in quelle della Linke. Per una nuova alleanza Mitten-Unten non è più sufficiente criticare gli avversari politici o il presunto riformismo di eventuali partner. Il tempo di questo lamento da vecchia sinistra è scaduto. Abbiamo invece bisogno di uno stile politico che stimoli una partecipazione sociale pluralistica e indichi che vi sono più opportunità che rischi in un partito che sia socialmente e culturalmente diversificato. Abbiamo bisogno di un Sinistra combattiva che, con il suo messaggio sociale, raggiunga tutti quelli che nella nostra società si sentono estranei alla situazione politica predominante. Abbiamo bisogno di un Sinistra in comune, che sia schierata in qualsiasi momento e ovunque per l’uguaglianza di tutti e le libertà di ciascuno.
(Si ringrazia Martin Glasenapp per la collaborazione)
il manifesto 23.9.17
L’Egitto fa terra bruciata attorno a Regeni
Diritti umani. Raid della polizia nella sede dell’Ecfr, consulenti della famiglia. L’avvocato Metwally, rapito e scomparso per alcuni giorni, denuncia torture in carcere. La doppia faccia di al Sisi. Mentre rassicura Gentiloni, a margine dell'Assemblea generale dell'Onu di New York, agli altri paesi arabi dice: «La colpa è del ricercatore. L'Italia sta esagerando»
di Pino Dragoni

Non si ferma il giro di vite contro i difensori dei diritti umani in Egitto. Il 21 settembre è stata un’altra giornata drammatica, segnata da un raid compiuto nella sede della Commissione Egiziana Diritti e Libertà (Ecrf), che segue anche per conto della famiglia il caso di Giulio Regeni. L’autorità per gli investimenti ha fatto visita alla sede dell’organizzazione accompagnata da agenti della National Security e da una camionetta della polizia, minacciando di apporre i sigilli alla porta. Gli avvocati presenti negli uffici si sono opposti e sono riusciti a scongiurare la chiusura, dichiarando che l’organizzazione è regolarmente registrata come studio legale e non viola alcuna legge (molte organizzazioni per i diritti umani in Egitto evitano di qualificarsi come Ong per evitare le pesantissime restrizioni imposte). Già nell’ottobre 2016 l’associazione aveva subito una visita simile con tanto di perquisizione tra i faldoni sui casi dei desaparecidos.
«Non è una coincidenza il fatto che l’Ecrf avrebbe presto ricevuto la famiglia di Giulio Regeni, per continuare ad aiutare le indagini sulla sparizione forzata e la morte di Regeni nel 2016», afferma un comunicato della Commissione, che si esprime anche a nome dei genitori Paola e Claudio. L’organizzazione poche settimane fa aveva rilasciato un rapporto in cui documentava 378 casi di sparizioni forzate avvenute nel periodo agosto 2016-agosto 2017, accusando le forze di sicurezza come principale responsabile di questi episodi. Il sito dell’Ecrf è oscurato in Egitto dal 5 settembre. «Stanno facendo terra bruciata intorno ai Regeni», è il commento di Maaty el-Sandouby, giornalista egiziano residente in Italia e co-fondatore dell’associazione delle famiglie dei desaparecidos, «così che quando i Regeni andranno in Egitto non troveranno più nessuno ad aiutarli».
E sempre giovedì è circolata la notizia secondo cui l’avvocato Ibrahim Metwally sarebbe stato torturato in carcere. Arrestato il 10 settembre all’aeroporto del Cairo, Metwally è coordinatore dell’Associazione delle famiglie vittime di sparizione forzata, con cui l’Ecrf collabora per consulenze legali. Da martedì 14 si trova rinchiuso nella famigerata sezione Scorpion del carcere di Torah, con accuse pesantissime a suo carico. La notizia delle torture è stata riferita a TPINews dall’avvocato Mohamed Lotfy, anche lui membro dell’Ecrf, che riferisce anche la decisione del tribunale di rinnovare la detenzione per altri 15 giorni in attesa di processo. Metwally si troverebbe in isolamento, senza energia elettrica, in una cella piena di spazzatura e, stando a quanto lui stesso avrebbe riferito ai suoi legali, sarebbe stato lasciato nudo in cella e sottoposto a scosse elettriche.
Nel frattempo il governo italiano non solo si ostina nel suo imbarazzato silenzio a proposito di queste gravissime violazioni contro attivisti egiziani (che interferiscono direttamente con l’inchiesta sul caso Regeni), ma procede spedito sulla via della normalizzazione delle relazioni. Infatti, nelle stesse ore in cui le forze di sicurezza egiziane attaccavano gli uffici dell’Ecrf, Gentiloni e al-Sisi si sono incontravano a margine della 72esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La discussione ha ribadito la volontà dei due paesi di «rafforzare le relazioni e la cooperazione a tutti i livelli» e le ormai trite formule di rito sul «massimo impegno nella ricerca della verità e la consegna dei responsabili alla giustizia» riguardo al caso Regeni.
Eppure, sempre a margine dell’Assemblea Onu, la versione dell’Egitto con gli alleati del Golfo sarebbe stata completamente diversa. Secondo retroscena rivelati ieri da La Stampa, pressati dagli altri paesi arabi per risolvere l’impasse diplomatica con l’Italia, alcuni alti funzionari egiziani avrebbero risposto che «la colpa è stata di Regeni, che il Cairo non ha fatto nulla di male, e che gli italiani stanno esagerando la questione». Insomma quasi un’ammissione di colpa secondo La Stampa, se non di un coinvolgimento diretto di al-Sisi, certamente della forte capacità del ministero degli Interni «di influenzare, se non ricattare, lo stesso presidente». E una conferma ulteriore che non sarà fatta mai chiarezza.
Ulteriore beffa, la firma giovedì di un protocollo d’intesa tra l’accademia di polizia egiziana e il Ministero degli Interni italiano per istituire un centro internazionale di formazione al Cairo, finanziato da Italia e Ue. I corsi organizzati saranno rivolti ad agenti di polizia dei paesi africani e riguarderanno la messa in sicurezza delle frontiere, la gestione dei confini, e la lotta ai traffici illegali.
Intanto Amnesty International lancia una petizione online per la liberazione immediata dell’avvocato Ibrahim Metwally, disponibile sul sito www.amnesty.it.
Il Fatto 23.9.17
Paesaggio, il Pd sbugiarda se stesso
di Vittorio Emiliani

Nei giorni scorsi due grossi calibri del Pd, il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, e l’ex ministro Walter Veltroni hanno affermato severamente che il loro partito ha “dimenticato l’ecologia”. In realtà il Pd guidato da Matteo Renzi ha dimenticato la tutela dei beni culturali e del paesaggio, la buona urbanistica, l’ambiente (vedi legge sui Parchi) divenendo anzi il nemico dichiarato di una tradizione democratica che riteneva prioritari questi temi e la lotta all’abusivismo. Lo dimostrano la legge Galasso sui piani paesaggistici, la legge Cutrera e altri sulla difesa del suolo, la legge Cederna-Ceruti sui Parchi, il Codice per il Paesaggio Rutelli/Settis del 2007 e altro.
Un vanto della cultura progressista erano certamente i piani paesaggistici che con coraggio la giunta di centrosinistra di Renato Soru aveva varato nel 2004. Operazione esemplare coordinata da Edoardo Salzano, che andava completata con l’interno dell’isola. Il centrodestra ha invano tentato di smontarla, perdendo anche un referendum popolare. Ma la giunta attuale del presidente Francesco Pigliaru ha ripreso l’offensiva con rinnovata forza. Di fronte all’opposizione argomentata di un tecnico di valore, il soprintendente Fausto Martino e a una critica severa di Ilaria Borletti Buitoni sottosegretaria ai Beni culturali, l’intero Pd sardo ha votato in Regione un ordine del giorno di inusitata durezza. “In entrambe le occasioni si è registrata una inopportuna espressione di opinioni lesive delle prerogative costituzionali conferite in capo all’organo legislativo e a quello esecutivo della Regione Sarda”. Il reato? Per Borletti Buitoni essere “intervenuta nel merito di scelte operate dalla giunta e dal Consiglio regionale nel pieno esercizio delle funzioni attribuite loro dallo Statuto speciale della Sardegna”. Per l’architetto Martino aver “espresso pareri di merito su scelte politiche (…) che esorbitavano la sfera di sua competenza”. Essi “sono andati oltre ogni limite di competenza” con “posizioni censorie sul disegno di legge urbanistica”, ecc. ecc. Il presidente Pigliaru rappresenti dunque a Paolo Gentiloni “lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento assunto dagli uffici regionali del Mibact” con inevitabili conseguenze anche sui finanziamenti per la “protezione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico dell’isola” (che le nuove norme del Pd in realtà devitalizzano).
Il piano paesaggistico regionale della Sardegna – denuncia il Pd – non procede per l’indisponibilità degli uffici ministeriali a… collaborare. Silenzio sui piani approvati dalla Regione ai tempi di Soru. Il raccolto decennale dei piani paesaggistici è ben magro, appena 3: Toscana, con l’assessore competente, l’urbanista Anna Marson, non riconfermata; Puglia; Piemonte (ne ha discusso il Consiglio in agosto). Molti piani in alto mare. In piena burrasca quello sardo. Il Codice è la seconda legge nazionale che sollecita le Regioni a fare il loro dovere in materia di paesaggio. Nel 1985, fu approvata, quasi alla unanimità, la legge n.394 detta Galasso. Essa imponeva alle Regioni una dettagliata pianificazione ed era stata preceduta da una serie di decreti, chiamati “galassini”, coi quali si vincolavano territori decisamente preziosi. Marche, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna approvarono i loro piani entro il 1986. Altre in ritardo. Altre ancora mai, le più devastate da speculazione e abusivismo. Campania e Sicilia su tutte. Per la Campania ci fu un tentativo di piano redatto dalle Soprintendenze. Bocciato: lo Stato non può sostituirsi alle Regioni, neppure se inadempienti in modo conclamato. Come la Regione Sicilia – la più “abusata”, non a caso, d’Italia – la quale ha invocato e invoca la sua specialissima autonomia. Anche ora – come ha documentato Silvia Mazza per Emergenza Cultura – con un emendamento-grimaldello l’Assemblea regionale ha votato deroghe ai Piani paesaggistici “per le opere di pubblica utilità” (pubbliche, private, in concessione). Norma “retrospettiva” che salva opere già bocciate come la Catania-Siracusa. Bocciata, beninteso, da Soprintendenze nominate dalla Regione…
E nella Campania Infelix della marea di abusi e della “impermeabilizzazione” con cemento e asfalto di tanti suoli liberi? Per il Piano paesaggistico siamo ancora al lavoro delle commissioni, racconta il rappresentante dei 5 Stelle, Tommaso Malerba. Eppure Napoli è fra i grandi Comuni il più “impermeabilizzato” d’Italia con 64% del territorio, seguito da Milano col 54%. In provincia spicca Casavatore che, con l’89,3% di cemento+asfalto detiene il primato nazionale ed europeo in materia, seguito da vicino da Arzano e da Melito di Napoli. Qualche raro albero e un po’ di fili d’erba. Dove non sono passati gli incendiari. Ma sì, i piani possono attendere.
Repubblica 23.9.17
Il tradimento delle origini
di Roberto Saviano

QUALCHE giorno fa, fuori tempo massimo e senza averne i requisiti, mi sono candidato attraverso un post sulla mia pagina Facebook alla guida del Movimento 5 Stelle. Le reazioni sono state le più disparate, ma la cosa che mi ha davvero impressionato sono stati gli ultrà del Movimento che hanno commentato il mio post.
NESSUNO — e dico nessuno — ha sollevato obiezioni di natura politica. La maggior parte mi scriveva che non potevo candidarmi “perché non avevo i requisiti”. Incredibile, i sostenitori di un movimento che ha cambiato continuamente le regole cardinali della propria struttura, senza fare autocritica e senza fornire spiegazioni (conseguenti magari all’inevitabile incontro/scontro con la realtà), si aggrappavano ai requisiti e alla loro mancanza.
Quindi il paradosso: da un lato una inflessibilità di facciata che sa di indottrinamento, dall’altro una fisiologica “flessibilità” sulle regole, diretta conseguenza dell’assenza di uno Statuto che abbia alla base valori politici. E questa assenza, nonostante i sondaggi, sta divorando il Movimento dal suo interno. Qui non si tratta di comporre requiem perché è evidente che quel partito noto a tutti con il nome di M5S gode di ottima salute. Mi sto solo interrogando su questo: cosa è rimasto del Movimento 5 Stelle nel Movimento 5 Stelle?
Quando penso alle prossime elezioni politiche mi viene in mente un detto che suona più o meno così: “Vediamo di che morte dobbiamo morire”. E a “morire” non saremo solo noi, a “morire” sarà soprattutto quell’idea di politica nuova, che in teoria nulla ha a che vedere con compromessi e alleanze di necessità. Eh sì, perché anche il M5S, se vorrà governare, dovrà invece scendere a patti.
Qualche giorno fa si è celebrato l’anniversario del primo V-day. Ricordo solo una cosa di quella giornata e delle analisi che la seguirono: le persone in piazza appartenevano alla classe media, con un buon livello di istruzione. Erano giovani, ma non giovanissimi. Erano tutti outsider, persone in gamba, sfiancate da anni di berlusconismo e da una opposizione incapace di rappresentare quel malessere. Erano persone che non riuscivano più a votare, che non pensavano neanche lontanamente di fare politica, perché a scoraggiarli erano i ras e capetti locali, rimasti a presidiare quello che restava della partecipazione politica.
C’era la parte migliore del Paese in piazza a Bologna nel 2007? Non lo so, ed è inutile stabilirlo oggi. Quel che è certo è che, a distanza di dieci anni, la fiammata iniziale si è spenta per lasciare spazio ad altro. A molto altro, in verità, perché se arrivi al 30% dei consensi, allarghi la base elettorale in maniera esponenziale e, forse, non sei più in grado di riconoscere le categorie — sociali, economiche, generazionali — delle quali sei rappresentativo. Sono però abbastanza certo che chi aveva provato entusiasmo per le parole d’ordine di democrazia dal basso, orizzontale, di lotta alle vecchie dinamiche di partito è scappato da tempo dal Movimento per rifugiarsi ancora una volta nel non voto, per coltivare il proprio privato alla ricerca di una felicità individuale.
Gianroberto Casaleggio era un consulente. Al momento del V-day, la Casaleggio Associati non si occupava solo di gestire il blog di Beppe Grillo, ma anche della comunicazione politica e delle strategie di partito per Antonio Di Pietro. La candidatura di Luigi de Magistris nell’Italia dei Valori alle Europee fu una sua idea. Casaleggio era anche socio, assieme a Beppe Grillo, con il commercialista Enrico Nadasi e Enrico Grillo, nipote di Beppe, dell’associazione Movimento 5 Stelle, proprietaria del simbolo del Movimento, un elemento cruciale. Pensiamo a come gli eredi della Democrazia Cristiana hanno battagliato negli anni per la proprietà del simbolo (che poi, dopo Tangentopoli, non aveva tutto questo appeal); o a Marco Pannella, che donò il simbolo del “Sole che Ride” al movimento ambientalista. Cosa comporta la proprietà del simbolo? Che, pena l’espulsione, nessuno all’interno del Movimento può prendere decisioni in autonomia e che la proprietà del simbolo decide la linea del Movimento in maniera insindacabile. Grillo è garante e chiede fiducia per sé e per le proprie decisioni: allora chi viene eletto nel Movimento che ruolo ha? E ancora: chi decide l’idoneità di una candidatura anche dopo il cosiddetto voto popolare attraverso la piattaforma Rousseau di proprietà di Davide Casaleggio? La parola finale spetta sempre ai garanti, in barba al voto orizzontale, all’uno vale uno. Ma come mai, viene da chiedersi, Grillo e Casaleggio junior dell’organizzazione che loro stessi hanno dato al Movimento non si fidano più? Perché dove manca una caratterizzazione politica può entrare di tutto. Il vuoto può essere riempito da qualunque cosa. Faccio un esempio che ciascuno può comprendere. L’unica significativa esperienza di governo del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione è l’amministrazione capitolina, ed è un caso di scuola di infiltrazione e quindi di commissariamento (della sindaca Raggi) da parte della associazione che gestisce il simbolo. Raggi non decide nulla, poiché per i vertici del Movimento è diretta emanazione di altri ambienti politici: questa è la realtà dei fatti, ed è grave per una città tanto grande quanto i suoi problemi giustificare la catastrofe con l’eredità del passato. È evidente il peso della devastazione precedente, ma allora che senso ha avuto proporsi come alternativa di governo?
Ma veniamo al punto cruciale di questa mia riflessione che dimostra come la condizione attuale del M5S, al di là delle mistificazioni di facciata, sia sul piano del metodo e della pratica politica in perfetta continuità con quanto l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Silvio Berlusconi dal nulla fondò un partito politico che alle europee del 1994 veleggiava al 30% e lo fece utilizzando la sua struttura aziendale: il partito personale, il partito azienda. Il Movimento 5 Stelle oggi è una evoluzione di quella patologia, perché al di là dei proclami sulla politica dal basso e sull’assenza di personalismi, è il primo caso di un’entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da srl che pretendono fiducia incondizionata. Il caso Cassimatis lo conferma.
I leader del Movimento, quelli che hanno consolidato la propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di mandato che, al di là delle motivazioni di facciata, e cioè di preservare la fedeltà nei confronti degli elettori, genererebbe un mostro: il controllo da parte di associazioni e di srl riconducibili a Beppe Grillo e a Davide Casaleggio di istituzioni pubbliche. A proposito, vado interrogandomi da qualche giorno su una questione: ma quando, tra cento anni, Davide Casaleggio e Beppe Grillo decideranno di trasferirsi nella costellazione Gaia, chi erediterà le redini del Movimento 5 Stelle: figli, nipoti, zie? Nemmeno Berlusconi potè tanto: basti pensare che quando si ventilò l’ipotesi che Marina Berlusconi potesse succedere al padre, dalla coalizione di centro- destra si levarono voci più che critiche. Oggi dal conflitto di interessi siamo a un passo dal cadere nella privatizzazione della democrazia.
È, questo, un punto di non ritorno e i figuranti, gli ospiti fissi dei salotti televisivi sanno di non potersi più fermare a riflettere su cosa sia accaduto a loro e al Movimento, e probabilmente non hanno nemmeno gli strumenti per farlo. Voglio essere facile profeta: i Di Maio, i Di Battista, i Toninelli saranno per sempre “politici”, nella declinazione dispregiativa che del termine hanno dato loro stessi, perché dalla visibilità provata, dalla sensazione di riuscire a raggiungere il potere — pure se di facciata — non si torna indietro. Altro che due mandati. Oggi l’unica parola d’ordine rimasta a disposizione del Movimento è che gli altri sono peggio. Accettiamo retoricamente l’argomentazione, ma poi? Chi ha creduto in questo vento nuovo lo ha fatto per sentirsi dire, di fronte a errori, fallimenti e contraddizioni che “gli altri sono peggio”? Lo si sapeva già. E oltre questo? Cosa rimane, qual è l’orizzonte politico?
In queste ore il Movimento è riunito a Rimini per festeggiare la partenza della campagna per le politiche dell’anno prossimo. Io vedo invece la formalizzazione del fallimento di tutte le premesse. Da domani il Movimento non avrà più un portavoce, ma un leader. Un capo che rimarrà comunque solo un figurante, incapace sul piano politico e culturale di opporre alcunché al dominio del dedalo di associazioni e di srl che peraltro non hanno neanche lontanamente intenzione di rinunciare ai loro altri clienti e che cambiano le regole a loro capriccio chiedendo atti di fede. Perché solo un atto di fede può far digerire in Sicilia (proprio in Sicilia!), dopo anni in cui si è professato il rispetto di legalità e magistratura, una candidatura che un tribunale ha dichiarato illegittima. Gli altri saranno peggio, ma il Movimento dimostra di seguirne i passi con disinvoltura coprendosi, peraltro, di ridicolo perché il pasticcio siciliano è conseguenza della necessità di far credere che le decisioni nel Movimento siano sempre prese dal basso. E intanto, Silvio Berlusconi…
Il Fatto 23.9.17
Per insabbiare Consip mirano a Woodcock
di Angelo Cannatà

Manzoni sintetizza il clima di un’epoca con la frase “Questo matrimonio non s’ha da fare”: dice di un secolo, il Seicento, in cui la sopraffazione era la regola. Oggi? La storia d’Italia degli ultimi anni è storia d’intercettazioni che non si devono ascoltare. È accaduto con la trattativa Stato-mafia e le telefonate di Mancino all’ex presidente della Repubblica Napolitano; oggi succede con l’audio di Tiziano Renzi e del figlio Matteo. L’opinione pubblica non deve sapere. Anche questo dice il clima di un’epoca. Carte e audio di babbo Renzi sono negli uffici della Procura di Napoli. Finiranno nelle mani di chi è pronto a insabbiarli? Alcuni lavorano a questo obiettivo; è una partita a scacchi il cui esito potrebbe essere lo scacco matto alla giustizia e alla ricerca della verità.
Documenti importanti. Deciderà Woodcock quando depositarli… sempre che sia ancora a Napoli vista la tempesta scatenatagli addosso. È il punto decisivo. Il magistrato è nel mirino dei giornali renziani che vogliono delegittimarlo e della prima Commissione del Csm presieduta dall’avvocato Giuseppe Fanfani, il Nipote come lo chiamano nella sua città. Non si tratta qui di mettere l’accento su un certo clima che si respira ad Arezzo – città del piduista Gelli, di cui Fanfani fu sindaco (2006-2014) –, non m’interessa scavare nei meandri putridi. Dico, perché la ragione mi porta in questa direzione, che i conti non tornano – non tornano per niente – se è proprio l’amico, il renziano Fanfani, l’uomo del Pd nel Csm, già legale di papà Boschi, a presiedere la Commissione che s’occupa di Woodcock, pm che indaga su papà Renzi. Ma che gioco è mai questo? Conflitto d’interessi? Se vogliamo essere eleganti diciamo pure così; in realtà è una porcata, un pestaggio ai danni di un pm che rompe le scatole ai potenti. Bisogna screditare Woodcock. È questo che si legge tra le righe di una vicenda torbida (Consip) i cui veri responsabili vengono coperti, ponendo sotto i riflettori – è grande la colpa dei giornaloni – chi ha aperto l’indagine. Sono stati fatti errori, certo, alcuni riconosciuti da Scafarto, altri forse verranno fuori, ma è evidente la spasmodica volontà di punire colui che l’inchiesta ha osato avviarla: perché il caso Consip è il marcio assoluto di questi anni, se è vero che parte del ceto politico, ministri, apparati dello Stato, pezzi di classe dirigente, affaristi, generali dei carabinieri – a diverso titolo – hanno partecipato, con fughe di notizie, inganni, mazzette, a una storia di soldi e potere intorno al più grande appalto d’Europa. L’uomo di cui la politica si serve per “risolvere la grana Woodcock”, è l’avvocato Fanfani, oggi sulla difensiva accusato di aver passato ad arte ai giornali renziani il verbale della procuratrice Lucia Musti. Naturalmente nega. Vedremo.
Sembra sia persona colta appassionata di Dante. Può la cultura mettersi al servizio della politica? Sono i corrotti e i collusi la rovina del Paese: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!” Ecco, non rivolga gli occhi altrove il presidente della prima Commissione del Csm, il marcio non è Woodcock (è pronta la richiesta d’archiviazione dei magistrati romani) ma nei fatti su cui indaga; rilegga Dante, egregio Fanfani: “E se licito m’è, o sommo Giove… son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?”. Io voglio sperare che i suoi occhi, avvocato, siano “giusti” e non guardino da un’altra parte; che vogliano davvero vedere e non occultare i fatti per fedeltà a un partito, una corrente, una cordata. Marco Lillo in Di Padre in figlio “mostra e documenta”. Negare l’evidenza significa dar ragione ancora a Indro Montanelli: proponeva l’abrogazione della quota di membri del Csm nominata dai politici. Il motivo: “Impedire che la politica controlli e blocchi la magistratura in modo indiretto e dalla postazione più alta”.
Il Fatto 23.9.17
Le sberle di Vendola a Pisapia: “Generoso… con se stesso però”

Si erano tanto amati, NichiVendola e Giuliano Pisapia, ma oggi i tempi di Sinistra Ecologia e Libertà e della battaglia contro Letizia Moratti a Milano sembrano molto lontani. Vendola, intervenuto ieri alla festa nazionale di Sinistra Italiana, ha scaricato l’ex compagno di partito: “A Giuliano vorrei consigliare soltanto un po’ di umiltà nel rapporto con questo mondo di sinistra: mi sembra molto generoso, soprattutto nei confronti di se stesso”. E meno male che Vendola era partito con le migliori intenzioni: “Non mi interessa far polemica con nessuno, tantomeno con Pisapia”, aveva detto prima di lanciare la bordata all’ex sindaco di Milano. “Non capisco perché, quando ci si avvicina alle elezioni – ha aggiunto Vendola – si cerca di recuperare una sinistra last minute, dopo che il Pd ha parlato per anni una lingua mescolata, ibrida, a volte antitetica a quella della sinistra”. A Vendola proprio non va giù che parte della sinistra, compresa quella rappresentata da Pisapia, valuti alleanze con il Pd: “Sarebbe come dire che per vivere dobbiamo suicidarci”, ha chiosato l’ex governatore della Puglia.
il manifesto 23.9.17
Rosatellum: un aiuto a destra, un colpo a sinistra
di Massimo Villone

Tanto tuonò. Ma poi piovve? Rimane da vedere, perché il quadro dei sì e dei no al Rosatellum bis è variegato. Il relatore Fiano lancia proclami ottimistici, ma il vasto consenso si riduce a poco più di Pd, FI, Lega, e Alfano.
Nell’urna parlamentare incidenti e imprevisti non sono certo impossibili. a assumiamo per ipotesi che la proposta venga approvata, e si applichi in un contesto come oggi delineato dai sondaggi: sostanzialmente tripolare, con frammenti aggiuntivi.
Vediamo a prima lettura qualche punto essenziale.
Partiamo dall’incentivo maggioritario: circa 36% di seggi uninominali (231 camera, 102 senato), 64% di listini proporzionali.
È ben vero che scompare il premio di maggioranza, vero insulto alla democrazia. Arriva a disonorevole sepoltura il mantra che deve conoscersi il vincitore la sera del voto. Ma la torsione maggioritaria rimane. Il collegio uninominale si vince con un voto in più rispetto all’avversario (first past the post). La distribuzione territoriale dei consensi è decisiva.
Per questo il sistema piace alla Lega, che è sicura di avere un buon pacchetto di eletti nei collegi del Nord, come era già con il Mattarellum. Le eventuali coalizioni di centrosinistra e centrodestra competono più o meno alla pari nel resto del paese, e si dividono gli altri seggi uninominali. M5S rimane a terra, potendo probabilmente vincere solo in una manciata di collegi uninominali, sia per la genetica debolezza nella selezione delle candidature, sia per la dichiarata intenzione di non coalizzarsi con alcuno. La sinistra sparsa non prende nemmeno un collegio.
La chiave di lettura principale del sistema è dunque il rendimento delle forze politiche nella parte uninominale, che in sistema multipolare non si divide per quota tra i soggetti politici, ma avvantaggia quello prevalente nel paese. Qualsiasi maggioritario geneticamente rafforza chi vince, e affossa chi perde. In prospettiva, la proposta è particolarmente favorevole al centrodestra, che parte con il vantaggio della forza leghista al nord nei seggi uninominali. Mentre ha ragione M5S quando dice di riceverne un danno. È così, a meno che uno tsunami di voto popolare sfondi per loro i cancelli di palazzo Chigi.
Il secondo punto è la soglia di sbarramento: 3% per le liste, e 10% per le coalizioni. Questo va bene al Pd, a FI, alla Lega e Alfano. Mentre pone alla sinistra sparsa un dilemma. Correre ognuno per sé, cercando di superare la soglia del 3% per arrivare con un pacchetto di parlamentari con la propria casacca in parlamento, o dar vita a una lista unica, o ancora formare una coalizione puntando a superare la soglia del 10%? Le scelte solitarie vanno evitate.
Il 3% sarebbe calcolato sul 64% della parte proporzionale, e dunque una lista che superasse appena la soglia potrebbe aspirare a una dozzina di deputati: una pattuglia probabilmente irrilevante negli equilibri parlamentari, e buona solo a sistemare qualche pezzo del gruppo dirigente.
Troppo poco in sé, e ancor più per parlare al paese in campagna elettorale. Mentre sarebbe massimizzato l’effetto perverso del voto utile, sia da parte del Pd verso tutto ciò che rimane a sinistra di un eventuale coalizione, sia nello scontro fratricida tra pezzi della sinistra volti all’inseguimento della propria singola sopravvivenza.
Ed è chiaro che – specularmente – il Pd cercherebbe appunto di attrarre in coalizione qualche pezzo della sinistra sparsa più disponibile, per poi scatenare la guerra totale contro tutto il resto. Invero, la proposta sembra essere per il Pd conveniente più per spegnere ogni fuoco alla propria sinistra, che nella competizione con il centrodestra.
La strategia più efficace rimane allora quella di costruire un quarto polo di sinistra unita abbastanza forte da essere – dopo il voto – un interlocutore possibile, e anzi necessario, nei confronti parlamentari sull’indirizzo di governo. E meglio sarebbe per questo avere un impianto proporzionale del sistema elettorale.
Dunque, la battaglia politica rimane essenziale, su questo e sui parlamentari nominati. Non si può far conto sui troppo deboli argini posti dalla Corte costituzionale, e tocca ai cittadini pensosi della salus reipublicae scendere in campo.
La Stampa 23.9.17
Pier Luigi Bersani
“Alleati col Pd se Renzi dice sì alle primarie”
Il fondatore del Mdp: Matteo accetti la sfida con Pisapia, ci vuole un altro centrosinistra
di Andrea Carugati

“Le primarie per la guida del centrosinistra? «Fosse per me le farei». Pisapia potrebbe sfidare Renzi? «Assolutamente sì. Ma con il Mattarellum, che prevede vere coalizioni, non con questa legge che stanno discutendo. E con un’intesa su un programma in discontinuità con i governi di questi anni».
Pier Luigi Bersani a sorpresa apre a una possibile alleanza con il Pd alle prossime politiche. Lo fa davanti a circa 200 militanti di Mdp arrivati a Pontelagoscuro, vicino a Ferrara, per una cena di autofinanziamento. «Noi non siamo la sinistra settaria, non siamo la Cosa rossa. Se c’è un centrosinistra pulito, senza Alfano, come nel Lazio e in Lombardia, noi ci sediamo al tavolo. Ma non credo che Renzi vorrà allearsi con noi. Non ci ha neppure invitato alle feste dell’Unità. E pensare che io nella vita ne ho montate più di quante questi ragazzi ne abbiano frequentate. E oggi la gente non ci va perché non sono più il luogo del confronto politico, anche aspro. Sono diventate una messa cantata, un discorso tra Matteo e Renzi. Rispecchiano un partito che ha rinsecchito i rapporti con pezzi della società».
L’ex segretario del Pd è nettamente contrario all’ipotesi di legge elettorale per due terzi proporzionale e per un terzo maggioritaria che Pd e Forza Italia stanno partorendo: «Viene voglia di prendere il badile, più che Rosatellum a me pare un Verdinellum. Ci saranno ancora più parlamentari nominati rispetto a quelli previsti dalla legge attuale. A me pare un regalo alla destra, una promessa di inciucio. Se il Pd vuole fare sul serio una coalizione serve il Mattarellum che ci hanno bocciato in commissione. Ma noi siamo disposti a votare domani mattina anche una serie legge di tipo tedesco».
Bersani conferma dunque la linea dura contro una legge «figlia di un nuovo patto del Nazareno». Ma non segue la linea di D’Alema, che porta a non votare la legge di Bilancio se il Pd andrà avanti col Rosatellum: «Le due cose sono separate, ma devono convincerci su ciascuna delle due. Noi siamo gente responsabile, e non vogliamo che arrivi la Troika. Spero che non lo voglia neanche il governo. Non si è mai visto che, nelle stesse settimane, in Parlamento si crei una maggioranza sulla legge elettorale e una diversa sulla manovra...».
Sulla legge di Bilancio Bersani ha voglia di trattare con Gentiloni: «Siamo gente di governo, non ci aspettiamo ora e subito la correzione di tutti gli errori degli ultimi anni su fisco, lavoro e sanità. Ma dei segnali che mostrino la consapevolezza che bisogna cambiare strada». «A Gentiloni l’ho detto: “Applicate il modello del Pd che manco ci ascolta?”». E lui cosa ha risposto: «Non ha ancora risposto, immagino ci stia pensando…», sorride Bersani. «Ci sono 6-7 miliardi da trovare. Qualcuno ha parlato di condono sul contante, poi hanno fatto marcia indietro. Bene, perché su quella strada si va contro un muro. Sul lavoro servono investimenti, non sgravi. Stage, tirocini, lavoro a termine, interinale e a chiamata: questa giungla sta umiliando i giovani a va disboscata. Poi ci sono i super ticket da eliminare». Il nodo Pisapia agita gli animi dei militanti. «Sì, ci sono state obiezioni tra i compagni. Ma nessuno mi ha mai chiesto di fare senza Pisapia. La nostra gente vuole una cosa larga, che vada oltre i confini della sinistra. Il 30% degli elettori del centrosinistra non va più a votare, tanti non vengono dalla nostra tradizione, mondi civici che devono farsi avanti. Ce ne fossero di personalità come Pisapia. La figura dell’uomo solo al comando sta tramontando, ci sarà una squadra di vertice plurale». Sulle candidature dei big spiega: «Vogliamo mandare avanti una nuova generazione. Se questi ragazzi mi diranno di dare una mano dal di fuori io sarò contento». L’ex segretario non si aspetta, dopo la probabile sconfitta del Pd in Sicilia, un ribaltone dentro i dem: «Renzi dirà che è solo un voto locale, non si farà nessuna analisi del voto, come al solito. Qualcuno proverà a dire che qualcosa non va, ma a tre mesi dalle politiche nessuno avrà la forza di cambiare segretario. E sarà lui a fare le liste. Franceschini, come i veri democristiani, sa quando è opportuno inabissarsi. I nodi verranno al pettine dopo le politiche». Mpd cosa farà? «Io spero che, con dei rapporti di forza mutati, si possa lavorare a un centrosinistra di nuovo conio dopo le elezioni. Sulla base di un programma che corregga gli errori di questi anni».
Voi potreste allearvi con M5S? «Se mi chiamassero per un incontro in streaming io andrei. Ma con buona educazione, senza ripagarli della stessa moneta. M5S è un partito di centro dei tempi nuovi, guarda un po’ a destra e un po’ a sinistra. L’elezione di Di Maio lo conferma: un giovane vecchio. Le loro primarie dimostrano che non accettano una discussione pubblica al loro interno. Sono irrisolti...».
il manifesto 23.9.17
Ora Renzi pensa anche alle primarie
Verso le elezioni. Mossa possibile per agganciare Pisapia al Pd. Vendola attacca l’ex sindaco: «Un uomo generoso. Soprattutto con se stesso»
di Andrea Colombo

ROMA Legge elettorale, Def (con l’obbligo di maggioranza assoluta), legge di bilancio. L’incrocio è pericoloso, Gentiloni si sta dando da fare per disinnescare le mine. Anzi la mina, perché il rischio, dopo l’affondo di D’Alema mercoledì sera alla festa di Sinistra italiana, si chiama Mdp. Irritati per la legge elettorale che non condividono e che è stata bocciata anche da Pisapia, ancor più contrariati per non essere mai stati consultati sulla finanziaria, gli ex Pd non garantiscono il voto a favore del Def, e ancor meno quelli nel prosieguo della legge di bilancio.
Gentiloni ha posticipato di 24 ore la riunione del Consiglio dei ministri chiamata a definire la Nota di aggiornamento al Def proprio per ripulire il testo, rendendolo il più tecnico e anonimo possibile. Ma in realtà i rischi sono limitatissimi per non dire inesistenti. Una volta svincolati da programmi di riforma, ai quali erano invece collegati negli anni scorsi, la Nota e il Def sono testi essenzialmente tecnici e per Mdp, che certo non mira a provocare una crisi ora, non sarà difficile votarli. I dolori, se ci saranno, arriveranno con la legge di bilancio.
In mezzo, dopo il voto sul Def del 4 ottobre e prima che al Senato parta la legge di bilancio, scoccherà l’ora della verità sulla legge elettorale. Per i travagli della sinistra la risposta all’enigma del voto segreto di Montecitorio sarà determinante.
Sulla carta anche l’approvazione del Rosatellum, sul quale al momento pochissimi azzarderebbero scommesse, non cambierebbe niente. Giuliano Pisapia ha già bocciato la proposta, che del resto ha poco a che vedere sia col Mattarellum che con una vera legge di coalizione.
Le cose però cambierebbero se Renzi offrisse all’ex sindaco di Milano le primarie, ipotesi che starebbe considerando seriamente. «Mi pare difficile dal momento che questa non è una vera legge di coalizione: non prevede né un programma né un candidato comune», commenta dall’interno di Mdp Arturo Scotto e ha certamente ragione. Ma si sa che la fantasia dei politici italiani è illimitata e al segretario del Pd non mancherebbero certo alibi per convocare ugualmente primarie che è sicuro di stravincere.
A quel punto, senza alcun dubbio, Pisapia parteciperebbe e sarebbe poi costretto a entrare nella coalizione. A maggior ragione se dal Pd arrivassero i due segnali che ha chiesto: l’approvazione dello Ius soli e una legge di bilancio in discontinuità (magari lieve) col passato.
Quasi certamente Mdp non lo seguirebbe, anche se un travaso dalla file degli ex Pd a quelle del Campo progressista sarebbe nell’ordine delle cose. Il divorzio aprirebbe le porte a un’alleanza, anzi a una lista comune, con Sinistra italiana.
Il vero elemento che impedisce la formazione di quella lista comune è in realtà proprio Pisapia, e se qualcuno ne avesse dubitato ci ha pensato Nichi Vendola, col suo durissimo attacco di ieri a certificarlo: «Pisapia è un uomo generoso. Soprattutto con se stesso».
«Noi – aggiunge il senatore Peppe De Cristofaro – siamo per una forza alternativa a tutte le altre in campo, aperta all’intera sinistra». Progetto incompatibile con quello di Pisapia, che vuole tenere spalancata la possibilità di un accordo con Renzi per il dopo-elezioni.
Idea che per la verità pare difficilmente conciliabile anche con gli umori di una parte sostanziosa di Mdp. Ieri, ad esempio, Scotto ha invitato Roberto Fico, cancellato dal palco a 5 Stelle di Rimini, alla festa dell’Mdp: «Le porte sono aperte». Una battuta certo, ma che denota uno spirito difficilmente assimilabile al progetto di intesa con Renzi, prima o dopo le elezioni.
Repubblica 23.9.17
Identikit della scuola italiana alla ricerca di nuove ricette contro le disuguaglianze
di Tomaso Montanari

Il saggio di Christian Raimo analizza i punti critici del nostro sistema educativo. Un mondo complesso che continua a essere diviso tra serie A e serie B
“Tutti i banchi sono uguali”. La scuola è l’uguaglianza che non c’è: fin dal titolo l’ultimo libro di Christian Raimo (per Einaudi) è un invito pressante a riprenderci la scuola pubblica: per ristabilirne la funzione costituzionale, che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.
«Nel fiorire di iniziative sulla scuola – ha scritto Walter Tocci – è mancata quella piú utile, cioè la valutazione dei risultati delle politiche seguite dai diversi governi». È esattamente questo lo scopo del libro di Raimo: e il risultato è l’accorata cronaca di un naufragio.
Tutta la riflessione è innervata e sostenuta da dati: facciamo tre esempi. La scuola italiana dell’obbligo è messa più o meno come i nostri acquedotti: perde ciò che dovrebbe portare fino in fondo. L’ultima rilevazione dell’Istat fissa infatti la dispersione scolastica al 14,7%, con picchi del 24% in Sicilia o in Sardegna: la media europea è dell’11%, e stanno peggio di noi solo Spagna, Portogallo, Malta e Romania. Una ricerca Isfol certifica che i figli di genitori privi di titolo di studio proseguono oltre l’obbligo solo nel 44,9% dei casi, mentre per i figli di genitori laureati la percentuale è del 99,1%.
Ma la selezione sociale non è finita: uno studio della Fondazione Einaudi del 2016 dice che la metà di coloro che riescono a continuare e si iscrivono alle superiori prende ripetizioni private. Un giro d’affari da 800 milioni l’anno, per il 90% al nero: ma soprattutto un potentissimo fattore di discriminazione economica. E chi non ce la fa entra nella categoria dei neet ( not in education employment or training) che ingoia il 25,7% dei giovani dai 15 ai 29 anni, ossia 2,3 milioni di persone. Non è una scuola per poveri, quella italiana: perché, come ha spiegato Roberto Contessi, autore di Scuola di classe (Laterza) «non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, e si limita a certificarle ». Il che non vuol dire soltanto, commenta Raimo, «che il figlio del notaio farà il notaio e quello del contadino il contadino, ma che si riprodurranno disuguaglianze tra Nord e Sud, città e aree interne, laureati e non laureati, attraverso processi di selezione interna e di legittimazione di questo classismo — vedi l’incidenza del contesto famigliare sull’abbandono scolastico o vedi la distinzione per esempio tra licei e istituti tecnici e professionali che rimane il più forte marcatore di una formazione di serie A e una di serie B».
È questo il risultato di una stagione in cui i consulenti del ministero per l’Istruzione sono stati pescati tra gli esperti di “meritocrazia” delle multinazionali. Tutto è cominciato, suggerisce Raimo citando il pedagogista Piero Lucisano, «quando abbiamo cercato di mostrare che un buon sistema formativo produce un ritorno economico ». Fino ad arrivare a tappe forzate a un tempo — il nostro — in cui l’alternanza scuola- lavoro fornisce al mercato una gran massa di mano d’opera gratuita senza alcuna prospettiva di avere in cambio una qualche formazione: fa una certa impressione apprendere che diecimila studenti italiani vengano inviati ogni anno nei fast food di McDonald’s. In Italia, insomma, lo scopo della scuola non è più quello, assegnatole già da Condorcet nel Settecento, di «diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare». No, oggi è quello teorizzato dall’economista americano Kenneth Arrow: «L’istruzione superiore non aumenta né la conoscenza né la socializzazione. Al contrario, serve come dispositivo di screening, in quanto individua persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro ».
È da qui che dovrebbe ricominciare una qualunque sinistra italiana: per poi magari occuparsi anche dell’università, alla quale si iscrive ormai il «5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati». Ma qua ci vorrebbe un altro libro: lucido e duro come questo.
Repubblica 23.9.17
Ai bianchi dieci euro in più la paga decisa in base alla pelle
di Alessia Candito

COSENZA. Sfruttavano i braccianti per oltre 10 ore al giorno nei campi. Li costringevano a lavorare senza guanti, né protezioni. E senza dar loro neanche da bere, se non una bottiglietta d’acqua a mezzogiorno. La paga era per tutti da fame. Ma per i lavoratori africani di più.
«Ci dicevano che noi siamo neri, loro sono più bianchi di noi quindi — racconta uno — hanno diritto a una paga maggiore», sui dieci euro in più. Per questo, i fratelli Francesco e Giuseppe Arlia Ciommo di Amantea, nel Cosentino, sono finiti ai domiciliari con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravati dalla discriminazione razziale. Per mesi — ha svelato l’inchiesta coordinata dal procuratore capo di Paola, Pierpaolo Bruni — i due hanno sfruttato i richiedenti asilo, ospiti di un centro Spar vicino al loro agriturismo, costringendoli ad accettare condizioni anche peggiori di quelle imposte ai braccianti rumeni o indiani.
«Mangiavamo per terra, come animali» racconta uno dei ragazzi ai carabinieri di Paola. I 25 euro promessi, a fine giornata non sempre arrivavano. Ma nessuno — dicono — poteva fiatare perché «minacciavano di chiamare un loro fratello poliziotto per farci espellere.
Di loro avevamo paura, perché siamo tutti richiedenti asilo».
Repubblica 23.9.17
Carlotta Sami.
La portavoce dell’Onu per i rifugiati: l’ultima tragedia dimostra che soltanto aprire vie legali ferma le stragi
“Uno scandalo europeo il barcone di migranti alla deriva per 7 giorni”
di Alessandra Ziniti

Viaggi Nel Terrore
«Abbiamo verificato anche noi. Quella barca con i suoi cento dispersi è rimasta alla deriva una settimana. Un orrore devastante». Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, esprime tutta la sua emozione per l’ultima tragedia del mare sulla rotta libica.
Sami, cento morti pesano sugli accordi che hanno portato a una diminuzione delle partenze, ma anche a un disimpegno delle navi delle ong?
«È un evento tragico. Noi abbiamo il massimo rispetto per le decisioni delle ong, se hanno lasciato quell’area vuol dire che hanno ritenuto non ci fossero più le condizioni per restare. Questo evento così drammatico ci dice che non si deve abbassare la guardia perché i flussi sono imprevedibili, in Libia ci sono decine di migliaia di persone che vogliono solo partire».
E che invece rischiano di rimanere intrappolate nei centri di detenzione, visto che gli accordi con il governo di Al Serraji sembrano essere riusciti a frenare le partenze.
«Intanto vorrei dire che qualsiasi accordo che abbia il solo scopo di frenare i flussi non è sostenibile nel tempo, perché il network dei trafficanti trova sempre vie alternative. La gente in questo momento è intrappolata in Libia semplicemente perché continua ad arrivare. E allora bisogna salvare la vita di chi è già lì, ma per evitare le partenze bisogna lavorare nei Paesi di origine di migranti e rifugiati e far sì che possano entrare in Europa per le vie legali».
Ma sulla strada dei corridoi umanitari fino ad ora l’Europa ha sempre nicchiato.
«È l’unica percorribile. Abbiamo richiesto all’Europa di accogliere, con canali legali, 40 mila persone dall’Africa, e di facilitare i meccanismi per il ricongiungimento delle famiglie. Nel recente incontro di Parigi, ma anche dalla cancelliera Merkel, abbiamo ottenuto l’assicurazione che Germania, Francia e Italia si impegneranno a sostenere il nostro lavoro in questo senso, ma l’impegno deve diventare concreto. Nel Corno d’Africa, in Libia, in Egitto, ci sono almeno 360 mila persone in situazioni di alta vulnerabilità. Se non riusciamo a farli arrivare in Europa con i corridoi umanitari rischiamo di farli finire nelle mani dei trafficanti».
La vostra proposta parte dal presupposto che l’Europa voglia accogliere tutta questa gente mentre le strategie che i governi mettono in campo mirano nettamente a una diminuzione dei flussi «L’Europa deve capire che, se anche i numeri si riducono, nessuna rotta può essere chiusa senza prevedere vie legali, anche perché chi varca confini per chiedere asilo non commette alcun reato. Il nostro non è un punto di vista ideologico, ma si basa sul diritto internazionale. La Costituzione italiana prevede il diritto d’asilo e nessun Paese può venire meno alla convenzione di Ginevra ».
C’è grande preoccupazione per le condizioni dei migranti soccorsi dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione. Qual è la situazione lì?
«Noi lavoriamo in Libia dal 1991. L’ Alto commissario, in visita nei centri di detenzione a maggio, ha rilevato una situazione drammatica. Noi ci opponiamo nettamente alla detenzione, abbiamo accesso ai 29 centri della Libia occidentale e ai 14 di quella orientale e posso assicurare che non è facile neanche parlare con le persone detenute, oltre cinquemila, alle quali forniamo assistenza medica e documenti e per le quali cerchiamo di negoziare la libertà. Siamo già riusciti a ottenere la liberazione di oltre mille persone in 18 mesi, le più fragili, ma adesso abbiamo bisogno di aprire un centro di accoglienza per chi è rimesso in libertà. La nostra missione in Libia è questa: salvare vite e alleviare sofferenze cercando alternative alla detenzione e soluzioni per i rifugiati».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
“I trafficanti sono più veloci di qualsiasi blocco. La Ue accolga subito 40mila persone”
FOTO: © MATHIEU WILLCOCKS/ MOAS
A sinistra, migranti eritrei stipati nella stiva di una piccola imbarcazione di legno soccorsa nel Mediterraneo. A sinistra, Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati
il manifesto 23.9.17
Il 30 settembre manifestazione nazionale della Cgil contro la violenza maschile
di Susanna Camusso

Riprendiamoci la libertà! Con questo slogan la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso invita tutte le donne a scendere nelle piazze italiane sabato 30 settembre contro la violenza maschile sulle donne.
Per la Cgil «il linguaggio utilizzato dai media e il giudizio su chi subisce violenza, su come si veste o si diverte, rappresenta l’ennesima aggressione alle donne. Così come il ricondurre questi drammi a questioni etniche, religiose, o a numeri statistici, toglie senso alla tragedia e al silenzio di chi l’ha vissuta».
Da qui l’appello «agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura, alle forze dell’ordine e al mondo della scuola per un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura e nell’assunzione di responsabilità».
Volete togliere senso ai numeri che parlano di un dramma. Non sapete quanto pesa denunciare e quale scelta sia. Ogni denuncia porta con sè la nuova violenza di cronache morbose, pornografiche, che trasformano le vittime in colpevoli. Non sapete dare un senso al silenzio che le donne scelgono, o a cui sono costrette e lo occultate nelle statistiche che segnano una lieve diminuzione delle denunce, seppellendo nei numeri il peso permanente dellaviolenza, degli stupri, dei femminicidi.
Avete tolto senso alle parole quando trasformate la violenza contro le donne in un conflitto etnico, razziale, religioso. Avete tolto senso alle parole quando difendete il vostro essere uomini, senza pensare all’ulteriore violenza cheinfliggete: donne nuovamente vittime, oggetto dei vostri conflitti di supremazia (…).
Siamo uscite dal silenzio, abbiamo detto «se non ora quando» ed ancora «non una di meno», abbiamo denunciato i diritti negati con la piattaforma Cedaw. Abbiamo colorato piazze, città, la rete, le nostre vite perché vogliamo vivere ed essere libere.
Reagiamo con la forza della nostra libertà all’insopportabile oppressione del giudizio su come ci vestiamo o ci divertiamo. Ci vogliamo riprendere il giorno e la notte, perché non c’è un «mostro» o «un malato» in agguato, ma solo chi vuole il possesso del nostro corpo, della nostra mente, della nostra libertà. Non ci sono mostri o malati, ma solo il rifiuto di interrogarsi, il chiamarsi fuori che alla fine motiva e perpetua la violenza.
Le parole sono armi, sono pesanti lasciano tracce profonde ed indelebili, determinano l’humus in cui si coltiva la «legittimità» della violenza, la giustificazione dell’inversione da vittima a colpevole.
Ci siamo e continueremo ad esserci per riaffermare che la violenza contro le donne è una sconfitta per tutti e ci saremo ancora perché vogliamo atti e risposte:
    La convenzione di Istanbul è citata, ma non applicata, farlo! –
    La depenalizzazione dello stalking, va cancellata – ora!
    La cultura del rispetto si costruisce a partire dalla scuola, dal senso delle parole, si chiama educazione!
    Agli operatori della comunicazione tutti, chiediamo che ci si interroghi e si decida sul senso dell’informazione, sul peso delle parole ed esigiamo la condanna di chi si bea della cronaca morbosa.
    Ancora una volta risorse e mezzi per i centri antiviolenza, case sicure, e norme certe per l’inserimento al lavoro.
    Vogliamo che venga diffuso e potenziato il servizio di pubblica utilità telefonico contro la violenza sessuale e di genere, adesso!
    Alla magistratura e alle forze dell’ordine, che venga prima la parola della donna in pericolo, della donna abusata, che non si sottovaluti, che non si rinvii, che si dia certezza e rapidità nelle risposte e nella protezione.
All’appello hanno già aderito:
Elisabetta Addis, Roberta Agostini, Antonella Bellutti, Sandra Bonzi, Luciana Castellina, Gabriella Carnieri Moscatelli, Francesca Chiavacci, Franca Cipriani, Daria Colombo, Geppi Cucciari, Lella Costa, Alessandra Kustermann, Maria Rosa Cutrufelli, Diana De Marchi, Loredana De Petris, Alessandra Faiella, Angela Finocchiaro, Francesca Fornario, Maria Grazia Giannichedda, Marisa Guarneri, Cecilia Guerra, Anna Guri, Francesca Koch, Simona Lanzoni, Loredana Lipperini, Maura Misiti, Rossella Muroni, Bianca Nappi, Giusi Nicolini, Cristina Obber, Ottavia Piccolo, Bianca Pomeranzi, Norma Rangeri, Rebel Network, Rosa Rinaldi, Chiara Saraceno, Linda Laura Sabbadini, Assunta Sarlo, Stefania Spanò – Anarkikka, Monica Stambrini, Paola Tavella, Vittoria Tola, Livia Turco, Chiara Valentini, Elisabetta Vergani.
Il Fatto 23.9.17
“Il brigatista che rapì Moro ha collaborato con i Servizi”
Rivelazioni - Valerio Morucci, che fece da “postino” durante la prigionia, nel 1990 preparò per il Sisde un rapporto sulle lettere del presidente Dc
Gli ex brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, tra i responsabili del sequestro Moro
Il generale Mario Mori, generale dell’Arma e poi capo del Sisde – Ansa
di Gianni Barbacetto

Brigatisti rossi e 007: Valerio Morucci, capo della colonna romana delle Br, è stato un collaboratore del Sisde, il servizio segreto civile. La notizia è emersa nel corso delle audizioni, davanti alla Commissione Moro, di Adriana Faranda, brigatista e compagna di Morucci. È stato il presidente della commissione parlamentare, Giuseppe Fioroni, a riferire, nelle sue domande a Faranda, “che il Sisde, con cui Valerio Morucci collaborava a quel tempo, gli chiese che cosa pensasse del ritrovamento in via Monte Nevoso delle fotocopie del memoriale Moro, nel 1990”. Stupita la risposta di Faranda: “Valerio collaborava con il Sisde? È una cosa che detta così mi lascia sgomenta. Forse gli avranno chiesto una consulenza”.
Secondo quanto risulta al Fatto, i membri della Commissione Moro hanno effettivamente potuto prendere visione di un documento che prova la collaborazione di Morucci con il Sisde: è il rapporto, da lui stilato per il servizio nel novembre 1990, sul memoriale Moro che era appena stato ritrovato in un appartamento delle Br in via Monte Nevoso a Milano.
Chi ha potuto leggerlo lo definisce una consulenza molto tecnica, sviluppata in modo serio ed esaustivo, che non aggiunge fatti nuovi sul sequestro del presidente della Democrazia cristiana, ma sviluppa un ragionamento sulla sorte degli originali del memoriale Moro, mai trovati. Morucci aveva avuto un ruolo militare importante nell’azione di via Fani, il 16 marzo 1978, quando Moro era stato sequestrato dal commando Br: è lui che con una mitraglietta spara all’autista del presidente, l’appuntato Domenico Ricci, e al caposcorta, il maresciallo Oreste Leonardi. Poi, durante i 55 giorni della sua prigionia, Morucci si limita a fare da “postino” delle lettere di Moro: 36, ripete più volte nel suo rapporto, mentre quelle note finora sono solo 28.
Il Sisde nel 1990 era diretto dal prefetto ed ex vicecomandante operativo del Ros carabinieri, Mario Mori. In quell’anno Morucci era detenuto in carcere e già dissociato dalla lotta armata. Sarà scarcerato quattro anni dopo, nel 1994. Il documento messo a disposizione della Commissione Moro prova che nel 1990 il Sisde ha chiesto una consulenza a Morucci e lui l’ha realizzata. Di più, da quel solo documento non è possibile ricavare: non possiamo ancora sapere se è stato un contributo unico o se faceva parte di una collaborazione continuata e organica. In questo secondo caso, non sappiamo quando la collaborazione potrebbe essere iniziata (nel 1990 o prima?), fino a quando è durata, su quali contenuti si è sviluppata e con quali forme di compenso (in denaro o in trattamento carcerario?). Secondo quanto riferito da Fioroni in Commissione Moro, “Morucci, parlando in qualità di collaboratore del Sisde, si disse non sicuro che Gallinari avesse distrutto gli originali delle lettere e dei documenti di Moro. Morucci non vedeva ragione per distruggere quelle carte”.
Il cosiddetto memoriale Moro è infatti l’insieme delle dichiarazioni e degli appunti del presidente della Dc durante i 55 giorni della sua prigionia nel “carcere” delle Brigate rosse. Una parte del memoriale, di una cinquantina di pagine trascritte a macchina dai brigatisti, fu ritrovata nell’ottobre 1978 nell’appartamento di via Monte Nevoso. Nel 1990, durante la ristrutturazione dello stesso appartamento, gli operai trovarono casualmente, dietro un pannello sotto una finestra, 229 pagine fotocopiate degli appunti manoscritti di Moro. Gli originali, invece, secondo alcuni brigatisti sarebbero stati bruciati da Prospero Gallinari in un casale di Moiano, in Umbria. Effettivamente alcuni documenti, ritenuti inutili, furono da lui distrutti, ma è improbabile che tra questi ci fossero anche i quaderni scritti a mano da Moro. Non c’era ragione alcuna, infatti, per distruggere gli originali e conservare la fotocopia.
Lo stupore mostrato da Adriana Faranda a proposito della collaborazione di Morucci sembra essere in parziale contraddizione con il fatto che la stessa Faranda abbia ammesso di essere stata contattata dal Sisde. Replicando a una domanda della Commissione, la brigatista ha infatti risposto: “Imposimato mi fece incontrare due funzionari del Sisde, ma io rifiutai di proseguire il rapporto. Uno di loro mi disse che aveva fatto perquisire casa mia”. Ferdinando Imposimato è stato dapprima magistrato (e come giudice istruttore si è occupato anche del sequestro Moro), poi dal 1987 è stato parlamentare eletto nelle liste del Pci e del Pds. In entrambi i ruoli, è perlomeno irrituale che abbia fatto da intermediario tra servizi segreti e brigatisti.
Repubblica 23.9.17
L’intervista.
Il regista dirigerà la serie televisiva “Esterno notte”
Marco Bellocchio e il caso Moro “Racconto la furia di brigatisti disumani”
di Arianna Finos

ROMA «Ci pensavo da tempo, ma l’intenzione è stata sollecitata dal bell’articolo su Repubblica con la magnifica foto di Aldo Moro in giacca e cravatta tra i bagnanti a Maccarese, immagine che sintetizza l’Italia di allora». L’intenzione di Marco Bellocchio è di girare la sua prima serie televisiva, Esterno notte, sul sequestro di Moro, «un’idea seria e concreta che ancora non ha padrini o produttori».
Dopo il film su Buscetta Il traditore («inizieremo le riprese in primavera»), Bellocchio punta alla serie che sarà «una sorta di controcampo rispetto a Buongiorno, notte: quel film era ambientato dentro la prigione di Moro, questo all’esterno». L’idea è partire dalla strage e dal sequestro, per poi tornare nella prigione solo nell’epilogo tragico. «Durante questi 55 giorni saremo sempre fuori, con un’infinità di personaggi, anche grotteschi e tragici. I familiari, i preti, il papa, i brigatisti in prigione e fuori, le forze dell’ordine, i servizi segreti». Spiega, Bellocchio: «Saranno le storie, più private che pubbliche, di chi cercava di salvare Moro e chi invece faceva solo finta, dei tentativi di ingerenza mafiosa, di Cossiga che nella disperazione cerca la consulenza di indovini all’estero ». E poi il grande teatro mediatico: milioni di spettatori televisivi, i giornali aumentano le tirature. Pronostici, preghiere, gli appelli a San Pietro «per la vita di chi, come Cristo, doveva morire perché nulla cambiasse nella politica e nella mente degli italiani».
La forma giusta di Esterno notte è quella della serie: «Non seguo la moda, né cerco di acchiappare un lavoro. Ma questi 55 giorni del sequestro hanno bisogno di una scansione narrativa che non può essere contenuta in un film». «Pur essendo vecchietto — sorride Bellocchio, 77 anni — guardo le serie, senza esserne un divoratore. So che l’estetica della serie non è semplicemente una dilatazione del cinematografo e poiché mi piacciono le sfide nuove, voglio provarci». Ovviamente, a modo suo, «la mia serie sarà l’esatto contrario di un film come
Il caso Moro del compianto Giuseppe Ferrara, nel senso che ci potranno essere intrighi, ma la serie seguirà soprattutto il mio stile e la mia fantasia».
Mette in conto le polemiche: «È chiaro che si affronteranno cose già toccate in Buongiorno, notte: allora ci furono reazioni entusiastiche, ma anche critiche di chi rivendicava ideologicamente una serie di ragioni, che io trovavo folli, da parte dei brigatisti. Fui anche attaccato da sinistra perché i brigatisti “non dovevano essere trattati come imbecilli”. In realtà erano trattati come pazzi pericolosi, che è diverso».
Le serie che piacciono allo spettatore selettivo Bellocchio: «Di recente Big little lies, con Nicole Kidman, le tre stagioni di Fargo: c’è una capacità di sceneggiatura e una regia forte, non si tratta semplicemente di mettere insieme delle immagini. Penso anche alle sei puntate di La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, che era un’idea originale. E devo dire che, pur nella sua esuberanza, ho trovato piuttosto originale
The Young Pope. Sorrentino, rispettando anche le regole dalla serie, è riuscito ad esprimersi con il proprio stile, la propria visione. Spesso, senza fare nomi, ci sono serie soprattutto italiane in cui i registi sono interscambiabili. Mi piace l’idea di poter fare una serie non tanto per dire “sono l’autore”, ma per dare a questa nuova forma di rappresentazione la massima originalità».
Marco Bellocchio spiega la fascinazione personale che lo spinge a tornare sulla figura di Moro: «Prima di tutto è una riconciliazione con mio padre, a cui infatti dedicai il film. Non che io lo abbia contrastato, ma mi sembrava molto distante», racconta l’autore di I pugni in tasca. «Con il passare del tempo ho capito, se non di somigliarli, almeno di riconoscergli qualità di attenzione e protezione umane di cui non mi ero accorto in gioventù. Non condivido la sua moderazione conservatrice: pur essendo ormai un pacifico anarchico sono sempre un po’ contro il padre, l’autorità oppressiva. Ma, come in Buongiorno, notte, per me si tratta di riconoscere la follia disumana di coloro che in nome di un’idea, che poi si è dimostrata fasulla e assurda, si permettono di ammazzare delle persone a freddo. Questo era al centro di Buongiorno, notte, in questo senso era la ricerca, attraverso la passeggiata finale di Moro e la presa di consapevolezza della “carceriera”, una falsificazione della storia che mi è stata rimproverata da tanti ideologi del cavolo». Non abbastanza da impedirgli di rilanciare, ora, la serie: «Se un argomento si ripete nella tua mente significa che devi seguirlo. Io voglio tornare a parlare di Moro, in una forma nuova, con tante novità».
Il Fatto 23.9.17
“Esterno notte”: gli ultimi 55 giorni nel “controcampo” di Bellocchio
Il regista - Tornerà a occuparsi del sequestro 15 anni dopo “Buongiorno, notte”
di Federico Pontiggia

“Marco Bellocchio è insofferente per le cose che non si sanno e, insieme, per la dietrologia: non sopporta l’ipocrisia di un Paese senza verità, per questo ritorna sul caso Moro”. Il regista piacentino ritrova il politico democristiano: dopo Buongiorno, notte del 2003 si occuperà ancora dei 55 giorni del sequestro, della prigionia e dell’assassinio dello statista con una serie-tv, intitolata Esterno notte, che vuole essere “il controcampo di quel film”.
C’è chi non è per nulla sorpreso: che Buongiorno, notte non fosse un unicum ma un continuum nella sua filmografia, lo studioso Anton Giulio Mancino lo sapeva bene, tanto da dare alle stampe nel 2014, per i tipi di Bietti, un saggio po(n)deroso di 380 pagine: La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Bellocchio. All’epoca un azzardo critico, o almeno una vertiginosa ermeneutica, ora non più: là dove il focus era sul carcerato (Roberto Herlitzka) e i carcerieri (Maya Sansa, Luigi Lo Cascio), “stavolta i protagonisti – rivela Bellocchio – saranno gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro, la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati. Protagonisti celebri, ma anche sconosciuti”.
Apparentemente strappato a un copione, quell’Esterno notte non solo riecheggia il Buongiorno, ma indica una tensione centrifuga dal civico 8 di via Camillo Montalcini, una visione allargata e liquida del caso Moro proiettata sulle vite “pubbliche e private di questi personaggi che si prodigarono di far finta di salvarlo, boicottando apertamente o segretamente ogni trattativa, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare dei sensitivi che potessero dare delle informazioni utili sulla prigione e altro ancora”.
Il focus, anticipa il 77enne maestro, sarà sul trattamento mediatico, nonché sulle ricadute sociologiche e, di più, antropologiche della vicenda: dal “grande teatro televisivo durante quei 55 giorni, con milioni di spettatori attaccati alla tv” ai “giornali che aumentarono le tirature, vedi il boom di Repubblica”; dai “pronostici che tutti facevano pubblicamente o in cuor loro” alle “preghiere nelle chiese per la salvezza del presidente e gli appelli da San Pietro per la vita di colui che, come Cristo, ‘doveva morire’”.
Morire – sottolinea amaramente – “perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma soprattutto nella mente degli italiani”.
Prima volta di Bellocchio nella serialità televisiva, Esterno notte sarà sul set nel 2018, 40° anniversario della morte di Moro, e seguirà le riprese di un altro importante progetto: Il traditore, lungometraggio sul mafioso e collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. Mancino li tiene insieme: “Marco ha spezzato il muro di silenzio sulle complicità e le aderenze per quei ‘compagni che sbagliano’, sull’intesa consequenzialità tra Sessantotto e lotta armata. In un certo senso ha tradito, venendo assai criticato, se non osteggiato. Buscetta, egualmente, ha tradito, ha fatto servizio civile, aiutando Falcone, svelando l’organigramma della mafia”.
Il Fatto 23.9.17
“Esterno notte”: gli ultimi 55 giorni nel “controcampo” di Bellocchio
Il regista - Tornerà a occuparsi del sequestro 15 anni dopo “Buongiorno, notte”
di Federico Pontiggia

“Marco Bellocchio è insofferente per le cose che non si sanno e, insieme, per la dietrologia: non sopporta l’ipocrisia di un Paese senza verità, per questo ritorna sul caso Moro”. Il regista piacentino ritrova il politico democristiano: dopo Buongiorno, notte del 2003 si occuperà ancora dei 55 giorni del sequestro, della prigionia e dell’assassinio dello statista con una serie-tv, intitolata Esterno notte, che vuole essere “il controcampo di quel film”.
C’è chi non è per nulla sorpreso: che Buongiorno, notte non fosse un unicum ma un continuum nella sua filmografia, lo studioso Anton Giulio Mancino lo sapeva bene, tanto da dare alle stampe nel 2014, per i tipi di Bietti, un saggio po(n)deroso di 380 pagine: La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Bellocchio. All’epoca un azzardo critico, o almeno una vertiginosa ermeneutica, ora non più: là dove il focus era sul carcerato (Roberto Herlitzka) e i carcerieri (Maya Sansa, Luigi Lo Cascio), “stavolta i protagonisti – rivela Bellocchio – saranno gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro, la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati. Protagonisti celebri, ma anche sconosciuti”.
Apparentemente strappato a un copione, quell’Esterno notte non solo riecheggia il Buongiorno, ma indica una tensione centrifuga dal civico 8 di via Camillo Montalcini, una visione allargata e liquida del caso Moro proiettata sulle vite “pubbliche e private di questi personaggi che si prodigarono di far finta di salvarlo, boicottando apertamente o segretamente ogni trattativa, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare dei sensitivi che potessero dare delle informazioni utili sulla prigione e altro ancora”.
Il focus, anticipa il 77enne maestro, sarà sul trattamento mediatico, nonché sulle ricadute sociologiche e, di più, antropologiche della vicenda: dal “grande teatro televisivo durante quei 55 giorni, con milioni di spettatori attaccati alla tv” ai “giornali che aumentarono le tirature, vedi il boom di Repubblica”; dai “pronostici che tutti facevano pubblicamente o in cuor loro” alle “preghiere nelle chiese per la salvezza del presidente e gli appelli da San Pietro per la vita di colui che, come Cristo, ‘doveva morire’”.
Morire – sottolinea amaramente – “perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma soprattutto nella mente degli italiani”.
Prima volta di Bellocchio nella serialità televisiva, Esterno notte sarà sul set nel 2018, 40° anniversario della morte di Moro, e seguirà le riprese di un altro importante progetto: Il traditore, lungometraggio sul mafioso e collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. Mancino li tiene insieme: “Marco ha spezzato il muro di silenzio sulle complicità e le aderenze per quei ‘compagni che sbagliano’, sull’intesa consequenzialità tra Sessantotto e lotta armata. In un certo senso ha tradito, venendo assai criticato, se non osteggiato. Buscetta, egualmente, ha tradito, ha fatto servizio civile, aiutando Falcone, svelando l’organigramma della mafia”.

Repubblica 23.9.17
L’intervista.
Il regista dirigerà la serie televisiva “Esterno notte”
Marco Bellocchio e il caso Moro “Racconto la furia di brigatisti disumani”
di Arianna Finos

ROMA «Ci pensavo da tempo, ma l’intenzione è stata sollecitata dal bell’articolo su Repubblica con la magnifica foto di Aldo Moro in giacca e cravatta tra i bagnanti a Maccarese, immagine che sintetizza l’Italia di allora». L’intenzione di Marco Bellocchio è di girare la sua prima serie televisiva, Esterno notte, sul sequestro di Moro, «un’idea seria e concreta che ancora non ha padrini o produttori».
Dopo il film su Buscetta Il traditore («inizieremo le riprese in primavera»), Bellocchio punta alla serie che sarà «una sorta di controcampo rispetto a Buongiorno, notte: quel film era ambientato dentro la prigione di Moro, questo all’esterno». L’idea è partire dalla strage e dal sequestro, per poi tornare nella prigione solo nell’epilogo tragico. «Durante questi 55 giorni saremo sempre fuori, con un’infinità di personaggi, anche grotteschi e tragici. I familiari, i preti, il papa, i brigatisti in prigione e fuori, le forze dell’ordine, i servizi segreti». Spiega, Bellocchio: «Saranno le storie, più private che pubbliche, di chi cercava di salvare Moro e chi invece faceva solo finta, dei tentativi di ingerenza mafiosa, di Cossiga che nella disperazione cerca la consulenza di indovini all’estero ». E poi il grande teatro mediatico: milioni di spettatori televisivi, i giornali aumentano le tirature. Pronostici, preghiere, gli appelli a San Pietro «per la vita di chi, come Cristo, doveva morire perché nulla cambiasse nella politica e nella mente degli italiani».
La forma giusta di Esterno notte è quella della serie: «Non seguo la moda, né cerco di acchiappare un lavoro. Ma questi 55 giorni del sequestro hanno bisogno di una scansione narrativa che non può essere contenuta in un film». «Pur essendo vecchietto — sorride Bellocchio, 77 anni — guardo le serie, senza esserne un divoratore. So che l’estetica della serie non è semplicemente una dilatazione del cinematografo e poiché mi piacciono le sfide nuove, voglio provarci». Ovviamente, a modo suo, «la mia serie sarà l’esatto contrario di un film come
Il caso Moro del compianto Giuseppe Ferrara, nel senso che ci potranno essere intrighi, ma la serie seguirà soprattutto il mio stile e la mia fantasia».
Mette in conto le polemiche: «È chiaro che si affronteranno cose già toccate in Buongiorno, notte: allora ci furono reazioni entusiastiche, ma anche critiche di chi rivendicava ideologicamente una serie di ragioni, che io trovavo folli, da parte dei brigatisti. Fui anche attaccato da sinistra perché i brigatisti “non dovevano essere trattati come imbecilli”. In realtà erano trattati come pazzi pericolosi, che è diverso».
Le serie che piacciono allo spettatore selettivo Bellocchio: «Di recente Big little lies, con Nicole Kidman, le tre stagioni di Fargo: c’è una capacità di sceneggiatura e una regia forte, non si tratta semplicemente di mettere insieme delle immagini. Penso anche alle sei puntate di La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, che era un’idea originale. E devo dire che, pur nella sua esuberanza, ho trovato piuttosto originale
The Young Pope. Sorrentino, rispettando anche le regole dalla serie, è riuscito ad esprimersi con il proprio stile, la propria visione. Spesso, senza fare nomi, ci sono serie soprattutto italiane in cui i registi sono interscambiabili. Mi piace l’idea di poter fare una serie non tanto per dire “sono l’autore”, ma per dare a questa nuova forma di rappresentazione la massima originalità».
Marco Bellocchio spiega la fascinazione personale che lo spinge a tornare sulla figura di Moro: «Prima di tutto è una riconciliazione con mio padre, a cui infatti dedicai il film. Non che io lo abbia contrastato, ma mi sembrava molto distante», racconta l’autore di I pugni in tasca. «Con il passare del tempo ho capito, se non di somigliarli, almeno di riconoscergli qualità di attenzione e protezione umane di cui non mi ero accorto in gioventù. Non condivido la sua moderazione conservatrice: pur essendo ormai un pacifico anarchico sono sempre un po’ contro il padre, l’autorità oppressiva. Ma, come in Buongiorno, notte, per me si tratta di riconoscere la follia disumana di coloro che in nome di un’idea, che poi si è dimostrata fasulla e assurda, si permettono di ammazzare delle persone a freddo. Questo era al centro di Buongiorno, notte, in questo senso era la ricerca, attraverso la passeggiata finale di Moro e la presa di consapevolezza della “carceriera”, una falsificazione della storia che mi è stata rimproverata da tanti ideologi del cavolo». Non abbastanza da impedirgli di rilanciare, ora, la serie: «Se un argomento si ripete nella tua mente significa che devi seguirlo. Io voglio tornare a parlare di Moro, in una forma nuova, con tante novità».


Il Fatto 23.9.17
“Il brigatista che rapì Moro ha collaborato con i Servizi”
Rivelazioni - Valerio Morucci, che fece da “postino” durante la prigionia, nel 1990 preparò per il Sisde un rapporto sulle lettere del presidente Dc
Gli ex brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, tra i responsabili del sequestro Moro
Il generale Mario Mori, generale dell’Arma e poi capo del Sisde – Ansa
di Gianni Barbacetto

Brigatisti rossi e 007: Valerio Morucci, capo della colonna romana delle Br, è stato un collaboratore del Sisde, il servizio segreto civile. La notizia è emersa nel corso delle audizioni, davanti alla Commissione Moro, di Adriana Faranda, brigatista e compagna di Morucci. È stato il presidente della commissione parlamentare, Giuseppe Fioroni, a riferire, nelle sue domande a Faranda, “che il Sisde, con cui Valerio Morucci collaborava a quel tempo, gli chiese che cosa pensasse del ritrovamento in via Monte Nevoso delle fotocopie del memoriale Moro, nel 1990”. Stupita la risposta di Faranda: “Valerio collaborava con il Sisde? È una cosa che detta così mi lascia sgomenta. Forse gli avranno chiesto una consulenza”.
Secondo quanto risulta al Fatto, i membri della Commissione Moro hanno effettivamente potuto prendere visione di un documento che prova la collaborazione di Morucci con il Sisde: è il rapporto, da lui stilato per il servizio nel novembre 1990, sul memoriale Moro che era appena stato ritrovato in un appartamento delle Br in via Monte Nevoso a Milano.
Chi ha potuto leggerlo lo definisce una consulenza molto tecnica, sviluppata in modo serio ed esaustivo, che non aggiunge fatti nuovi sul sequestro del presidente della Democrazia cristiana, ma sviluppa un ragionamento sulla sorte degli originali del memoriale Moro, mai trovati. Morucci aveva avuto un ruolo militare importante nell’azione di via Fani, il 16 marzo 1978, quando Moro era stato sequestrato dal commando Br: è lui che con una mitraglietta spara all’autista del presidente, l’appuntato Domenico Ricci, e al caposcorta, il maresciallo Oreste Leonardi. Poi, durante i 55 giorni della sua prigionia, Morucci si limita a fare da “postino” delle lettere di Moro: 36, ripete più volte nel suo rapporto, mentre quelle note finora sono solo 28.
Il Sisde nel 1990 era diretto dal prefetto ed ex vicecomandante operativo del Ros carabinieri, Mario Mori. In quell’anno Morucci era detenuto in carcere e già dissociato dalla lotta armata. Sarà scarcerato quattro anni dopo, nel 1994. Il documento messo a disposizione della Commissione Moro prova che nel 1990 il Sisde ha chiesto una consulenza a Morucci e lui l’ha realizzata. Di più, da quel solo documento non è possibile ricavare: non possiamo ancora sapere se è stato un contributo unico o se faceva parte di una collaborazione continuata e organica. In questo secondo caso, non sappiamo quando la collaborazione potrebbe essere iniziata (nel 1990 o prima?), fino a quando è durata, su quali contenuti si è sviluppata e con quali forme di compenso (in denaro o in trattamento carcerario?). Secondo quanto riferito da Fioroni in Commissione Moro, “Morucci, parlando in qualità di collaboratore del Sisde, si disse non sicuro che Gallinari avesse distrutto gli originali delle lettere e dei documenti di Moro. Morucci non vedeva ragione per distruggere quelle carte”.
Il cosiddetto memoriale Moro è infatti l’insieme delle dichiarazioni e degli appunti del presidente della Dc durante i 55 giorni della sua prigionia nel “carcere” delle Brigate rosse. Una parte del memoriale, di una cinquantina di pagine trascritte a macchina dai brigatisti, fu ritrovata nell’ottobre 1978 nell’appartamento di via Monte Nevoso. Nel 1990, durante la ristrutturazione dello stesso appartamento, gli operai trovarono casualmente, dietro un pannello sotto una finestra, 229 pagine fotocopiate degli appunti manoscritti di Moro. Gli originali, invece, secondo alcuni brigatisti sarebbero stati bruciati da Prospero Gallinari in un casale di Moiano, in Umbria. Effettivamente alcuni documenti, ritenuti inutili, furono da lui distrutti, ma è improbabile che tra questi ci fossero anche i quaderni scritti a mano da Moro. Non c’era ragione alcuna, infatti, per distruggere gli originali e conservare la fotocopia.
Lo stupore mostrato da Adriana Faranda a proposito della collaborazione di Morucci sembra essere in parziale contraddizione con il fatto che la stessa Faranda abbia ammesso di essere stata contattata dal Sisde. Replicando a una domanda della Commissione, la brigatista ha infatti risposto: “Imposimato mi fece incontrare due funzionari del Sisde, ma io rifiutai di proseguire il rapporto. Uno di loro mi disse che aveva fatto perquisire casa mia”. Ferdinando Imposimato è stato dapprima magistrato (e come giudice istruttore si è occupato anche del sequestro Moro), poi dal 1987 è stato parlamentare eletto nelle liste del Pci e del Pds. In entrambi i ruoli, è perlomeno irrituale che abbia fatto da intermediario tra servizi segreti e brigatisti.

il manifesto 23.9.17
Il 30 settembre manifestazione nazionale della Cgil contro la violenza maschile
di Susanna Camusso

Riprendiamoci la libertà! Con questo slogan la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso invita tutte le donne a scendere nelle piazze italiane sabato 30 settembre contro la violenza maschile sulle donne.
Per la Cgil «il linguaggio utilizzato dai media e il giudizio su chi subisce violenza, su come si veste o si diverte, rappresenta l’ennesima aggressione alle donne. Così come il ricondurre questi drammi a questioni etniche, religiose, o a numeri statistici, toglie senso alla tragedia e al silenzio di chi l’ha vissuta».
Da qui l’appello «agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura, alle forze dell’ordine e al mondo della scuola per un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura e nell’assunzione di responsabilità».
Volete togliere senso ai numeri che parlano di un dramma. Non sapete quanto pesa denunciare e quale scelta sia. Ogni denuncia porta con sè la nuova violenza di cronache morbose, pornografiche, che trasformano le vittime in colpevoli. Non sapete dare un senso al silenzio che le donne scelgono, o a cui sono costrette e lo occultate nelle statistiche che segnano una lieve diminuzione delle denunce, seppellendo nei numeri il peso permanente dellaviolenza, degli stupri, dei femminicidi.
Avete tolto senso alle parole quando trasformate la violenza contro le donne in un conflitto etnico, razziale, religioso. Avete tolto senso alle parole quando difendete il vostro essere uomini, senza pensare all’ulteriore violenza cheinfliggete: donne nuovamente vittime, oggetto dei vostri conflitti di supremazia (…).
Siamo uscite dal silenzio, abbiamo detto «se non ora quando» ed ancora «non una di meno», abbiamo denunciato i diritti negati con la piattaforma Cedaw. Abbiamo colorato piazze, città, la rete, le nostre vite perché vogliamo vivere ed essere libere.
Reagiamo con la forza della nostra libertà all’insopportabile oppressione del giudizio su come ci vestiamo o ci divertiamo. Ci vogliamo riprendere il giorno e la notte, perché non c’è un «mostro» o «un malato» in agguato, ma solo chi vuole il possesso del nostro corpo, della nostra mente, della nostra libertà. Non ci sono mostri o malati, ma solo il rifiuto di interrogarsi, il chiamarsi fuori che alla fine motiva e perpetua la violenza.
Le parole sono armi, sono pesanti lasciano tracce profonde ed indelebili, determinano l’humus in cui si coltiva la «legittimità» della violenza, la giustificazione dell’inversione da vittima a colpevole.
Ci siamo e continueremo ad esserci per riaffermare che la violenza contro le donne è una sconfitta per tutti e ci saremo ancora perché vogliamo atti e risposte:
    La convenzione di Istanbul è citata, ma non applicata, farlo! –
    La depenalizzazione dello stalking, va cancellata – ora!
    La cultura del rispetto si costruisce a partire dalla scuola, dal senso delle parole, si chiama educazione!
    Agli operatori della comunicazione tutti, chiediamo che ci si interroghi e si decida sul senso dell’informazione, sul peso delle parole ed esigiamo la condanna di chi si bea della cronaca morbosa.
    Ancora una volta risorse e mezzi per i centri antiviolenza, case sicure, e norme certe per l’inserimento al lavoro.
    Vogliamo che venga diffuso e potenziato il servizio di pubblica utilità telefonico contro la violenza sessuale e di genere, adesso!
    Alla magistratura e alle forze dell’ordine, che venga prima la parola della donna in pericolo, della donna abusata, che non si sottovaluti, che non si rinvii, che si dia certezza e rapidità nelle risposte e nella protezione.
All’appello hanno già aderito:
Elisabetta Addis, Roberta Agostini, Antonella Bellutti, Sandra Bonzi, Luciana Castellina, Gabriella Carnieri Moscatelli, Francesca Chiavacci, Franca Cipriani, Daria Colombo, Geppi Cucciari, Lella Costa, Alessandra Kustermann, Maria Rosa Cutrufelli, Diana De Marchi, Loredana De Petris, Alessandra Faiella, Angela Finocchiaro, Francesca Fornario, Maria Grazia Giannichedda, Marisa Guarneri, Cecilia Guerra, Anna Guri, Francesca Koch, Simona Lanzoni, Loredana Lipperini, Maura Misiti, Rossella Muroni, Bianca Nappi, Giusi Nicolini, Cristina Obber, Ottavia Piccolo, Bianca Pomeranzi, Norma Rangeri, Rebel Network, Rosa Rinaldi, Chiara Saraceno, Linda Laura Sabbadini, Assunta Sarlo, Stefania Spanò – Anarkikka, Monica Stambrini, Paola Tavella, Vittoria Tola, Livia Turco, Chiara Valentini, Elisabetta Vergani.

Repubblica 23.9.17
Carlotta Sami.
La portavoce dell’Onu per i rifugiati: l’ultima tragedia dimostra che soltanto aprire vie legali ferma le stragi
“Uno scandalo europeo il barcone di migranti alla deriva per 7 giorni”
di Alessandra Ziniti

Viaggi Nel Terrore
«Abbiamo verificato anche noi. Quella barca con i suoi cento dispersi è rimasta alla deriva una settimana. Un orrore devastante». Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, esprime tutta la sua emozione per l’ultima tragedia del mare sulla rotta libica.
Sami, cento morti pesano sugli accordi che hanno portato a una diminuzione delle partenze, ma anche a un disimpegno delle navi delle ong?
«È un evento tragico. Noi abbiamo il massimo rispetto per le decisioni delle ong, se hanno lasciato quell’area vuol dire che hanno ritenuto non ci fossero più le condizioni per restare. Questo evento così drammatico ci dice che non si deve abbassare la guardia perché i flussi sono imprevedibili, in Libia ci sono decine di migliaia di persone che vogliono solo partire».
E che invece rischiano di rimanere intrappolate nei centri di detenzione, visto che gli accordi con il governo di Al Serraji sembrano essere riusciti a frenare le partenze.
«Intanto vorrei dire che qualsiasi accordo che abbia il solo scopo di frenare i flussi non è sostenibile nel tempo, perché il network dei trafficanti trova sempre vie alternative. La gente in questo momento è intrappolata in Libia semplicemente perché continua ad arrivare. E allora bisogna salvare la vita di chi è già lì, ma per evitare le partenze bisogna lavorare nei Paesi di origine di migranti e rifugiati e far sì che possano entrare in Europa per le vie legali».
Ma sulla strada dei corridoi umanitari fino ad ora l’Europa ha sempre nicchiato.
«È l’unica percorribile. Abbiamo richiesto all’Europa di accogliere, con canali legali, 40 mila persone dall’Africa, e di facilitare i meccanismi per il ricongiungimento delle famiglie. Nel recente incontro di Parigi, ma anche dalla cancelliera Merkel, abbiamo ottenuto l’assicurazione che Germania, Francia e Italia si impegneranno a sostenere il nostro lavoro in questo senso, ma l’impegno deve diventare concreto. Nel Corno d’Africa, in Libia, in Egitto, ci sono almeno 360 mila persone in situazioni di alta vulnerabilità. Se non riusciamo a farli arrivare in Europa con i corridoi umanitari rischiamo di farli finire nelle mani dei trafficanti».
La vostra proposta parte dal presupposto che l’Europa voglia accogliere tutta questa gente mentre le strategie che i governi mettono in campo mirano nettamente a una diminuzione dei flussi «L’Europa deve capire che, se anche i numeri si riducono, nessuna rotta può essere chiusa senza prevedere vie legali, anche perché chi varca confini per chiedere asilo non commette alcun reato. Il nostro non è un punto di vista ideologico, ma si basa sul diritto internazionale. La Costituzione italiana prevede il diritto d’asilo e nessun Paese può venire meno alla convenzione di Ginevra ».
C’è grande preoccupazione per le condizioni dei migranti soccorsi dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione. Qual è la situazione lì?
«Noi lavoriamo in Libia dal 1991. L’ Alto commissario, in visita nei centri di detenzione a maggio, ha rilevato una situazione drammatica. Noi ci opponiamo nettamente alla detenzione, abbiamo accesso ai 29 centri della Libia occidentale e ai 14 di quella orientale e posso assicurare che non è facile neanche parlare con le persone detenute, oltre cinquemila, alle quali forniamo assistenza medica e documenti e per le quali cerchiamo di negoziare la libertà. Siamo già riusciti a ottenere la liberazione di oltre mille persone in 18 mesi, le più fragili, ma adesso abbiamo bisogno di aprire un centro di accoglienza per chi è rimesso in libertà. La nostra missione in Libia è questa: salvare vite e alleviare sofferenze cercando alternative alla detenzione e soluzioni per i rifugiati».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
“I trafficanti sono più veloci di qualsiasi blocco. La Ue accolga subito 40mila persone”
FOTO: © MATHIEU WILLCOCKS/ MOAS
A sinistra, migranti eritrei stipati nella stiva di una piccola imbarcazione di legno soccorsa nel Mediterraneo. A sinistra, Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati

Repubblica 23.9.17
Ai bianchi dieci euro in più la paga decisa in base alla pelle
di Alessia Candito

COSENZA. Sfruttavano i braccianti per oltre 10 ore al giorno nei campi. Li costringevano a lavorare senza guanti, né protezioni. E senza dar loro neanche da bere, se non una bottiglietta d’acqua a mezzogiorno. La paga era per tutti da fame. Ma per i lavoratori africani di più.
«Ci dicevano che noi siamo neri, loro sono più bianchi di noi quindi — racconta uno — hanno diritto a una paga maggiore», sui dieci euro in più. Per questo, i fratelli Francesco e Giuseppe Arlia Ciommo di Amantea, nel Cosentino, sono finiti ai domiciliari con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravati dalla discriminazione razziale. Per mesi — ha svelato l’inchiesta coordinata dal procuratore capo di Paola, Pierpaolo Bruni — i due hanno sfruttato i richiedenti asilo, ospiti di un centro Spar vicino al loro agriturismo, costringendoli ad accettare condizioni anche peggiori di quelle imposte ai braccianti rumeni o indiani.
«Mangiavamo per terra, come animali» racconta uno dei ragazzi ai carabinieri di Paola. I 25 euro promessi, a fine giornata non sempre arrivavano. Ma nessuno — dicono — poteva fiatare perché «minacciavano di chiamare un loro fratello poliziotto per farci espellere.
Di loro avevamo paura, perché siamo tutti richiedenti asilo».

Repubblica 23.9.17
Identikit della scuola italiana alla ricerca di nuove ricette contro le disuguaglianze
di Tomaso Montanari

Il saggio di Christian Raimo analizza i punti critici del nostro sistema educativo. Un mondo complesso che continua a essere diviso tra serie A e serie B
“Tutti i banchi sono uguali”. La scuola è l’uguaglianza che non c’è: fin dal titolo l’ultimo libro di Christian Raimo (per Einaudi) è un invito pressante a riprenderci la scuola pubblica: per ristabilirne la funzione costituzionale, che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.
«Nel fiorire di iniziative sulla scuola – ha scritto Walter Tocci – è mancata quella piú utile, cioè la valutazione dei risultati delle politiche seguite dai diversi governi». È esattamente questo lo scopo del libro di Raimo: e il risultato è l’accorata cronaca di un naufragio.
Tutta la riflessione è innervata e sostenuta da dati: facciamo tre esempi. La scuola italiana dell’obbligo è messa più o meno come i nostri acquedotti: perde ciò che dovrebbe portare fino in fondo. L’ultima rilevazione dell’Istat fissa infatti la dispersione scolastica al 14,7%, con picchi del 24% in Sicilia o in Sardegna: la media europea è dell’11%, e stanno peggio di noi solo Spagna, Portogallo, Malta e Romania. Una ricerca Isfol certifica che i figli di genitori privi di titolo di studio proseguono oltre l’obbligo solo nel 44,9% dei casi, mentre per i figli di genitori laureati la percentuale è del 99,1%.
Ma la selezione sociale non è finita: uno studio della Fondazione Einaudi del 2016 dice che la metà di coloro che riescono a continuare e si iscrivono alle superiori prende ripetizioni private. Un giro d’affari da 800 milioni l’anno, per il 90% al nero: ma soprattutto un potentissimo fattore di discriminazione economica. E chi non ce la fa entra nella categoria dei neet ( not in education employment or training) che ingoia il 25,7% dei giovani dai 15 ai 29 anni, ossia 2,3 milioni di persone. Non è una scuola per poveri, quella italiana: perché, come ha spiegato Roberto Contessi, autore di Scuola di classe (Laterza) «non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, e si limita a certificarle ». Il che non vuol dire soltanto, commenta Raimo, «che il figlio del notaio farà il notaio e quello del contadino il contadino, ma che si riprodurranno disuguaglianze tra Nord e Sud, città e aree interne, laureati e non laureati, attraverso processi di selezione interna e di legittimazione di questo classismo — vedi l’incidenza del contesto famigliare sull’abbandono scolastico o vedi la distinzione per esempio tra licei e istituti tecnici e professionali che rimane il più forte marcatore di una formazione di serie A e una di serie B».
È questo il risultato di una stagione in cui i consulenti del ministero per l’Istruzione sono stati pescati tra gli esperti di “meritocrazia” delle multinazionali. Tutto è cominciato, suggerisce Raimo citando il pedagogista Piero Lucisano, «quando abbiamo cercato di mostrare che un buon sistema formativo produce un ritorno economico ». Fino ad arrivare a tappe forzate a un tempo — il nostro — in cui l’alternanza scuola- lavoro fornisce al mercato una gran massa di mano d’opera gratuita senza alcuna prospettiva di avere in cambio una qualche formazione: fa una certa impressione apprendere che diecimila studenti italiani vengano inviati ogni anno nei fast food di McDonald’s. In Italia, insomma, lo scopo della scuola non è più quello, assegnatole già da Condorcet nel Settecento, di «diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare». No, oggi è quello teorizzato dall’economista americano Kenneth Arrow: «L’istruzione superiore non aumenta né la conoscenza né la socializzazione. Al contrario, serve come dispositivo di screening, in quanto individua persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro ».
È da qui che dovrebbe ricominciare una qualunque sinistra italiana: per poi magari occuparsi anche dell’università, alla quale si iscrive ormai il «5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati». Ma qua ci vorrebbe un altro libro: lucido e duro come questo.

il manifesto 23.9.17
Ora Renzi pensa anche alle primarie
Verso le elezioni. Mossa possibile per agganciare Pisapia al Pd. Vendola attacca l’ex sindaco: «Un uomo generoso. Soprattutto con se stesso»
di Andrea Colombo

ROMA Legge elettorale, Def (con l’obbligo di maggioranza assoluta), legge di bilancio. L’incrocio è pericoloso, Gentiloni si sta dando da fare per disinnescare le mine. Anzi la mina, perché il rischio, dopo l’affondo di D’Alema mercoledì sera alla festa di Sinistra italiana, si chiama Mdp. Irritati per la legge elettorale che non condividono e che è stata bocciata anche da Pisapia, ancor più contrariati per non essere mai stati consultati sulla finanziaria, gli ex Pd non garantiscono il voto a favore del Def, e ancor meno quelli nel prosieguo della legge di bilancio.
Gentiloni ha posticipato di 24 ore la riunione del Consiglio dei ministri chiamata a definire la Nota di aggiornamento al Def proprio per ripulire il testo, rendendolo il più tecnico e anonimo possibile. Ma in realtà i rischi sono limitatissimi per non dire inesistenti. Una volta svincolati da programmi di riforma, ai quali erano invece collegati negli anni scorsi, la Nota e il Def sono testi essenzialmente tecnici e per Mdp, che certo non mira a provocare una crisi ora, non sarà difficile votarli. I dolori, se ci saranno, arriveranno con la legge di bilancio.
In mezzo, dopo il voto sul Def del 4 ottobre e prima che al Senato parta la legge di bilancio, scoccherà l’ora della verità sulla legge elettorale. Per i travagli della sinistra la risposta all’enigma del voto segreto di Montecitorio sarà determinante.
Sulla carta anche l’approvazione del Rosatellum, sul quale al momento pochissimi azzarderebbero scommesse, non cambierebbe niente. Giuliano Pisapia ha già bocciato la proposta, che del resto ha poco a che vedere sia col Mattarellum che con una vera legge di coalizione.
Le cose però cambierebbero se Renzi offrisse all’ex sindaco di Milano le primarie, ipotesi che starebbe considerando seriamente. «Mi pare difficile dal momento che questa non è una vera legge di coalizione: non prevede né un programma né un candidato comune», commenta dall’interno di Mdp Arturo Scotto e ha certamente ragione. Ma si sa che la fantasia dei politici italiani è illimitata e al segretario del Pd non mancherebbero certo alibi per convocare ugualmente primarie che è sicuro di stravincere.
A quel punto, senza alcun dubbio, Pisapia parteciperebbe e sarebbe poi costretto a entrare nella coalizione. A maggior ragione se dal Pd arrivassero i due segnali che ha chiesto: l’approvazione dello Ius soli e una legge di bilancio in discontinuità (magari lieve) col passato.
Quasi certamente Mdp non lo seguirebbe, anche se un travaso dalla file degli ex Pd a quelle del Campo progressista sarebbe nell’ordine delle cose. Il divorzio aprirebbe le porte a un’alleanza, anzi a una lista comune, con Sinistra italiana.
Il vero elemento che impedisce la formazione di quella lista comune è in realtà proprio Pisapia, e se qualcuno ne avesse dubitato ci ha pensato Nichi Vendola, col suo durissimo attacco di ieri a certificarlo: «Pisapia è un uomo generoso. Soprattutto con se stesso».
«Noi – aggiunge il senatore Peppe De Cristofaro – siamo per una forza alternativa a tutte le altre in campo, aperta all’intera sinistra». Progetto incompatibile con quello di Pisapia, che vuole tenere spalancata la possibilità di un accordo con Renzi per il dopo-elezioni.
Idea che per la verità pare difficilmente conciliabile anche con gli umori di una parte sostanziosa di Mdp. Ieri, ad esempio, Scotto ha invitato Roberto Fico, cancellato dal palco a 5 Stelle di Rimini, alla festa dell’Mdp: «Le porte sono aperte». Una battuta certo, ma che denota uno spirito difficilmente assimilabile al progetto di intesa con Renzi, prima o dopo le elezioni.

La Stampa 23.9.17
Pier Luigi Bersani
“Alleati col Pd se Renzi dice sì alle primarie”
Il fondatore del Mdp: Matteo accetti la sfida con Pisapia, ci vuole un altro centrosinistra
di Andrea Carugati

“Le primarie per la guida del centrosinistra? «Fosse per me le farei». Pisapia potrebbe sfidare Renzi? «Assolutamente sì. Ma con il Mattarellum, che prevede vere coalizioni, non con questa legge che stanno discutendo. E con un’intesa su un programma in discontinuità con i governi di questi anni».
Pier Luigi Bersani a sorpresa apre a una possibile alleanza con il Pd alle prossime politiche. Lo fa davanti a circa 200 militanti di Mdp arrivati a Pontelagoscuro, vicino a Ferrara, per una cena di autofinanziamento. «Noi non siamo la sinistra settaria, non siamo la Cosa rossa. Se c’è un centrosinistra pulito, senza Alfano, come nel Lazio e in Lombardia, noi ci sediamo al tavolo. Ma non credo che Renzi vorrà allearsi con noi. Non ci ha neppure invitato alle feste dell’Unità. E pensare che io nella vita ne ho montate più di quante questi ragazzi ne abbiano frequentate. E oggi la gente non ci va perché non sono più il luogo del confronto politico, anche aspro. Sono diventate una messa cantata, un discorso tra Matteo e Renzi. Rispecchiano un partito che ha rinsecchito i rapporti con pezzi della società».
L’ex segretario del Pd è nettamente contrario all’ipotesi di legge elettorale per due terzi proporzionale e per un terzo maggioritaria che Pd e Forza Italia stanno partorendo: «Viene voglia di prendere il badile, più che Rosatellum a me pare un Verdinellum. Ci saranno ancora più parlamentari nominati rispetto a quelli previsti dalla legge attuale. A me pare un regalo alla destra, una promessa di inciucio. Se il Pd vuole fare sul serio una coalizione serve il Mattarellum che ci hanno bocciato in commissione. Ma noi siamo disposti a votare domani mattina anche una serie legge di tipo tedesco».
Bersani conferma dunque la linea dura contro una legge «figlia di un nuovo patto del Nazareno». Ma non segue la linea di D’Alema, che porta a non votare la legge di Bilancio se il Pd andrà avanti col Rosatellum: «Le due cose sono separate, ma devono convincerci su ciascuna delle due. Noi siamo gente responsabile, e non vogliamo che arrivi la Troika. Spero che non lo voglia neanche il governo. Non si è mai visto che, nelle stesse settimane, in Parlamento si crei una maggioranza sulla legge elettorale e una diversa sulla manovra...».
Sulla legge di Bilancio Bersani ha voglia di trattare con Gentiloni: «Siamo gente di governo, non ci aspettiamo ora e subito la correzione di tutti gli errori degli ultimi anni su fisco, lavoro e sanità. Ma dei segnali che mostrino la consapevolezza che bisogna cambiare strada». «A Gentiloni l’ho detto: “Applicate il modello del Pd che manco ci ascolta?”». E lui cosa ha risposto: «Non ha ancora risposto, immagino ci stia pensando…», sorride Bersani. «Ci sono 6-7 miliardi da trovare. Qualcuno ha parlato di condono sul contante, poi hanno fatto marcia indietro. Bene, perché su quella strada si va contro un muro. Sul lavoro servono investimenti, non sgravi. Stage, tirocini, lavoro a termine, interinale e a chiamata: questa giungla sta umiliando i giovani a va disboscata. Poi ci sono i super ticket da eliminare». Il nodo Pisapia agita gli animi dei militanti. «Sì, ci sono state obiezioni tra i compagni. Ma nessuno mi ha mai chiesto di fare senza Pisapia. La nostra gente vuole una cosa larga, che vada oltre i confini della sinistra. Il 30% degli elettori del centrosinistra non va più a votare, tanti non vengono dalla nostra tradizione, mondi civici che devono farsi avanti. Ce ne fossero di personalità come Pisapia. La figura dell’uomo solo al comando sta tramontando, ci sarà una squadra di vertice plurale». Sulle candidature dei big spiega: «Vogliamo mandare avanti una nuova generazione. Se questi ragazzi mi diranno di dare una mano dal di fuori io sarò contento». L’ex segretario non si aspetta, dopo la probabile sconfitta del Pd in Sicilia, un ribaltone dentro i dem: «Renzi dirà che è solo un voto locale, non si farà nessuna analisi del voto, come al solito. Qualcuno proverà a dire che qualcosa non va, ma a tre mesi dalle politiche nessuno avrà la forza di cambiare segretario. E sarà lui a fare le liste. Franceschini, come i veri democristiani, sa quando è opportuno inabissarsi. I nodi verranno al pettine dopo le politiche». Mpd cosa farà? «Io spero che, con dei rapporti di forza mutati, si possa lavorare a un centrosinistra di nuovo conio dopo le elezioni. Sulla base di un programma che corregga gli errori di questi anni».
Voi potreste allearvi con M5S? «Se mi chiamassero per un incontro in streaming io andrei. Ma con buona educazione, senza ripagarli della stessa moneta. M5S è un partito di centro dei tempi nuovi, guarda un po’ a destra e un po’ a sinistra. L’elezione di Di Maio lo conferma: un giovane vecchio. Le loro primarie dimostrano che non accettano una discussione pubblica al loro interno. Sono irrisolti...».

il manifesto 23.9.17
Rosatellum: un aiuto a destra, un colpo a sinistra
di Massimo Villone

Tanto tuonò. Ma poi piovve? Rimane da vedere, perché il quadro dei sì e dei no al Rosatellum bis è variegato. Il relatore Fiano lancia proclami ottimistici, ma il vasto consenso si riduce a poco più di Pd, FI, Lega, e Alfano.
Nell’urna parlamentare incidenti e imprevisti non sono certo impossibili. a assumiamo per ipotesi che la proposta venga approvata, e si applichi in un contesto come oggi delineato dai sondaggi: sostanzialmente tripolare, con frammenti aggiuntivi.
Vediamo a prima lettura qualche punto essenziale.
Partiamo dall’incentivo maggioritario: circa 36% di seggi uninominali (231 camera, 102 senato), 64% di listini proporzionali.
È ben vero che scompare il premio di maggioranza, vero insulto alla democrazia. Arriva a disonorevole sepoltura il mantra che deve conoscersi il vincitore la sera del voto. Ma la torsione maggioritaria rimane. Il collegio uninominale si vince con un voto in più rispetto all’avversario (first past the post). La distribuzione territoriale dei consensi è decisiva.
Per questo il sistema piace alla Lega, che è sicura di avere un buon pacchetto di eletti nei collegi del Nord, come era già con il Mattarellum. Le eventuali coalizioni di centrosinistra e centrodestra competono più o meno alla pari nel resto del paese, e si dividono gli altri seggi uninominali. M5S rimane a terra, potendo probabilmente vincere solo in una manciata di collegi uninominali, sia per la genetica debolezza nella selezione delle candidature, sia per la dichiarata intenzione di non coalizzarsi con alcuno. La sinistra sparsa non prende nemmeno un collegio.
La chiave di lettura principale del sistema è dunque il rendimento delle forze politiche nella parte uninominale, che in sistema multipolare non si divide per quota tra i soggetti politici, ma avvantaggia quello prevalente nel paese. Qualsiasi maggioritario geneticamente rafforza chi vince, e affossa chi perde. In prospettiva, la proposta è particolarmente favorevole al centrodestra, che parte con il vantaggio della forza leghista al nord nei seggi uninominali. Mentre ha ragione M5S quando dice di riceverne un danno. È così, a meno che uno tsunami di voto popolare sfondi per loro i cancelli di palazzo Chigi.
Il secondo punto è la soglia di sbarramento: 3% per le liste, e 10% per le coalizioni. Questo va bene al Pd, a FI, alla Lega e Alfano. Mentre pone alla sinistra sparsa un dilemma. Correre ognuno per sé, cercando di superare la soglia del 3% per arrivare con un pacchetto di parlamentari con la propria casacca in parlamento, o dar vita a una lista unica, o ancora formare una coalizione puntando a superare la soglia del 10%? Le scelte solitarie vanno evitate.
Il 3% sarebbe calcolato sul 64% della parte proporzionale, e dunque una lista che superasse appena la soglia potrebbe aspirare a una dozzina di deputati: una pattuglia probabilmente irrilevante negli equilibri parlamentari, e buona solo a sistemare qualche pezzo del gruppo dirigente.
Troppo poco in sé, e ancor più per parlare al paese in campagna elettorale. Mentre sarebbe massimizzato l’effetto perverso del voto utile, sia da parte del Pd verso tutto ciò che rimane a sinistra di un eventuale coalizione, sia nello scontro fratricida tra pezzi della sinistra volti all’inseguimento della propria singola sopravvivenza.
Ed è chiaro che – specularmente – il Pd cercherebbe appunto di attrarre in coalizione qualche pezzo della sinistra sparsa più disponibile, per poi scatenare la guerra totale contro tutto il resto. Invero, la proposta sembra essere per il Pd conveniente più per spegnere ogni fuoco alla propria sinistra, che nella competizione con il centrodestra.
La strategia più efficace rimane allora quella di costruire un quarto polo di sinistra unita abbastanza forte da essere – dopo il voto – un interlocutore possibile, e anzi necessario, nei confronti parlamentari sull’indirizzo di governo. E meglio sarebbe per questo avere un impianto proporzionale del sistema elettorale.
Dunque, la battaglia politica rimane essenziale, su questo e sui parlamentari nominati. Non si può far conto sui troppo deboli argini posti dalla Corte costituzionale, e tocca ai cittadini pensosi della salus reipublicae scendere in campo.

Il Fatto 23.9.17
Le sberle di Vendola a Pisapia: “Generoso… con se stesso però”

Si erano tanto amati, NichiVendola e Giuliano Pisapia, ma oggi i tempi di Sinistra Ecologia e Libertà e della battaglia contro Letizia Moratti a Milano sembrano molto lontani. Vendola, intervenuto ieri alla festa nazionale di Sinistra Italiana, ha scaricato l’ex compagno di partito: “A Giuliano vorrei consigliare soltanto un po’ di umiltà nel rapporto con questo mondo di sinistra: mi sembra molto generoso, soprattutto nei confronti di se stesso”. E meno male che Vendola era partito con le migliori intenzioni: “Non mi interessa far polemica con nessuno, tantomeno con Pisapia”, aveva detto prima di lanciare la bordata all’ex sindaco di Milano. “Non capisco perché, quando ci si avvicina alle elezioni – ha aggiunto Vendola – si cerca di recuperare una sinistra last minute, dopo che il Pd ha parlato per anni una lingua mescolata, ibrida, a volte antitetica a quella della sinistra”. A Vendola proprio non va giù che parte della sinistra, compresa quella rappresentata da Pisapia, valuti alleanze con il Pd: “Sarebbe come dire che per vivere dobbiamo suicidarci”, ha chiosato l’ex governatore della Puglia.

Repubblica 23.9.17
Vendola, affondo contro Pisapia

ROMA. Violento attacco di Nichi Vendola contro Giuliano Pisapia alla festa nazionale di Sinistra italiana a Reggio Emilia. L’ex governatore della Puglia accusa il leader di Campo progressista di essere «molto generoso, soprattutto nei confronti di se stesso». E consiglia all’ex sindaco di Milano «un po’ di umiltà nel rapporto con questo mondo di sinistra». Poi aggiunge: «Se uno mette in campo come un abracadabra la formula “centrosinistra” come la panacea di tutti i mali, si candida a non comprendere la profondità della crisi che riguarda Italia ed Europa». Vendola contesta poi l’ipotesi di alleanza con il Pd: «È come dire che per vivere ti devi suicidare».

Il Fatto 23.9.17
Per insabbiare Consip mirano a Woodcock
di Angelo Cannatà

Manzoni sintetizza il clima di un’epoca con la frase “Questo matrimonio non s’ha da fare”: dice di un secolo, il Seicento, in cui la sopraffazione era la regola. Oggi? La storia d’Italia degli ultimi anni è storia d’intercettazioni che non si devono ascoltare. È accaduto con la trattativa Stato-mafia e le telefonate di Mancino all’ex presidente della Repubblica Napolitano; oggi succede con l’audio di Tiziano Renzi e del figlio Matteo. L’opinione pubblica non deve sapere. Anche questo dice il clima di un’epoca. Carte e audio di babbo Renzi sono negli uffici della Procura di Napoli. Finiranno nelle mani di chi è pronto a insabbiarli? Alcuni lavorano a questo obiettivo; è una partita a scacchi il cui esito potrebbe essere lo scacco matto alla giustizia e alla ricerca della verità.
Documenti importanti. Deciderà Woodcock quando depositarli… sempre che sia ancora a Napoli vista la tempesta scatenatagli addosso. È il punto decisivo. Il magistrato è nel mirino dei giornali renziani che vogliono delegittimarlo e della prima Commissione del Csm presieduta dall’avvocato Giuseppe Fanfani, il Nipote come lo chiamano nella sua città. Non si tratta qui di mettere l’accento su un certo clima che si respira ad Arezzo – città del piduista Gelli, di cui Fanfani fu sindaco (2006-2014) –, non m’interessa scavare nei meandri putridi. Dico, perché la ragione mi porta in questa direzione, che i conti non tornano – non tornano per niente – se è proprio l’amico, il renziano Fanfani, l’uomo del Pd nel Csm, già legale di papà Boschi, a presiedere la Commissione che s’occupa di Woodcock, pm che indaga su papà Renzi. Ma che gioco è mai questo? Conflitto d’interessi? Se vogliamo essere eleganti diciamo pure così; in realtà è una porcata, un pestaggio ai danni di un pm che rompe le scatole ai potenti. Bisogna screditare Woodcock. È questo che si legge tra le righe di una vicenda torbida (Consip) i cui veri responsabili vengono coperti, ponendo sotto i riflettori – è grande la colpa dei giornaloni – chi ha aperto l’indagine. Sono stati fatti errori, certo, alcuni riconosciuti da Scafarto, altri forse verranno fuori, ma è evidente la spasmodica volontà di punire colui che l’inchiesta ha osato avviarla: perché il caso Consip è il marcio assoluto di questi anni, se è vero che parte del ceto politico, ministri, apparati dello Stato, pezzi di classe dirigente, affaristi, generali dei carabinieri – a diverso titolo – hanno partecipato, con fughe di notizie, inganni, mazzette, a una storia di soldi e potere intorno al più grande appalto d’Europa. L’uomo di cui la politica si serve per “risolvere la grana Woodcock”, è l’avvocato Fanfani, oggi sulla difensiva accusato di aver passato ad arte ai giornali renziani il verbale della procuratrice Lucia Musti. Naturalmente nega. Vedremo.
Sembra sia persona colta appassionata di Dante. Può la cultura mettersi al servizio della politica? Sono i corrotti e i collusi la rovina del Paese: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!” Ecco, non rivolga gli occhi altrove il presidente della prima Commissione del Csm, il marcio non è Woodcock (è pronta la richiesta d’archiviazione dei magistrati romani) ma nei fatti su cui indaga; rilegga Dante, egregio Fanfani: “E se licito m’è, o sommo Giove… son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?”. Io voglio sperare che i suoi occhi, avvocato, siano “giusti” e non guardino da un’altra parte; che vogliano davvero vedere e non occultare i fatti per fedeltà a un partito, una corrente, una cordata. Marco Lillo in Di Padre in figlio “mostra e documenta”. Negare l’evidenza significa dar ragione ancora a Indro Montanelli: proponeva l’abrogazione della quota di membri del Csm nominata dai politici. Il motivo: “Impedire che la politica controlli e blocchi la magistratura in modo indiretto e dalla postazione più alta”.

Repubblica 23.9.17
Il tradimento delle origini
di Roberto Saviano

QUALCHE giorno fa, fuori tempo massimo e senza averne i requisiti, mi sono candidato attraverso un post sulla mia pagina Facebook alla guida del Movimento 5 Stelle. Le reazioni sono state le più disparate, ma la cosa che mi ha davvero impressionato sono stati gli ultrà del Movimento che hanno commentato il mio post.
NESSUNO — e dico nessuno — ha sollevato obiezioni di natura politica. La maggior parte mi scriveva che non potevo candidarmi “perché non avevo i requisiti”. Incredibile, i sostenitori di un movimento che ha cambiato continuamente le regole cardinali della propria struttura, senza fare autocritica e senza fornire spiegazioni (conseguenti magari all’inevitabile incontro/scontro con la realtà), si aggrappavano ai requisiti e alla loro mancanza.
Quindi il paradosso: da un lato una inflessibilità di facciata che sa di indottrinamento, dall’altro una fisiologica “flessibilità” sulle regole, diretta conseguenza dell’assenza di uno Statuto che abbia alla base valori politici. E questa assenza, nonostante i sondaggi, sta divorando il Movimento dal suo interno. Qui non si tratta di comporre requiem perché è evidente che quel partito noto a tutti con il nome di M5S gode di ottima salute. Mi sto solo interrogando su questo: cosa è rimasto del Movimento 5 Stelle nel Movimento 5 Stelle?
Quando penso alle prossime elezioni politiche mi viene in mente un detto che suona più o meno così: “Vediamo di che morte dobbiamo morire”. E a “morire” non saremo solo noi, a “morire” sarà soprattutto quell’idea di politica nuova, che in teoria nulla ha a che vedere con compromessi e alleanze di necessità. Eh sì, perché anche il M5S, se vorrà governare, dovrà invece scendere a patti.
Qualche giorno fa si è celebrato l’anniversario del primo V-day. Ricordo solo una cosa di quella giornata e delle analisi che la seguirono: le persone in piazza appartenevano alla classe media, con un buon livello di istruzione. Erano giovani, ma non giovanissimi. Erano tutti outsider, persone in gamba, sfiancate da anni di berlusconismo e da una opposizione incapace di rappresentare quel malessere. Erano persone che non riuscivano più a votare, che non pensavano neanche lontanamente di fare politica, perché a scoraggiarli erano i ras e capetti locali, rimasti a presidiare quello che restava della partecipazione politica.
C’era la parte migliore del Paese in piazza a Bologna nel 2007? Non lo so, ed è inutile stabilirlo oggi. Quel che è certo è che, a distanza di dieci anni, la fiammata iniziale si è spenta per lasciare spazio ad altro. A molto altro, in verità, perché se arrivi al 30% dei consensi, allarghi la base elettorale in maniera esponenziale e, forse, non sei più in grado di riconoscere le categorie — sociali, economiche, generazionali — delle quali sei rappresentativo. Sono però abbastanza certo che chi aveva provato entusiasmo per le parole d’ordine di democrazia dal basso, orizzontale, di lotta alle vecchie dinamiche di partito è scappato da tempo dal Movimento per rifugiarsi ancora una volta nel non voto, per coltivare il proprio privato alla ricerca di una felicità individuale.
Gianroberto Casaleggio era un consulente. Al momento del V-day, la Casaleggio Associati non si occupava solo di gestire il blog di Beppe Grillo, ma anche della comunicazione politica e delle strategie di partito per Antonio Di Pietro. La candidatura di Luigi de Magistris nell’Italia dei Valori alle Europee fu una sua idea. Casaleggio era anche socio, assieme a Beppe Grillo, con il commercialista Enrico Nadasi e Enrico Grillo, nipote di Beppe, dell’associazione Movimento 5 Stelle, proprietaria del simbolo del Movimento, un elemento cruciale. Pensiamo a come gli eredi della Democrazia Cristiana hanno battagliato negli anni per la proprietà del simbolo (che poi, dopo Tangentopoli, non aveva tutto questo appeal); o a Marco Pannella, che donò il simbolo del “Sole che Ride” al movimento ambientalista. Cosa comporta la proprietà del simbolo? Che, pena l’espulsione, nessuno all’interno del Movimento può prendere decisioni in autonomia e che la proprietà del simbolo decide la linea del Movimento in maniera insindacabile. Grillo è garante e chiede fiducia per sé e per le proprie decisioni: allora chi viene eletto nel Movimento che ruolo ha? E ancora: chi decide l’idoneità di una candidatura anche dopo il cosiddetto voto popolare attraverso la piattaforma Rousseau di proprietà di Davide Casaleggio? La parola finale spetta sempre ai garanti, in barba al voto orizzontale, all’uno vale uno. Ma come mai, viene da chiedersi, Grillo e Casaleggio junior dell’organizzazione che loro stessi hanno dato al Movimento non si fidano più? Perché dove manca una caratterizzazione politica può entrare di tutto. Il vuoto può essere riempito da qualunque cosa. Faccio un esempio che ciascuno può comprendere. L’unica significativa esperienza di governo del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione è l’amministrazione capitolina, ed è un caso di scuola di infiltrazione e quindi di commissariamento (della sindaca Raggi) da parte della associazione che gestisce il simbolo. Raggi non decide nulla, poiché per i vertici del Movimento è diretta emanazione di altri ambienti politici: questa è la realtà dei fatti, ed è grave per una città tanto grande quanto i suoi problemi giustificare la catastrofe con l’eredità del passato. È evidente il peso della devastazione precedente, ma allora che senso ha avuto proporsi come alternativa di governo?
Ma veniamo al punto cruciale di questa mia riflessione che dimostra come la condizione attuale del M5S, al di là delle mistificazioni di facciata, sia sul piano del metodo e della pratica politica in perfetta continuità con quanto l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Silvio Berlusconi dal nulla fondò un partito politico che alle europee del 1994 veleggiava al 30% e lo fece utilizzando la sua struttura aziendale: il partito personale, il partito azienda. Il Movimento 5 Stelle oggi è una evoluzione di quella patologia, perché al di là dei proclami sulla politica dal basso e sull’assenza di personalismi, è il primo caso di un’entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da srl che pretendono fiducia incondizionata. Il caso Cassimatis lo conferma.
I leader del Movimento, quelli che hanno consolidato la propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di mandato che, al di là delle motivazioni di facciata, e cioè di preservare la fedeltà nei confronti degli elettori, genererebbe un mostro: il controllo da parte di associazioni e di srl riconducibili a Beppe Grillo e a Davide Casaleggio di istituzioni pubbliche. A proposito, vado interrogandomi da qualche giorno su una questione: ma quando, tra cento anni, Davide Casaleggio e Beppe Grillo decideranno di trasferirsi nella costellazione Gaia, chi erediterà le redini del Movimento 5 Stelle: figli, nipoti, zie? Nemmeno Berlusconi potè tanto: basti pensare che quando si ventilò l’ipotesi che Marina Berlusconi potesse succedere al padre, dalla coalizione di centro- destra si levarono voci più che critiche. Oggi dal conflitto di interessi siamo a un passo dal cadere nella privatizzazione della democrazia.
È, questo, un punto di non ritorno e i figuranti, gli ospiti fissi dei salotti televisivi sanno di non potersi più fermare a riflettere su cosa sia accaduto a loro e al Movimento, e probabilmente non hanno nemmeno gli strumenti per farlo. Voglio essere facile profeta: i Di Maio, i Di Battista, i Toninelli saranno per sempre “politici”, nella declinazione dispregiativa che del termine hanno dato loro stessi, perché dalla visibilità provata, dalla sensazione di riuscire a raggiungere il potere — pure se di facciata — non si torna indietro. Altro che due mandati. Oggi l’unica parola d’ordine rimasta a disposizione del Movimento è che gli altri sono peggio. Accettiamo retoricamente l’argomentazione, ma poi? Chi ha creduto in questo vento nuovo lo ha fatto per sentirsi dire, di fronte a errori, fallimenti e contraddizioni che “gli altri sono peggio”? Lo si sapeva già. E oltre questo? Cosa rimane, qual è l’orizzonte politico?
In queste ore il Movimento è riunito a Rimini per festeggiare la partenza della campagna per le politiche dell’anno prossimo. Io vedo invece la formalizzazione del fallimento di tutte le premesse. Da domani il Movimento non avrà più un portavoce, ma un leader. Un capo che rimarrà comunque solo un figurante, incapace sul piano politico e culturale di opporre alcunché al dominio del dedalo di associazioni e di srl che peraltro non hanno neanche lontanamente intenzione di rinunciare ai loro altri clienti e che cambiano le regole a loro capriccio chiedendo atti di fede. Perché solo un atto di fede può far digerire in Sicilia (proprio in Sicilia!), dopo anni in cui si è professato il rispetto di legalità e magistratura, una candidatura che un tribunale ha dichiarato illegittima. Gli altri saranno peggio, ma il Movimento dimostra di seguirne i passi con disinvoltura coprendosi, peraltro, di ridicolo perché il pasticcio siciliano è conseguenza della necessità di far credere che le decisioni nel Movimento siano sempre prese dal basso. E intanto, Silvio Berlusconi…

Il Fatto 23.9.17
Paesaggio, il Pd sbugiarda se stesso
di Vittorio Emiliani

Nei giorni scorsi due grossi calibri del Pd, il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, e l’ex ministro Walter Veltroni hanno affermato severamente che il loro partito ha “dimenticato l’ecologia”. In realtà il Pd guidato da Matteo Renzi ha dimenticato la tutela dei beni culturali e del paesaggio, la buona urbanistica, l’ambiente (vedi legge sui Parchi) divenendo anzi il nemico dichiarato di una tradizione democratica che riteneva prioritari questi temi e la lotta all’abusivismo. Lo dimostrano la legge Galasso sui piani paesaggistici, la legge Cutrera e altri sulla difesa del suolo, la legge Cederna-Ceruti sui Parchi, il Codice per il Paesaggio Rutelli/Settis del 2007 e altro.
Un vanto della cultura progressista erano certamente i piani paesaggistici che con coraggio la giunta di centrosinistra di Renato Soru aveva varato nel 2004. Operazione esemplare coordinata da Edoardo Salzano, che andava completata con l’interno dell’isola. Il centrodestra ha invano tentato di smontarla, perdendo anche un referendum popolare. Ma la giunta attuale del presidente Francesco Pigliaru ha ripreso l’offensiva con rinnovata forza. Di fronte all’opposizione argomentata di un tecnico di valore, il soprintendente Fausto Martino e a una critica severa di Ilaria Borletti Buitoni sottosegretaria ai Beni culturali, l’intero Pd sardo ha votato in Regione un ordine del giorno di inusitata durezza. “In entrambe le occasioni si è registrata una inopportuna espressione di opinioni lesive delle prerogative costituzionali conferite in capo all’organo legislativo e a quello esecutivo della Regione Sarda”. Il reato? Per Borletti Buitoni essere “intervenuta nel merito di scelte operate dalla giunta e dal Consiglio regionale nel pieno esercizio delle funzioni attribuite loro dallo Statuto speciale della Sardegna”. Per l’architetto Martino aver “espresso pareri di merito su scelte politiche (…) che esorbitavano la sfera di sua competenza”. Essi “sono andati oltre ogni limite di competenza” con “posizioni censorie sul disegno di legge urbanistica”, ecc. ecc. Il presidente Pigliaru rappresenti dunque a Paolo Gentiloni “lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento assunto dagli uffici regionali del Mibact” con inevitabili conseguenze anche sui finanziamenti per la “protezione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico dell’isola” (che le nuove norme del Pd in realtà devitalizzano).
Il piano paesaggistico regionale della Sardegna – denuncia il Pd – non procede per l’indisponibilità degli uffici ministeriali a… collaborare. Silenzio sui piani approvati dalla Regione ai tempi di Soru. Il raccolto decennale dei piani paesaggistici è ben magro, appena 3: Toscana, con l’assessore competente, l’urbanista Anna Marson, non riconfermata; Puglia; Piemonte (ne ha discusso il Consiglio in agosto). Molti piani in alto mare. In piena burrasca quello sardo. Il Codice è la seconda legge nazionale che sollecita le Regioni a fare il loro dovere in materia di paesaggio. Nel 1985, fu approvata, quasi alla unanimità, la legge n.394 detta Galasso. Essa imponeva alle Regioni una dettagliata pianificazione ed era stata preceduta da una serie di decreti, chiamati “galassini”, coi quali si vincolavano territori decisamente preziosi. Marche, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna approvarono i loro piani entro il 1986. Altre in ritardo. Altre ancora mai, le più devastate da speculazione e abusivismo. Campania e Sicilia su tutte. Per la Campania ci fu un tentativo di piano redatto dalle Soprintendenze. Bocciato: lo Stato non può sostituirsi alle Regioni, neppure se inadempienti in modo conclamato. Come la Regione Sicilia – la più “abusata”, non a caso, d’Italia – la quale ha invocato e invoca la sua specialissima autonomia. Anche ora – come ha documentato Silvia Mazza per Emergenza Cultura – con un emendamento-grimaldello l’Assemblea regionale ha votato deroghe ai Piani paesaggistici “per le opere di pubblica utilità” (pubbliche, private, in concessione). Norma “retrospettiva” che salva opere già bocciate come la Catania-Siracusa. Bocciata, beninteso, da Soprintendenze nominate dalla Regione…
E nella Campania Infelix della marea di abusi e della “impermeabilizzazione” con cemento e asfalto di tanti suoli liberi? Per il Piano paesaggistico siamo ancora al lavoro delle commissioni, racconta il rappresentante dei 5 Stelle, Tommaso Malerba. Eppure Napoli è fra i grandi Comuni il più “impermeabilizzato” d’Italia con 64% del territorio, seguito da Milano col 54%. In provincia spicca Casavatore che, con l’89,3% di cemento+asfalto detiene il primato nazionale ed europeo in materia, seguito da vicino da Arzano e da Melito di Napoli. Qualche raro albero e un po’ di fili d’erba. Dove non sono passati gli incendiari. Ma sì, i piani possono attendere.

il manifesto 23.9.17
L’Egitto fa terra bruciata attorno a Regeni
Diritti umani. Raid della polizia nella sede dell’Ecfr, consulenti della famiglia. L’avvocato Metwally, rapito e scomparso per alcuni giorni, denuncia torture in carcere. La doppia faccia di al Sisi. Mentre rassicura Gentiloni, a margine dell'Assemblea generale dell'Onu di New York, agli altri paesi arabi dice: «La colpa è del ricercatore. L'Italia sta esagerando»
di Pino Dragoni

Non si ferma il giro di vite contro i difensori dei diritti umani in Egitto. Il 21 settembre è stata un’altra giornata drammatica, segnata da un raid compiuto nella sede della Commissione Egiziana Diritti e Libertà (Ecrf), che segue anche per conto della famiglia il caso di Giulio Regeni. L’autorità per gli investimenti ha fatto visita alla sede dell’organizzazione accompagnata da agenti della National Security e da una camionetta della polizia, minacciando di apporre i sigilli alla porta. Gli avvocati presenti negli uffici si sono opposti e sono riusciti a scongiurare la chiusura, dichiarando che l’organizzazione è regolarmente registrata come studio legale e non viola alcuna legge (molte organizzazioni per i diritti umani in Egitto evitano di qualificarsi come Ong per evitare le pesantissime restrizioni imposte). Già nell’ottobre 2016 l’associazione aveva subito una visita simile con tanto di perquisizione tra i faldoni sui casi dei desaparecidos.
«Non è una coincidenza il fatto che l’Ecrf avrebbe presto ricevuto la famiglia di Giulio Regeni, per continuare ad aiutare le indagini sulla sparizione forzata e la morte di Regeni nel 2016», afferma un comunicato della Commissione, che si esprime anche a nome dei genitori Paola e Claudio. L’organizzazione poche settimane fa aveva rilasciato un rapporto in cui documentava 378 casi di sparizioni forzate avvenute nel periodo agosto 2016-agosto 2017, accusando le forze di sicurezza come principale responsabile di questi episodi. Il sito dell’Ecrf è oscurato in Egitto dal 5 settembre. «Stanno facendo terra bruciata intorno ai Regeni», è il commento di Maaty el-Sandouby, giornalista egiziano residente in Italia e co-fondatore dell’associazione delle famiglie dei desaparecidos, «così che quando i Regeni andranno in Egitto non troveranno più nessuno ad aiutarli».
E sempre giovedì è circolata la notizia secondo cui l’avvocato Ibrahim Metwally sarebbe stato torturato in carcere. Arrestato il 10 settembre all’aeroporto del Cairo, Metwally è coordinatore dell’Associazione delle famiglie vittime di sparizione forzata, con cui l’Ecrf collabora per consulenze legali. Da martedì 14 si trova rinchiuso nella famigerata sezione Scorpion del carcere di Torah, con accuse pesantissime a suo carico. La notizia delle torture è stata riferita a TPINews dall’avvocato Mohamed Lotfy, anche lui membro dell’Ecrf, che riferisce anche la decisione del tribunale di rinnovare la detenzione per altri 15 giorni in attesa di processo. Metwally si troverebbe in isolamento, senza energia elettrica, in una cella piena di spazzatura e, stando a quanto lui stesso avrebbe riferito ai suoi legali, sarebbe stato lasciato nudo in cella e sottoposto a scosse elettriche.
Nel frattempo il governo italiano non solo si ostina nel suo imbarazzato silenzio a proposito di queste gravissime violazioni contro attivisti egiziani (che interferiscono direttamente con l’inchiesta sul caso Regeni), ma procede spedito sulla via della normalizzazione delle relazioni. Infatti, nelle stesse ore in cui le forze di sicurezza egiziane attaccavano gli uffici dell’Ecrf, Gentiloni e al-Sisi si sono incontravano a margine della 72esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La discussione ha ribadito la volontà dei due paesi di «rafforzare le relazioni e la cooperazione a tutti i livelli» e le ormai trite formule di rito sul «massimo impegno nella ricerca della verità e la consegna dei responsabili alla giustizia» riguardo al caso Regeni.
Eppure, sempre a margine dell’Assemblea Onu, la versione dell’Egitto con gli alleati del Golfo sarebbe stata completamente diversa. Secondo retroscena rivelati ieri da La Stampa, pressati dagli altri paesi arabi per risolvere l’impasse diplomatica con l’Italia, alcuni alti funzionari egiziani avrebbero risposto che «la colpa è stata di Regeni, che il Cairo non ha fatto nulla di male, e che gli italiani stanno esagerando la questione». Insomma quasi un’ammissione di colpa secondo La Stampa, se non di un coinvolgimento diretto di al-Sisi, certamente della forte capacità del ministero degli Interni «di influenzare, se non ricattare, lo stesso presidente». E una conferma ulteriore che non sarà fatta mai chiarezza.
Ulteriore beffa, la firma giovedì di un protocollo d’intesa tra l’accademia di polizia egiziana e il Ministero degli Interni italiano per istituire un centro internazionale di formazione al Cairo, finanziato da Italia e Ue. I corsi organizzati saranno rivolti ad agenti di polizia dei paesi africani e riguarderanno la messa in sicurezza delle frontiere, la gestione dei confini, e la lotta ai traffici illegali.
Intanto Amnesty International lancia una petizione online per la liberazione immediata dell’avvocato Ibrahim Metwally, disponibile sul sito www.amnesty.it.

il manifesto 23.9.17
Kipping: «Contro i populismi una sinistra transnazionale»
Intervista . La co-segretaria del partito della Sinistra tedesca Die Linke: «Siamo l’unica voce contro i nazisti dell’Afd»
di Beppe Caccia

BERLINO Incontriamo Katja Kipping, co-segretaria del partito della Sinistra tedesca Die Linke, alla vigilia del voto di domenica per il Bundestag.
In queste ultime ore di campagna uno dei punti caldi è proprio lo scontro tra la Sinistra e i «populisti di destra» di Alternative für Deutschland per la conquista del terzo miglior risultato.
Quale significato assume questa «competizione«?
È un’importante questione simbolica e politica al tempo stesso: sapere se il terzo partito più forte nel prossimo Bundestag si concentrerà sui temi sociali e sulle questioni della giustizia e solidarietà o se, come la destra dell’AfD, farneticherà della «produzione di razze miste» o sarà «orgoglioso» della Wehrmacht. La Linke vuole impedire che un partito, in cui i nazisti hanno diritto di parola, possa diventare la più rilevante forza d’opposizione di fronte alla possibile riconferma della Große Koalition. Dopodiché il fenomeno dei populismi di destra è qualcosa di ben più complesso di vecchi e nuovi nazisti: abbiamo bisogno di una nuova forte offensiva sociale per batterlo.
All’inizio di quest’anno, molti hanno invece pensato alla possibilità di un governo «rosso-verde-rosso» dopo le prossime elezioni. Che cosa è successo invece?
Per la terza volta, dopo il 2009 e il 2013, la Spd non ha avuto il coraggio di aprire a un vero cambiamento politico e ha di fatto rinunciato a candidarsi al Cancellierato. Temo che, dopo domenica, questa speranza per una nuova Spd finisca in una profonda demoralizzazione. Io stessa ho fatto campagna per portare al potere una coalizione capace di mettere assieme «ciò che sta al centro con ciò che sta in basso» (Mitten-Unten-Bündnis), perché sono fermamente convinta che in Germania vi siano oggi maggioranze sociali per un cambiamento politico progressista. Ma la Spd, come i Verdi, hanno rifiutato di compiere questo passo apertamente e di provarci sul serio. E ora, ovviamente, è necessario che ci sia una Sinistra più forte per avviare un processo di ripensamento tra tutti i soggetti interessati.
Anche dall’Italia diverse personalità di tutta la sinistra hanno invitato a sostenere il vostro partito. In che senso un risultato elettorale positivo per la Linke sarebbe cruciale per l’Europa?
È del tutto evidente come il potere europeo abbia la sua sede nella Berlino politica. Lo abbiamo visto nella crisi greca ad esempio. Se la Linke avrà successo in queste elezioni, sarà un segnale incoraggiante anche per l’idea di un’Europa sociale e democratica. La crescita dei populismi di destra non può essere contrastata solo sul piano nazionale, ma abbiamo bisogno di una comune sinistra transnazionale in Europa, che sia più ampia dell’alleanza dei soli partiti della sinistra europea. Ed è solo quando pensiamo in chiave europea, che possiamo affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Penso non solo al movimento delle migrazioni, ma anche alla crisi climatica o all’ingiustizia globale. A volte sembra che il rifugiato, come Brecht scrisse una volta, sia solo «un messaggero di sventura». I rifugiati ci ricordano le nostre vulnerabilità e ci avvertono che anche il nostro piccolo mondo qui non è più in ordine. L’idea europea è sull’orlo del precipizio e noi dobbiamo lottare, anche all’interno del campo progressista, per non tornare alle prigioni nazionali della storia.
Quali scenari strategici immagina dopo il 24 settembre?
Dipende dal risultato. La questione se i populisti di destra o la Linke diventeranno la terza forza politica del paese deciderà anche se saranno il razzismo o la giustizia il contrappeso di un nuovo governo Merkel. Temo che per la socialdemocrazia tedesca possa chiudersi presto una finestra storica. Perché se la Spd entra di nuovo in una grande coalizione, essa prima o poi si pasokizzerà. I Verdi, d’altra parte, se entrassero in una coalizione con la Cdu o anche con i Liberaldemocratici, dovrebbero rinunciare al loro patrimonio storico di battaglie per i diritti civili e l’ambiente. Se si realizzasse infine un’alleanza nero-gialla (Cdu-Fdp), vi sarebbe il rischio del ritorno a un puro neoliberismo.
Quale ruolo per la Linke dunque?
Il nostro compito, come Sinistra dopo il voto, sarà triplice. In primo luogo, rimaniamo l’unica forza credibile per la giustizia sociale dentro al Parlamento. In secondo luogo, saremo allo stesso tempo una voce ben chiara contro il razzismo e i nazisti dell’AfD. Ma abbiamo un terzo compito: la Linke deve iniziare a costruire uno spazio sociale per maggioranze di sinistra che vadano oltre il blocco conservatore e di destra. So che nel paese vi è un sentire progressista, che non si riflette nelle politiche dei Verdi e dell’SPD, e talvolta neppure in quelle della Linke. Per una nuova alleanza Mitten-Unten non è più sufficiente criticare gli avversari politici o il presunto riformismo di eventuali partner. Il tempo di questo lamento da vecchia sinistra è scaduto. Abbiamo invece bisogno di uno stile politico che stimoli una partecipazione sociale pluralistica e indichi che vi sono più opportunità che rischi in un partito che sia socialmente e culturalmente diversificato. Abbiamo bisogno di un Sinistra combattiva che, con il suo messaggio sociale, raggiunga tutti quelli che nella nostra società si sentono estranei alla situazione politica predominante. Abbiamo bisogno di un Sinistra in comune, che sia schierata in qualsiasi momento e ovunque per l’uguaglianza di tutti e le libertà di ciascuno.
(Si ringrazia Martin Glasenapp per la collaborazione)

Il Fatto 23.9.17
L’ex fiore all’occhiello della Ddr nuovo cuore nero dei tedeschi
Lipsia - La città era il centro culturale e industriale del regime comunista, dove la Merkel studiò e iniziò la carriera politica
Immigrati “raus” – Una manifestazione contro gli immigrati a Lipsia che accusa la cancelliera “islamica”
di Leonardo Coen

Non esiste luogo più emblematico di Lipsia, per decifrare la complessa personalità di Angela Merkel, che sul suo passato – i 35 anni vissuti nella defunta Germania Orientale prima della caduta del Muro – è abile a depistare tutti. Intanto, per buona pace degli xenofobi che voteranno domani l’Afd, il nome di Lipsia è di origine polacca, significa “dove vanno a stare i figli”. In secondo luogo, è stata la capitale culturale della defunta Germania Orientale, il fiore all’occhiello della scienza e della ricerca, la vetrina dei successi accademici che il regime di Pankow ostenta ai fratelli dell’Ovest. Ed è a Lipsia che la 19enne Angela arriva nel 1973 per iscriversi alla prestigiosa facoltà di Fisica. La precede una fama di studentessa estremamente intelligente, disciplinata e brillante. A 16 anni è stata premiata come migliore studentessa liceale di tutta la Ddr per la sua conoscenza del russo. Il professore di matematica era fiero di lei, la considerava la più preparata, destinata a grandi cose. Infatti eccola approdare all’organizzazione giovanile comunista del Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (Sed), il Partito egemone di Unità Socialista tedesco-orientale, al potere dal 1949 sino alle elezioni politiche del 1990, le prime “libere” tenute all’Est, dopo la Caduta del Muro. Ed è in questa organizzazione che la giovane ambiziosa Merkel comincia il suo tirocinio di leader: perché ben presto occupa incarichi direttivi.
D’altra parte, “non si faceva carriera se non si aveva una buona opinione sul sistema scolastico del regime”, dice il professore Joachim Ackermann di Wittenberg che fu membro del ministero dell’Educazione Popolare (soppresso nel ’90). Senza dimenticare ch’era figlia d’un pastore luterano, ancorché ben visto dal regime tanto che veniva chiamato il “prete rosso”.
Ebbene, Angela si laurea col massimo dei voti nel 1978. Si butta sulla ricerca scientifica, si perfeziona a Mosca, lavora all’Accademia delle Scienze di Berlino-Est fino al 1990. Dimostra comunque d’essere molto brava e preparata. Allora, mi spiega la storica Christa Panzig che dirige l’Haus der Geschchte di Wittenberg (l’unico museo nell’ex-Ddr sul modo di vivere della popolazione dalla Prima guerra mondiale alla fine del regime comunista), “il 30% degli studenti disagiati frequentava l’università. Lo Stato si accollava i costi dei libri, le tasse accademiche erano appena 10 marchi l’anno. Oggi, solo il 2% degli studenti provenienti da famiglie di basso reddito riescono ad arrivare all’università.
I libri scolastici sono molto cari, non parliamo delle tasse…”. Gli internati studenteschi erano gratis, lo Stato dava una sorta di salario agli universitari, il talento era protetto. Oggi conta solo il portafoglio. Per consolarla, dico che succede lo stesso in Italia.
Come mai la Merkel, che pure ha vissuto e si è saputa ben destreggiare nel labirinto comunista scolastico, non interviene per rendere meno classista la scuola attuale? Perché è un argomento che non porta voti in più. E qui s’innesca una problematica trascurata dai media: il conflitto generazionale nei Land della Germania Orientale. La trasformazione degli anni Novanta ha profondamente marcato la generazione di coloro che si sono formati sotto la Repubblica Democratica e, successivamente, nella Germania riunificata. Questo disagio culturale è magistralmente raccontato da Sabine Rennefanz in un libro emblematico: Die Mutter meiner Mutter . Sabine aveva 15 anni quando la Cortina di ferro si sbriciola. La notte della Grande Svolta. Vennero poi gli anni del caos: “La gente dell’Est si è sentita spossessata e svilita. La Ddr era lontano dall’essere un paese perfetto ma era il solo che io conoscevo”. In queste parole, c’è il risentimento nei confronti della democrazia che la Merkel ha impersonato: ma come, sei stata una dei nostri e ci hai lasciato in balìa del potere economico, della globalizzazione, di un’Europa che ci trascura. E in effetti, fuori dal centro di Lipsia c’è un’aria dimessa. Quartieri dormitorio, case dell’edilizia popolare comunista, fabbriche dismesse. Le regole del gioco occidentale fanno tabula rasa. “Molti tedeschi dell’Est non si sono rimessi dalla perdita dei loro punti di riferimento. Vivono su un territorio vuoto, in collera contro tutto ciò che non comprendono”. Lo zero esistenziale.
Questa rabbia si rivolta contro la Cancelliera, contro i rifugiati, i migranti, gli omosessuali, contro l’Unione europea. L’identità multipla si frantuma. La memoria è strumentalizzata, come la nostalgia, alimento della destra più estrema, radicale e anti-berlinese. Lo leggi sui muri sbrecciati: scritte feroci, disperate. Una dice: “Non siamo che stupidi Ossis”, gli stupidi cittadini di serie B venuti dall’Est.

il manifesto 23.9.17
L’irreversibilità dell’Ottobre russo
Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 - la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa Mirafiori
di Michele Prospero

Ricostruendo i passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto vocabolo nella tradizione russa.
Le fabbriche che sono insorte, la diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata. Altrimenti l’insubordinazione diventava una pura scintilla di rivolta che si dipanava senza alcun progetto. Il capolavoro di Lenin fu proprio questo: tramutare una ribellione di massa già in atto, e con una forte intonazione plebea, in un grande assalto politico a quello che lui chiamava un «anello di legno» del capitale, pronto a sgretolarsi al primo impeto.
IL SALTO NEL BUIO di ottobre presuppone una rigorosa analisi dei limiti della rivoluzione di febbraio. Per Lenin due erano i nodi irresolubili per la coalizione salita al potere. Il primo era legato alla terra e alla forte pressione contadina per avere il pane. Il nuovo potere rinviava all’infinito il voto per l’assemblea costituente proprio nel timore che avrebbe potuto diventare la cassa di risonanza delle richieste di terra. Il secondo punto di allarme era la guerra. Il governo di febbraio era per la continuazione dell’impresa bellica e anzi ogni tanto proponeva persino sanguinose controffensive patriottiche. Che rivoluzione era mai quella che deponeva lo zar ma proseguiva la sua guerra e lasciava la terra e le fabbriche ai padroni?
Per Lenin la Russia era precipitata in una situazione di emergenza (insieme sociale e bellica) e invece il governo in carica riteneva di cavarsela con la definizione del sistema elettorale per la Duma. La debolezza della soluzione liberale al problema hobbesiano dell’ordine lasciava campo alle suggestioni golpiste dei militari. Secondo Lenin la risposta al dilemma dell’autorità scaturiva dalla stessa aporia esplosa con il «dualismo dei poteri». Con la proliferazione, accanto agli organi fragili rispolverati dal governo provvisorio, di un vecchio istituto inventato nel 1905, il soviet come nuova forma della rappresentanza dal basso, era possibile compiere una rivoluzione sociale.
Non ci sarebbe stata la presa del Palazzo d’Inverno senza la testarda insistenza di Lenin a compiere l’attacco frontale per sciogliere la insostenibile contraddizione tra due poteri che rivendicavano sovranità. Nel suo partito c’era chi invitava a cogliere in maniera tradizionale le opportunità della rivoluzione liberale per cercare di strappare diritti più avanzati. La ricognizione dei rapporti di forza indusse invece Lenin a ritenere che, a differenza del 1905, non era possibile limitarsi a un riassetto della forma politica in un senso più liberale. La distruzione, il caos, l’insubordinazione diffusa richiedevano una diversa prospettiva: il potere ai soviet.
Ha faticato molto Lenin per persuadere la vecchia guardia che non si poneva la questione astratta della preferenza tra organismi liberali e forme autocratiche di potere. Il problema era di rispondere all’emergenza prodotta dalla guerra, e quindi di conquistare il potere vagante per scongiurare il caos. Non c’erano altri antidoti alla dissoluzione generale che una mobilitazione armata e di massa per la pace e la terra. La leggenda narra di un partito bolscevico costruito come una rigida macchina monolitica che raggruppava un manipolo di cospiratori assetati di potere e mossi da violenza. Questa banalizzazione del leninismo come sinonimo di spirito settario non corrisponde ai processi reali.
LA STESSA FAVOLA del centralismo democratico, come congegno della subordinazione gerarchica e della rigida omogeneità d’azione del partito-caserma, urta con la vicenda storica di un Lenin che si trovava spesso in minoranza nella sua organizzazione.
Persino la Pravda lo censurava o prendeva le distanze da un suo scritto. Lo stesso ordine di insurrezione ricevette una accoglienza assai dura. Kamenev denunciò sui giornali nemici le prove in corso di assalto al palazzo e per questo gesto irrituale attirò su di sé solo l’epiteto di crumiro. Cercò addirittura di persuadere il ricercato Lenin a farsi ammanettare. Non esisteva insomma alcun culto della personalità. Nel ’17 quello bolscevico era un partito a maglie così larghe da apparire una federazione di sensibilità eterogenee, un organismo che anche nella illegalità sembrava (un po’ troppo) vivacemente plurale.
Per convincere i riottosi della necessità di una presa delle armi non bastarono un congresso straordinario, due distinte risoluzioni votate a maggioranza dal comitato centrale. Tormentato e teso (Lenin stesso minacciò le dimissioni) fu il cammino per la presa del Palazzo d’Inverno.
L’INSURREZIONE non obbediva a una tattica militare spregiudicata, era invece l’efficace risposta storico-politica alle contraddizioni aperte dalle guerre mondiali (Lenin prevedeva che un altro ancora più distruttivo conflitto sarebbe scoppiato in un tempo sordo ai richiami del «famoso scrittore Keynes»). L’alternativa per lui non era certo tra un costituzionalismo slavo e il potere rosso, ma tra la dissoluzione nel caos del vecchio impero e la brutale dittatura militare. Dopo la quasi incruenta conquista del potere, legittimata da una deliberazione dei soviet che a settembre erano in maggioranza schierati con i bolscevichi, Lenin fu sorpreso dall’esito negativo del voto per l’assemblea costituente (prese solo il 24 per cento). In un primo tempo, anche per convivere con la contraddizione di due maggioranze antitetiche, Lenin era disponibile a un governo di coalizione con la sinistra dei socialisti rivoluzionari (cui fu affidato il dicastero chiave dell’agricoltura).
GLI ACCADIMENTI REALI, le lotte, le posizioni provocatorie dei raggruppamenti socialisti (escludere Lenin e Trotsky dal governo, nella scommessa che i bolscevichi sarebbero presto stati spazzati via) ruppero l’alleanza e portarono alla soluzione di un governo di partito. La vittoria dell’Ottobre era ritenuta un accadimento non più reversibile.
A cento anni di distanza, quell’esperienza che segnò il Novecento, produsse miti, mobilitazioni, speranze, utopie, tragedie non può essere semplicemente archiviata nella galleria degli orrori. La prima grande manifestazione di massa che si tenne a Roma liberata nel 1944 si svolse allo stadio Palatino. Parlarono insieme Nenni e Togliatti perché l’Ottobre era patrimonio comune. I loro discorsi furono stampati dall’Avanti e dall’Unità in un opuscoletto di 31 pagine con il titolo in rosso: Viva la Rivoluzione d’Ottobre! Persino Veltroni, in un cinema romano, nel ’77 celebrò i 60 anni dei soviet. Anche se la rimozione è di moda, la ricostruzione democratica in Italia è connessa con il fantastico scatto del ’17.
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Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 – la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Tra i relatori, Raffaele D’Agata, Andrea Sonaglioni, Alexander Hobel, Angelo d’Orsi, Gennaro Lopez, Guido Liguori, Stefano Petrucciani, Paolo Ciofi. Saranno proiettati documenti d’epoca.

Repubblica 23.9.17
Storia letteraria dell’odio
Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante
di Stefano Massini

Che il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un
bisogno fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi di diete vegane, riaffiora insomma l’homo carnivorus e dunque cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.
Nella sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti — sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti — saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida, dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda e infine costretto a mordersi da solo.
A tentare una risposta ci provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro altri (magari in forma anonima sulla app Sarahah): per quanto ci sembri superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne La venticinquesima ora, il romanzo di David Benioff diventato un film di Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi, dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).
Nelle pieghe della differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente massacrato da una rivolta degli africani.
Fu un’ordalia, fu un tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo: troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito: come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle vacche della comunicazione.
Questo per i toni. Ma i contenuti? Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh. Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh, intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.
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