sabato 7 ottobre 2017

Il Fatto 7.10.17
La banalità dell’assassino in tv: Pietro Maso non ha nulla da dire
26 anni dopo la strage - Maurizio Costanzo prepara l’intervista scoop. Ma l’uomo che uccise i suoi genitori offre soltanto silenzi e cliché
di Selvaggia Lucarelli

C’è una cosa che mi ha lasciata più basita dell’omicidio commesso da Pietro Maso. È l’intervista di Maurizio Costanzo a Pietro Maso. Un’intervista annunciata con clamore perché “è la prima volta di Maso in tv”.
Perché, come dichiarato Costanzo, “voglio dargli una seconda possibilità”.
Quella seconda possibilità che con la sua memorabile intervista della serie “mannaggia a te birichino che non sei altro”, concesse anche a Fabrizio Corona, lo scorso anno. Cinque mesi prima che tornasse dritto dritto in carcere.
Per descrivere l’abisso di bruttezza di questa intervista bisogna partire dalla costruzione.
Come in tutte le interviste da Costanzo, le domande sono intervallate da momenti musicali durante i quali, nei monitor alle spalle, appaiono delle frasi e delle immagini dell’ospite. Il problema è che la scelta musicale era leggermente didascalica. Si andava da Mama, just killed a man! (Bohemian rhapsody) a Money for nothing, roba che mancavano Killing me softly e Hanno ucciso l’uomo ragno e le canzoni a tema omicidio se l’erano giocate tutte.
Le scritte poi, si leggevano male, le inquadrature erano inspiegabilmente dal basso, per cui a un certo punto sembra che Costanzo intervistasse un calzino blu filo di Scozia, e infine, Costanzo, aveva un grosso problema: è più facile tirar fuori un congiuntivo da Luigi Di Maio che un qualcosa di interessante da quest’uomo. Il primo vero mistero infatti è cosa contenga il suo libro, naturalmente in promozione a favore di telecamera, perché in un’ora di intervista, il parlato di Maso, sarà stato in tutto massimo 4 minuti. O in quel libro ci sono le ricostruzioni dell’omicidio in 198 vignette spalmate su 200 pagine, o il suo ghostwriter è Tolstoj.
La prima domanda di Costanzo, tanto per entrare subito in argomento, è stata: “Dove ha preso ’sto sole?”. “In comunità, faccio il giardiniere!”. Bene. E questa è stata anche la risposta più esaustiva della serata. “Lei come si sente adesso?”. “Io mi vedo una persona come tante”. Certo, il classico vicino che salutava sempre. Poi aggiunge che non ha più corazze, che è se stesso e tutti quei grandi classici a cui manca solo “sono una ragazza semplice”. Costanzo capisce che se non parla lui, per riempire un’ora di intervista deve ballare Despacito facendo un trenino con la prima fila, quindi decide di improvvisarsi il Freud dei Parioli: “La invito a liberarsi di ogni peso qui stasera, (…) si fanno molti sbagli nella vita, certo… il suo è uno sbaglio un po’ più forte”, roba che se uno non sapesse di cosa si sta parlando, penserebbe a un parcheggio sul marciapiede. A un maglione blu elettrico su pantalone verde muschio. Comunque. Costanzo, gli va dato atto, non si scoraggia.
Altra clip sulla sua infanzia. Si era ammalato, fino a 4 anni non parlava, di quegli anni ricorda la sua stanza da bambino, più che altro. “Lei durante l’infanzia ha avuto la meningite… capisco… se non ci fosse stato l’incidente sarebbe giustificabile…”. E certo, se non avesse incidentalmente preso a bastonate i genitori, questa personalità borderline sarebbe comprensibile per via dell’infanzia difficile, per via della meningite. Bebe Vio è il classico esempio di quella negatività che ti lascia addosso la malattia. Cupa, negativa, introversa. Come no.
“Lei è andato al cimitero?”. “No, ci devo andare!”. “Che voleva fare da grande?”. “Niente, volevo divertirmi”. “Ha rubato molto?”. “Sì”. Costanzo vacilla. Sarebbe capace di emettere più suoni il suo comodino in betulla che l’ospite esclusivo.
Allora, per occupare qualche minuto di trasmissione, ritorna il Freud dei Parioli. “Perché non piange? Lei rimane attonito, questo è sintomo di sgomento, di paura, io una psicanalisi la invito ad affrontarla, lei si deve liberare Pietro…”. Ora, a parte che l’ultima volta che s’è liberato s’è preso 30 anni di galera, quindi io l’inviterei a trattenersi, al limite, ma il bello arriva dopo, quando Costanzo riesce a fargli l’unica domanda di reale interesse in un’ora di programma: “Mi faccia capire il percorso mentale di lei che ha 25 milioni di debiti e uccide i genitori. Perché?”. Silenzio. Attimi di pathos. A Maso trema il labbro. Costanzo ha la parola “scoop” che gli lampeggia sulla fronte. Il pubblico con le mascelle spalancate e…: “È l’unica risposta che non ho mai trovato in me”. Fine. Allora si passa all’argomento droga, che Maso ha consumato in quantità uscito dal carcere. Qui Costanzo parla a Maso, un uomo di 46 anni, come a un bambino che ha mozzato la coda a una lucertola: “E la smetta cacchio… a parte che costa, poi sono cose che uccidono! Lo faccia per sua madre e suo padre che sono qui mannaggia… lei ha pure il passaporto che cacchio se mette appjjà la droga!”. Ora, a parte che Costanzo e Maso hanno deciso che i poveri genitori stavano lì in teatro in veste di ectoplasmi, non si capisce bene perché il passaporto dovrebbe essere un deterrente per l’utilizzo della droga. Molti narcotrafficanti non sarebbero d’accordo, diciamo.
Costanzo lo invita infine a piangere un altro paio di volte, ma niente, lui ha una corazza, dice.
L’intervista a quel punto comincia ad avvitarsi su se stessa, quindi Costanzo manda un’altra clip, quella sulla sua ex moglie Stefania. Maso, che non aveva pianto manco di fronte alla foto dei genitori, inizia a piangere come un agnellino, ma non perché di ’sti genitori non gliene freghi nulla, no no, è la corazza. “È vero che voleva ammazzare le sue sorelle?”. “Sì, ma è la doppia personalità, l’altro Pietro”. “Che ricordi ha del massacro?”. “Nulla, era il narcisismo”. Insomma, a un certo punto le risposte di Maso parevano i bigliettini della fortuna e il tempo è scaduto. “Io le auguro di convincersi che l’amore non è un sentimento negativo, Pietro. Daje! Sipario!”.
E buona camicia a tutti. Di forza, però.
il manifesto 7.10.17
L’ultima volta del Che
Che Guevara 50° anniversario della morte. Dal reportage dalla Bolivia di Franco Pierini su "L'Europeo" del 26 ottobre 1967
di Federico Cartelli

Roberto Guevara non voleva crederci, per lui non esisteva alcuna prova che suo fratello Ernesto fosse stato ucciso durante o dopo la cattura. Proprio per questo era giunto a La Paz, per poterne vedere il corpo e così capacitarsene; ma le autorità militari non glielo consentirono. La loro versione fu anzi lapidaria: il cadavere era stato già cremato. Le cose, in realtà, stavano diversamente: dopo un tentativo malriuscito d’incenerirlo con la benzina, il corpo semicarbonizzato, tenuto nascosto in una cassa, era stato seppellito in un luogo segreto vicino a Vallegrande, a sette giorni dalla morte avvenuta in circostanze cruente. Ernesto Guevara detto il “Che” (esclamazione usata dallo stesso per porre l’attenzione su qualcosa), ritenuto dai soldati che gli davano la caccia un rivoluzionario di professione, venne freddato all’alba del 9 ottobre di cinquant’anni fa con una rivoltellata dritta al petto, come conseguenza rabbiosa di uno schiaffo mollato sulle labbra di un ufficiale che da ore lo stava sfinendo con domande inquisitorie. Dopo 16 ore di sofferenza a causa delle ferite riportate nello scontro a fuoco del giorno prima con i rangers boliviani (il corpo speciale dell’esercito addestrato a Panama da marines americani) e dell’interrogatorio cui era stato sottoposto fin dalla notte, Guevara con le energie residue, disteso su una barella, aveva reagito al colonnello Andres Selnich, capo di un raggruppamento tattico di truppe. Alla scena si erano trovati ad assistere alcuni soldati feriti. La sua fine, schiaffo o non schiaffo, era scritta comunque. E dunque non morì per le ferite della sparatoria fra guerriglieri e soldati a Quebrada de Churo, sulle montagne. Si trattò invece di un assassinio avvenuto nel villaggio di La Higuera dove era stato condotto dopo la cattura. Agenti del servizio informazioni degli Usa, per accertarne l’identità, giunsero sul posto in quella stessa mattina. La guerriglia in Bolivia, con gli ultimi seguaci del “Che” (meno di una decina) ormai dispersi, poteva considerarsi conclusa.
E’ questo il succo del resoconto giornalistico di Franco Pierini, inviato del settimanale “L’Europeo” nella provincia di Vallegrande, in Bolivia, durante quei giorni che già allora, vivendoli, sembravano appartenere alla storia. Il settimanale italiano era stato uno dei primi al mondo a raccogliere testimonianze dirette dalle zone della guerriglia in cui era stato preso il “Che”. “La verità è questa: Guevara è stato ucciso con un colpo al cuore dopo che aveva schiaffeggiato un colonnello”, asseriva in forma didascalica il catenaccio della corrispondenza dell’”Europeo” del 26 ottobre 1967. Nella quale veniva indicato il capitano Gary Prado Salmon, dei rangers, come esecutore dell’uccisione di Guevara. (Ma l’ufficiale negò ovviamente di esserne il responsabile). Già ferito alle gambe e al torace non era stato complicato per Prado e i suoi uomini far prigioniero Guevara, che subito dichiarò la propria identità, alla confluenza di due canaloni che scendevano dalle alture in dei profondi burroni. A nulla era valso il tentativo del combattente che si faceva chiamare Willy, ultimo compagno d’avventura rimastogli, ucciso poi nello scontro, di caricarselo sulle spalle per un’improbabile fuga. In sei, fra i guerriglieri, erano stati i caduti nell’estremo conflitto a fuoco che avrebbe segnato la fine del disegno rivoluzionario in Bolivia per rovesciare il regime di quei militari che venivano definiti “mercenari dell’imperialismo americano”. Di questi, furono almeno una sessantina i caduti nel corso delle operazioni di repressione della guerriglia. Il presidente della repubblica di Bolivia René Barrientos intendeva liberarsi al più presto e in modo definitivo, una volta finito in trappola, di un personaggio scomodo come Guevara: le idee che andava diffondendo apparivano troppo rischiose per la stabilità politica dell’intera America latina. Stabilità che gli Stati Uniti stavano appoggiando con profonda dedizione, a tutela di propri interessi. Nei riguardi del “Che”, illusosi di essere più utile da vivo che da morto, se catturato, c’era comunque rispetto da parte degli stessi militari i quali, nominandolo, dicevano “el senor” o “el doctor” Guevara.
La lotta armata era iniziata nel marzo dello stesso anno con una forza d’un centinaio di guerriglieri provenienti soprattutto da Cuba, Argentina, Venezuela e Perù. Guevara, entrato clandestinamente in Bolivia sotto falso nome, possedeva un passaporto uruguaiano. Proprio perché stranieri, i campesinos, contadini e pastori, si erano mostrati riluttanti a fornire appoggi. Il 90 per cento della popolazione boliviana era d’origine india: in pochi parlavano la lingua spagnola; in molti vivevano racchiusi in vallate di montagne desolate. Pertanto non poteva sorprendere la diffidenza verso quegli infiltrati che compivano fulminee imboscate nel loro territorio. Probabilmente era stato questo uno dei motivi del fallimento della guerriglia che un rivoluzionario a tutto tondo come il “Che” aveva cercato di esportare nei paesi del Terzo mondo. E tuttavia, stando alle dichiarazioni a Pierini di un ufficiale boliviano, colonnello Joaquin Zenteno Anaya, i militari non possedevano alcuna certezza in quel 1967 della presenza di Guevara, “el jefe (il capo) de los bandidos”, in Bolivia. Ci pensarono due dei loro, che avevano partecipato alla lotta armata, a fornirla. Due intellettuali come il giornalista scrittore francese Régis Debray e l’artista pittore argentino Ciro Bustos. I quali vennero arrestati quasi all’inizio dell’impresa boliviana, in aprile. Nel processo a suo carico che si svolse a Camiri, Debray (futuro protagonista del maggio sessantottino a Parigi) sostenne, difendendosi, che si trovava nel paese sudamericano esclusivamente in veste di reporter per ricavare un’intervista dal “Che”. Bustos invece all’interrogatorio rispose con dei ritratti: disegnò a memoria i volti di alcuni guerriglieri, fra cui quello di Ramon (nome di battaglia) che corrispondeva esattamente alla fisionomia a tutti nota di Ernesto Guevara. La caccia partì da quelle dichiarazioni e da quelle prove: quanto bastava per ritenere che era stata tradita, secondo il colonnello Zenteno Anaya, la causa rivoluzionaria del “Che”.
il manifesto 7.10.17
L’ultima volta del Che
Che Guevara 50° anniversario della morte. Dal reportage dalla Bolivia di Franco Pierini su "L'Europeo" del 26 ottobre 1967
di Federico Cartelli

Roberto Guevara non voleva crederci, per lui non esisteva alcuna prova che suo fratello Ernesto fosse stato ucciso durante o dopo la cattura. Proprio per questo era giunto a La Paz, per poterne vedere il corpo e così capacitarsene; ma le autorità militari non glielo consentirono. La loro versione fu anzi lapidaria: il cadavere era stato già cremato. Le cose, in realtà, stavano diversamente: dopo un tentativo malriuscito d’incenerirlo con la benzina, il corpo semicarbonizzato, tenuto nascosto in una cassa, era stato seppellito in un luogo segreto vicino a Vallegrande, a sette giorni dalla morte avvenuta in circostanze cruente. Ernesto Guevara detto il “Che” (esclamazione usata dallo stesso per porre l’attenzione su qualcosa), ritenuto dai soldati che gli davano la caccia un rivoluzionario di professione, venne freddato all’alba del 9 ottobre di cinquant’anni fa con una rivoltellata dritta al petto, come conseguenza rabbiosa di uno schiaffo mollato sulle labbra di un ufficiale che da ore lo stava sfinendo con domande inquisitorie. Dopo 16 ore di sofferenza a causa delle ferite riportate nello scontro a fuoco del giorno prima con i rangers boliviani (il corpo speciale dell’esercito addestrato a Panama da marines americani) e dell’interrogatorio cui era stato sottoposto fin dalla notte, Guevara con le energie residue, disteso su una barella, aveva reagito al colonnello Andres Selnich, capo di un raggruppamento tattico di truppe. Alla scena si erano trovati ad assistere alcuni soldati feriti. La sua fine, schiaffo o non schiaffo, era scritta comunque. E dunque non morì per le ferite della sparatoria fra guerriglieri e soldati a Quebrada de Churo, sulle montagne. Si trattò invece di un assassinio avvenuto nel villaggio di La Higuera dove era stato condotto dopo la cattura. Agenti del servizio informazioni degli Usa, per accertarne l’identità, giunsero sul posto in quella stessa mattina. La guerriglia in Bolivia, con gli ultimi seguaci del “Che” (meno di una decina) ormai dispersi, poteva considerarsi conclusa.
E’ questo il succo del resoconto giornalistico di Franco Pierini, inviato del settimanale “L’Europeo” nella provincia di Vallegrande, in Bolivia, durante quei giorni che già allora, vivendoli, sembravano appartenere alla storia. Il settimanale italiano era stato uno dei primi al mondo a raccogliere testimonianze dirette dalle zone della guerriglia in cui era stato preso il “Che”. “La verità è questa: Guevara è stato ucciso con un colpo al cuore dopo che aveva schiaffeggiato un colonnello”, asseriva in forma didascalica il catenaccio della corrispondenza dell’”Europeo” del 26 ottobre 1967. Nella quale veniva indicato il capitano Gary Prado Salmon, dei rangers, come esecutore dell’uccisione di Guevara. (Ma l’ufficiale negò ovviamente di esserne il responsabile). Già ferito alle gambe e al torace non era stato complicato per Prado e i suoi uomini far prigioniero Guevara, che subito dichiarò la propria identità, alla confluenza di due canaloni che scendevano dalle alture in dei profondi burroni. A nulla era valso il tentativo del combattente che si faceva chiamare Willy, ultimo compagno d’avventura rimastogli, ucciso poi nello scontro, di caricarselo sulle spalle per un’improbabile fuga. In sei, fra i guerriglieri, erano stati i caduti nell’estremo conflitto a fuoco che avrebbe segnato la fine del disegno rivoluzionario in Bolivia per rovesciare il regime di quei militari che venivano definiti “mercenari dell’imperialismo americano”. Di questi, furono almeno una sessantina i caduti nel corso delle operazioni di repressione della guerriglia. Il presidente della repubblica di Bolivia René Barrientos intendeva liberarsi al più presto e in modo definitivo, una volta finito in trappola, di un personaggio scomodo come Guevara: le idee che andava diffondendo apparivano troppo rischiose per la stabilità politica dell’intera America latina. Stabilità che gli Stati Uniti stavano appoggiando con profonda dedizione, a tutela di propri interessi. Nei riguardi del “Che”, illusosi di essere più utile da vivo che da morto, se catturato, c’era comunque rispetto da parte degli stessi militari i quali, nominandolo, dicevano “el senor” o “el doctor” Guevara.
La lotta armata era iniziata nel marzo dello stesso anno con una forza d’un centinaio di guerriglieri provenienti soprattutto da Cuba, Argentina, Venezuela e Perù. Guevara, entrato clandestinamente in Bolivia sotto falso nome, possedeva un passaporto uruguaiano. Proprio perché stranieri, i campesinos, contadini e pastori, si erano mostrati riluttanti a fornire appoggi. Il 90 per cento della popolazione boliviana era d’origine india: in pochi parlavano la lingua spagnola; in molti vivevano racchiusi in vallate di montagne desolate. Pertanto non poteva sorprendere la diffidenza verso quegli infiltrati che compivano fulminee imboscate nel loro territorio. Probabilmente era stato questo uno dei motivi del fallimento della guerriglia che un rivoluzionario a tutto tondo come il “Che” aveva cercato di esportare nei paesi del Terzo mondo. E tuttavia, stando alle dichiarazioni a Pierini di un ufficiale boliviano, colonnello Joaquin Zenteno Anaya, i militari non possedevano alcuna certezza in quel 1967 della presenza di Guevara, “el jefe (il capo) de los bandidos”, in Bolivia. Ci pensarono due dei loro, che avevano partecipato alla lotta armata, a fornirla. Due intellettuali come il giornalista scrittore francese Régis Debray e l’artista pittore argentino Ciro Bustos. I quali vennero arrestati quasi all’inizio dell’impresa boliviana, in aprile. Nel processo a suo carico che si svolse a Camiri, Debray (futuro protagonista del maggio sessantottino a Parigi) sostenne, difendendosi, che si trovava nel paese sudamericano esclusivamente in veste di reporter per ricavare un’intervista dal “Che”. Bustos invece all’interrogatorio rispose con dei ritratti: disegnò a memoria i volti di alcuni guerriglieri, fra cui quello di Ramon (nome di battaglia) che corrispondeva esattamente alla fisionomia a tutti nota di Ernesto Guevara. La caccia partì da quelle dichiarazioni e da quelle prove: quanto bastava per ritenere che era stata tradita, secondo il colonnello Zenteno Anaya, la causa rivoluzionaria del “Che”.
La Stampa 7.10.17
Ad Agadez con un trafficante di migranti
“Vendevo uomini e destini per fare soldi”
Il racconto di un passeur del Niger: mi riempio le tasche con i viaggi di chi vuole andare in Europa Dopo la fine di Gheddafi è stato un boom. Ora la polizia mi tiene d’occhio, ma prima o poi riparto
di Domenico Quirico

Il setaccio funziona. Ad Agadez, crocevia dei migranti verso la Libia, un luogo dove tutte le coscienze sono umiliate, il setaccio creato dall’Europa lascia cadere ormai solo pochi granelli. Ecco: da qui per noi il migrante ritorna invisibile, non esiste più. Ero stato qui pochi mesi fa ed era un fiume di uomini e donne che fluiva nel deserto. Oggi la città sembra morta in un’afa senza respiro, spariti o nascosti i passeur che ne erano i visibili padroni, ritornata la vita e il mercato alla miseria di sempre. La gente se ne sta in giro senza uno scopo, con l’aria di aspettare qualcosa.
È l’ennesima, non l’ultima nessuno si illuda, svolta della Migrazione: che cercherà nuovi alvei e nuove strade. Per raccontarla forse bisogna cercare un altro punto di vista, un’altra angolazione. Il racconto di questo trafficante di uomini per esempio: i ministri europei non lo incontreranno mai uno così. Forse è un errore: scoprirebbero molte cose che non sanno.
Perché mi guardi?
«Perchè mi guardi così? Perché? Non guardarmi così! Mi hai chiesto tu di raccontare tutto questo; dopo, è una parola è una parola, sì: io trasporto uomini nel deserto! Li porto da Agadez in Libia. Lo so: è per questo che mi guardi così. Sono un bastardo, mi riempio le tasche sugli uomini, e chi non guadagna sugli uomini? Lo sai che per me, per noi, per tutti quelli che vivono qui ad Agadez, i migranti sono la vita? Sono come le capre o il dromedario, arrivano spendono denaro li trasportiamo, ci fanno vivere, li facciamo vivere, è il mestiere, sono come i turisti che venivano qui una volta, sono un buon affare, perché no?».
Chiedono solo una cosa
«Quanto a questa gente, chiedono una cosa sola, andare, arrivare là. Schifo di un deserto, ne ho piena la testa, ne ho pieno lo stomaco. Soprattutto adesso che non posso più portare nessuno, finito chiuso, basta milioni di franchi Cfa, quel bel denaro sudicio che ha valore solo qua. Milionario ero, nemmeno tu lo sei, un milione di franchi dieci milioni di franchi, hop hop finito! Il mio bel pick-up, hop svanito, sai dov’è? Quando non era carico di persone, lo nascondevo con le frasche dell’ethel, che quando il vento ci passa dentro sprigiona una musica strana, venticinque migranti ci mettevo dentro, ventisette al massimo perché viaggiassero comodi e ci rimettevo un bel po’ di soldi, gli altri, i libici, i toubus, li schiacciano come pietre, i migranti, donne bambini uomini giù, stringetevi letame, anche dentro la doppia cabina, otto ne fanno stare e qualcuno lo hanno trovato soffocato, non se ne erano accorti, i migranti scemi stanno zitti, hanno paura che li facciano scendere tutti».
Il divieto è in vigore
«Allora il mio bel pick-up sta nel cortile della polizia, da tre mesi, vicino all’aeroporto: decine e decine ce ne sono, tutti sequestrati. Non c’è un deposito così pieno in tutto il Niger, da farci i milioni e prima o poi questi merdosi poliziotti ci penseranno! Sequestrati, a noi passeur, da quando il divieto di portare migranti è cominciato e tutto qua ad Agadez è andato all’aria, ha cominciato a morire. È due mesi che non faccio niente, consumo i soldi che avevo da parte. È ormai tempo che mi dedichi al mio problema, chi non ce l’ha un problema, uno o più di uno forse, anche tu: campi bene, guadagni, ti sfianchi e un giorno il problema principale invade il centro della tua vita, caccia tutti gli altri, ti accompagna come un’ombra e ti fa scoppiare la testa. Ti sta addosso anche quando ti svegli di notte, ti salta addosso come un animale, non è la malattia, il mal di testa, qualcosa che puoi scacciare con un gris gris, no è peggio».
L’ha deciso un tizio
«E tutto perché da qualche parte in Europa un tizio che non ha mai visto Agadez, non sa chi sono io, decide che gli fa comodo che i migranti invece di andare in Libia e da lui restino qui e magari tornino indietro, quattro chiacchiere e così la polizia comincia a rastrellare i migranti e ci dà la caccia, ci mette in galera e ci resti degli anni, come se avessi ucciso qualcuno. I migranti sono sempre lì, dici. Dannazione, dove vuoi che siano? Sbarcano dai bus che arrivano da Niamey, come una volta, di più. Solo che una volta li andavi a prendere all’ultima fermata prima che entrassero in città e via, una quarantina di chilometri a piedi nel deserto tanto per non fare le cose proprio allo scoperto, non ti inseguiva nessuno».
Il ciccione in divisa
«Vedi quel ciccione in divisa che sembra un generale già mezzo ubriaco di birra, quella puttana gli gira intorno ancheggiando come una mosca attorno alla zuccheriera. È un capo della polizia, una volta gli portavamo i soldini e lui era contento, gli passavamo davanti con i pick-up pieni e lui: niente, era un reato anche allora, ma che c’è di male? Chi se ne frega di questi fottuti negri. Lascia che vadano dove vogliono andare. Adesso ci dà la caccia come se fosse lo scopo della sua vita. Mi è andata bene ad aver rinunciato, mi conosce ma sa che sono fermo, ha il mio pick-up e non mi arresta».
Al centro di raccolta
«Anche i migranti adesso hanno capito l’aria che tira, molti vanno volontariamente al centro di raccolta, non c’è più nessuno che li accoglie per partire, quelli sanno tutto, addio Libia almeno per ora, almeno non crepano di fame, li tengono un po’ lì, gli danno trenta euro e li riportano a Niamey e al loro paese: tre mesi e son di nuovo qua. È colpa mia se hanno l’Europa in testa come se fuori di lì, dalla vostra merda non potessero respirare, in Europa c’è la felicità figurati. Qualcuno ancora ci prova nonostante il rischio e la galera verso l’Algeria? No! Lì sei morto, ti tirano addosso con gli elicotteri quei fuori di testa e se ti prendono ti ammazzano nel deserto. Adesso bisogna andare a Sud-Est come se ti allontanassi dalla Libia verso Zinder, poi si torna indietro e si sale verso il Ténéré. Tremila chilometri di confine, ci sono molti passaggi e nessun soldato. Allora noi siamo gli sciacalli che si nutrono di quei poveretti di migranti. Lo sai come giocavo io da bambino? Giocavo con le biglie fatte di sterco di cammello, se portavi il turbante ti prendevano a calci, te lo toglievano a bastonate. Forse dovrei essere io per primo a scappare di qua, a cercare un passaggio verso l’Europa».
Perché sono passeur
«Sai come sono diventato passeur? Te lo dico. Così capisci, c’era il turismo fino al 2006, europei senza tanti soldi ma bastavano, gli uomini blu, il silenzio del deserto, queste scemate. Girava denaro, vendevamo robaccia, monili gioielli finti, ci mettevamo in costume e quelli erano contenti. Poi è finito con la rivolta e la guerra, ero diventato così povero che non avevo quasi da mangiare, vivevo in una baracca accanto a un postaccio dove venivano a ubriacarsi i libici che portavano i migranti, furbi loro, li vedevo dalla mia stamberga, questa gentaglia, cattivi feroci bevevano bevevano birra a litri con le loro puttane, poi venivano a pisciare contro la mia casa, anche le donne tiravano su le sottane e pisciavano. Un puzzo che non potevo respirare, ma non potevo dire niente, quelli tagliano la gola. Un giorno ho detto: basta! voglio diventare come loro, ricco, bere birra».
L’odore dei soldi
«Ho affittato a credito un vecchio pick-up e ho cominciato. Dopo un po’ ho buttato giù la catapecchia e ho costruito una casa, una casa vera con un bel muro alto. Il 2011: quello è stato un grande anno, c’era la guerra in Libia migranti a migliaia, il confine aperto. Avevo quattro pick-up e un socio libico. Il lavoro non era mica facile. Tremila chilometri nel deserto in tre giorni, senza quasi fermarsi perché altrimenti l’acqua finisce e crepi anche tu. Certo sopravvivere nel deserto è come dominare il proprio destino, ma se muori? Una volta nel 2014 ho sbagliato pista, succede anche se hai il Gps e sono finito in Ciad con 27 migranti. Una pattuglia ciadiana ci ha preso tutto, soldi viveri, telefoni, ci ha riportato al di qua della frontiera con i mitra nella schiena ghignando. Non avevamo denaro, niente, ci hanno salvato dopo due giorni amici arrivati da Agadez. Sai i migranti, li osservo, li ascolto, sono ciò che mi fa vivere, li devo conoscere per non avere sorprese, hanno tutti lo stesso sguardo ho capito che quello che li muove è la paura, pensare fa loro paura, parlare gli fa paura, le parole gli fanno paura, la leggi sui loro volti. È per questo che non si ribellano, non ho mai sentito di migranti che hanno assalito il passeur, in fondo non è difficile, sono più numerosi nel deserto, ma hanno paura.
«Una volta uno grosso si è ribellato, c’erano anche le donne e bambini sul pick-up, lui si dava arie, non avevano da bere voleva da bere. Il passeur che era con me ha cominciato a colpirlo con una sbarra di ferro: le arcate spaccate, non poteva più aprire gli occhi, sgocciolava sangue da tutta la faccia e quello colpiva, l’ha lasciato per terra, la testa fracassata e la sua donna lo baciava tutto, il sangue, la faccia spaccata le tempie, gli leccava il sangue, così teneramente ed era morto. Dovevano arrivare dall’Europa molti soldi qui ad Agadez dall’Europa, dicono 150 milioni di franchi Cfa, per creare altro lavoro per noi al posto dei migranti, progetti, cose grosse, sviluppo dicono i politicanti. Beh! il solito bordello, la solita porcheria che c’è in Niger. I soldi li hanno già rubati altri, qui arrivano le briciole e non bastano per vivere. Al posto dei migranti non c’è niente. Allora ti dico: aspetto ancora un po’, affitto un pick-up e riparto».
Corriere 7.10.17
Trump contro la «pillola per tutti» Stretta sulla contraccezione gratuita
di Giuseppe Sarcina

Le aziende potranno rifiutarsi di coprire le spese per il controllo delle nascite
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON Negli Stati Uniti comincia l’era dell’obiezione di coscienza anche per la pillola contraccettiva. Il ministero della Salute ha emanato ieri un regolamento sulle spese sanitarie collegate al controllo delle nascite. Gli imprenditori o altri datori di lavoro, le assicurazioni potranno rifiutarsi di garantire la copertura dei costi, finora prevista dall’Obamacare. Basterà invocare «motivi religiosi» o anche più semplicemente «morali» per ottenere l’esenzione. Il provvedimento rientra nell’operazione di smantellamento della riforma sanitaria voluta da Barack Obama nel 2010. Come promesso da Trump nel corso della campagna elettorale. Molte donne, quindi, dovranno pagare di tasca propria. Quante? Il Washington Post riporta la stima di anonimi funzionari del ministero: «Nel 99,9% dei casi non cambierà nulla». Si calcola che circa 55 milioni di donne hanno accesso gratuito ai metodi contraccettivi. Altri esperti dell’amministrazione prevedono che le penalizzate saranno almeno 120 mila donne.
In realtà è difficile calcolare l’impatto delle nuove norme. Per anni gruppi di pressione hanno chiesto l’abolizione dell’obbligo di copertura in materia di contraccezione. Associazioni, ospedali e università di matrice cattolica, istituti gestiti dalle suore hanno promosso una serie di cause davanti ai tribunali federali. Sostanzialmente sulla base di un argomento: costringere i datori di lavoro a pagare per la pillola equivale a renderli «complici di un peccato grave».
Nel 2014 la Corte Suprema ha accolto questo principio in un caso specifico, consentendo al proprietario della catena di negozi Hobby Lobby di non versare gli importi dovuti alle dipendenti. È chiaro che sarà difficile, se non impossibile, verificare quanto sia realmente profondo il «rigetto etico-religioso» di un imprenditore o di un assicuratore.
Basterà fornire una generica dichiarazione «morale» per risparmiare una quota di contributi sanitari. Ma, evidentemente, a Trump interessa di più mantenere stretto il legame con la parte più conservatrice della base elettorale.
Il Fatto 7.10.17
Carabinieri e migranti pestati. “Il colonnello copriva i suoi”
Aulla - Con altri 36 è inquisito anche il comandante provinciale (trasferito). A luglio era alla conferenza stampa dei pm sui militari arrestati e sospesi
Carabinieri e migranti pestati. “Il colonnello copriva i suoi”
di Ferruccio Sansa | 7 ottobre 2017
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Faceva la conferenza stampa per annunciare l’inchiesta accanto al procuratore. E oggi è indagato perché avrebbe “aiutato i carabinieri indagati ad eludere le investigazioni dell’Autorità”. Tra i 37 carabinieri indagati per lo scandalo che ha travolto l’Arma in Lunigiana c’è anche lui, il tenente colonnello Valerio Liberatori, comandante provinciale dei carabinieri di Massa accusato di concorso in favoreggiamento aggravato. Accanto a lui anche il capitano Saverio Cappelluti, comandante della compagnia di Pontremoli (Massa Carrara).
Lo scandalo che nel giugno scorso aveva riempito le prime pagine dei giornali si arricchisce dell’elemento più clamoroso e allarmante. Forse perfino più delle accuse rivolte a decine di carabinieri che avrebbero picchiato, minacciato, sottoposto a violenze sessuali gli immigrati fermati. Militari che in caserma dicevano: “Noi dobbiamo essere come la mafia”.
Ieri la Procura di Massa ha depositato l’atto di chiusura indagini ed ecco la sorpresa: ci sono 14 nuovi indagati. E c’è soprattutto, a pagina 4, il nome di Liberatori. L’uomo che stava dritto in piedi accanto al procuratore Aldo Giubilaro durante la conferenza stampa. Perché i carabinieri avevano chiesto di condurre le indagini sui loro colleghi per dimostrare che l’Arma era sana. A pagina 11 si entra nel dettaglio: “Dopo la commissione dei delitti aiutavano i carabinieri indagati (e in particolare Alessandro Fiorentino) a eludere le investigazioni delle autorità. In particolare Liberatori dava ordine al Cappelluti, o comunque assumeva insieme a questo la decisione orale, di imporre al luogotenente Tellini, Comandante della stazione di Aulla, di predisporre servizi esterni di pattuglia in cui al Fiorentino (uno dei principali indagati) fosse impedito di continuare a svolgere il ruolo di capo pattuglia… rendendo quindi infruttuosa l’attività di intercettazione predisposta” dai magistrati.
E pensare che, dopo la clamorosa inchiesta, l’Arma aveva deciso di trasferire tutti i carabinieri di Aulla e di sostituire il comandante della stazione. Ma, secondo i pm, ci sarebbe stato chi ai vertici dell’Arma di Massa aiutava i colleghi indagati. Anche il colonnello Liberatori è stato nel frattempo trasferito da Massa Carrara ma per vicende – si era detto – non legate all’inchiesta giudiziaria.
Le accuse, contenute in ben 189 capi di imputazione, toccano brigadieri, marescialli e appuntati. A giugno in 23 erano stati indagati (8 sottoposti a misure cautelari). Quasi tutti i carabinieri di Aulla. E non solo, ci sono anche militari di Pontremoli e di altri comuni della zona. L’obiettivo preferito delle scorribande dei militari accusati sarebbero stati gli immigrati. Alcuni militari avrebbero usato frasi del tipo: “Se parli ti stacco la testa”, “Ti spezzo le gambe”. Poi colpi di manganello sulle mani. Per non dire di scariche elettriche prodotte da due storditori per costringere un presunto spacciatore a parlare. E poi c’è un giovane marocchino che in caserma sarebbe stato “costretto a subire atti sessuali”.
Non solo: gli investigatori per mesi hanno passato al setaccio i registri degli ospedali vicini alla ricerca di persone ferite. Addirittura si è ipotizzato – ma finora non vi sono stati riscontri, né accuse formali – che vi potesse essere una persona scomparsa.
Un’inchiesta partita nel febbraio 2017 che ha diviso profondamente la Lunigiana. Con parte degli abitanti che si è schierata con le forze dell’ordine e contro gli immigrati. Ci sono stati esponenti politici, come Maurizio Gasparri, che avevano espresso solidarietà ai carabinieri. Mentre lo studio del sindaco di Aulla, l’avvocato Roberto Vallettini (Pd), difende diversi carabinieri accusati.
Un atteggiamento che ha fatto sentire sole le persone che avevano denunciato le violenze nonostante le minacce di ritorsione dei carabinieri indagati. Adesso chi ha avuto il coraggio di rompere il muro di omertà si sente ancora più solo. E forse ha ancora più paura.
Repubblica 7.10.17
Il petalo appassito del Rosatellum
MICHELE AINIS
Q UEST’ANNO, insieme ai funghi, l’autunno fa crescere una rosa: il Rosatellum. Che odore esala? Davvero la nuova legge elettorale può intossicare la democrazia italiana, come denuncia un ampio fronte d’intellettuali e di partiti? Davvero si profila all’orizzonte la terza legge incostituzionale, dopo il Porcellum e l’Italicum?
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RISPONDERÀ, a suo tempo, la Consulta. La categoria dell’incostituzionalità descrive soltanto un’opinione, finché non intervenga una sentenza. Proprio dalle sentenze precedenti, tuttavia, è possibile trarre elementi di giudizio. Ed è possibile perciò riferirli alle caratteristiche essenziali del progetto, che il 10 ottobre approderà nell’aula di Montecitorio. Ossia, nell’ordine: un sistema proporzionale per due terzi, maggioritario per un terzo. Rispettivamente per il tramite di collegi plurinominali, da cui s’affacciano listini molto corti (da 2 a 4 candidati, scelti e bloccati dai partiti); e di collegi uninominali, dove fanno capolino le diverse coalizioni che sostengono, ciascuna, il proprio candidato. Con una soglia di sbarramento al 3% su scala nazionale. Senza voto disgiunto fra liste e candidati. In grado d’ospitare fino a 5 pluricandidature. Con una quota di genere (non meno del 40%). Infine con le stesse regole fra Camera e Senato, superando la disomogeneità delle regole vigenti.
Sorpresa: l’oltraggio alla Costituzione qui non c’è. O se c’è, si nasconde come un topo. Perché l’esigenza d’armonizzare i due sistemi elettorali si leggeva già in entrambe le sentenze vergate dalla Corte costituzionale (n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017). Perché quelle decisioni castigarono gli eccessi del maggioritario (un premio o un ballottaggio senza una base minima di voti), non il maggioritario in sé, che oltretutto in questo caso si riduce a modeste correzioni nell’impianto proporzionale del sistema. Perché la Consulta ha decretato l’incostituzionalità delle liste bloccate quando s’allungano come un elenco del telefono, non se comprendono soltanto qualche nome. Perché sempre la Consulta ha acceso il verde del semaforo sui pluricandidati. E perché non può certo definirsi illegittimo qualsiasi incentivo a coalizzarsi, dato che la democrazia — diceva Kelsen — è compromesso fra diversi, è un ambiente che favorisce l’unità, non la disgregazione.
Eppure c’è qualche petalo appassito in questa rosa. C’è un che di marcio, benché l’incostituzionalità del Rosatellum sia un’affermazione senza prove. Intanto per il modo con cui viene messa al mondo la creatura: dopo l’aborto di un maggioritario (il nuovo Mattarellum), di un proporzionale (il simil-tedesco), ora è la volta d’un sistema misto. Come se alle forze politiche italiane mancasse un’idea di società, una direttrice culturale di cui la legge elettorale dovrebbe essere strumento. «Questa o quella per me pari sono», cantava Rigoletto; la stessa strofa che cantano i partiti, altrimenti avrebbero tenuto la barra dritta su un modello, magari limandone i dettagli in corso d’opera, però senza scambiare cavoli e cavalli.
E in secondo luogo c’è uno spiritello maligno che soffia dentro questa legge. È la volontà d’intralciare i 5 Stelle, che non si coalizzano nemmeno con se stessi. O di favorire Alfano, con una soglia di sbarramento che si risolve in un lasciapassare. È l’intenzione di nutrire i commensali (a Salvini il Nord, a Berlusconi la leadership del centro-destra, a Renzi l’opportunità di mettere la sordina ai suoi avversari interni), lasciando a bocca asciutta tutti gli altri. È la «logica vendicativa» di cui ha parlato Ferruccio de Bortoli ( Corriere della Sera, 5 ottobre), nella contesa fra renziani e dalemiani. Ed è in ultimo l’idea — fin qui appena mormorata — di porre la fiducia sulla legge elettorale, per approvarla a suon di muscoli, senza fare prigionieri.
Fatti loro, potremmo commentare. Da sempre i partiti si tirano sgambetti, quando giocano con le regole del gioco. Però c’è un fatto che invece ci riguarda, perché investe il nostro voto. Durante i lunghi anni del Porcellum, barattammo la possibilità di designare i parlamentari con l’illusione di decidere i governi, eleggendo direttamente Prodi o Berlusconi. Ora non ci resta neanche quello. Nella parte proporzionale del Rosatellum non potremo scegliere gli eletti, giacché le liste sono corte ma bloccate; nella parte maggioritaria non potremo scegliere le coalizioni. E oltretutto, mentre il Mattarellum ci consegnava due schede (voto disgiunto), questo suo nipotino scapestrato ce ne regala una soltanto. No, non è incostituzionale: è immorale.
Repubblica 7.10.17
 STEFANO FOLLI
Quella strategia che porta al voto utile
LO SCHEMA della campagna elettorale del Pd è ormai delineato e non è una gran novità. Il partito di Renzi resta il sole del sistema, come è logico, e intorno ad esso si augura che ruotino un paio di pianetini, Pisapia a sinistra e Alfano a destra. Se dovesse passare in Parlamento il cosiddetto “Rosatellum”, avremo una piccola coalizione di centrosinistra.
SEGUE A PAGINA 33
SE INVECE lo sforzo di approvare la legge elettorale fallisse, vedremo il tentativo di allargare la lista unica offrendo dei seggi ai due alleati. La sostanza cambia poco.
Le intenzioni di Renzi sono comprensibili sul piano politico e il tono usato nella direzione è più conciliante del solito. Certo, molta acqua è passata sotto i ponti da quando il segretario sperava di imporre il Pd come partito maggioritario grazie all’Italicum collegato di fatto alla riforma costituzionale. Ma sappiamo come è andata. Oggi il rischio è duplice. Primo, che il nuovo testo della legge elettorale, frutto di una sofferta alchimia fra i partiti maggiori (esclusi i Cinque Stelle, contro i quali è concepito), non superi il vaglio parlamentare. Secondo, che prima o poi la Consulta lo dichiari incostituzionale come ha fatto due volte nel recente passato.
Circa il primo punto, si può solo attendere. Le garanzie e le promesse delle diverse correnti o dei singoli valgono poco, specie quando l’urna è segreta. Peraltro l’esperienza insegna che occorre una leadership molto forte e determinata per imporre una riforma elettorale in una fase d’incertezza; e quel tipo di leadership è proprio quel che oggi manca a sinistra come a destra. Quindi vedremo quel che accadrà in questo Parlamento di fine legislatura, dove in tanti temono per la loro rielezione. C’è anche da capire se Pisapia con il suo Campo progressista è disposto ad accettare lo schema Renzi, sia pure nella forma edulcorata proposta ieri. In passato lo ha sempre rifiutato ponendo una serie di condizioni, tra cui le primarie: destinate più che altro a curvare verso sinistra il profilo e i programmi dell’alleanza.
Quanto al secondo punto, il ruolo della Corte, gli avversari della riforma insistono sugli aspetti a loro avviso incostituzionali del Rosatellum. C’è chi lo chiama, giocando con il finto latino, Imbroglium, recuperando una definizione già usata. In effetti le liste bloccate e il numero esorbitante di parlamentari “nominati” dalle segreterie e non scelti dagli elettori inducono al pessimismo. A quanto pare, gli errori degli anni scorsi non sono d’aiuto e vengono reiterati. Di sicuro la Consulta sarà chiamata prima o poi a verificare i requisiti della nuova legge, qualora fosse licenziata dalle Camere. Tuttavia non sarà un processo rapido e le prossime elezioni, all’inizio del 2018, si svolgeranno con un modello elettorale che potrebbe essere in seguito delegittimato. Come è già accaduto. Non è una prospettiva incoraggiante.
In ogni caso, Renzi sta giocando le carte di cui dispone. Teme il voto in Sicilia, ma è confortato dall’accordo con la minoranza di Orlando, per cui dopo l’eventuale sconfitta non si aprirà la caccia al segretario. È un passaggio importante, ma è arduo credere che una disfatta del centrosinistra rimarrà senza conseguenze. In qualche misura, Renzi si troverà a dover concedere qualcosa ai suoi critici, da Franceschini allo stesso Orlando, nel momento in cui verranno compilate le liste per il voto nazionale. In fondo, se sconfitta a Palermo deve essere, al Nazareno auspicano sotto sotto che a prevalere siano i Cinque Stelle. Un tale esito metterebbe in difficoltà la destra e aiuterebbe Berlusconi a divincolarsi da Salvini. Inoltre offrirebbe al Pd il nemico per eccellenza in vista delle politiche: il “populismo” di Grillo. Finora però i sondaggi sembrano favorevoli al patto di centrodestra.
È evidente, in conclusione, che Renzi sta cercando di presentarsi all’elettorato come rappresentante della sinistra vecchia e nuova. Perciò evita l’attacco frontale ai secessionisti, Bersani, D’Alema, Speranza. Non ne ha bisogno, se riesce ad attirare dalla sua Pisapia. Ma soprattutto cerca di sfilare loro alcuni temi caratteristici. Evocare lo “Ius soli”, ad esempio, tende a svuotare la proposta politica di Mdp. Ed è un modo per preparare il terreno all’appello in favore del “voto utile”.
Corriere 7.10.17
Bruno Tabacci
«Errani ha sbagliato Giuliano non va usato come fosse un orpello»
di  M. Gu.

«Errani ha detto a Pisapia una cosa bruttissima».
«Giuliano tu sei il leader, ma non sei il capo». È stato questo, Bruno Tabacci, a irritare così tanto l’avvocato?
«Non funziona così, se quelli di Mdp non riconoscono che la leadership porta un valore aggiunto vuol dire che si sentono autosufficienti. Cosa pensano, di strutturarsi in un soggetto politico e di usare Pisapia come un orpello?».
Vi preoccupano le liste?
«Bisogna capire come decidiamo le rappresentanze, se il voto di opinione è considerato, o se c’è solo il voto strutturato. Non si può fare la costituente se non si chiarisce questo. Loro vogliono la data, ma io voglio sapere qual è l’atteggiamento sul governo».
Mdp si è messa fuori dalla maggioranza.
«Chiedono un incontro a Gentiloni con Pisapia, si apre un confronto sul Def e loro nel giro di 24 ore fanno dimettere il viceministro degli Interni, che non c’entrava nulla. Mi sono cadute le braccia».
Non erano d’accordo?
«Hanno dato a Pisapia il mandato di uscire dalla maggioranza, a sua insaputa. Comincio già a stare male. Non dico che sono scorretti, ma la loro logica è diversa. Io ho un rapporto gradevole con Roberto Speranza, ma non posso sentirmi dire che se Pisapia non convoca l’assemblea loro la faranno con Fratoianni, Civati, Falcone e Montanari».
Non si sentirebbe a casa?
«A di là della lista “marxisti per Tabacci” io che c’entro con quelli che fischiarono il nome di Pisapia al Brancaccio? Se vogliono fare una forza di sinistra, la sua leadership è un lusso che è inutile concedersi».
Il soggetto unico è morto?
«Ci sono punti difficili da superare. Il primo è il rapporto col governo e per me mettersi all’opposizione è un errore clamoroso. Giuliano già dal primo luglio voleva un percorso senza bandiere, ma loro hanno riempito la piazza di vessilli e da allora è stato tutto un crescendo di feste e bandiere. Come la recuperi una cosa così?».
E D’Alema?
«Era un riformista, ma ora si è radicalizzato su una vis polemica che era tipica del Pci contro la Dc. Lui è convinto che tanto si perde e gioca la partita del dopo. Così andiamo indietro, non avanti. Non può esistere un centrosinistra che prescinde dal Pd».
Corriere 7.10.17
Pisapia è fermo al bivio: dai bersaniani un’imboscata
di Monica Guerzoni

Le tensioni (e le telefonate) dopo lo scontro di Ravenna
ROMA C’è una frase di Pisapia che continua a ronzare nelle orecchie dei compagni di viaggio: «Vado avanti ancora un po’, poi decido». Un’incertezza che giovedì si è fatta ancora più forte, visto com’è andato a finire l’evento di Ravenna per il ritorno di Errani: «Questa serata ha dimostrato che il leader sei tu, Vasco». Una battuta venata dalla diffidenza e destinata a lasciare uno strascico di incomprensioni tra Mdp e Campo progressista.
A innervosire l’ospite cambiando di segno la serata è stato il pressing sulla data dell’assemblea costituente, scadenza che Pisapia continua a procrastrinare. «Vuole tenersi le mani libere» è il sospetto dei bersaniani, mentre i collaboratori dell’avvocato denunciano che «Giuliano è finito in un’imboscata», ordita per consentire a Bersani di scandire il suo ultimatum. «Un mese e mezzo di tempo, non di più». E se Pisapia è rimasto male, Bersani ed Errani «sono rimasti malissimo».
La voglia di rammendare la tela c’è, prova ne siano le telefonate, ieri, tra Bersani, Errani e Pisapia. Ma lo strappo è grande, l’incubo di Pisapia è «fare la fine di Romano Prodi», triturato dalla sua stessa maggioranza. «Se deve andare così, tanto vale sfilarsi prima che sia tardi», è la tentazione che si va rafforzando. Chi l’altra sera ha partecipato alla cena ravennate con l’ex sindaco di Milano — cucinata da Pierangelo, cuoco delle feste dell’Unità passato armi e fornelli con Mdp — ha assaporato tagliatelle al ragù di mare e interrogativi amletici. «Giuliano non si fida — hanno commentato Bersani ed Errani con i parlamentari di Mdp — Continua a dire che i punti di convergenza sono tanti, ma condisce i ragionamenti con un sacco di “però”. Bisogna allargare il campo, bisogna essere convinti tutti... Il problema è che lui non avverte l’urgenza della nostra gente, non capisce che adesso è ora di andare».
Pisapia lo capisce, eccome. Se tentenna, è perché aspetta (e spera) che Sicilia e legge elettorale cambino il quadro. Il suo auspicio è che Renzi ne esca malconcio e che nel Pd prenda il sopravvento il partito della coalizione benedetto da Prodi, Veltroni, Letta, Franceschini, Orlando. A questo si riferiva Pisapia quando, sfidando i mugugni, ha detto che in politica preferisce la poligamia. Ma il popolo bersaniano non vuole saperne del Pd e Cecilia Guerra chiude al dialogo: «Col Rosatellum si fanno solo alleanze di comodo».
Poi c’è il fattore D, come D’Alema. La richiesta al leader Massimo di fare «un passo di fianco» ha esasperato i rapporti con Mdp, dove ieri in tanti accusavano Pisapia di ingenuità: «Si illude se pensa che gli basti dire no a D’Alema sui giornali per levarselo di torno». Per l’altra metà del progetto unitario «non funziona così» ed Errani lo ha gridato con trasporto: «Giuliano è il nostro leader, ma non è il capo, non comanda da solo». Il nodo? Le candidature. Pisapia soffre la scelta di Mdp di strutturarsi in un «partitino del 3%» con circoli, feste e tessere e teme che, sulle liste, siano gli ex ds a farla da padroni.
Corriere 7.10.17
Il leader e il gioco del cerino Il suo vero obiettivo è l’ex sindaco di Milano
di Maria Teresa Meli

ROMA Matteo Renzi è sincero quando dice: «Non impazzisco per il tema». Ma poi sa che, alla fine della festa, la protagonista della scena politica in questo momento è la legge elettorale. Il che lo costringe a prendere delle decisioni. Perché il Rosatellum, per la «sua capacità di fare coalizione», e, quindi, di dare più chance di vittoria al Pd, lo convince. Tant’è vero che ieri, in direzione, ha ottenuto un «sì» all’unanimità.
Esattamente ciò che Silvio Berlusconi chiedeva per motivare i suoi e compattarli. Il segnale dal Nazareno è arrivato. Forte e chiaro.
È una legge elettorale, il Rosatellum, che penalizzerà di una sessantina, settantina, i seggi i grillini, e ne regalerà qualche decina in più al centrodestra e al centrosinistra.
Questo Renzi pragmatico, che ascolta i consigli di Romano Prodi, grande fautore del «centrosinistra largo», e che in direzione si mostra accattivante e pronto al dialogo, non è un Renzi improvvisamente di sinistra. Anche se dice che gli «avversari non sono quelli che se ne sono andati dal Pd». Questo fa parte del gioco del cerino, perché il segretario non si incaricherà mai della rottura con Mdp e non la cercherà. Bisogna dimostrare che chi rompe la sinistra e non ne vuole riattaccare i cocci sono gli scissionisti. «E D’Alema in questo senso aiuta», ironizza un renziano d’alto rango.
L’obiettivo, dunque, non è un’alleanza con Mdp, che tanto non ci sarà mai. Ma con Pisapia. Anche se Andrea Orlando è convinto che con gli scissionisti occorra tenere «aperto il dialogo».
In effetti pure la minoranza del Pd sa che Mdp non vuole allearsi con il Partito democratico e, anzi, lo aspetta al varco di una sconfitta siciliana. Ed è questo il motivo per cui per Matteo Renzi è così importante portare a casa alla Camera il Rosatellum subito, prima delle elezioni del 5 novembre, anche se il presidente Sergio Mattarella, preoccupato delle sorti della manovra, vorrebbe un rallentamento, con conseguenti consultazioni politiche ad aprile e non a marzo.
Insomma, il Rosatellum è l’ultima chance per tutti. Non è un caso che Gianni Cuperlo, grande fautore della ripresa dei rapporti con Mdp, alla fine ammetta: «Non possiamo permetterci di affossare questo altro tentativo di riforma». Tentativo che, come si è detto, il Quirinale vorrebbe rallentare per paura di incidenti sulla legge di Bilancio. Legge che Renzi e Gentiloni vogliono far passare senza apporti di Forza Italia. Per dimostrare che, nonostante ciò che dice Massimo D’Alema, non c’è nessuna intesa segreta con Berlusconi. Del resto è esattamente quello che Prodi vuole: «Nessun inciucio».
Per il resto nel Pd tira aria di tregua. Ed è anche per questa ragione che il segretario rinnova la sua fase zen. Già, perché la minoranza sembra aver siglato una sorta di armistizio. Lo ha fatto quando ha deciso di non mettere più in discussione la leadership di Renzi. E infatti il segretario osserva: «Ho molto apprezzato Orlando che ha sostenuto l’inesistenza di un legame tra le elezioni siciliane e la leadership».
Corriere 7.10.17
Gli obiettivi comuni che avvicinano Pd e Forza Italia
Il patto tra i leader di Pd e Forza Italia che lascia «mani libere» dopo le urne
L’obiettivo di depotenziare M5S. Le coalizioni-ologramma pronte a dissolversi
di Francesco Verderami

«Si vince quando si ha un leader e un programma», diceva un tempo Berlusconi. Siccome oggi non può essere il leader in campo, né può conciliare le sue posizioni europeiste con quelle sovraniste di Salvini, con il Rosatellum aggira i due problemi. Le coalizioni sono ologrammi: scompariranno dopo il voto.
L’intesa con Renzi sulla legge elettorale fa perno sui dettagli tecnici della riforma ma anche su una comune tattica mediatica. C’è un motivo se il Cavaliere — al pari del leader democrat — ha mantenuto un profilo basso durante la trattativa, lasciando trapelare dubbi, esitazioni e persino ripensamenti: in questo modo non è stato commesso l’errore che a giugno provocò l’affondamento del «tedesco». Evitando di assumersi la paternità del Rosatellum, mostrandosi quasi trascinati al compromesso, entrambi hanno tenuto finora il patto quanto più possibile al riparo dalle (inevitabili) tensioni politiche.
Ma il patto li soddisfa. Senza un premio di maggioranza per il rassemblement vincente e senza l’indicazione di un candidato premier tra partiti alleati, il nuovo sistema di voto lascia al capo di Forza Italia e al segretario del Pd le «mani libere» dopo le urne, quando tutti sanno che l’unico governo possibile sarà frutto di una maggioranza di larghe intese. Semmai ci saranno i numeri. Proprio per venire incontro a questa esigenza, il Rosatellum — grazie ad alcuni accorgimenti noti agli specialisti della materia — tra «assenza di scorporo» e «collegamenti con liste locali» dovrebbe favorire l’altro obiettivo che i due si sono dati: comprimere il tripolarismo, depotenziare cioè il risultato dei Cinquestelle.
L’interesse è reciproco, la strategia è chiara. Lo si intuisce dal linguaggio comune adoperato in questo anticipo di campagna elettorale contro «i populisti», e dalle parole ancor più esplicite usate dal coordinatore del Pd Guerini a Porta a porta: «Una legge contro i grillini? Non è colpa nostra se non si coalizzano con nessuno». Appunto. E nell’attesa di verificare se il patto stavolta diventerà legge, il Cavaliere — al pari di Renzi — mette in fila le truppe, dividendole tra futuribili liste funzionali a ottimizzare il consenso.
La sua idea di depositare il marchio «Rivoluzione Italia» non deve però trarre in inganno: da sempre il fondatore del centrodestra protegge i nomi testati. Non si sa mai. Intanto ha fatto avvisare tutti i potenziali alleati che bussano alla sua porta per un finanziamento: «Il dottore vuole attendere l’approvazione della riforma». Traduzione: fino ad allora non sgancerà nemmeno un euro. Dopo, chissà. Anche perché il Rosatellum gli avrà pure tolto di mezzo due problemi (quello della leadership della coalizione e quello del programma comune) ma non lo esimerà dalla sfida con Salvini per la lista che percentualmente avrà il primato nel centrodestra. Per vincere è probabile che vorrà fare il pieno con Forza Italia.
Tutto era impossibile ottenerlo, e Berlusconi ritiene di aver raggiunto il miglior accordo possibile alle condizioni date. Come Renzi, che se ha deciso di aprire alle coalizioni non è perché sia stato folgorato sulla via del Rosatellum, ma perché indotto dall’accordo in Sicilia con Alfano, grazie al quale i centristi (e Mdp) dovranno superare una soglia abbordabile: il 3%. È la prova che le leggi elettorali non sono neutre, ma rispecchiano la fase politica del momento. Le coalizioni ologramma sono figlie di questo tempo: ognuno andrà a caccia di voti per il proprio partito, in una guerra tra «vicini di casa» che è già iniziata. Come testimonia il derby sovranista tra Meloni e Salvini sui referendum in Lombardia e Veneto.
È vero che nell’immaginario collettivo il centrodestra è dato oggi in vantaggio su Pd e M5S, ma senza una maggioranza nei due rami del Parlamento le forze dell’alleanza non potranno formare da sole un governo. E analizzando i sondaggi del momento, emerge che i loro dati — disaggregati — sono inferiori alle percentuali dei democratici e dei grillini. Dopo le urne l’ologramma scomparirà.
Resta ancora da capire se il Rosatellum supererà il test degli scrutini segreti alla Camera. E va interpretato il modo in cui ieri, alla riunione azzurra dei lombardi, il capogruppo del Senato Romani ha invitato i dirigenti locali ad appuntarsi una data: «Preparatevi. Si voterà il 4 marzo». Un tono assertivo, simile a quello del coordinatore di Ap Lupi, che trovandosi casualmente al Pirellone, ha fatto capolino alla riunione di Forza Italia con una battuta: «Siamo di nuovo insieme. Non vi avevano avvisati?». La certezza sulla data delle elezioni può venire solo dalla sicurezza che la riforma verrà approvata. E solo la fiducia può dare garanzie. La smentita alla Stampa , che l’altro giorno aveva rilanciato l’ipotesi, fa testo fino a un certo punto: c’è il precedente della fiducia sull’Italicum. E stavolta ci sarebbe anche il sostegno tecnico di due partiti dell’opposizione.
La Stampa 7.10.17
L’estremismo imprigiona la sinistra
di Gianni Riotta

Al recente Festival della rivista Internazionale, a Ferrara, ragazzi in fila per ascoltare Angela Davis, ex studentessa del filosofo Marcuse, celebre negli Anni 70 per i processi subiti con le Pantere Nere in California. Davis ha parlato, suadente, di libertà e razzismo, ma nessuno ha ricordato agli incantati studenti che la Davis, filosovietica, ha ricevuto il premio Lenin da Breznev ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan e una laurea ad honorem dal dittatore tedesco dell’Est Honecker, elogiando Urss e Ddr sotto il Muro di Berlino. Poco importa, il vento estremista spazza forte sinistra e destra. 
Il leader laburista Corbyn usa contro mercato e Occidente, toni abbandonati a Londra dopo Lady Thatcher e Tony Blair. In America il Partito democratico è incalzato a sinistra dai senatori Sanders e Warren, mentre i repubblicani slittano a destra, Luther Strange, candidato conservatore al Senato sostenuto da Trump, viene battuto alle primarie in Alabama dall’ultras trumpiano Roy Moore, in crociata cristiana contro «l’America dei senza Dio». 
In Italia, Berlusconi torna a esser considerato dal Partito popolare europeo un affidabile parafulmine centrista, per paura dei populisti Salvini e Meloni, e perfino fra i 5 Stelle, il candidato premier Di Maio si vede contestare da fedelissimi di Grillo, solidali con la violenza di piazza. È però a sinistra, come tradizione dalla scissione comunista dal Partito socialista nel 1921, che il revival estremista semina caos. Nel 1975, giovane segretario della Federazione giovanile comunista, l’ex premier Massimo D’Alema irrideva, non senza ragioni, i «gruppettari» della nuova sinistra, accusandoli di ingenuità davanti alla realtà politica. Adesso coglie invece l’usta del francese Mélenchon, persuaso che Putin sia un faro per l’Europa, lo elogia, prende le distanze dalla cultura riformista che portò alle vittorie di Clinton, Blair, Prodi, e che lui stesso sostenne, con coraggio, durante la guerra contro i pogrom nei Balcani. Tanti cittadini, vedono nel liberismo – non nell’automazione - il padre della crisi economica e invocano a rimedio anacronistiche utopie. Che il male sia più antico della diaspora Renzi, Pisapia, Bersani, D’Alema, lo ricorda accorato il decano del Pci Emanuele Macaluso, a 93 anni, fautore di tolleranza a sinistra - toccante l’orazione funebre per l’ex direttore del Manifesto Valentino Parlato - ma purtroppo a suo tempo campione di intolleranza, al partito e all’Unità, quando liquidava la Rossanda e Pintor come anticomunisti estremi, al soldo delle destre.
Al di là degli opportunismi, il tema è cruciale: rispondere all’ansia romantica, generosa, pur ingenua e priva di strategia, che ispira milioni di elettori, è ostico per i moderati. In Spagna il governo centrista di Rajoy manda la polizia contro il referendum in Catalogna e ha dalla sua diritto, Corte Costituzionale e re Filippo VI. Purtroppo non gli basta contro la Storia, che accende di passione estrema i catalani, cari all’Orwell di «Omaggio alla Catalogna». Rintuzzare gli afflati di rivolta, Brexit o Barcellona, con i codicilli è come spegnere l’Etna con l’innaffiatoio.
«The times they are a-changin» cantava nel 1964 il Nobel Bob Dylan, «i tempi cambiano… l’ordine tramonta in fretta…»: la politica razionale, crescita, diplomazia, dialogo governato da diritto e mediazione, è alle corde. Deve reagire alla furia del tempo digitale con grinta, mossa da valori accesi, disposta a perder poltrone. Il linguaggio «diretto» di personalità disparate come Papa Francesco, Trump, Grillo va virale online, arzigogolare stucca. A 10 anni dalla nascita del Partito democratico Renzi, Franceschini, Boschi, Delrio, Minniti, il fondatore Veltroni, tecnici come Padoan o Calenda, possono trovare una via d’uscita raziocinante al caos se combattono il fuoco con il fuoco, dimostrando che i propri ideali hanno un futuro. La rivoluzione del XXI secolo non deve finire in mano ai neonazi AfD o ai trolls del Cremlino, ma democrazia aperta e tolleranza non si difendono isolati tra blazer e tailleur nei seminari PowerPoint. A sorpresa, il manifesto politico di questa possibile strategia viene da un critico estraneo ai retroscena politici, Roberto Calasso di Adelphi, ne «L’innominabile attuale»: «Ci si può chiedere se la società secolare è una società che crede in qualcosa, oltre che in se stessa» argomenta profetico Calasso, che oppone al nichilismo parallelo di ribelli e padrini dello status quo, «la mediazione», speranza che il futuro non sia senza fedi e comunità, orfano del sacro, della democrazia, della verità.
il manifesto 7.10.17
La sinistra e Montanari: “Attuare la Costituzione”
Quarto polo. La tappa fiorentina del giro d'Italia di 'quelli del Brancaccio' e della Rete delle città in Comune, per una lista di sinistra nel segno dell'attuazione della Carta repubblicana: "Compreso il titolo III". Cioè il modello economico.
di Riccardo Chiari

FIRENZE Al di là delle dichiarazioni ad effetto – “il nostro programma non è di stare al tavolo, ma di ribaltarlo” – che pure muovono l’applauso di Sant’Apollonia, è il filo del ragionamento di Tomaso Montanari che non mostra smagliature, almeno agli occhi di (quasi) tutta una platea fatta di attivisti di partiti, comitati e associazioni, e per fortuna anche di curiosi, compresi molti under 40. La tappa fiorentina del giro d’Italia “Cento piazze per il programma”, lanciato dall’ “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, cioè ‘quelli del Brancaccio’, e dalle “Rete delle città in Comune”, non offre risposte definitive su un programma di sinistra che, appunto, è un work in progress. Ma segna comunque gli assi cartesiani di un rassemblement, non solo elettorale, “che intende ricostruire la sinistra con un percorso di partecipazione democratica dal basso, e che ci veda tutti sulla stessa rotta, nella stessa direzione”.
Quale direzione? La risposta dello storico dell’arte tiene insieme una provocazione e un giudizio politico: “Alla fine di questo percorso faremo una nuova assemblea a Roma, al Brancaccio. Io vorrei farla il 19 novembre, e non perché quel giorno c’è un’iniziativa politica che vuol fare D’Alema. Lo vorrei fare quel giorno perché, nel 1944, in quel teatro un discorso memorabile lo fece Emilio Lussu, sulla ricostruzione dello Stato dopo vent’anni di fascismo. E lo Stato, negli ultimi 25 anni, è stato di nuovo smontato, pezzo per pezzo”.
In realtà la futura assemblea novembrina del Brancaccio dovrebbe svolgersi una settimana più tardi. Anche per la sensibilità che si deve a chi sta organizzando un percorso politico parallelo. Difficilmente convergente però, se Montanari davanti alle telecamere di La7 osserva: “Le politiche di centrosinistra hanno provocato tanti disastri”. Parole che si accompagnano, pensando alla “sua” Toscana, all’invito rivolto ad Enrico Rossi in un auditorium che ben conosce, e denuncia, la reale natura delle scelte sanitarie e infrastrutturali della Regione: “Lo dico all’amico Rossi: va bene un percorso comune, ma solo se si cambia rotta sull’aeroporto di Firenze, sull’inceneritore, sul sottoattraversamento dell’alta velocità, sulle politiche sanitarie”.
Il diretto interessato si schernisce: “Questo progetto non ha un leader. Credo sia finito il tempo in cui le case si costruivano dai tetti”. Ma i riflettori sono comunque per lui, Tomaso Montanari. Eppure l’auditorium ascolta con attenzione, in sintetici interventi di cinque minuti scanditi da Giulia Princivalli e Alberto Mariani, le parole assai critiche – vedi nuova possibile legge elettorale – di Alberto Cacopardo dei comitati per il “No” al referendum del 4 dicembre. Poi Tommaso Fattori, di Sì Toscana a Sinistra, pronto a rilevare: “Occorre nettezza, radicalità, credibilità: appena un mese fa uno dei leader di Mdp (Pierluigi Bersani, ndr) ha preso pubblicamente le distanze da Jeremy Corbyn sulla rinazionalizzazione dei servizi pubblici. E non dimentichiamo che, senza interconnettersi con il ‘campo di gioco’ europeo, non saremo mai in grado di difendere le nostre scelte politiche dai diktat dell’Ue come il pareggio di bilancio. Dobbiamo imporre la nostra agenda e non inseguire quella degli altri, come abbiamo fatto con i referendum sull’acqua e i servizi pubblici”. Poi disattesi.
Ancora, Massimo Torelli dell’Altra Europa, con un secco intervento a colpi di tweet sul modello coniato da Pablo Iglesias di Podemos. E, fra Dimitri Palagi (Prc), Serena Pillozzi (Si), Serena Spinelli (Mdp) e Miriam Amato (Al), c’è il prof di liceo Andrea Bagni: “ Per chi ha meno di 30 anni, la dimensione della politica è stata terra bruciata fino al 4 dicembre scorso. Non deludiamoli di nuovo”. Chiude Montanari: “Ricordiamolo sempre, il governo è un servizio, non un fine: al governo ci andremo quando avremo la forza di imporre un progetto. Di attuazione della Costituzione, compreso il titolo III”. Il modello economico.
il manifesto 7.10.17
Il bluff di Orlando trascina il «suo Micari» e il Pd nel caos
Elezioni regionali in Sicilia. Il sindaco del «modello Palermo» sparisce dalla scena. La «lista dei civici» non trova i candidati. Renzi costretto a chiedere ancora aiuto a Crocetta: i sui candidati nella lista del presidente
di Alfredo Marsala

Da «statista» incompreso, come si autodefinisce rispetto ai tanti «politicanti», sempre sua la definizione, a desaparecido. Da domus a soggetto perfetto di Chi l’ha visto?, la metamorfosi del professore, che dove passa lascia macerie politiche – dalla Rete a Idv è storia – è impietosa. La sua lista, che avrebbe dovuto imbarcare la truppa di amministratori pronti a sfidare i partiti nel nome del ‘civismo’ trainando Fabrizio Micari alla vittoria elettorale in Sicilia, si è rivelata un grande bluff. Il suo progetto s’è liquefatto, trascinando nel caos la coalizione di centrosinistra. Se la lista «Arcipelago Sicilia», che porta stampato il nome di Micari e che doveva essere l’avamposto degli orlandiani, è rimasta in vita lo si deve a Rosario Crocetta.
Il governatore, che aveva fatto un passo indietro qualche mese fa rinunciando alla candidatura per salvare il Pd, ancora una volta è venuto in soccorso del suo partito, accettando di non presentare la lista «il Megafono» e di trasferire i suoi uomini in Arcipelago Sicilia, creando i presupposti perché la compagine superi lo sbarramento del 5% essenziale per l’accesso all’Assemblea siciliana. È stato Renzi in persona, confermano fonti dem, a chiamarlo e a chiedergli l’ulteriore sacrificio. Dopo avere appreso della «fuga» di Orlando, al segretario dem non è rimasto che rivolgersi ancora una volta al governatore uscente, al quale aveva riconosciuto la sua lealtà aprendo la strada al Megafono per le regionali e per le politiche di primavera.
Per Crocetta è stato un altro passo doloroso rinunciare alla lista del Megafono anche perché mentre Renzi confidava nella lealtà del governatore al partito, i renziani di Sicilia giocavano una partita opposta al tavolo delle trattative, tentando fino all’ultimo di far saltare l’intesa per non riconoscere il ruolo del presidente della Regione. Ma alla fine il tavolo ha tenuto, grazie anche alla mediazione, faticosa, di Fausto Raciti che ha tenuto testa ai falchi: il segretario del Pd siciliano s’è battuto con Crocetta per evitare che la nave affondasse; nonostante i renziani e nonostante lo stesso Micari, che avrebbe preferito avere solo i voti di Crocetta e non i suoi uomini dentro alla lista in nome di quella ipocrita «discontinuità» fatta mantra da Leoluca Orlando, per mero pregiudizio politico. E invece, Crocetta è capolista di Arcipelago Sicilia-Micari a Messina, mentre a Palermo a guidare la lista è Valeria Grasso, l’imprenditrice antiracket, vicina al governatore.
Che si tratti di un flop clamoroso per Orlando lo dicono i numeri: su 56 candidati nelle liste Micari in Sicilia, 36 provengono dal Megafono di Crocetta, 11 dal Pd e appena 9 gli orlandiani. Chi ha seguito la trattativa fiume nella sede del Pd, durata oltre 48 ore di fila, racconta di un foglietto consegnato da Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, con 19 nomi per tutta la Sicilia, 5 dei quali certi e gli altri in dubbio. «Orlando è scappato», commentava amaro un dirigente dem.
È stato comunque lui il grande protagonista di una partita cominciata male e finita peggio. Prima s’è inventato il «modello Palermo» col finto «civismo» per nascondere personaggi provenienti dalla destra, poi ha imposto Fabrizio Micari agli alleati, quindi ha finto di non sapere dell’alleanza con Alfano che invece incontrava in gran segreto tra gli ulivi di Selinunte, facendo fuggire a gambe levate i bersaniani e Si. Il finale è stato tragicomico: Orlando non pervenuto, Raciti e Crocetta alla ricerca di una soluzione in extremis con Renzi in spasmodica attesa, i renziani di Sicilia a giocare a fotti compagno, Alfano e Casini anche loro non pervenuti e Micari in giro a rilanciare il progetto del Ponte sullo Stretto. Un disastro. C’è voluta tutta l’arte della mediazione per trovare la quadra finale, che smaschera Orlando e ridimensiona le ambizioni già velleitarie di Micari, dato per terzo da tutti i sondaggi.
La tensione durante la trattativa è stata altissima, con un violento faccia a faccia tra Crocetta e il renziano Davide Faraone, che ieri ha delegato il gioco sporco dei nomi a Giuseppe Bruno, presidente dell’assemblea del Pd, e a Carmelo Miceli, segretario dem a Palermo. Alla fine, Micari perde tre liste: Megafono, Next e Sinistra siciliana, i cui candidati passano ad Arcipelago Sicilia. L’analisi di Crocetta, a conclusione di una giornata al cardiopalma, non fa una piega: «Quando si mette davanti l’io e l’ego e il progetto viene passato in seconda fila si è individualisti e non si è un leader». «Un leader – argomenta il governatore – prima di pensare a se stesso pensa agli altri, ed è quello che ho fatto». Qualche sassolino dalle scarpe se lo toglie. «Le vittorie hanno sempre tanti padri, le sconfitte invece sono orfane – aggiunge – Io penso di avere fatto un lavoro di squadra nell’interesse del centrosinistra assieme al Pd, con senso di responsabilità. I cittadini sapranno giudicare chi in questa vicenda è stato leale e responsabile e chi invece scappa, è sleale e irresponsabile».
Corriere 7.10.17
La sconfitta dello ius soli e gli interrogativi sui diritti
di Goffredo Buccini

Lo ius soli è (quasi) morto. E sembra assai difficile che a rianimarlo basti lo sciopero della fame di Graziano Delrio assieme a un gruppo di parlamentari e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei Radicali e di Luigi Manconi.
Salvo veri colpi di scena, il diritto a essere italiani di ottocentomila bambini e ragazzi nati o cresciuti tra noi non verrà riconosciuto in questa legislatura perché non ha più maggioranza nel Paese prima ancora che al Senato. Troppo stretta la finestra d’intervento nell’iter della legge di Stabilità; troppo alto il rischio che, aprendola davvero, si abbattano venti di tempesta sul governo Gentiloni (di cui peraltro Delrio fa parte). Ma è bene sgomberare il campo dagli equivoci. Lo ius soli nostrano (certo migliorabile ed emendabile, ma già assai temperato e accompagnato dallo ius culturae) non è stato abbattuto dal sovranismo di Matteo Salvini o dai ripensamenti di Angelino Alfano. E neppure dal pragmatismo un po’ cinico del Pd. Nemmeno la crisi economica e le ondate di sbarchi sono state forse determinanti, perché il nostro Paese, al dunque, si era in passato sempre dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli, condividendo ciò che aveva.
Diciamolo chiaro. I diritti dei giovani italiani di seconda generazione sono stati vittime del terrorismo jihadista. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione pubblica era favorevole allo ius soli. Gli ultimi sondaggi danno questa quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi, hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centinaia di vite innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore dell’altro, specie quando l’altro proviene da una cultura aliena e spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura islamica. Perfettamente comprensibile, dunque, il rovesciamento del sentimento collettivo che sull’anemica politica di questi tempi pesa, attraverso i sondaggi, assai più delle idee, giuste o sbagliate che siano. L’assassino di Marsiglia urlando «Allah u Akbar» sposta più di mille analisi e concioni. Ma una politica saggia dovrebbe serbare la capacità di toccare i cuori e le menti di una comunità, non inseguirne la deriva emotiva.
Infatti se esiste un nesso tra gli attentati terroristici in Europa e lo ius soli è un nesso al contrario: è intuitivo che a maggiore integrazione corrisponda minor «rischio banlieue», meno sacche di rancorosi esclusi nelle nostre periferie, e zero o quasi zero rischio multiculturale poiché nell’impianto normativo italiano non sarebbero riconosciute sacche di ambiguità «all’inglese», con la sharia infilata di soppiatto a regolare i rapporti privati.
Ai nuovi concittadini si sarebbe chiesto di giurare sulla Costituzione, di conoscere la nostra lingua, di fare da ponte con le loro famiglie, migranti di prima generazione, rendendole a noi più prossime e comprensibili. In cambio si sarebbe dato loro ciò che oggi non hanno, pur vivendo nelle case e nelle scuole d’Italia sin da bambini: la possibilità di partecipare a concorsi pubblici e iscriversi ad albi professionali senza intoppi, di gareggiare col tricolore sul petto, di non essere costretti ad attendere dai quattro ai sei anni (questi sono i tempi veri, raccontano in molti, e con file estenuanti all’ufficio stranieri della questura) per ottenere forse, infine, l’agognato passaporto.
È assai probabile che tutto ciò non succederà, colpendo l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o venti anni. Il fatto che la componente islamica rappresenti soltanto un terzo della platea dello ius soli (ci sono cattolici, ortodossi, buddhisti e, immaginiamo, …atei) aggiunge un tocco di surreale ingiustizia al quadro. La compressione dei diritti individuali e delle soggettività dentro macro-categorie spirituali (l’orientamento religioso del Paese d’origine pare assorbire l’identità personale come se non fossero passati quattro secoli e mezzo dal « cuius regio eius religio» che attribuiva al suddito la fede del suo signore) suona infine come una abdicazione ai principi liberali.
Tant’è. Per superare ciò che in casa Pd chiamano realpolitik ma somiglia assai a una navigazione a vista, occorrerebbe non uno sciopero della fame ma un politico così forte e credibile da poter dire ai suoi concittadini: fidatevi di me e seguitemi, la strada giusta non è quella che voi credete. La più prossima a questo identikit è Angela Merkel, e persino lei ha pagato un altissimo prezzo elettorale alle sue aperture sui rifugiati siriani. I nostri politici continuano a ispirarsi a quel fantastico caleidoscopio dei caratteri italici che ci donò Manzoni: «Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Si parlava di peste e untori, pare scritto ieri.
La Stampa 7.10.17
L’enigma del voto dietro lo Ius soli
di Fabio Martini

I continui cambi di posizione di partiti e partitini sulle due riforme strategiche - Ius soli e legge elettorale - sono alimentati da un enigma che coinvolge tutti i parlamentari: le Camere saranno sciolte (un po’) anticipatamente a marzo, o si andrà a scadenza naturale, con elezioni ai primi di maggio? Matteo Renzi, per tante ragioni, vorrebbe votare il prima possibile, seguendo questo schema: riforma elettorale da approvare a tambur battente, legge di Stabilità entro l’anno, scioglimento anticipato a gennaio ed elezioni il 4 o l’11 marzo. I «peones» di tutti gli schieramenti puntano invece a restare il più possibile in Parlamento. Scommettendo su uno scioglimento a scadenza naturale, con elezioni il 29 aprile o il 6 maggio. Gli sponsor del «lungo addio» interpretano come favorevole alle proprie speranze l’auspicio del presidente del Consiglio, condiviso dal Capo dello Stato, di una «conclusione ordinata della legislatura». I senatori dell’Ala di Denis Verdini intanto si sono messi avanti col lavoro: dopo un periodo di «riflessione» hanno votato il Def e ora sono pronti a dare una mano sullo Ius soli, una disponibilità che rende meno impervia l’approvazione di una legge controversa come poche altre.
il manifesto 7.10.17
De Petris: «I voti per lo Ius soli ci sono, li ho contati. Ora il Pd dica cosa vuole fare»
Intervista. La capogruppo di Sinistra italiana al Senato e presidente del Gruppo misto: «La legge sulla cittadinanza ha sicuri 157 sì, a Palazzo Madama, e 4 o 5 sono ancora in forse. Il tempo c’è: subito e dopo la legge di stabilità. Se non si ha paura dei sondaggi»
di Eleonora Martini

«Che sullo Ius soli non ci sia un problema di numeri ma solo di volontà politica lo abbiamo dismostrato mettendoci lì, diligentemente, a parlare con i senatori uno per uno e a contare i voti favorevoli. Il risultato è 157 sì, più 4 o 5 ancora in forse. La maggioranza c’è, ora tocca al Pd dimostrare da che parte sta». Non è una sfida, quella di Loredana De Petris, capogruppo di Sinistra italiana al Senato e presidente del gruppo Misto, che insieme al verdiniano Riccardo Mazzoni ha preso l’iniziativa di sondare la fattibilità dell’approvazione della legge sulla cittadinanza in Senato. «Noi ci teniamo davvero a farla passare».
Ha fatto anche una ricognizione di voti tra le fila del Pd?
No, siccome dicono che sono tutti a favore ho dato per scontato che il loro voto fosse compatto. Perciò, escludendo il presidente Grasso che non vota mai, ho conteggiato 98 sì dei democratici. Ora tocca a loro dimostrare che è davvero così.
Ha dei dubbi?
Nel gruppo di Ala 10 su 14 sono favorevoli, così come metà dei senatori di Gal, e ci sono 4 sì tra i centristi e 10 nel Gruppo misto. Abbiamo incrociato le verifiche e i numeri sono questi: siamo nell’area della maggioranza, se riuscissimo a convincere gli incerti si arriverebbe alla maggioranza assoluta. A questo punto cade l’alibi della mancanza dei numeri.
L’altro tema è quando: subito o dopo la legge di stabilità?
Io preferirei subito, in questa finestra di due settimane che si è aperta ora che abbiamo approvato la nota di aggiornamento al Def e fino al 25 ottobre, quando comincerà la sessione di bilancio, ma c’è comunque tempo anche dopo la legge di stabilità.
Il Pd però dovrebbe mettere la fiducia sullo Ius soli per evitare l’ostruzionismo della Lega. Lo può fare con la legge di stabilità ancora da affrontare? E, a proposito, voi votereste anche la fiducia?
Sì, lo faremmo per raggiungere lo scopo. Vogliano mettere in sicurezza la legge di stabilità? Bene, comunque possiamo affrontare lo Ius soli dopo, a gennaio. In pochi giorni si fa.
Matteo Renzi vorrebbe però concludere la legislatura il 23 dicembre.
Sì, però tutto dipende dalle variabili della legge elettorale. In ogni caso, se si prende un impegno le camere si possono anche sciogliere a fine gennaio, i tempi per votare ci sono ugualmente. Insomma, ci sono ben due spazi temporali utilizzabili, qui c’è solo da dimostrare la volontà politica.
Il conteggio dei voti è stato fatto, che lei sappia, anche dalla ministra per i Rapporti con il parlamento Finocchiaro, o dal capogruppo Pd Zanda?
Se l’hanno fatto non me lo hanno detto.
Cosa pensa del digiuno a staffetta a cui ha aderito anche il ministro Delrio?
Per carità, sono ben contenta, abbiamo aderito anche noi all’iniziativa simbolica. Speriamo anzi che crescano le adesioni come speriamo di vedere alla manifestazione del 13 ottobre tutti i senatori che ne sono convinti con i cartelli «Io la voto», in modo da metterci la faccia. Però è un po’ paradossale che lo facciano i ministri, perché questo dimostra che il problema sta tutto nello scontro interno al governo. Non da un’altra parte.
Dalla sua ricognizione dei voti sembrerebbe che se c’è un problema è interno al Pd. O no?
Appunto, ed è ciò che deve spiegare il Pd.
C’è tanta paura, bisogna capirli…
È così. E invece approvare questa legge a mio avviso significa dimostrare che si va avanti nelle proprie convinzioni senza paura dei sondaggi. Questo è uno strumento importante per immettere anticorpi e rafforzare il sistema immunitario di un Paese dove sembra che dilaghi l’ondata xenofoba ma dove invece non c’è solo il fronte rumoroso anti immigrati. Affrontare l’ultimo passaggio in parlamento ci permette inoltre di chiarire che la questione della cittadinanza a chi è nato o cresciuto in Italia non ha nulla a che vedere con gli sbarchi. Al contrario, il calcolo di chi dice «non è il momento giusto» non va molto lontano, perché non si possono fare quotidiani appelli contro le destre e i populismi, e poi accarezzare la bestia.
il manifesto 7.10.17
Fragoroso silenzio al Nazareno, lo ius soli spaventa i vertici dem
La paura del voto nel Pd. Cade l’alibi del pallottoliere, la maggioranza c’è ed è anche ampia Pier Ferdinando Casini a favore, lascia ai suoi libertà di coscienza
di Andrea Colombo

I numeri per approvare lo Ius soli al Senato ci sono, e cade così l’alibi dietro il quale si sono trincerati Pd e governo: 157 voti, raccolti con un lavoro a uomo dal senatore di Ala Gianni Mazzoni e dalla capogruppo di Si Loredana De Petris, nella quasi completa latitanza del governo e del gruppo del Pd.
«Mancano solo quattro voti per approvare la legge», afferma anche l’ex ministra Cécile Kyenge. Sulla carta è così, la maggioranza assoluta essendo di 161 voti. Però solo sulla carta: perché lo Ius soli non è una di quelle leggi, per la verità poche, che richiedono la maggioranza assoluta e su quella relativa contare su 157 voti significa stare in una botte di ferro. E non è neanche detto che non venga superata nei prossimi giorni anche l’asticella dei 161 voti: 5 senatori infatti hanno chiesto tempo per riflettere. «Noi non usciremo dall’aula per abbassare il quorum e quei numeri sono solo fantasiosi», replica, livido, il capogruppo di Ap alla Camera Maurizio Lupi.
NON È VERO. I consensi sono stati verificati uno per uno, tranne naturalmente quelli del Pd che sono stati dati per certi. Non essendo previsto il voto segreto dovrebbero esserci tutti. Quattro vengono proprio da Ap, anche se uno solo è targato Ncd. Gli altri sono dell’area Casini, incluso, «per dovere di coscienza», lo stesso Pier.
Dal gruppo misto dovrebbero arrivare un quindicina di voti ed è schierato a favore della legge metà del gruppo Gal. Decisivo è lo schieramento dei verdiniani. Il capogruppo Barani ha annunciato la decisione di lasciare libertà di coscienza, aggiungendo però che la maggioranza del gruppo sarà favorevole. A esitare sono due senatori: D’Anna e Falanga.
PER IL PD dovrebbe essere una buona notizia. Non sembra sia così. Il sospetto che il Nazareno stia adoperando il pallottolliere come alibi per evitare una legge a rischio di impopolarità non è malizioso, ma inevitabile. Il senatore Esposito, un pasdaran renziano che rappresenta al meglio, o se si preferisce al peggio, la destra del partito, pur essendo favorevole allo Ius soli, risponde a brutto muso a Luigi Manconi: «Mi ha stupito la sua dichiarazione secondo cui i voti ci sarebbero. Io non ne ho contezza ma se lui ha un conteggio che dice questo, facciamo subito un elenco e sbrighiamoci». L’elenco, come si è detto, c’è già e non è affatto escluso che nei prossimi giorni i senatori favorevoli alla legge non escano tutti allo scoperto con tanto di nome e cognome.
SUI TEMPI, il discorso è più complesso. La strada maestra sarebbe mettere la fiducia: in caso contrario la legge dovrebbe tornare alla Camera, col rischio di non farcela. Ma non è certo che tutti i favorevoli siano anche disposti a votare la fiducia e sarebbe comprensibile se il governo chiedesse di slittare sino a dopo il varo della legge di bilancio. Anche se un’eventuale sfiducia non avrebbe esiti negativi, essendo la legislatura già morta. La calendarizzazione a gennaio cozza con l’intenzione di Renzi, ribadita tra le righe anche ieri in direzione, di sciogliere le Camere subito dopo il voto sulla finanziaria, in dicembre. Un’accelerazione alla quale sarebbe però fermamente contrario il capo dello Stato, senza contare la difficoltà per il segretario del Pd di impuntarsi sullo scioglimento immediato al solo fine di impedire lo Ius soli.
IL SEGNALE più evidente e clamoroso delle resistenze annidate ai vertici del Pd è il silenzio in materia di Renzi – e in realtà di tutti tranne Cuperlo – nella direzione di ieri. Un silenzio davvero fragoroso, non solo perché già ieri era assodato che i numeri, contrariamente a quanto affermato qualche giorno fa dalla sottosegretaria Boschi, ci sono, ma anche perché si allarga a macchia d’olio lo sciopero della fame a staffetta promosso da Luigi Manconi.
SONO UNA SETTANTINA i parlamentari che hanno aderito, tra cui il ministro Graziano Delrio. Ieri si è aggiunta anche la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi. La destra intera si è scatenata nel bersagliare l’iniziativa, cercando invano di ridicolizzarla, e in particolare nel prendere di mira Delrio, la cui protesta contro il governo di cui fa parte ha di certo un aspetto singolare. Ma alcune critiche più puntuali sono arrivate anche dal capo dei deputati Mdp La Forgia e, con maggior delicatezza, dalla presidente dei senatori di Si De Petris: più degli scioperi, o oltre, sarebbe opportuno che Delrio e il Pd si muovessero per far approvare la legge. I conti dicono che si può fare, solo a volerlo e a non avere troppa paura.
Il Fatto 7.10.17
O come odio: la sinistra che si divide dalla A alla Z
Frazionismo - Dal marxismo-dalemismo all’insostenibile leggerezza di Pisapia. Aspettando il Godot del Senato, cioè Grasso futuro leader
di Fabrizio d’Esposito

Forse l’interminabile soap opera Pallas, protagonista Giuliano Pisapia, è giunta all’epilogo l’altra sera in un dibattito a Ravenna. Il paziente Bersani gli ha dato un mese e mezzo per decidere (ancora!) e l’ex sindaco di Milano ha replicato di preferire la poligamia in politica. Fedele alla sinistra antirenziana ma anche a Renzi stesso. Impossibile. Questo è il dizionario per orientarsi nelle prossime puntate.

Antirenzismo. È il sacro discrimine di tutta la battaglia in corso. A differenza di Pisapia e dei pisapiani, Articolo 1 e gli altri cespugli di sinistra considerano impensabile allearsi con il Pd, almeno finché c’è Renzi.
Bersani. Le sue truppe formano la macchina della Ditta superstite di Articolo 1-Mdp. Bersani è il leader ideale di una lista unitaria di sinistra ma si è riservato questa opzione come extrema ratio. E adesso che forse è cominciato il post-Pisapia, si spera in Pietro Grasso (vedi alla voce G)
Campo Progressista. È l’epico nome del raggruppamento messo su da Pisapia, alquanto eterogeneo e di una leggerezza insostenibile. Ci sono notabili dc del sud (tipo Sanza e Pisacane), l’immarcescibile Tabacci, un po’ di ceto politico dell’ex Sel (Ferrara e Furfaro), il prodiano Gad Lerner.
D’Alema. È il “cattivo” accusato in ogni occasione dai “buoni” di Campo Progressista. L’ex premier non ha però ruoli operativi ed elabora il ritorno della sinistra alle sue origini. È il marxismo-dalemismo.
Entrismo. Gli entristi al tempo del Pd renziano sono gli ex berlusconiani Angelino Alfano e Denis Verdini: sono loro che da dentro la maggioranza di governo hanno contribuito alla mutazione genetica dei democratici. Senza dimenticare l’inclinazione passata al “renzusconismo” del patto del Nazareno.
Frazioni. A sinistra del Pd, oltre ad Articolo 1, ci sono Sinistra Italiana di Fratoianni, Possibile di Civati, i “civici” di Montanari e Falcone, Rifondazione comunista.
Grasso. Il presidente del Senato ha ricevuto un’investitura sul campo (con la minuscola) alla festa nazionale di Articolo 1: per lui solo ovazioni e applausi. Le autorevoli voci di dentro della Ditta riferiscono: “Con lui abbiamo già parlato ed è d’accordo, bisogna solo aspettare la fine della legislatura, Grasso è la seconda carica dello Stato e non può esporsi subito”. È lui il volto del post-Pisapia?
Hasta la sconfitta siempre.
Ideologia. Dopo l’infausto ventennio breve del blairismo, la sinistra antirenziana riscopre le seguenti parole: sfruttamento, diseguaglianza, redistribuzione della ricchezza, Stato sociale. Adesso i riferimenti sono il francese Mélenchon, il britannico Corbyn, la teutonica Linke.
Liberismo. Il nuovo male assoluto, sempre a sinistra di Renzi.
Massimalisti. Da sempre contrapposti ai riformisti. È la sinistra radicale. Nell’arcipelago alternativo al Pd ci sono due tendenze: c’è chi propugna una Cosa Rossa e chi un nuovo centrosinistra ulivista.
Napolitano. L’emerito Giorgio, al Quirinale per nove anni, è l’ispiratore della strategia antirenziana all’interno del Pd, considerata da molti, in particolare da D’Alema, come perdente. In pratica, Orlando e Franceschini aspettano la sconfitta alle regionali siciliane del 5 novembre per la congiura contro il segretario. Dentro Articolo 1 nutrono però pochissime speranze di successo: “Sarà Renzi a gestire le elezioni politiche”.
Odio. È la categoria più gettonata nelle cronache di questa soap opera. Per la serie: Renzi odia D’Alema e D’Alema odia Renzi.
Prodi. Il Professore già Premier è l’ingombrante spettro che aleggia sulla trincea divisa del centrosinistra. Munito di una tenda mobilissima, ciò gli consente di coltivare il dono dell’ubiquità se non della bilocazione. Ieri al telefono con Renzi, l’altro giorno a ragionare con Enrico Letta e Napolitano su un centrosinistra diverso con a capo Gentiloni. I suoi veri pensieri sono un enigma.
Quorum. Le fortune della nuova sinistra dipenderanno anche dalla nuova legge elettorale, se mai ci sarà, e dalle soglie di sbarramento. Il fatidico quorum. Ad Articolo 1 il Rosatellum non piace ed è per questo che già c’è stato l’annuncio, a mo’ di minaccia per il Pd, che i demoprogressisti presenteranno candidati propri in tutti i collegi.
Renzi. A ben vedere i suoi avversari sono ovunque, dentro e fuori il Pd. È il tappo che non salta, a differenza del Fanfani che perse il referendum sul divorzio nel 1974. Ha trasformato il Pd in un partito liberista e amico dei ricchi, per citare la Ditta, e vuole resistere fino alle elezioni politiche.
Speranza. È Roberto, giovane virgulto demoprogressista, prediletto di Bersani ma da sempre attento ascoltatore di D’Alema.
Tabacci. Ha fondato il Centro democratico ed è un pilastro di Campo Progressista. Di più. Il democristiano Bruno Tabacci è il supremo custode del pisapiismo e lo difende dalle incursioni del fuoco amico di Articolo 1. Quando Pisapia ondeggia più del solito e gli altri s’incazzano, tocca a Tabacci ristabilire l’ortodossia del pisapiismo, fenomeno dai contenuti ignoti.
Ulivismo. Sinonimo di “centrosinistra più largo”. Le formule sono varie ma sembra impossibile realizzarlo con Renzi segretario e candidato premier allo stesso tempo. Per la serie: un altro Pd è possibile con Gentiloni o Delrio, persino con Minniti. A quel punto le carte si mescolerebbero un’altra volta. Non solo. Comincia a prendere quota, sia nel Pd sia nella sinistra, l’ipotesi di un “governo del presidente” dopo le elezioni, in mancanza di vincitori.
Veltroni. Festeggerà i dieci anni del Pd il prossimo 14 ottobre, una cerimonia a metà tra le esequie e una prima comunione, insieme con Renzi e Gentiloni. All’uopo gli è stata finanche concessa una stanza al Nazareno, dove è ubicata la sede nazionale del Pd a Roma. Con Veltroni redivivo il quadro è completo. Non manca nessuno in questa battaglia campale: Napolitano, Bersani, D’Alema.
Zdanovismo. D’Alema accusa Renzi di avere dalla sua parte “una propaganda da stampa di regime”. E lo Zdanov – ideologo dello stalinismo – più autorevole schierato con il segretario del Pd sarebbe il gruppo editoriale di Stampa e Repubblica, con la benedizione di De Benedetti e degli Agnelli.
Il Fatto 7.10.17
“Rischiamo l’ennesima legge elettorale incostituzionale”
Gustavo Zagrebelsky - “I partiti studiano i sistemi di voto per regolare i conti tra di loro: i cittadini sono trattati come pedine”
Alla Camera si discute la legge elettorale: piace a Berlusconi e Renzi, non a Bersani
di Silvia Truzzi

Se questa fosse un’operetta morale, potrebbe intitolarsi Dialogo tra un realista e un utopista. Ma con Gustavo Zagrebelsky stiamo per parlare di temi assai prosaici, e non è il caso di scomodare Leopardi, anche se quel “Piangi che ne hai ben donde Italia mia” potrebbe fare al caso nostro.
Professore, ha recentemente detto che non ne può più di sentir parlare di legge elettorale. Prima del referendum, aveva detto la stessa cosa delle riforme costituzionali…
È vero. Durante l’ennesimo dibattito alla vigilia del 4 dicembre ricordo che cominciai dicendo: ‘Non ne posso più’, suscitando un applauso. Evidentemente, gli infiniti discorsi su ‘le regole’ hanno stancato.
La legge elettorale è lo specchio della democrazia. Tra le leggi ordinarie, ha detto Carlo Smuraglia, la più vicina alla Costituzione.
Sì. Dovrebbe essere quella più vicina ai diritti politici dei cittadini. La legge elettorale crea, modella l’elettore, gli dà o gli toglie potere. Dovrebbe essere la sua legge. Invece da anni è trattata come la legge dei partiti. Serve a regolare i conti tra loro, ad accaparrarsi posti. Il risultato delle elezioni interessa meno perché i giochi si vogliono fare prima, con la legge elettorale. Si capisce, allora, l’estrema litigiosità e, al tempo stesso, il fastidio, anzi la nausea, dei cittadini che assistono al gioco dall’esterno.
Non le pare irrealistico che i partiti non pensino ai propri interessi?
Certamente. Quando i partiti scrivono la legge elettorale operano in causa propria e la posta, per loro, è grande.
Quindi li assolviamo?
Non si tratta né di assolverli, né di condannarli. Che ci sia sempre un retro-pensiero è inevitabile. C’è sempre stato. Manca quello che si chiama il “velo dell’ignoranza” circa i propri interessi immediati. Potendo fare calcoli, dell’interesse generale non importa a nessuno. Tutto si risolve in convenienze e compromessi neppure dichiarati alla luce del sole. Ma ci sono i cittadini: per poco che si rendano conto di ciò che accade, si accorgono d’essere trattati come meri strumenti, come pedine della dama. Ecco: non popolo ma pedine.
È sano fare una legge elettorale alla vigilia delle urne?
Per niente. Si dice sempre che se c’è una legge che dev’essere stabile è quella elettorale, proprio per evitare che si confezionino sistemi ad hoc. Esiste, per questo, un codice di buona condotta del Consiglio d’Europa, datato 2003, citato anche da una sentenza della Corte di Strasburgo, che dice che un anno prima delle elezioni non si devono fare leggi elettorali. Una ovvia regola prudenziale come è questa implica che ci sia qualcuno a vegliare sulla sua applicazione.
Chi dovrebbe essere?
Questo è il punto dolente. Non vedo facili rimedi. Immaginiamo che si approvi una nuova legge elettorale in prossimità del voto e che questa legge sia incostituzionalissima, addirittura per contrasto evidente con i precedenti della Corte costituzionale. Le procedure non consentirebbero di rivolgersi a essa in tempo utile. Si voterebbe con quella legge e le nuove Camere resterebbero in carica tranquillamente, ma incostituzionalmente, in virtù del principio di continuità, già evocato in passato. Non ci si è resi conto per tempo di questa assurdità: la Corte costituzionale ha dato la mano per prima, poi sono venuti i commentatori e i politici eletti che, comprensibilmente, avevano tutto l’interesse a terminare il mandato parlamentare. Con la conseguenza aberrante che le sentenze della Corte non hanno sortito effetto e il gioco può essere ripetuto all’infinito: basta votare la legge quando non è più possibile ricorrere contro i suoi vizi.
E allora?
Oggi è troppo tardi ma, forse, il presidente della Repubblica avrebbe potuto dire per tempo: non promulgherò nessuna legge elettorale nell’ultimo anno prima dello scioglimento delle Camere. Cosicché si andrà a votare con le zoppicanti leggi sortite dalla Consulte: zoppicanti ma certo migliori dei pasticci cui stiamo assistendo.
In 4 anni il tempo c’era…
Ma adesso non c’è più. Dopo la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum, che secondo la Corte aveva rotto il rapporto di rappresentanza tra eletti ed elettori, ci si sarebbe aspettati che il Parlamento regolarizzasse la situazione.
Si potrebbe obiettare: è passato remoto.
O forse futuro prossimo: corriamo il rischio – fondatissimo – di avere un’altra legge incostituzionale, contro cui non ci sarà il tempo per ricorrere alla Consulta. Quindi potremmo eleggere un’altra volta il Parlamento con una legge illegittima, dovendo poi digerire la beffa di un’eventuale sentenza della Corte che non servirebbe a nulla.
Qui il confine tra perversione democratica ed eversione è labile…
Diciamo così: sarebbe il picco di una scostumatezza costituzionale mai vista prima.
Proporzionale vs maggioritario: lei da che parte sta?
Le maggioranze speciali previste dalla Costituzione valgono a garanzia delle minoranze e sono sensibili al sistema elettorale. I premi elettorali rischiano di vanificare gli intenti dei costituenti. Si potrebbe pensare a una modifica della Costituzione in funzione di garanzia: se si introduce un premio di maggioranza, si adeguino i quorum costituzionali, alzandoli conseguentemente, per impedire ai vincitori di fare quel che vogliono a spese delle minoranze.
Dunque, meglio il proporzionale?
In generale sì: è il sistema più onesto perché riflette perfettamente il principio di rappresentanza elettori-eletti. Non si presta a manipolazioni ma implica che i partiti si assumano responsabilità politiche e siano in grado di fare coalizioni. Oltretutto, maggioritari e premi di maggioranza applicati a sistemi politici frammentati come il nostro, dove il partito più forte è lontanissimo dalla maggioranza assoluta, provocherebbero una distorsione della rappresentanza inaccettabile.
Ma la sera stessa delle elezioni non si saprebbe chi ha “vinto”…
È curioso come questo formuletta, che sentivamo ripetere ogni minuto, sia scomparsa… Oggi tutti stanno pensando a come trafficare la mattina dopo. Nella situazione attuale il maggioritario o il premio indicherebbero un vincitore. Ma subito dopo inizierebbero i guai perché le coalizioni fatte prima servono solo a vincere le elezioni per poi squagliarsi subito dopo. Non abbiamo riprove a sufficienza? Altro che stabilità, altro che “governabilità”! Vogliamo parlare dell’arte del trasformismo? Talora serve al governo a tirare avanti, ma a che prezzo per l’integrità della politica?
In questa legislatura un voltagabbana ogni tre giorni: un’interpretazione piuttosto disinvolta dell’assenza di vincolo di mandato.
A metà dell’Ottocento Walter Bagehot, nel commento alla Costituzione britannica, individuava quattro funzioni del Parlamento: legiferare, rappresentare il meglio della Nazione, controllare il governo e sostenerlo. Sostenere il governo se si è nella sua maggioranza, non sostenerlo se si è all’opposizione. Si potrebbe studiare una riforma dell’art. 67 della Costituzione che, garantendo la libertà di mandato per tutte le altre funzioni, ponesse limiti e prevedesse sanzioni (decadenza?) quando si ondeggia opportunisticamente sul quarto punto, il trasformismo vero e proprio, magari “incentivato” nel mercato dei voti. Anche qui, abbiamo bisogno di esempi?
A proposito: si aspettava il ritorno di Berlusconi? Come la mettiamo con l’ineleggibilità?
Se la domanda è: ‘Può un ineleggibile essere a capo di un partito?’, le rispondo: ‘Quale norma lo vieta?’. Non si può ragionare alla buona e dire “se non è eleggibile, non può essere capo d’un partito che si presenta alle elezioni né comparire nel suo simbolo”. Diremmo che un partito comunista non può mettere la barba di Marx nel suo simbolo perché Marx non è eleggibile?
I principali leader politici non siedono in Parlamento: significa qualche cosa?
È una delle tante conseguenze dell’emarginazione del Parlamento. Siamo a Torino: Cavour dove costruiva la sua politica e faceva i suoi più importanti discorsi? A Palazzo Carignano. De Gasperi, Togliatti, portavano alle Camere i grandi temi della loro politica. La questione della legge elettorale dovrebbe, tra le altre cose, riqualificare la rappresentanza: ‘Il meglio della Nazione’, dicevamo.
Non ha detto che effetto le fa il ritorno del Cavaliere.
Un capolavoro che ci meritiamo: non siamo in grado di produrre novità politiche.
Renzi era nuovo: è politicamente invecchiato?
La sua retorica è fuori tempo. Il futuro era la sua parola chiave, l’ha divorata e consumata. Alla Leopolda il motto era ‘Il futuro è ora’: provate a dirlo ai disoccupati, agli occupati precari e sottopagati, a quelli che non si curano perché non hanno soldi…
E la sinistra che impressione le fa?
Dopo il 4 dicembre si è aggrappata all’idea, sensata, di interloquire con i milioni di elettori che allora si sono mobilitati, pur disertando normalmente le urne. ‘Diamo loro motivo perché ritornino a votare’. Bene. Ma le pare che le cose che accadono possano suscitare speranze ed entusiasmi? Mancano drammaticamente la materia prima e la materia grigia.
Quale potrebbe essere il programma a grandi linee?
Non ci vogliono mille pagine ma nemmeno il poco spazio che abbiamo a disposizione. Però si potrebbero elaborare proposte concrete sugli argomenti più urgenti che conosciamo tutti: lavoro; flussi migratori; cultura e scuola pubblica; diritto alla salute, corruzione, evasione fiscale. Poi c’è un tema fondamentale: l’ambiente, il territorio, il diritto dei cittadini di avere sotto i piedi una terra sana, accessibile, bella. I cittadini di Taranto non devono vivere nel terrore di ammalarsi per l’aria che respirano, si deve abitare in case sicure e non abusive. E se uno vuole andare in spiaggia deve poterlo fare senza pagare. Sono programmi che costano e allora, oltre a dire che cosa si vuol fare, bisogna dire che cosa non si vuol più fare.
Torniamo alla legge elettorale. Gaetano Azzariti ha giustamente sottolineato che in una democrazia parlamentare la legge elettorale non serve a scegliere un governo ma è lo strumento con cui i cittadini eleggono i loro rappresentanti. Una prospettiva completamente scomparsa dal dibattito pubblico.
Sono gli orizzonti divergenti dei sostenitori del proporzionale e dei fautori del maggioritario. Ma i cittadini non vogliono essere considerati pecore dentro il gregge o mucche dentro la mandria. I cittadini sono la forza che dà senso alla politica, ai partiti che esprimono idee e programmi per attuarle. Non si dovrebbe avere la sgradevole sensazione che i giochi siano già fatti, ma si dovrebbe restituire al popolo l’idea di essere parte fattiva del gioco. E perché questo accada la legge elettorale non deve essere solo onesta, ma anche semplice e chiara, il contrario degli arzigogoli ai quali si dedicano gli esperti dei sistemi elettorali (quasi una categoria professionale).
Parliamo del Rosatellum nuova versione?
La legge elettorale deve anche essere ‘coerente’. Che senso ha dire agli elettori: vi diamo una quota di nominati e una quota libera? Cosa pensa il cittadino del “voto unico” che fa sì che il voto dato al candidato nel collegio uninominale si trasferisca automaticamente alla lista dei candidati nel collegio plurinominale e viceversa? Tutte le volte che logiche alternative s’inseriscono nel meccanismo elettorale, sorgono dubbi sulla onestà della legge.
Con i “nominati” la selezione non la fanno gli elettori.
Gli appuntamenti elettorali sono spesso quelli in cui, all’opposto di quanto teorizzava Bagehot, emerge il peggio della Nazione. Per correre dietro ai consensi che servono per vincere, i partiti non vanno troppo per il sottile. Non fanno differenze tra il voto delle persone oneste, informate e disinteressate e quello delle persone disoneste, disinformate e interessate: anzi, per lo più si coccola la seconda categoria che può offrire pacchetti di voti. In una situazione socialmente decadente, emerge il degrado.
Che fare? Sorteggio?
Lucrezio nel De rerum natura racconta che gli Etiopi conferivano il potere del governo ai più belli: un sistema come un altro, no? Tornando seri, l’elezione non può che rispecchiare il grado o il degrado di elettori, candidati ed eletti, a seconda di chi ha in mano il gioco.