sabato 28 ottobre 2017

Repubblica 28.10.17
Ferrari, del Cnrs di Lione
“Ecco perché un sorriso aiuta a crescere”
di Elsa Vinci

Cosa avviene nella mente di un neonato quando sente la voce della madre, vede il volto di un estraneo o carpisce un sorriso? «Il neonato risponde subito, perché il nostro cervello è predisposto», dice Pier Francesco Ferrari, neuroscienziato italiano, direttore di ricerca presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Lione e direttore della scuola di neuroscienze del Centro Ettore Majorana di Erice, che parteciperà al Festival di Genova con una lectio magistralis (il 5 novembre alle 15) sulla comunicazione affettiva, “I primati e il cervello sociale”. «Una madre che sorride attiva delle aree del cervello, zone del piacere, e ha un significato di rinforzo positivo per il neonato», dice Ferrari. «Da un punto di vista neurofisiologico, «studi recenti hanno dimostrato che diverse strutture corticali e subcorticali sono coinvolte nella regolazione di comportamenti comunicativi e nella decodificazione degli stimoli sociali».
Nella corteccia cerebrale esistono, infatti, alcuni network che sono reclutati non solo durante il controllo delle azioni proprie ma anche durante la percezione di quelle altrui. «Alcuni di questi circuiti sono noti come “sistema dei neuroni a specchio”, o “sistema mirror”», spiega lo studioso. «Il cervello infatti elabora le informazioni anche in termini affettivo/ emozionali. Questi network sono plastici e sensibili all’esperienza e coinvolti nei processi di riconoscimento altrui, di imitazione e di contagio affettivo».
Le ricerche condotte negli ultimi anni sull’uomo e sulle scimmie dimostrano che le prime esperienze affettive/sociali del neonato hanno un forte impatto sul funzionamento di questi circuiti. «E lo condizioneranno a lungo», sottolinea Ferrari. «In un bambino abusato, negletto dai genitori o nei piccoli rimasti in orfanotrofio per molti anni, il cervello prende una diversa traiettoria di sviluppo nell’affettività, nelle emozioni. Se un bimbo invece viene stimolato positivamente, la sua risposta al sorriso della madre aiuterà il suo cervello sociale.“Conoscere è riconoscere”, scriveva Platone: le neuroscienze, si potrebbe dire con una battuta, confermano».
Repubblica 28.10.17
Le nuove rotte della mente
I segreti del cervello, la memoria e l’apprendimento
Un focus sull’avventura della conoscenza nella manifestazione di Genova, fino al 5 novembre Con 265 incontri, mostre, dibattiti e spettacoli
di Giuliano Aluffi

La memoria non è più una virtù: i ragazzi di domani impareranno con la fantasia. Lo suggerisce la nuova scienza del cervello, che è uno dei temi più stimolanti in scena al Festival della Scienza 2017. L’edizione di quest’anno, la quindicesima, si svolge a Genova fino al 5 novembre articolandosi in 265 appuntamenti distribuiti in tutta la città. Il tema generale, “Contatti” sarà toccato nelle più varie declinazioni: contatti tra scienza e società, contatti tra l’uomo il mondo animale (“L’unicità dell’immaginazione”, lectio magistralis del primatologo Tetsuro Matsuzawa, 4 novembre ), con il cervello in prima fila (“I canali della vita e la trasmissione nervosa”, lectio magistralis del Nobel per la medicina Ewin Neher, 5 novembre). Tra gli incontri, sono diversi quelli che proprio partendo dal cervello esortano la scuola a rimettersi in discussione: «Se gli insegnanti più tradizionalisti delle scuole primarie e secondarie sapessero quanto poco il cervello umano è adatto a ricordare, forse eviterebbero di chiedere agli studenti di studiare tante nozioni a memoria», spiega Rodrigo Quian Quiroga, direttore del centro di neuroscienze all’Università di Leicester, che venerdì 3 novembre alle ore 17.30 a Palazzo Ducale terrà la lectio magistralis “Borges e la memoria: l’importanza di ricordare tutto e di saper dimenticare”.
Perché dovremmo saper dimenticare? «Le evidenze neuroscientifiche ci mostrano oggi che è inutile chiedere agli alunni di memorizzare dieci nozioni impartite in una lezione di 50 minuti: rimarranno nella mente per cinque o sei giorni e poi spariranno. È più proficuo concentrarsi su un numero minore di informazioni e consolidare quei ricordi rievocandoli di tanto in tanto. Ma un obiettivo ancora più importante è il capire: questo è un processo cerebrale molto diverso che richiede, spesso, di scordare dettagli inutili e isolare l’essenziale». Perché è il “concetto” che viene scolpito nei neuroni. «Con le mie ricerche ho scoperto nell’ippocampo gruppi di cellule che ho chiamato i “neuroni di Jennifer Aniston” perché rappresentano dei concetti », spiega Quiroga. «C’è un gruppo specifico di neuroni che si attiva soltanto se vedo una fotografia della Aniston – e naturalmente vale per qualsiasi celebrità o anche solo se leggo il suo nome su un foglio: quindi non risponde soltanto all’immagine della Aniston ma proprio alla sua idea. Sono proprio questi i neuroni che ci permettono di dimenticare i dettagli inutili e tenere in memoria ciò che conta».
Sfruttare le interazioni tra i neuroni per potenziare l’apprendimento e l’uso meno gravoso e più naturale della memoria è anche il tema svolto da Idriss Aberkane, giovane intellettuale francese esperto in neuroscienze e fondatore di startup come Scanderia, che uniscono gioco e studio: sabato 4 novembre (ore 15.30, Palazzo Ducale) terrà la lectio magistralis “Liberate il vostro cervello: coltivare la saggezza attraverso la neuroergonomia”, che è anche il titolo del suo saggio in uscita per Ponte alle Grazie. Aberkane parlerà di come arricchire le lezioni puntando sul coinvolgimento di tutti sensi. Ambito, peraltro, in cui la ricerca italiana eccelle: infatti l’ambizioso progetto WeDraw dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università di Genova, che si propone di insegnare l’aritmetica e la geometria attraverso la musica, la danza e l’esplorazione tattile, quest’anno è stato finanziato per 2,5 milioni di euro dall’Unione Europea. Lo illustreranno al Festival della Scienza, lunedì 30 ottobre alle ore 15 a Casa Paganini, i coordinatori: Monica Gori, neuroscienziata dell’Istituto Italiano di Tecnologia, e Gualtiero Volpe, ricercatore in sistemi interattivi all’università di Genova.
«Siamo stati i primi a dimostrare che fino a otto o dieci anni di età i bambini usano i sensi in modo slegato l’uno dall’altro: hanno, nel loro rapporto col mondo, un canale sensoriale preferito, che può anche non essere la vista, su cui è invece incentrato quasi tutto il lavoro in classe», spiega Monica Gori. «Per questo è utile individuare per ogni bambino il senso preferenziale, con misure psicofisiche, e poi affrontare le eventuali difficoltà scolastiche coinvolgendo di più il senso giusto». A questo scopo l’IIT sta sviluppando giochi - che al festival tutti i bambini potranno sperimentare - come una penna robotica che insegna la geometria facendo esplorare dei solidi. O una griglia di piastrelle variopinte che fa apprendere ai bambini il piano cartesiano mentre si muovono tra le caselle e il sistema Microsoft Kinect fa accadere cose diverse a seconda della posizione sugli assi delle X e delle Y. O esercizi di movimento e di ritmo capaci di trasmettere i concetti che i più piccoli trovano ostici, come frazioni e percentuali.

Repubblica 28.10.17
Jürgen Habermas
L’Unione non è sinonimo di noia né di burocrazia Ma per salvarla va riformata
Un appello che il grande filosofo tedesco rilancia su “Repubblica”
Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa
di Jürgen Habermas

Per Walter Benjamin la capitale dell’Europa era Parigi; per l’ironico e ostinato Robert Menasse dovrà essere Bruxelles. In questo modo il vincitore del Deutscher Buchpreis (premio letterario tedesco) formula un’esile speranza, temperata da una storiella divertente su una serata trascorsa con un giornalista tedesco in un fumoso caffè della capitale belga. Menasse racconta che il giornalista, dopo aver redatto un articolo per il suo giornale di Francoforte dalla lontana galassia di Bruxelles, se lo vide rimandato
indietro con un’annotazione: «Non raccontare cose così complicate. Scrivi solo quanto costerà di nuovo a noi tedeschi». Lo scarso interesse che i nostri politici, manager e giornalisti mostrano per la costruzione di un’Europa capace di iniziativa politica non potrebbe essere illustrato meglio. Da anni ormai una stampa timida e deferente corre in aiuto della classe politica tedesca, facendo di tutto per non tediare l’opinione pubblica col tema dell’Europa. La tendenza a infantilizzare il pubblico si è manifestata nel modo più evidente in campagna elettorale, con la rigorosa limitazione dei temi ammessi all’unico dibattito televisivo tra Merkel e Schulz. Del resto, già per tutto il decennio dell’ancora irrisolta crisi finanziaria, alla cancelliera e al suo ministro delle Finanze è sempre stato consentito di presentarsi, in stridente contrasto con i fatti, come veri “europei”.
Adesso compare sulla ribalta un politico come Emmanuel Macron, pieno di riguardi verso la cancelliera (ormai indebolita e incalzata dal suo stesso partito), ma capace di sollevare il velo sul compiaciuto autoinganno. Le menti “realiste” delle grandi testate tedesche sembrano temere le parole del presidente francese perché potrebbero aprire gli occhi al loro pubblico, mostrando che il re, con il suo robusto nazionalismo economico, è nudo. Nei primi capitoli di un recente libro con il sottotitolo Come la Germania mette a rischio un’amicizia, Georg Blume raccoglie una triste documentazione sul nuovo tono altezzoso della stampa e della politica tedesche nei confronti della Francia e dei francesi. I commenti su Macron oscillano tra indifferenza, arroganza e fuoco di sbarramento preventivo. E a parte un titolo dello Spiegel, anche la risonanza dell’ultimo così importante discorso del presidente francese (pronunciato il 26 settembre scorso alla Sorbona, e in cui Macron rilancia un’idea forte di Europa «sovrana, unita e democratica », ndr) è stata scarsa o nulla. Con questa materia, adatta per scrivere una commedia, la prossima coalizione di governo “Giamaica” (dai tre colori di Cdu, Fdp e Verdi) potrebbe imbastire una vera e propria tragedia, se, ad esempio, un ministro delle Finanze quale Christian Lindner divenisse l’esecutore testamentario di Schäuble. In un “non paper” scritto per l’Eurogruppo, il dimissionario ministro delle Finanze ha ideato un programma fatto apposta per bloccare ogni compromesso col presidente francese. Schäuble lega la creazione di un fondo monetario europeo alle sue idee ordoliberali volte a prevenire ogni temuta partecipazione democratica. In tal modo l’intero ordine economico-finanziario sarebbe sottratto alle decisioni politiche e rimarrebbe prerogativa di un’amministrazione tecnocratica.
Con questo sfogo potrei anche chiudere il mio discorso. Ma la situazione è troppo seria. Il prossimo governo tedesco dovrà raccogliere (sempre che qualcuno ne abbia voglia) la palla lanciatagli dal presidente francese e che sta ora dalla sua parte del campo. Basterebbe una politica del rinvio per sprecare un’occasione storica unica.
Raramente le contingenze storiche hanno creato una situazione così chiara come nel caso dell’ascesa al potere di questa personalità così fascinosa, forse irritante, ma in ogni caso fuori dal comune. Nessuno si sarebbe potuto aspettare che un ministro del governo Hollande, senza appartenenza di partito, potesse creare da solo, in modo apparentemente egocentrico, un movimento politico capace di capovolgere l’intero sistema dei partiti. Sembrava un’impresa contraria a ogni buon senso demoscopico. Eppure una persona sola, senza seguito, è riuscita ad ottenere la maggioranza dei voti nel breve spazio di una campagna elettorale di coraggioso confronto, incentrata sull’approfondimento della collaborazione europea e opposta al crescente populismo di destra sostenuto da un francese su tre. Era davvero improbabile che un uomo come Macron potesse diventare presidente di un paese come la Francia, con una popolazione da sempre più euroscettica di quella lussemburghese, belga, tedesca, italiana, spagnola o portoghese.
Osservando le cose obiettivamente, però, è altrettanto improbabile che il prossimo governo tedesco abbia la lungimiranza di trovare una risposta costruttiva alla domanda posta da Macron. Per me sarebbe un sollievo se riuscisse almeno a riconoscere la rilevanza della questione. È già abbastanza difficile che un governo di coalizione segnato da tensioni interne abbia la volontà di rivedere le due scelte strategiche imposte da Angela Merkel all’inizio della crisi finanziaria: l’approccio intergovernativo, che assicura alla Germania un ruolo guida nel Consiglio europeo, e la politica dell’austerità, che la Germania ha potuto imporre ai Paesi del Sud dell’Unione, grazie a questa supremazia, assicurandosi vantaggi sproporzionati. Ed è ancora più improbabile che questa cancelliera non adduca la scusa dell’indebolimento della sua posizione politica interna per spiegare al fascinoso contraente che purtroppo non può far propria la sua compiuta prospettiva di riforma. Del resto, le prospettive le sono state sempre estranee. Per altro verso – ed è questa la questione su cui mi interrogo – può questa personalità politica (che non ho mai conosciuto personalmente), figlia di un pastore protestante, così accorta e coscienziosa, finora favorita dal successo ma anche riflessiva, può essa avere un interesse a finire i sedici anni di cancellierato in questo ruolo inglorioso? Vuole davvero lasciare la scena politica dopo quattro anni di esitazioni ed erosione del potere? O saprà mostrare una vera statura e saltare oltre la propria ombra, a dispetto di tutti coloro che già speculano sul suo declino?
Anche lei sa che l’unione monetaria europea è d’interesse vitale per la Germania e che, sul lungo periodo, essa non può essere stabilizzata finché si approfondiscono le forti differenze tra le divergenti economie del Nord e del Sud dell’Europa in termini di reddito, tasso di disoccupazione e debito pubblico. In Germania, lo spettro dell’“unione di trasferimento” offusca lo sguardo su questa dinamica distruttiva. È possibile porvi rimedio solo se si crea una concorrenza davvero equa oltre le frontiere nazionali, e se si persegue una politica di contrasto alla crescente desolidarizzazione sia tra le popolazioni nazionali sia all’interno delle varie nazioni. Basti pensare alla disoccupazione giovanile. Macron non si limita a concepire una visione. Egli richiede concretamente che l’Eurozona vada avanti nell’armonizzare le imposte sulle imprese, in un’efficace tassazione delle transazioni finanziarie, nella graduale convergenza dei differenti regimi di politica sociale, nella costituzione di un pubblico ministero europeo per le regole del commercio internazionale, eccetera.
D’altra parte, non sono queste singole proposte, già note da tempo, a distinguere da tutto ciò a cui siamo abituati il comportamento, le iniziative e i discorsi di questo politico. Ciò che colpisce sono tre tratti caratteristici: - il coraggio nella costruzione politica; - l’impegno dichiarato di voler trasformare il progetto elitario europeo in un’auto-legislazione democratica dei cittadini; - il modo convincente di porsi di una persona che ha fiducia nella forza della parola che articola il pensiero.
Con una scelta lessicale molto francese, il 26 settembre scorso, il presidente si è rivolto a un pubblico studentesco, ma anche alla classe politica tedesca, evocando ripetutamente quella “sovranità” che oggi non può più essere garantita dallo Stato nazionale, ma solo dall’Europa. In un mondo a soqquadro, solo con la protezione e la forza dell’Europa unita i suoi cittadini possono difendere i propri comuni interessi e valori. Macron fa valere la sovranità “autentica” contro quella chimerica dei “sovranisti” francesi, denuncia il gioco indegno dei governi che a casa prendono le distanze dalle leggi che essi stessi votano a Bruxelles, e non teme di invocare la rifondazione di un’Europa capace di agire sia al proprio interno che verso l’esterno. Con “sovranità” si intende questo rafforzato potere che i cittadini europei danno a se stessi. Quali passaggi da compiere verso un’istituzionalizzazione della capacità di iniziativa politica comune, Macron indica una collaborazione più stretta nell’Eurozona a partire da un bilancio comune. La proposta cruciale e dibattuta è la seguente: «Un (tale) bilancio può andare di pari passo solamente con una guida politica forte, un ministro comune e un controllo parlamentare esigente a livello europeo. Soltanto la zona euro con una moneta internazionale forte può fornire all’Europa il quadro di una potenza economica mondiale».
Con la pretesa di intervenire politicamente sui problemi di una società mondiale che cresce sempre più interdipendente, Macron si distingue, come solo pochi altri, dal ceto dei funzionari politici cronicamente non all’altezza dei problemi, opportunisticamente omologati e ridotti alla politica del giorno per giorno. Non si crede ai propri occhi: c’è davvero ancora qualcuno che vuole modificare lo status quo? Esiste ancora chi ha il coraggio sconveniente di opporsi alla coscienza fatalista dei fellahin ciecamente subalterni alla presunta forza coercitiva degli imperativi sistemici di un ordine economico mondiale personificato da organizzazioni internazionali distaccate e altezzose? Se ho ben compreso, Macron fa valere un interesse che, sino ad oggi, nei nostri sistemi partitici, stretti tra il neoliberalismo ordinario del “centro”, l’anticapitalismo appagato dei nazionalisti di sinistra e la stantia ideologia identitaria dei populisti di desta, non è stato sufficientemente analizzato né, di conseguenza, rappresentato. Una parte dell’insuccesso dei socialdemocratici è dovuto al fatto che la loro politica, in linea di principio aperta alla globalizzazione, propulsiva sui temi europei e, al contempo, attenta ai danni e alle distruzioni sociali provocate da un capitalismo sfrenato; questa politica, che coerentemente spinge per una necessaria riregolazione trasnazionale dei mercati, nonostante gli sforzi di Sigmar Gabriel non ha acquisito un profilo riconoscibile. Lo spazio di azione per attuare una tale politica, Gabriel avrebbe potuto ottenerlo solo come ministro delle finanze di una rinnovata Große Koalition, bendisposta nei confronti di Macron.
La seconda circostanza che distingue Macron dalle altre figure è la rottura di un tacito consenso. Sinora, la classe politica ha dato per scontato che l’Europa dei cittadini fosse un costrutto troppo complesso e la finalité – lo scopo dell’Unione europea – una questione troppo complicata perché i cittadini potessero occuparsene direttamente. Le attività correnti della politica di Bruxelles sono cosa per esperti o, semmai, per lobbisti ben informati, mentre i capi di governo sono impegnati a rimandare o eludere i problemi più gravi tra gli interessi nazionali in conflitto. Ma, soprattutto, i partiti politici sono unanimi nella volontà di evitare i temi europei nelle elezioni nazionali, a meno che non si presenti l’occasione di addossare ai burocrati di Bruxelles i problemi domestici. E ora Macron vuole fare piazza pulita di questa mauvaise foi. Un tabù lo ha già infranto mettendo al centro della campagna elettorale la riforma europea, e persino vincendo, un anno dopo la Brexit, questa offensiva contro «le passioni tristi dell’Europa».
È nota la formula secondo la quale la democrazia è l’essenza del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità. Non sono in grado di giudicare l’attuazione delle riforme politiche annunciate in Francia. Si dovrà vedere se egli manterrà la promessa “social-liberale” di assicurare il difficile equilibro tra la giustizia sociale e la produttività economica. Come uomo di sinistra non sono un “macroniano” – sempre che esista qualcosa del genere. Ma il modo in cui egli parla dell’Europa fa la differenza. Macron chiede considerazione per i padri fondatori che hanno creato un’Europa senza popolazione perché allora erano esponenti di un’avanguardia illuminata. Lui però adesso vuole fare di quel progetto elitario un progetto di cittadinanza e, contro i governi nazionali che nel Consiglio europeo si bloccano a vicenda, chiede che si compiano dei passi chiari verso l’autodeterminazione democratica dei cittadini europei. Così egli rivendica per le elezioni non solo un diritto di voto, ma anche la designazione di candidati appartenenti a liste transnazionali. Ciò favorirebbe, in effetti, la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non può divenire un luogo in cui gli interessi sociali possono essere generalizzati e valorizzati oltre i meri confini nazionali.
Se vogliamo valutare correttamente l’importanza di Emmanuel Macron è necessario considerare anche un terzo aspetto, una qualità personale: sa parlare. Non si tratta solo di un politico che riesce a guadagnarsi l’attenzione, la stima e il potere grazie alla capacità retorica e a una certa sensibilità verso la parola scritta. È piuttosto la scelta precisa delle frasi ispiratrici e la forza di articolazione del discorso a conferire allo stesso pensiero politico acume analitico e una prospettiva lungimirante. Da noi, Norbert Lammert è stato l’ultimo a richiamare alla memoria i dibattiti al Bundestag di Gustav Heinemann, Adolf Arndt e Fritz Erler agli albori della Repubblica federale. Naturalmente la qualità della professione del politico non si misura dal talento oratorio. Tuttavia, i discorsi possono cambiare la percezione della politica nella sfera pubblica, elevarne il livello e ampliare l’orizzonte del dibattito pubblico, migliorando inoltre la qualità non solo dei processi di formazione della volontà politica, ma anche dello stesso agire politico.
In un mondo dove l’assenza di forma dei talk show diventa il metro di riferimento per la complessità e lo spazio del pensiero politico pubblicamente ammesso, Macron si distingue per lo stile dei suoi interventi. A quanto pare ci manca la capacità di percepire tali qualità, e di collocare il quando e il dove di un discorso. Ad esempio, quello tenuto di recente da Macron al Municipio di Parigi in occasione delle celebrazioni per la Riforma è interessante non solo nel contenuto. Si è trattato di un abile tentativo di utilizzare lo sguardo retrospettivo sulla storia delle lotte confessionali in Francia per adattare una dottrina di Stato – il severo laicismo francese – alle istanze di una società pluralistica. Ma l’occasione e l’argomento del discorso erano anche un gesto di apertura verso la cultura protestante del Paese confinante – e verso la collega di confessione evangelica a Berlino. Naturalmente, la pretesa e lo stile con cui viene rappresentato il potere dello Stato ci sono divenuti estranei, al più tardi dallo sguardo nostalgico di Carl Schmitt sul contro-illuminismo francese del XIX secolo. Può darsi che ci manchi quel senso della gravitas di una vita nel palazzo dell’Eliseo che Macron onora nel colloquio avuto con lo Spiegel. Ma la conoscenza più intima della filosofia hegeliana della storia, con cui reagisce alla domanda su Napoleone come «spirito del mondo a cavallo», è comunque di grande effetto.
Questo articolo è apparso su
Der Spiegel del 21 ottobre 2017 © Jurgen Habermas Traduzione di Walter Privitera e Fiorenza Ratti
Repubblica 28.10.17
 Il direttore del Museo Egizio di Torino svela il progetto per il 2018
“Racconterò le statue come vittime della Storia”
MARINA PAGLIERI
TORINO
«Una riflessione sulla fragilità dei tesori d’arte, sul museo come luogo di memoria e conservazione, ma anche di distruzione, in un dialogo tra reperti del passato e creazioni contemporanee». Il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco presenta cosi “Anche le statue muoiono” (il titolo è tratto dal film di Alain Resnais e Chris Marker, del 1953), la grande mostra che ha pensato per
il 2018, l’Anno europeo del patrimonio culturale, curata con lui da Paolo Del Vesco, Enrica Pagella, Elisa Panero, Stefano De Martino e Irene Calderoni. Si inaugura l’8 marzo e coinvolge diverse istituzioni della città, oltre all’Egizio, i Musei Reali, il Centro Scavi dell’Università e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove saranno esposti i lavori degli artisti invitati. Questi provengono dall’area mediorientale, da paesi come Siria, Egitto, Libano, Turchia, in cui i temi della mostra sono più sentiti. Si vedranno le opere di Kader Attia, che ha lavorato sul saccheggio del Museo del Cairo, di Morehshin Allayari, iraniana che vive negli Stati Uniti, dell’irachena Jananne Al-Ani, dell’egiziana Iman Issa, del libanese Walid Raad. Unico italiano presente Mimmo Jodice, con gli scatti magici che ha dedicato alle rovine di Palmira e al Mediterraneo.
Christian Greco, perché questo titolo?
«Perché è vero, anche le statue muoiono, e in modi diversi. Ogni opera ha una biografia, che coincide con la sua storia. A volte trovi una scultura mutilata, nella faccia o negli organi genitali, e scopri che la sua sacralità non è stata rispettata: magari è stata tagliata a pezzi e ricomposta, presentata in altri contesti, così si è snaturata la sua identità. L’iconoclastia non ha a che fare solo con le distruzioni della guerra, ma anche con motivazioni culturali e religiose, pensiamo per esempio in Europa alla Riforma protestante. È un fenomeno che vogliamo analizzare e ampliare all’oggi, per questo abbiamo chiesto a una serie di artisti del vicino Oriente di riflettere sui conflitti che portano gravi danni al patrimonio. Ci interessava fare dialogare l’arte contemporanea con i reperti egizi».
Qualche esempio di distruzioni e contraffazioni subite dalle opere del suo museo?
«C’è il caso eclatante della statua in granito rosa di Ramses II incedente, che un tempo aveva raffigurato con ogni probabilità Amenofi II, faraone vissuto più di 150 anni prima: Ramses ha cambiato l’iscrizione e l’età e l’ha fatta sua. Abbiamo stele che testimoniano l’usurpazione attraverso la cancellazione di iscrizioni, poi riscritte, o di immagini di un personaggio, per condannarlo all’oblio. Un altro esempio è quello della scultura del governatore provinciale proveniente da Qau el-Kebir fatta a pezzi: in quel sito se ne sono rinvenute parecchie ridotte così, ma ne esporremo una sola, come testimonianza. Poi c’è un frammento del volto di Akhenaton, parte di una statua antica riscolpita in epoca moderna, a rivelare, e questo è un altro problema, la creazione di una falsa memoria, magari per fini commerciali ».
Quale apporto può arrivare dalle opere degli artisti contemporanei?
«A loro è stato chiesto di dialogare con il passato e di dimostrare come, dai pezzi antichi ai lavori di oggi, la distruzione dell’arte sia un fenomeno diacronico, sempre esistito. Ci sarà uno scambio tra i diversi contesti, porteremo reperti trovati nelle piramidi o nelle tombe egizie alla Fondazione Sandretto e un’opera contemporanea nel Salone degli Svizzeri di Palazzo Reale, dove la direttrice Enrica Pagella farà arrivare materiale archeologico dal Museo di Antichità. Ma c’è un altro aspetto da sottolineare».
Quale?
«La partecipazione del Centro Scavi dell’Università di Torino, che porterà in mostra fotografie e documenti. Attivo sino dagli anni Sessanta e Settanta nelle zone a rischio per il patrimonio, soprattutto nei contesti assiri oggi all’attenzione del mondo, è ancora presente oggi nel nord dell’Iraq. I docenti e archeologi Stefano De Martino e Carlo Lippolis hanno collaborato tra l’altro alla ricostruzione del Museo Nazionale di Baghdad, dopo le devastazioni del 2003. Occorre ricordare che del patrimonio fa parte anche la ricerca, come bene intangibile».
Il 2018 è appunto l’anno europeo del patrimonio culturale: quale vuole essere il messaggio della mostra?
«Si è voluta allargare a tutta la città la riflessione sulla fragilità del patrimonio e sull’esigenza di conservarlo e studiarlo. Mi piace che si facciano dialogare diverse istituzioni e che questi temi siano affrontati in sedi diverse. E mi piace trasmettere il messaggio che dobbiamo studiare quello che il passato ci ha tramandato, ricordando che la tutela passa anche attraverso il dialogo e la conoscenza. L’articolo 9 della nostra Costituzione dice che la Repubblica, la res publica,
proprio nel senso civico di questo termine, promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Mi piace infine che i torinesi sentano il Museo Egizio come il loro museo: dobbiamo legare i cittadini al loro beni culturali. Una riflessione che avrà un seguito a giugno, in due giornate di studi e approfondimenti su questi temi. Al centro ci deve essere la biografia dell’oggetto d’arte, che ha tanto da dirci e che dobbiamo conoscere per tutelare ».
Corriere 28.10.17
Saggi Pietrangelo Buttafuoco con Carmelo Abbate demolisce, dati alla mano, un tema caro alla sua area culturale
E l’intellettuale di destra dimostrò: l’autodifesa armata è una sciocchezza
di Aldo Cazzullo

È il libro che non ti aspetti da un giornalista di destra, qual è considerato Pietrangelo Buttafuoco. Sembra proprio Matteo Salvini il principale destinatario del messaggio recapitato dal saggio scritto con Carmelo Abbate, Armatevi e morite. La difesa fai-da-te è un inganno (e non è di destra) , uscito per Sperling & Kupfer. Sostengono gli autori che il cittadino armato di fucile, posto a sentinella della propria abitazione già protetta da vetri blindati, finestre sbarrate, cavi, catene e lucchetti, è un’illusione pericolosa, un percorso illogico e irrazionale che finirà per lasciare tanti nuovi morti ammazzati sul terreno.
Lo Stato che detiene il monopolio della difesa e della sicurezza è una delle più grandi conquiste di civiltà. Rinunciarci, magari sull’onda di quella che Buttafuoco e Abbate indicano come «l’ultima isteria della destra sciué-sciué», sarebbe una regressione quanto una follia. Perché alla «sgangherata macchina della propaganda populista interessa solo mettere all’incasso l’applauso: share nelle trasmissioni urlate, like nei social, bagni di folla al Bar Sport». Mentre al povero signor Veneranda, personaggio creato da Carletto Manzoni e preso a riferimento dell’italiano medio piccolo borghese, non resta che «attaccarsi al ferro». Così facendo, lo Stato si «cala le braghe» e il signor Veneranda «ci lascia le penne».
Armatevi e morite , fare del cittadino il poliziotto di sé stesso, è «l’ armiamoci e partite di chi, facendo la guerra a parole, manda avanti gli altri a crepare». Questo si nasconde dietro il mantra del «cittadino con la pistola», la ricetta «un’arma in ogni famiglia» e lo slogan dispensato con rassegnata leggerezza: «Visto che lo Stato non ci difende...». Un «maledetto imbroglio», scrivono Buttafuoco e Abbate.
La loro contestazione non è portata in punto di ideologia, ma di pragmatismo. La difesa fai-da-te è un inganno perché laddove questa viene applicata, provoca una vera e propria carneficina. Gli «Stati Armati d’America», come vengono indicati dagli autori, sono lì a mostrarci la direzione che non bisogna assolutamente percorrere. Hanno la più alta percentuale di armi da fuoco per abitante al mondo: 88,8 ogni 100 persone, secondo l’organizzazione indipendente svizzera Small Arms Survey, dato 25 volte più alto rispetto alla media delle nazioni Ocse. Ma allo stesso tempo fanno registrare il più elevato numero di omicidi rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati: quasi 12 mila morti ammazzati soltanto nel 2008. All’opposto, sempre secondo lo stesso osservatorio, in Giappone si contano 0,6 armi da fuoco ogni 100 abitanti (tasso più basso fra i Paesi ricchi) e 11 persone uccise nel 2008, mentre due anni prima erano state solo 6 in tutto il Paese. Periodo nel quale negli Usa più di 500 persone avevano perso la vita per una causa accidentale, cioè mentre erano intente alla pulizia della pistola o del fucile.
E qui si apre una pagina che deve far riflettere quelli che pensano che basti una pistola per mettersi al sicuro. Perché dall’analisi specifica dei dati sulle vittime di armi da fuoco emerge la scarsa consistenza della cosiddetta autodifesa: la maggior parte dei morti non deriva dall’azione del cittadino che protegge il proprio casolare, ma da quello che attacca e spara per le ragioni più disparate. Un altro osservatorio indipendente, Gun Violence Archive, ha contato 58.634 «sparatine» (come le chiamano i sicilianissimi autori) nel 2016, 15.062 delle quali mortali. Soltanto in 1.971 di questi casi gli americani hanno fatto fuoco a scopo difensivo, mentre gli incidenti per colpi accidentali sono stati 2.198. A completare questa speciale contabilità del massacro, 384 mass shooting , le sparatorie di massa come quella del Pulse, il gay club di Orlando in Florida, dove il 12 giugno 2016 un cittadino americano ha fatto fuoco a casaccio sulla folla e ucciso 49 persone, ferendone altrettante.
Poi c’è la scuola. Tra il 2013 e il 2015 il gruppo di attivisti Everytown ha contato 160 school shooting in 38 Stati americani, il 53% delle quali in istituti elementari. Ogni giorno 19 bambini arrivano nei pronto soccorso per ferite da arma da fuoco, fra il 2003 e il 2013 ne sono stati ammazzati 163 per incidenti nei quali mancava la volontà o la consapevolezza di uccidere. Morti per gioco, per essere chiari.
Ecco cosa ci dice l’esperienza fattuale. La difesa fai-da-te è un inganno, è fumo negli occhi, ci rende «più nudi, più insicuri, più vittime». Chi si arma è destinato a morire, o a bruciarsi le natiche. E qui gli autori tirano fuori una storia di cui da sempre ridono gli uomini delle scorte e i dirigenti della pubblica sicurezza. «Quella di un tutelato h24 che la passione per le armi ebbe a pagarla bruciacchiandosi il sederino». Aveva la mania di portarsi dietro il revolver, non avendone sapienza d’uso, infilato nella tasca dei jeans senza averne messo la sicura. Ancora una volta si confermò il dogma di Cechov: «Se in una scena compare una pistola bisogna che spari. E fu pum ! Per fortuna solo sul popò».
Il Fatto 28.10.17
La ricetta medica per una sana biblioteca
In libreria - È uscito “L’Arte di governare la carta”: il giallo su come è possibile dare un ordine perfetto
La ricetta medica per una sana biblioteca
di Nanni Delbecchi

Prima o poi capita a tutti; passiamo in rassegna gli scaffali della libreria di casa cercando un libro che sappiamo di avere letto e riletto, ma non lo troviamo. Una volta perlustrate le librerie, comincia la caccia al tesoro per il resto della casa: comodini, ripiani, cassapanche, un’accurata ispezione di quello che Peter Handke definisce “il luogo tranquillo”, quasi insuperabile anche come luogo di lettura. Niente, il libro non si trova. L’avremo prestato a quel lavativo di nostro cugino che non restituisce mai nulla? Ma no, quello non legge nemmeno l’elenco del telefono… Alla fine ci si rassegna a comprarlo, il libro introvabile. Passano un paio di giorni ed eccolo saltare fuori all’improvviso, a riprova che si era appena smesso di cercarlo. L’infallibile legge di Murphy.
Se parliamo di governabilità, l’unico caso in cui si rischia di rimpiangere l’Italia è appunto il governo della carta in casa propria, impresa temeraria che tuttavia vale la pena di affrontare come buona alternativa alla psicanalisi.
È quanto si ricava da L’Arte di governare la carta di Ambrogio Borsani, da prescrivere su ricetta medica per chi, saranno tanto comodi i tablet, ma dei libri-libri non riesce a fare a meno. Per governare la carta bisogna dosare follia e disciplina, e può non bastare di fronte all’esercito di ospiti che reclamano un posto tutto per sé. Ci vuole l’amore: difatti i capitoli del vademecum di Borsani sono frammenti di un discorso amoroso dove impariamo che i libri sono “non carta ma anime piene di speranza di vivere”; anime ma anche corpi delle più diverse forme, dimensioni, valori – Birds of America di John Audubon è stato battuto da Sotheby’s per 11 milioni di dollari. Una folla variopinta che può diventare biografia se non autoritratto, come i 300 libri di Don Ferrante o i 12 mila volumi della biblioteca sottomarina del Capitano Nemo “i soli legami che mi uniscono ancora alla terra.” Una colonia inarrestabile per cui si fanno invenzioni architettoniche, come le gallerie aeree sui soffitti dei corridoi escogitate da Giuseppe Pontiggia; anche se l’ultimo stadio del bibliofilo è affittare una garçonnière per allogare i titoli che in casa non ci stanno più. È “la biblioteca dell’amante” contrapposta a quella coniugale, della residenza ufficiale.
Ma insomma, è possibile dare un ordine perfetto alla propria biblioteca domestica? e quale, pur nella consapevolezza che l’ossessione per l’ordine può rivelarsi un abisso più profondo del caos? Ordine cronologico, alfabetico, per collane, per soggetti e argomenti? Bisogna leggere fino in fondo il giallo istruito da Borsani e la soluzione arriverà, anche se – come nei migliori gialli – qualche dubbio metafisico è destinato a rimanere sospeso a mezz’aria. Perché se ogni libreria tende all’autoritratto, la sintesi da perseguire è la disarmonia prestabilita teorizzata da Umberto Eco: “La funzione ideale di una biblioteca è di essere un po’ come la bancarella del bouquiniste” ovvero un luogo-universo dove dovrebbe esserci tutto, ma come nell’universo può sempre saltar fuori qualcosa capace di sorprenderci. Dove, mentre continuiamo a cercare invano quel famoso libro che si è certi di possedere, a un tratto ne salta fuori un altro che non credevamo di avere. Presi alla sprovvista, cerchiamo di ricordarci come andò, quando e come lo abbiamo comprato. O forse è stato un regalo? Lo apriamo, lo sfogliamo e cominciamo a leggerlo, dimentichi di tutto il resto.
Repubblica 28.10.17
Ken Hughes
“Il grande complotto non c’è ma queste carte imbarazzano il governo americano e la Cia”
intervista di Massimo Ferraro

«QUESTI documenti non sono “ esplosivi”, ma possono mettere in imbarazzo il governo americano, e anche la Cia e l’Fbi » . Non ha dubbi Ken Hughes, storico e ricercatore al Miller Center dell’Università della Virginia.
Lei dice che gli ultimi file desecretati sull’omicidio Kennedy non smentiscono la versione ufficiale. Allora perché il governo ha tenuto così a lungo il segreto di Stato?
«Perché queste carte rivelano i metodi di raccolta informazioni e l’uso delle fonti, che i servizi d’intelligence custodiscono gelosamente. Penso che l’amministrazione Trump non sia riuscita a finire il proprio lavoro in tempo. I servizi segreti hanno manifestato le proprie preoccupazioni al presidente, e hanno tentato di mantenere la maggior parte delle informazioni secretate. È per questo che sono stati dati altri sei mesi per completare il lavoro».
Cosa aggiungono questi documenti alla versione ufficiale sull’assassinio di Kennedy?
«Ci aiuteranno a sapere qualcosa di più su Lee Harvey Oswald e sulle indagini del governo americano su di lui prima dell’omicidio di Kennedy. In molti si aspettavano che venisse svelata una grande cospirazione, ma nessuna teoria del complotto è riuscita a superare un esame minuzioso: nessuno è stato in grado di provare la colpevolezza di qualcuno diverso da Oswald».
Come funziona il segreto di Stato negli Usa?
«Il governo ha interesse a condurre operazioni d’intelligence, e la politica a tenere nascoste alcune delle proprie carte mentre negozia con altri Paesi. Allo stesso tempo, i cittadini devono essere messi al corrente delle azioni dei propri eletti, affinché l’esecutivo possa essere chiamato a risponderne: le nostre leggi favoriscono la desecretazione, l’intelligence ha l’interesse opposto».
Trump definisce “molto interessante” questo materiale...
«Sì, per gli storici. Sicuramente quelli rimasti segreti sono più interessanti di quelli pubblicati. Sono invece curioso di leggere la dichiarazione della Cia sul ruolo degli Usa nella deposizione di Ngo Dinh Diem in Vietnam del sud e Rafael Trujillo nella Repubblica dominicana. Quelli sono stati veri complotti, ed è ora di conoscere la verità».
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Sicuramente i documenti rimasti segreti sono più interessanti di quelli pubblicati
Il Fatto 28.10.17
Marilyn, Castro e il 2° uomo. Solo nuovi misteri su JFK
Nei documenti desecretati sulla morte del presidente
di Leonardo Coen

Chi uccise davvero Kennedy? Dai 2891 documenti desecretati del National Archives di Washington, su input di Donald Trump, emergono dettagli che potrebbero riscrivere la più oscura delle pagine di storia degli Stati Uniti. Cominciando dall’inizio: ad assassinare il presidente Usa non sarebbe stato Lee Harvey Oswald bensì un agente di polizia, J.D. Tippit. Che però non potrà mai difendersi: l’hanno freddato 53 anni e 11 mesi fa a colpi di pistola nella East 10th street di Oak Cliff, periferia di Dallas. Per la precisione, 45 minuti dopo l’attentato a Kennedy sulla Dealy Plaza della capitale texana: era il 22 novembre 1963.
Furono 12 i testimoni del delitto Tippit. Vennero identificati e rilasciarono le loro testimonianze: 8 riconobbero o credettero di riconoscere Oswald nel killer, sia durante i confronti sia con l’ausilio di foto segnaletiche. Questo era risaputo. Ma non che Oswald e Tippit si fossero incontrati in un night-club di Jack Ruby, giusto una settimana prima dell’assassinio di Kennedy. Ruby, legato alla mafia locale, avrebbe poi ucciso Oswald nei sotterranei della polizia di Dallas: ora pare sempre più probabile che Ruby gli voleva tappare la bocca. Altro dettaglio significativo: fu John Edgar Hoover, l’onnipotente direttore dell’Fbi, ad interrogare personalmente Ruby che negò ogni legame con gruppi organizzati.
In un altro file della Cia, si segnala che l’MI-5, il servizio di sicurezza britannico, avrebbe registrato alle 18 e 05 Gmt del 22 novembre “una telefonata anonima fatta a Cambridge, Inghilterra, al senior reporter del Cambridge News. La persona al telefono disse solo che il giornalista avrebbe dovuto chiamare subito l’ambasciata Usa a Londra per alcune grosse notizie, e attendere”. Il documento è stato stilato da residenti londinesi della Cia e inviato come informativa al direttore dell’Fbi. 25 minuti dopo quella misteriosa telefonata, Kennedy viene sparato a Dallas.
Le coincidenze sono troppe, e troppo inquietanti. La stessa Cia aveva seguito i movimenti di Oswald e le sue attività. Era stato in Messico e lì aveva incontrato intermediari sovietici e cubani. L’avevano persino intercettato – lo riporta uno dei tanti “memo” a lui dedicati e scritti a mano – mentre tentava di parlare “in un russo stentato” con Valerij Vladimorovich Kostikov, console ma soprattutto spia del Kgb.
Quanto a Oswald, l’Fbi aveva ricevuto soffiate sulla possibilità che il presunto assassino del presidente sarebbe stato messo a tacere per sempre. Il capo della polizia di Dallas fece finta di nulla. In una trascrizione, Hoover riferisce che la sera prima all’ufficio dell’Fbi di Dallas arrivò una telefonata: un uomo, dalla voce calma, aveva detto di far parte di un gruppo organizzato per uccidere Oswald. L’Fbi allertò la polizia. Inutilmente.
Si capisce perché Mike Pompeo, il direttore della Cia, abbia dichiarato di essere “furiosamente” contrario a rendere pubblici questi file (e ne restano in cassaforte altri 300). Perché, comunque, svelano l’altra faccia dell’America: dalle indagini su Marilyn Monroe e il suo flirt con Kennedy, al piano Mangusta per far fuori Fidel Castro, agli intrighi di potere. La Guerra Fredda è il fondale dell’inchiesta. In un rapporto di 7 pagine (2 dicembre 1966) Hoover, capo dell’Fbi, sottolinea come l’Urss ipotizzasse una cospirazione “organizzata dall’ultradestra Usa per fare un colpo di Stato”. Lo pensava anche la stragrande maggioranza degli americani che all’origine dell’assassinio di Kennedy ci fosse stato un complotto e che Oswald non fosse l’unico responsabile, contrariamente alla conclusione della Commissione Warren. Chi l’ha ucciso, secondo Mosca, spiega Hoover, vuole “utilizzare l’assassinio e lo spirito anticomunista per fermare i negoziati con l’Urss, attaccare Cuba e avviare una guerra”.
Ipotesi ragionevole. Ma avrebbe sconquassato il Paese e il mondo. Meglio dare la colpa a un uomo solo. I documenti dimostrano quanto Hoover abbia giocato il ruolo del burattinaio nell’inchiesta: “Ciò che preoccupa è scovare qualcosa in grado di convincere il pubblico che Oswald è il vero assassino”. Lo scrive il 24 novembre del 1963, nemmeno un’ora dopo la morte di Oswald, così agevolmente ucciso da Ruby. Chi erano i mandanti? I documenti non lo spiegano.
Repubblica 28.10.17
Una strana telefonata prima degli spari di Dallas, il ruolo dei russi, la prostituta infiltrata: cosa c’è nei documenti desecretati
Dal Messico all’Fbi le ombre e le verità dei “Kennedy files”
di Alberto Flores d’Arcais

CI SONO i legami di Lee Harvey Oswald con i russi, il ruolo di Cuba e i tentativi per uccidere Fidel Castro, c’è l’ambiguo Jack Ruby e una strana telefonata, ci sono le false piste, c’è una chiamata anonima a un giornale inglese a poche ore dall’omicidio di Dallas. A contorno cecchini, mitomani, traditori e una miriade di personaggi che si muovono ai margini del sottobosco dei servizi segreti. E come nella più classica
spy story non manca qualche dettaglio a luci rosse. Non c’è la
smoking gun, la prova decisiva che avrebbe fatto esultare complottisti di ogni sorta. Mancano 300 file che restano top secret (almeno per i prossimi sei mesi) per motivi di «sicurezza nazionale » e perché contengono nomi di spie, di agenti o ex agenti segreti Usa.
I nuovi documenti sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963) che la Casa Bianca ha reso pubblici (dopo molte discussioni tra Trump e il suo staff e dopo le forti pressioni di Cia e Fbi che hanno convinto The Donald a bloccare i documenti più “sensibili”), danno però un grande spaccato dell’America nascosta di Jfk e dei complotti (reali) nella Guerra Fredda: un puzzle di cinque milioni di fogli che nascondono un tesoro di indizi spesso oscuri. Manna per storici e ricercatori, poco o nulla per fare piena luce sull’omicidio politico più famoso. Dei 2.891 documenti resi pubblici nella serata di giovedì solo 53 sono completamente inediti, gli altri sono stati solo aggiornati (con maggiori dettagli). Questi i più interessanti emersi finora.
IL CASO CAMBRIDGE NEWS
Al piccolo giornale della cittadina universitaria inglese, 25 minuti prima che Kennedy venisse assassinato arrivò una misteriosa telefonata anonima: «Negli Stati Uniti sta per accadere una big news, avvisate l’ambasciata Usa». Notizia che dall’MI5 (i servizi britannici) arrivò sul tavolo di direttore (il famoso Edgard J. Hoover) e vice direttore del Fbi il 26 novembre.
OSWALD E I SOVIETICI
Due mesi prima di uccidere Jfk, Oswald fece un viaggio di 6 giorni in Messico in cui incontrò agenti russi e cubani. Venne intercettato dai servizi Usa («parlava un russo stentato»).
IL COMITATO DI JACK RUBY
Poco prima che Jack Ruby uccidesse Lee Oswald (mentre era sotto la custodia della polizia) una telefonata venne fatta al Fbi di Dallas: da un uomo che disse di parlare a nome del «comitato per uccidere Oswald».
LA CIA E LA MAFIA
La Cia voleva assoldare Sam Giancana, il potente capo-mafia di Chicago (molto “chiaccherato” per possibili legami con lo stesso Jfk) e offrirgli 150mila dollari per uccidere Castro.
UCCIDERE FIDEL CASTRO
In una riunione segreta del 14 settembre 1962 tra i più stretti collaboratori di Jfk (compreso Bob, il fratello del presidente allora ministro di Giustizia) viene ipotizzata l’uccisione del leader di Cuba. Un memo (1964) del Fbi entra nel dettaglio: venivano stanziati 100mila dollari più 2.500 di «spese correnti» per pagare gli esuli cubani incaricati di assassinare Fidel. Per uccidere il fratello Raúl la taglia era più bassa (20mila dollari), stessa cifra per Che Guevara. in un altro documento si parla di «agenti della Cia coinvolti in piani per cercare di assassinare Castro».
LA REAZIONE DELL’URSS
Documento Fbi: «Secondo la nostra fonte, gli uomini del partito comunista sovietico ritengono che l’omicidio Kennedy sia stata una ben organizzata cospirazione e che non può essere l’atto di un uomo solo».
I TIMORI DI HOOVER
Edgar J. Hoover, il potente direttore del Fbi, era spaventato dalla mancanza di prove sull’omicidio: «Non ci sono novità, se non che anche Oswald è morto. La cosa che mi preoccupa di più è trovare qualcosa che convinca il pubblico che Oswald è il vero assassino».
JOHNSON E IL KU KLUX KLAN
Le indagini Fbi, dopo l’uccisione di Jfk, coinvolsero anche il passato del successore Lyndon Johnson: nel maggio 1964 una fonte disse di avere «prove fondate» sull’appartenenza di Johnson al Ku Klux Klan agli inizi della sua carriera. “Prove” che il Bureau non ha mai rese pubbliche.
LA PROSTITUTA INFILTRATA
Nel 1960 (poco prima che Kennedy venisse eletto) un documento Fbi parla di una prostituta «d’alto bordo» reclutata per indagare sui sex party di Jfk con il cognato-attore Peter Lawford, Frank Sinatra e Sammy Davis Jr.
La Stampa 28.10.17
Alain Touraine
“Lenin volle costruire uno stato totalitario per cancellare la società
“Il comunismo è nato con l’idea che l’economia determina tutto ma oggi sappiamo che non è così”
di Francesca Paci

Saluti il professore e gli domandi dove va il mondo» butta là il portiere di una sobria palazzina a un paio d’isolati dalla stazione di Montparnasse. Il professor Alain Touraine, classe 1925, scrive, pensa e riceve i collaboratori in questo piccolo appartamento al dodicesimo piano, uno sguardo ampio su Parigi. Il salotto in cui siede con il pullover rosso e le gambe accavallate che mostrano i lunghi calzini in filo di Scozia, è zeppo di libri di letteratura, sugli scaffali, in terra, tra le foto con i nipotini. Quelli di sociologia, pane quotidiano del sommo esperto di movimenti operai e cultura industriale, sono nello studio insieme alle bozze del nuovo saggio che uscirà nel 2018 perché, dice, «il 2017 in Francia è l’anno della politica e non del pensiero».
Come leggiamo oggi la rivoluzione d’ottobre?
«Quello in cui si decide la rivoluzione in un solo Paese è un momento cruciale nella storia moderna europea e mondiale. Una rottura rispetto alla rivoluzione internazionalista marxista o illuminista. Per quanto Lenin citasse la Comune non c’è continuità. Nell’ottobre del 1917 i problemi di uno Stato s’impongono su quelli di una classe sociale. La storia russa dal 1905 al marzo 1917 è quella di un movimento sociale che si muove nel solco delle rivoluzioni francese, inglese, americana, tutte, al netto del sangue, finalizzate al voto democratico. La presa del Palazzo d’inverno rovescia tutto. Lenin non crede nel cambiamento endogeno della Russia e trasforma con la violenza i leninisti da minoranza del partito socialdemocratico in forza rivoluzionaria. La Russia, che in quel momento è un Paese in via di sviluppo con menti come Majakóvskij e Malevich, passa da una società universale a una statale, nazionale e autoritaria. La logica della società e quella dello Stato sono antitetiche. La prima prevede conflitti di classe, modernizzazione, orientamenti culturali. L’altra fa perno sulla centralità nazionale e supernazionale con la guerra esterna».
Chi ha vinto tra la società e lo Stato?
«Ha vinto Lenin perché dopo cento anni ha provato l’efficienza e la forza del suo metodo. Per un po’ si è creduto che avesse prevalso la democratizzazione, si sperava nei Paesi post coloniali, la Tunisia, l’Algeria, l’India di Nehru. Ma ora anche l’India è finita, si è imposto il nazionalismo e fortemente induista. Il mondo contemporaneo è pieno di regimi totalitari o autoritari, nazionalisti o religiosi. Di contro il sistema democratico non solo non si è diffuso ma è in crisi. L’occidente sta pagando a distanza di tempo il prezzo salato del colonialismo, le ex colonie hanno rifiutato il regime dei colonizzatori».
Il ’900 è marchiato dall’odio: Auschwitz, i gulag, i muri della guerra fredda. Dobbiamo prepararci all’odio dei nazionalismi?
«Il secolo breve è stato dominato dal totalitarismo e non solo comunista. A cercare il cavillo il nazismo può essere sì diverso dallo stalinismo, ma entrambi sono sistemi totalitari, anti-democratici e razzisti. L’odio però, non è tutto uguale. L’odio contro il nazismo è stato positivo, ci ha liberati. Quello contro lo stalinismo ha prodotto le primavere di Budapest, Praga, Berlino, Tienanmen, Solidarnosc, l’unica grande sollevazione anti sovietica e per la democrazia. Non è poco. Invece tutti i movimenti anti occidentali vanno verso regimi autoritari o dittature».
La speranza nel sol dell’avvenire è invecchiata prima del tempo?
«Il comunismo è invecchiato come doveva, come tutti i regimi autoritari, dittature proletarie o regimi che siano. Si arriva sempre alla persecuzione. Non credo neppure che sia nato come speranza: all’inizio si usava l’espressione “movimenti di emancipazione” ma un movimento emancipatorio operaio, contadino, nazionale o religioso è tale solo se approda alla democrazia. Se invece, come avvenuto in Urss, diventa conquista e consolidamento del potere non ha nulla di emancipatorio: in 60 anni l’Unione Sovietica non ha democratizzato nulla in nessun momento».
Nel saggioLe Nouveau Siècle politiquesi chiede cosa significhi essere di sinistra oggi. Cosa significa?
«Il comunismo non è di destra né di sinistra, la destra e la sinistra si riferiscono alla repubblica parlamentare, al parlamento. Senza sistema parlamentare non c’è sinistra. Stalin si sentiva più vicino al nazismo che al Regno Unito. Non conosco le nuove definizioni, direi che c’è solo la democrazia ed è giunta alla sua terza fase. La prima ha conquistato i diritti civili, la seconda quelli sociali e del lavoro, ora bisogna puntare ai diritti culturali. Il Papa usa spesso la parola dignità, credo sia la più importante»
C’è un’eredità culturale da raccogliere tra le ceneri del 1917?
«Il comunismo è nato come idea che la socializzazione delle fabbriche fosse la condizione fondamentale di tutte le altre libertà. La donna, la scuola, l’eguaglianza. Il potere economico determinava tutti gli altri. I social-rivoluzionari, da Nenni a Blum, lo seguirono ma dentro una tradizione democratica. Nessuno la pensa più così. L’economia capitalista e finanziaria non determina la letteratura e la musica, il rapporto si è spezzato. L’un per cento dei ricchi non ha nulla a che vedere con l’affermazione degli omosessuali. Oggi la liberazione è individuale e non collettiva».
La Stampa 28.10.17
Quando vince la nostalgia del passato
Gli Imperi vengono e vanno
di Marta Dassù

Gli Imperi vengono e vanno. Nel 1884, l’Impero britannico era così dominante da imporre che il meridiano di Greenwich diventasse l’orologio del mondo. Questa decisione causò l’irritazione di Parigi, storica rivale di Londra; ma fu resa più o meno inevitabile dal dominio marittimo della Gran Bretagna di allora. Più di un secolo dopo, Greenwich rimane lo standard su cui si allineano le lancette di tutti. Ma la Gran Bretagna ha perduto la sua grandezza. Lo stesso è accaduto all’Impero zarista o all’Impero ottomano. E pochi giorni fa, al 19° Congresso del Partito comunista, il leader dell’ex Impero di Mezzo, la Cina, ha dovuto promettere che il suo Paese tornerà all’antica gloria nel giro di pochi decenni.
Gli storici contemporanei, da Paul Kennedy a Niall Ferguson, hanno dimostrato che questo ciclo - l’ascesa e il declino delle nazioni imperiali - si ripete a tutte le latitudini. Ma hanno forse trascurato quello che colpisce oggi: un Impero può anche dissolversi, anzi ciclicamente si dissolve. Ma la sua eredità resta potente sul piano emotivo. Nei Paesi ex imperiali, la nostalgia - il rimpianto di ciò che era e non è più - sta diventando un elemento fondante della politica interna. E quindi delle relazioni internazionali.
Prendiamo il caso della Gran Bretagna. Sarebbe quasi impossibile capire il dibattito su Brexit senza tenere conto che la perdita dell’Impero resta un trauma nazionale non dichiarato, Freud direbbe rimosso. I britannici sembrano ancora immersi nel limbo denunciato con chiarezza da Dean Acheson, segretario di Stato americano, nel 1962: «La Gran Bretagna ha perso un Impero e non ha ancora trovato un ruolo». Per chi ha perso un Impero proprio, è difficile pensarsi parte di un Impero altro, come potrebbe essere definita, in forme sui generis, l’Unione europea. E in effetti, il ruolo della Gran Bretagna nell’Ue è sempre stato contrastato, sia da parte inglese sia europea: in uno dei passaggi migliori del suo discorso a Firenze su Brexit, la prima ministro Theresa May ha ammesso che questo senso di estraneità fra l’isola e il continente non si è mai dissolto del tutto. Anche perché l’ambizione britannica rimane quella di sempre: restare al comando del proprio destino. Magari, come dichiarato con una certa superficialità dai Brexiteers, costruendo relazioni commerciali da «Impero 2.0». Un futuro immaginario, in nome della nostalgia del passato.
La peculiarità dei nostri tempi, tuttavia, è che la Gran Bretagna non è un’eccezione o il sintomo più estremo di questa sindrome della politica contemporanea. Pochi Paesi appaiono immuni all’ascesa di leader che fanno appello alla gloria nazionale passata; che coltivano e usano volutamente la nostalgia, insomma, per guadagnare consenso. Si va dagli slogan alla Donald Trump («Make America Great Again»), ai disegni di Xi Jinping sulla riaffermazione della potenza cinese, alle rivendicazioni di Vladimir Putin nell’ex sfera di influenza dell’Impero russo e sovietico, alle ambizioni neo-ottomane di Recep Tayyip Erdogan. Sembra l’epoca del nazionalismo nostalgico.
Meccanismi di questo genere sono sempre esistiti, in realtà. La novità è che oggi possono fare leva su una vera e propria epidemia di nostalgia, che tende ad idealizzare il passato, a considerarlo per molti versi migliore del presente. Le ragioni sono in parte socio-economiche: la percezione secondo cui si «stava meglio prima» è diffusa nella classe media occidentale, come risultato della crisi finanziaria del 2008. Si aggiungono ragioni demografiche: la popolazione che invecchia - fenomeno che comincia a coinvolgere dopo l’Occidente anche le nuove potenze economiche, Cina per prima - è più vulnerabile al rimpianto del passato. E gioca un peso indubbio il ritmo dell’innovazione tecnologica, alimento continuo di ansia nostalgica per individui e nazioni, impegnati in una competizione costante.
Certo, la nostalgia, risposta psicologica comprensibile all’impatto «spiazzante» della globalizzazione, ha anche forme per così dire «benigne»: la consapevolezza della propria storia ha il sapore della rassicurazione. Ed una forte coscienza nazionale è un fondamento decisivo per la solidità di una comunità. Vale ancora la frase di Vladimir Nabokov: «One is always at home in one’s past» (si è sempre a casa nel proprio passato). Tuttavia, la nostalgia - nonostante la sua aurea romantica - diventa spesso una patologia; e andrebbe considerata come tale. Quale forza potente delle relazioni internazionali di oggi, andrebbe contenuta invece che accarezzata dalla politica.
Siamo in una fase di transizione del potere globale, per sua natura rischiosa. Gli Stati Uniti non sembrano più avere la volontà di garantire per tutti la stabilità del sistema internazionale emerso dalle guerre del secolo scorso. I vecchi Paesi sconfitti, grandi potenze economiche, si muovono ormai liberamente: mentre la destra estrema fa il suo ingresso al Bundestag, il premier giapponese Abe progetta di modificare la Costituzione pacifista imposta dai vincitori. E’ la fine definitiva del secondo dopoguerra, in Europa e in Asia. Che lascia spazi alle potenze autoritarie. Mentre gli equilibri economici si spostano verso Est, le migrazioni modificano i vecchi assetti Sud-Nord e gli attori non statali competono per l’influenza globale come mai in precedenza.
La combinazione fra queste scosse tettoniche all’ordine globale e la diffusione orizzontale di sentimenti nostalgici non può che creare tensioni nazionali. O nazionalistiche. Tensioni rischiose e spesso irrazionali. Nostalgia del passato o coraggio di abbracciare il presente? Su questa scelta psicologica, in parte generazionale, democrazie occidentali e potenze autoritarie in ascesa si contenderanno il futuro.
La Stampa 28.10.17
Ford e Kissinger discussero l’entrata del Pci nel governo italiano
Pubblicato il resoconto segreto dell’incontro tra il presidente e il Segretario di Stato L’accordo tra comunisti e cattolici ipotizzato da Berlinguer nell’ottobre del 1973

di Paolo Mastrolilli

Nel giugno del 1975, almeno per un giorno, la Casa Bianca considera la possibilità di favorire l’ingresso dei comunisti al governo in Italia. La proposta, avanzata dall’ambasciatore a Roma John Volpe, viene discussa nell’Ufficio Ovale dal presidente Gerald Ford, il segretario di Stato Henry Kissinger, e il vice consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft. Alla fine viene bocciata, anche bruscamente, ma è la dimostrazione di un dibattito interno all’amministrazione sul futuro del nostro Paese che finora non era emerso in questi termini, e di una forte preoccupazione per la tenuta della democrazia a Roma.
Il documento che racconta questo episodio è stato pubblicato giovedì sera, insieme ai files sull’assassinio di John Kennedy rimasti finora segreti. Porta la data di giovedì 26 giugno 1975, è classificato «segreto», e descrive un incontro avvenuto nell’Ufficio Ovale tra Ford, Kissinger e Scowcroft. Il tema, molto delicato, è il rapporto con l’Urss, il negoziato per l’accordo Salt, la minaccia dei missili sovietici puntati verso i Paesi occidentali. Nel corso della conversazione, Kissinger solleva la questione del rapporto col Pci: «Volpe vuole cominciare le discussioni con i comunisti in Italia». La risposta di Ford è fredda: «Io questo non lo capisco». Il segretario di Stato prova a spiegare: «È una questione di politica locale: sarà difficile non includere i comunisti nel governo». Kissinger si riferisce alla loro crescita elettorale, e all’opportunità di coinvolgerli attraverso il «compromesso storico», forse anche per sfruttare la particolare condizione dell’Italia allo scopo di dividere il Pci da Mosca. «Però - aggiunge subito dopo - noi non vogliamo giocare». Ford condivide, e chiude l’argomento: «Sono d’accordo».
La discussione è breve e la bocciatura rapida, ma è molto significativo che la proposta di Volpe sia arrivata fino all’Ufficio Ovale. Anche perché in quei giorni tutti i segnali pubblici andavano nella direzione opposta, e invece l’ambasciatore americano a Roma era così impegnato a considerare il via libera al «compromesso storico» da proporlo all’attenzione del segretario di Stato e del presidente.
Il momento in cui avviene questa discussione è molto difficile. Negli Usa, dieci mesi prima lo scandalo Watergate aveva costretto Richard Nixon alle dimissioni, e l’anno dopo erano in programma le presidenziali poi vinte da Carter. Nell’Italia già insanguinata dal terrorismo, invece, il Pci fa un balzo al 33,5% nelle regionali del giugno 1975, sullo sfondo degli scandali Pike e Lockheed. Il primo, ha rivelato i finanziamenti della Cia ai politici italiani e al generale Miceli, «per passarli ai neofascisti»; il secondo, le tangenti pagate dalla compagnia americana per spingere Roma a comprare i suoi aerei, che trascinano nel fango anche il presidente Leone. I rapporti che Volpe manda a Kissinger in quel periodo, ad esempio quello del 4 marzo 1976, sono molto allarmati: «Forse gli Stati Uniti hanno toccato il nadir della loro popolarità in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale». Gli scandali non stanno solo aiutando la sinistra, ma hanno diffuso tra gli stessi democristiani il sospetto che Washington li abbia alimentati per liberarsi della DC. Il 30 aprile del 1976 il governo Moro presenta le dimissioni, e la sera stessa Volpe invia un documento «segreto» di 29 pagine a Kissinger, con cui chiede di «usare tutte le risorse a disposizione del governo americano» per impedire la vittoria dei comunisti nelle elezioni politiche imminenti. «L’Italia - spiega l’ambasciatore - si trova davanti alla possibilità di veder entrare il Pci nell’esecutivo, attraverso le urne. Se ciò accadesse, sarebbe un profondo choc per il mondo occidentale». Eppure, nemmeno un anno prima, Volpe aveva proposto a Ford di consentire il «compromesso storico», per neutralizzare i comunisti accettandoli nel governo.
il manifesto 28.10.17
Dentro i coloni israeliani, fuori i palestinesi
Grande Gerusalemme. Kufr Akab è uno dei sobborghi palestinesi di Gerusalemme destinato ad essere separato dalla città. E domani all'esame di un comitato ministeriale israeliano c'è un disegno di legge per estendere i confini municipali ad alcuni insediamenti coloniali
di Michele Giorgio

GERUSALEMME «Al Bireh – Ramallah, Al Bireh – Ramallah». Urla la sua destinazione ai passanti il giovane l’autista del “service”, il taxi-navetta che collega Kufr Akab a Ramallah. Una signora con un bimbo attaccato alla mano si affretta ad entrare nell’auto facendo il possibile per non calpestare le buste piene di rifiuti ammassate davanti alla fermata. Qualche istante dopo il “service” parte sollevando una nuvola di polvere che avvolge quattro-cinque ragazzine con lo zainetto della scuola sulle spalle in attesa di un altro mezzo di trasporto. Percorriamo strade asfaltate solo in parte e colme di cartacce, lattine schiacciate e buste di plastica sollevate dal vento. Svettano palazzoni nuovi di 10-15 piani. In parte incompleti. «Costruiscono in tanti qui, senza permesso, case su case. C’è tanta richiesta di alloggi. E nessuno verrà a controllare se sono agibili. Da quando hanno costruito il Muro gli israeliani a Kufr Akab non ci vengono più», ci dice Jaber Salfiti, che vive alla periferia di questo sobborgo che ufficialmente è parte di Gerusalemme Est e che fu annesso alla città nel 1967, dopo l’occupazione israeliana, assieme a Dayet el Barid, Ram, Beit Hanina e Shuaffat. L’intento israeliano era di includere l’aeroporto di Kalandiya nella cintura di Gerusalemme. Decenni dopo quei palestinesi con in tasca la residenza a Gerusalemme sono diventati “troppi”. E il percorso del Muro, che Israele afferma di aver costruito per «ragioni di sicurezza», ha segnato il destino di otto sobborghi della Gerusalemme araba occupata. I palestinesi che si trovano sul lato esterno della barriera sono destinati, presto o tardi, a perdere la residenza a Gerusalemme. Non è ufficiale, le autorità israeliane non lo confermano ma i 50mila abitanti di Kufr Akab lo sanno.
«Non abbiamo più servizi comunali, le ambulanze (israeliane) non vengono qui perchè dicono che è pericoloso, l’illuminazione pubblica è quasi inesistente, la raccolta dei rifiuti è ora affidata a un privato che fa ben poco. Più di tutto non c’è legge a Kufr Akab, ognuno guida come vuole, non c’è il codice stradale, e se i ladri ti entrano in casa non puoi farci nulla, la polizia israeliana non c’è e quella dell’Autorità nazionale palestinese non ha autorità in quest’area. I criminali lo sanno e si nascondono qui». L’elenco di Jaber Salfiti è lungo. E le stesse cose te le raccontano i palestinesi del campo profughi di Shuaffat, Ras Khamis, Sheikh Saad, al Walaje e altre aree periferiche. Posseggono la carta d’identità blu, israeliana, ma sono abbandonati perché residenti sul “lato arabo” del Muro. E devono percorrere in non pochi casi diversi chilometri per raggiungere i posti di blocco di polizia ed esercito che segnano gli accessi dalla Cisgiordania a Gerusalemme. A Kufr Akab si è formato un comitato popolare per risolvere i problemi creati dalla mancanza di servizi. Il suo presidente Munir Zghayer si dice pronto a rivolgersi alla Corte Suprema di Israele ma sa che servirebbe a ben poco.
Nel silenzio della comunità internazionale e la passività dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen, non ci vuole molto ad immaginare il futuro di Kufr Abak e degli altri sette sobborghi palestinesi di Gerusalemme Est. Non ci sono le carte ufficiali, almeno non ancora, ma basta seguire i piani di sviluppo delle colonie israeliane – illegali per il diritto internazionale ma che le autorità chiamano “quartieri” – per capire che le aree arabe alla prima opportunità politica favorevole verranno separate con un taglio netto da Gerusalemme. Nel rispetto di una politica che vuole accrescere il più possibile il numero degli israeliani ebrei nella Città Santa e «contenere» quello dei palestinesi. Domani un comitato ministeriale discuterà un disegno di legge per «l’estensione» dell’area municipale di Gerusalemme ad alcuni insediamenti coloniali ebraici – Givat Zeev, Maaleh Adumim, Beitar Illit, Efrat e la regione di Gush Etzion tra Betlemme e Hebron – in un primo passo che dovrà portare al riconoscimento legale da parte della Knesset della costituzione della “Grande Gerusalemme”. Il disegno di legge è di due esponenti del Likud, il ministro dell’intelligence Israel Katz e il deputato Yoav Kish, e vuole creare «una grande area metropolitana con una solida maggioranza ebraica».
Bety Herschman, di Ir Amin, una ong che si batte per Gerusalemme capitale aperta per palestinesi ed ebrei, sottolinea la «pericolosità» del progetto di Katz e Kish. «Nel silenzio generale il governo Netanyahu potrebbe approvare un piano che cambierà la faccia di Gerusalemme, facendone una città non più per due popoli ma per uno soltanto. Questo progetto è volto ad assorbire tre blocchi (di colonie israeliane) e a sradicare i residenti palestinesi che vivono in sobborghi situati all’interno dei confini municipali di Gerusalemme ma al di fuori della barriera di separazione», spiega Herschman al manifesto.
Nei mesi scorsi una deputata del Likud, Anat Berko, ha «suggerito» al premier Netanyahu di modificare il percorso del Muro in modo da creare sul terreno le condizioni per «trasferire» all’Autorità Nazionale di Abu Mazen i sobborghi palestinesi di Gerusalemme nel quadro di una soluzione in due fasi: la loro trasformazione in “Area B” (amministrazione civile ai palestinesi e sicurezza a Israele) in un primo momento e, tra qualche anno, in “Area A” (controllo pieno palestinese). In tal modo 200mila palestinesi (forse 300mila) saranno espulsi da Gerusalemme. Ne ricaverebbero un vantaggio, ha spiegato Berko, anche lo Stato e il Comune di Gerusalemme non più chiamati a garantire assistenza sanitaria, sociale e ambientale a un numero così alto di «arabi». Ma la “riduzione” del numero dei palestinesi residenti a Gerusalemme non è solo un progetto della destra. Qualche mese fa il Partito laburista aveva proposto un piano simile per Gerusalemme Est, anche se meno brutale. Di recente il leader del partito, Avi Gabbai, si è dichiarato contro qualsiasi ipotesi di sgombero delle colonie israeliane nel quadro di un accordo di pace. Neanche una ha detto.

il manifesto 28.0.17
Weinstein, le donne abusate e l’hybris
Verità nascoste. La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos

Delle violenze sessuali che il potente produttore cinematografico Weinstein ha compiuto su decine di attrici o aspiranti tali, tanti sapevano, tantissimi sospettavano e tutti, comprese le vittime, hanno lungamente taciuto. È, peraltro, opinione diffusa che nel mondo dello spettacolo i ricatti/baratti erotici non siano l’eccezione.
Uomini spregiudicati, donne spregiudicate, fascino del potere, attrazioni fisiologiche tra coloro che lavorano insieme in un ambiente sessualmente più emancipato e/o più promiscuo? Domande fuorvianti.
Weinstein ha potuto operare indisturbato, finendo nella polvere solo per quell’eccesso di onnipotenza che aumenta la probabilità degli incidenti di percorso, perché, che lo si voglia o no e a dispetto della nostra cultura di emancipazione, il corpo erotico della donna – la sua libertà sessuale che non è promiscuità, ma capacità di andare in profondità – preoccupa molto.
Usarlo in modo strumentale, per appiattire la sua espressione sul bisogno di sbarazzarsi del proprio desiderio erotico come se fosse urina di cui liberarsi, è rassicurante. Va nella stessa direzione dell’omeostatica società attuale.
Nel suo agire abusante Weinstein è segnato dall’impotenza erotica (da non confondere con quella erettile): l’incapacità di accedere a una vera relazione di scambio, di farsi coinvolgere e coinvolgere. Tratta il suo oggetto come manichino inerte, lui stesso automa del sesso autoerotico.
La sua sessualità è affetta di inconfessabile necrofilia. La violenza, fisica e psichica che ripetutamente ha messo in atto, ha trovato il suo apice più odioso nell’imposizione di un meccanismo spersonalizzante, di cui anch’egli è vittima, mirante all’animazione artificiale, alienante, di corpi morti nella loro materia desiderante.
La complicità possibile di alcune delle donne abusate, non assolve lui e non condanna loro. Essa non alleggerisce, ma aggrava le conseguenze del suo operato. L’abuso su donne inconsapevolmente complici è facilitato dal fatto che esse non sono in grado, a causa di un loro danno pregresso, di riconoscerlo come tale. Così l’azione devastante non trova un argine. Amplia il danno, consolidandolo, e conferma il timore che sia irreparabile.
È un oggetto possibile di complicità l’esperienza comune di una madre gravemente ferita nella sua femminilità che aborrisce la sessualità. Questa madre insegue inconsciamente la fantasia della prostituzione: la scena di un amplesso che sostituisce il godimento con l’eccitazione legata al controllo e alla manipolazione. L’uomo vede nella donna di cui abusa la propria madre dominatrice finalmente sottomessa al suo capriccio. La donna si identifica con la madre e tratta il suo aggressore come bambino da eccitare e calmare, oggetto di suo dominio.
Il suo dramma è che il tessuto vivo della sua femminilità è in questo modo gravemente infiltrato da un principio di anestesia sessuale. Una parte di lei vorrebbe denunciare la violenza esterna, ignara di ospitarla internamente, e un’altra vede in essa, con disperazione, un fattore di stabilità. Quando la condanniamo, a nostra volta ignoriamo di accusarla di non essere la madre asessuata, virginale che lei, in realtà, a un prezzo molto caro, si sforza di imitare.
Nessun giudizio nostro, inevitabilmente fallace, nei confronti delle donne abusate può essere un’attenuante per Weinstein.
Egli deve essere severamente punito perché ha commesso un’hybris. Il delitto nella sua più chiara punibilità: calpestare per autoreferenzialità il desiderio delle donne abusate. Nella misura in cui ha ottenuto la loro complicità, il danno e il reato sono più gravi.
il manifesto 28.0.17
Tsipras: «Tra un anno la Grecia ridiventerà un paese normale»
Austerità. Il premier ellenico: il periodo buio della crisi è passato. A fine anno il surplus di bilancio redistribuito fra le classi sociali più deboli
di Teodoro A. Synghellakis, Fabio Veronica Forcella

La Grecia, tra dieci mesi, uscirà dai memorandum che l’hanno di fatto commissariata negli ultimi sette anni, e diventerà nuovamente un paese normale. È, in sostanza, quanto ha voluto sottolineare Alexis Tsipras, il primo ministro di Syriza, in una intervista concessa al quotidiano di Atene Efimerida Syndakton.
«Il 2017 non è uguale al 2105», dice il leader di Syriza, e prova a spiegare il perché. Da una parte, è innegabile che le pressioni dei creditori – e in particolar modo del Fondo Monetario Internazionale – negli ultimi tempi sembrino diminuire notevolmente. Il governo di Atene punta a chiudere la terza valutazione dell’applicazione di quanto previsto nel programma di sostegno, entro la fine dell’anno.
Bisognerà vedere cosa succederà, in concreto, sul fronte delle leggi sul lavoro, ma sembra che il periodo più buio, (quello delle richieste di totale deregulation del mercato del lavoro) facciano, finalmente, parte del passato.
Detto questo, il governo di Syriza intende continuare a portare con forza sul tavolo negoziale la questione dell’alleggerimento del debito. Un capitolo fondamentale, su cui ha ricevuto il sostegno dell’amministrazione americana e anche una recente, inaspettata apertura del presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il quale, però, è ormai a fine mandato.
Atene vorrebbe cercare di stabilizzare ancor di più la situazione economica, per poter usufruire dell’alleggerimento quantitativo della Banca Centrale Europea, prima della sua conclusione, fissata, per ora, a settembre del prossimo anno. Ma la vera sfida, è uscire nei tempi previsti dal programma di commissariamento, imposto dai memorandum. E cioè nell’agosto del 2018.
Tsipras, per quel che riguarda il periodo a seguire, è stato molto netto «i memorandum e il commissariamento termineranno» ha spiegato nell’intervista. Aggiungendo che «ci sarà una supervisione, come accade per tutti gli altri paesi dell’Europa, e quindi verrà monitorato lo stato delle finanze pubbliche del paese».
Quello di cui ha bisogno la Grecia, dopo anni di sacrifici, è proprio di riappropriarsi della propria piena sovranità economica e finanziaria e poter realizzare, quindi, anche un programma di politica sociale a medio e lungo termine.
È per questo che Tsipras ha riconfermato che il surplus di bilancio, verrà redistribuito – probabilmente per fine anno – in favore delle classi sociali più deboli, di chi è stato colpito più duramente dalla crisi.
Il centrodestra si dice certo che dopo la conclusione del memorandum, l’anno prossimo, la Grecia sarà costretta a firmarne subito un altro. Ma il primo ministro ellenico, ricorda ai conservatori di Nuova Democrazia che quando erano al governo, avevano accettato dai creditori di fissare l’avanzo primario al 4%, fino al 2030. Obiettivi che, aggiunge, «avrebbero sicuramente impedito al paese di poter rimanere in piedi».
Da parte sua, il ministro delle finanze, Efklidis Tsakalotos, ha dichiarato che è probabile che il paese torni ad affacciarsi sui mercati «per poter gestire il proprio debito e fare in modo che i titoli pubblici siano più appetibili dopo che sarà valutata l’applicazione di quanto previsto dal programma di sostegno».Tsakalotos, cioè, conferma che l’obiettivo è poter tornare al più presto a finanziarsi in modo autonomo sui mercati e smentisce l’eventualità che vengano approvati nuovi tagli.
Bisognerà vedere, certo, che cosa prevederà, nel dettaglio, l’accordo con i creditori riguardo al futuro delle pensioni di reversibilità e non è comunque una passeggiata rispettare quanto pattuito per l’avanzo primario nel 2018, che è fissato al 3,5% del Pil.
Ma il segnale che si vuole mandare è che il paese sta voltando pagina. Che le elezioni si terranno nel 2019 e che il governo Tsipras, nel frattempo, cercherà di sfruttare ogni spazio, per sostenere le politiche sociali ed attuare il più possibile di quanto previsto dal suo programma del 2015. Usciti dall’emergenza, evitato il default al costo di enormi sacrifici, l’obiettivo è riuscire a ribadire – nei fatti – una chiara identità di sinistra.
Repubblica 2.10.17
Un fallimento che il voto non risolverà
di Roberto Toscano

IL dado è tratto. Il Rubicone è attraversato. Il Parlamento catalano ha approvato nel pomeriggio di ieri il conferimento al governo presieduto da Carles Puigdemont del mandato di procedere alla proclamazione dell’indipendenza della Repubblica catalana. L’autonomismo radicale alza in questo modo una bandiera che non è solo indipendentista, ma anche repubblicana. Una dimensione che non è certo nuova (la Catalogna fu l’ultimo ridotto della Spagna repubblicana contro l’eversione militare del franchismo), ma che rimaneva sotto traccia finché il catalanismo — quello tradizionale della borghesia — puntava su crescenti margini di autonomia, da ottenere facendo valere il proprio peso politico a livello nazionale, e non toccava la questione monarchia/repubblica. Una questione che nella Spagna democratica anche la sinistra ha sempre evitato di sollevare.
La risposta di Madrid non si è fatta aspettare. A brevissima distanza dal voto del parlamento catalano il Senato spagnolo ha approvato l’applicazione dell’art. 155 della Costituzione, che autorizza il commissariamento dell’autonomia catalana — un commissariamento applicato nella sua versione più estrema, con la destituzione dalle rispettive cariche di Puigdemont e del suo governo, lo scioglimento del parlamento catalano e l’assunzione da parte del Ministero dell’Interno del comando della polizia regionale, i Mossos d’Esquadra. Le elezioni regionali sono state indette per il 21 dicembre.
È inevitabile che si prenda posizione sulle rispettive responsabilità per questo scontro, per molti versi assurdo e che sarebbe stato possibile evitare se a Barcellona non avesse prevalso un avventurismo provocatorio e Madrid non si fosse chiusa in un immobilismo assoluto e politicamente inetto. Siamo oggi di fronte al fallimento di due gruppi dirigenti caparbiamente arroccati sulle rispettive posizioni e incapaci di trovare sbocchi politici. Nei giorni scorsi, sulle pagine di un quotidiano catalano, un commentatore ugualmente critico di Barcellona e Madrid ha richiamato il noto, lapidario giudizio di Giulio Andreotti sulla politica spagnola: «Manca finezza ». Certo è mancata in Rajoy che avrebbe dovuto aprire — come i socialisti hanno (tardivamente) proposto — la via verso una riforma costituzionale che avrebbe reso possibile un referendum legale con tutte le necessarie garanzie (quorum e maggioranza qualificata) avviando nel contempo una riforma di tipo federale capace di introdurre un nuovo e più soddisfacente assetto di un sistema già fortemente autonomista.
Per quanto riguarda l’indipendentismo catalano, si conferma la validità della frase di Raymond Aron: «Se pensate che la gente sia disposta a sacrificare le proprie passioni per i propri interessi, vi sbagliate». Qualunque proiezione attendibile delle possibili conseguenze dell’indipendenza fa infatti emergere un quadro fortemente negativo, dall’uscita dalla Ue ai costi economici, già evidenti con l’esodo delle sedi di centinaia di società. Ma il nazionalismo è passione, non ragione. Eppure, anche se in Catalogna non si può ridurre tutto a una questione di “schei” (come nel caso degli inequivocabili risultati del referendum sull’aumento dell’autonomia del Veneto) anche i catalani sono noti per non essere indifferenti a considerazioni sul reparto delle risorse fiscali, e da tempo chiedevano di vedersi riconosciuto lo stesso grado di autonomia fiscale di cui gode il Paese basco. Un tema su cui non doveva risultare impossibile trattare.
Ma ormai non serve pensare a quello che si doveva e poteva fare. Urge piuttosto riflettere, e con urgenza, su come uscire da questa crisi dagli sbocchi imprevedibili. Fra l’altro le elezioni che fanno parte del pacchetto di misure dell’art. 155 potrebbero confermare sostanzialmente il quadro attuale (un appoggio all’indipendentismo tra il 40 e il 50 per cento), e forse anche riflettere un aumento dei consensi, come conseguenza di una reazione di rigetto della sospensione dell’autonomia, anche da parte di un elettorato finora non indipendentista. In ogni caso, senz’altro le cose peggioreranno, e forse molto, prima che si possa trovare una soluzione che salvi nello stesso tempo l’integrità dello stato spagnolo e l’autonomia catalana, da oggi sospesa ma che sarebbe irrealista pensare di mantenere a lungo commissariata a meno che a Madrid non si decida di ricorrere a livelli di repressione estremi. Una repressione che senza dubbio permetterebbe allo stato spagnolo di imporsi con la forza, ma da cui la democrazia spagnola non potrebbe sperare di emergere intatta.
il manifesto 28.0.17
Per la Ue Madrid «resta il nostro unico interlocutore»
Catalogna . L'Unione "non ha bisogno di altre fratture" (Juncker). "Per la Ue non cambia niente" (Tusk). "Pieno sostegno a Rajoy, solo interlocutore" (Macron). Germania e Gran Bretagna: non riconosciamo e non riconosceremo l'indipendenza. Grande preoccupazione a Bruxelles. La "dottrina Prodi" e la "giurisdizione Kosovo".
di Anna Maria Merlo

PARIGI Per il momento, l’Unione europea non cambia posizione sull’indipendenza della Catalogna e ripete quello che dice da settembre. Per il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, «la Spagna resta il nostro solo interlocutore». Ma Tusk esprime anche l’inquietudine che regna ormai nella Ue: «Spero che il governo spagnolo scelga la forza degli argomenti e non l’argomento della forza». Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, è preoccupato: «La Ue non ha bisogno di nuovo fissioni, di nuove fratture» in questo momento, dove già deve affrontare il Brexit. «Non dobbiamo immischiarci in questo dibattito tra spagnoli – ha aggiunto Juncker – ma non vorrei che domani la Ue avesse 95 stati membri», se il caso catalano innesca una deriva regionalista. «Ho un interlocutore in Spagna – ha ribadito il presidente francese Emmanuel Macron – è il primo ministro Rajoy, in Spagna c’è uno stato di diritto, con regole costituzionali, vuole farlo rispettare e ha il mio pieno appoggio». Identica reazione in Germania. Il portavoce di Angela Merkel ha affermato che «il governo tedesco vede l’aggravamento della situazione in Catalogna con inquietudine e non riconosce la dichiarazione di indipendenza». La Gran Bretagna «non riconosce e non riconoscerà l’indipendenza della Catalogna». Il Dipartimento di stato ha espresso «sostegno per la Spagna unita», la Catalogna «fa parte integrante della Spagna».
Ieri, Bruxelles ha inviato una lettera al ministro delle Finanze spagnolo, Luis de Guindos, per chiedere garanzie sulla stabilità economica: il Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, aspetta i dettagli definitivi della finanziaria spagnola «appena possibile», perché i «conti provvisori» non garantiscono il rispetto degli impegni. Bruxelles vorrebbe la conferma di un deficit al 2,2% del pil (ma Madrid calcola che sarà il 2,3%) e vede con preoccupazione il rallentamento economico, da una crescita del 3,1% quest’anno al 2,3% il prossimo, «per le incertezze legate alla Catalogna».
La Ue temporeggia. Ma c’è enorme preoccupazione. I Trattati non danno la risposta alla situazione che si è creata in Spagna. La Catalogna indipendente non è riconosciuta da nessuno, resta formalmente in Spagna e quindi nella Ue. Esiste la cosiddetta «dottrina Prodi»: uno stato nato da una secessione non viene considerato automaticamente membro della Ue e viene trattato come un paese terzo. Ma esiste anche l’articolo 49 dei Trattati: ogni stato europeo che condivide i valori della Ue ha diritto a diventarne membro. La Ue non ha praticamente reagito di fronte alle violenze della polizia il 1° ottobre, il giorno del voto «illegale». Ma se la situazione degenerasse, con ricorso eccessivo alla violenza, c’è la «giurisdizione Kosovo», cioè il diritto alla secessione. Ma anche in questo caso la strada per la Catalogna non è spianata: 5 stati della Ue non hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo (oltre la Spagna, Cipro, Grecia, Romania e Slovacchia).
Repubblica 28.10.17
Tra i percorsi di inserimento offerti da Garanzia Giovani gli stage sfondano quota 70%. Un fenomeno unico in Europa
Impieghi “mascherati” da tirocinio solo il 26% si trasforma in contratto
di Marco Patucchi

ROMA. Doveva essere una porta di ingresso, possibilmente un portone. Invece somiglia sempre di più ad una vetrina attraverso la quale guardare un mondo agognato ma irraggiungibile per i ragazzi italiani. Quello del lavoro. Ed è forse per questo che ogni aggiornamento numerico di Garanzia Giovani rimane volutamente nascosto nelle pieghe del web, senza partecipare alla cornucopia comunicativa dei dati statistici del nostro Paese. Una specialità che - tra comunicati stampa di Istat, ministeri, Inps, Bankitalia e altri soggetti - sforna ogni giorno di tutto e di più, sovrapposizioni comprese.
Qualche giorno fa, per dire, l’Anpal ha confezionato il rapporto trimestrale sull’attuazione di questo strumento, pensato dall’Europa e attuato dai singoli Stati per facilitare l’accesso all’occupazione per chi ha tra i 15 e i 29 anni, non studia e non lavora. Insomma, gli oltre due milioni di Neet , un’altra specialità italiana. Dentro il Rapporto (rintracciabile sul sito dell’Agenzia delle politiche attive del lavoro) c’è una sequenza di numeri, che inchioda l’Italia alla retroguardia dei Paesi europei in fatto di speranza lavorativa: ebbene, l’aggiornamento al secondo trimestre 2017 ci dice che oltre il 70% delle 438 mila proposte di politica attiva (su un totale di 900 mila giovani presi in carico da Garanzia Giovani considerando anche i servizi di orientamento e di accompagnamento), è rappresentato dai tirocini extra-curriculari (svolti, cioè, non durante lo studio). Percentuale seguita a distanza siderale dalle altre fattispecie (bonus occupazione 14,6%; formazione 8,1%; reinserimento in percorsi formativi 4,6%; servizio civile 1,9%; autoimpiego e autoimprenditorialità 0,4%; mobilità professionale e apprendistato entrambi allo 0,1%).
Quel debordante 70% racconta l’ennesima scorciatoia imboccata dalle imprese italiane che troppo spesso spacciano per tirocinio (500 euro al mese di compenso, senza contributi e tutele e, per di più, nel caso di Garanzia Giovani finanziati in parte dalla collettività) rapporti di lavoro veri e propri. «Lavori mascherati da tirocinio - spiega Francesco Seghezzi, ricercatore del centro studi Adapt - . Basti vedere la tipologia della stragrande maggioranza delle offerte nel sito di Garanzia Giovani: edilizia, ristorazione, pulizia domestica... E va considerato anche un altro fattore che finirà per favorire questa forma di utilizzo improprio del tirocinio: le nuove linee guida del governo, che le Regioni adotteranno entro novembre, prevedono la durata di dodici mesi rinnovabili di altri dodici, mentre prima erano sei più sei. Due anni in tutto, un incentivo per il datore di lavoro che vuole usarli per coprire esigenze occupazionali tradizionali ». Una scorciatoia che sarebbe più tollerabile se almeno rappresentasse l’anticamera dell’assunzione, ma sono ancora i numeri del Rapporto Garanzia Giovani a spegnere ogni ottimismo, se è vero che solo il 26,7% dei tirocini si trasforma in un contratto di lavoro. Non sarà un caso, d’altro canto, se la percentuale delle risorse allocate nei tirocini rispetto alle altre forme di percorso, nel nostro Paese è a quota 54% contro il 13% della media europea.
«È indubbiamente una patologia tutta italiana - dice Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil - soprattutto nel caso dei tirocini finanziati. Il che significa finanziare la precarietà. Credo che una soluzione sarebbe quella di renderli gratuiti, così da rappresentare davvero un percorso formativo, una sorta di prolungamento dell’alternanza scuola-lavoro. O, all’opposto, fissare un compenso così alto da disincentivarne l’utilizzo improprio».
Corriere 28.10.17
Sondaggio niente governo senza intese
Calano i democratici cresce il centrodestra M5S avanti nel Sud
di Nando Pagnoncelli

Approvato il Rosatellum i partiti si preparano per la campagna elettorale. Le stime di voto premiano il centrodestra soprattutto al Nord. Il Movimento 5 Stelle vince al Sud, il Pd in calo dovrebbe tenere solo nelle ex regioni rosse.
L a legge elettorale è stata approvata con una larga e trasversale maggioranza composta da Pd, FI, Lega e Ap, oltre a Scelta civica e Svp. Sappiamo quindi, dopo un lungo periodo di incertezza, con quali norme andremo a votare. È perciò utile tornare a valutare i possibili risultati che questa legge, alla luce dei sondaggi, potrebbe produrre.
Vediamo intanto le stime di voto. Il panorama, rispetto agli ultimi dati pubblicati su questo giornale, che risalgono a fine luglio, segnala cambiamenti. Innanzitutto il Pd registra un calo importante dei consensi, con circa 5 punti in meno rispetto ai risultati migliori degli ultimi mesi. È il segnale delle difficoltà profonde che questo partito ha attraversato recentemente. Se infatti, grazie anche all’insediamento di Gentiloni e allo stile del premier, il Pd mantiene una certa stabilità nei consensi sino a giugno, successivamente alcuni elementi provocano un progressivo allontanamento degli elettori. Senza pretese di esaustività, possiamo ricordare lo slittamento dello ius soli, la questione del premierato, rivendicato da Renzi ma messo in dubbio da una parte del partito, le vicende della conferma di Visco a Banca d’Italia. Quest’ultimo episodio evidenzia uno scontro tra segretario e presidente del Consiglio, che non produce i risultati sperati da Renzi con lo schierarsi dalla parte dei risparmiatori. Per almeno due ragioni: perché gli elettori del Pd vedono davvero male gli scontri interni e perché permane tra questi elettori un atteggiamento «istituzionale» non irrilevante. È probabile che se si ripeterà questa sensazione di diarchia e un orientamento a cavalcare temi che potremmo definire «populisti», non sarà semplice risalire la china.
Il centrodestra gode di buona salute. Nonostante le differenze anche marcate — ad esempio di Fratelli d’Italia sulla legge elettorale, o la freddezza degli elettori di Forza Italia in occasione dei referendum autonomisti, oppure ancora le posizioni distanti sull’Europa — gli elettorati non solo tengono ma si ampliano. FI cresce di tre punti in pochi mesi, più o meno come la Lega, mentre tiene bene FdI. Come abbiamo più volte detto, si tratta di un elettorato capace di superare le divisioni e di compattarsi nella prospettiva di vincere, a differenza di quanto avviene nell’elettorato centrosinistra.
Anche il M5S subisce una pesante contrazione, di cinque punti. Pure in questo caso ci sono elementi evidenti. Le difficoltà di Roma cui si sono aggiunte quelle torinesi, con la sindaca Appendino indagata per falso in bilancio. La nomina di Di Maio, ratificata dalle primarie (con qualche incidente di percorso), a capo politico, con conseguenti frizioni interne. Una certa distanza da parte di Grillo, nelle percezioni degli elettori, dalla separazione del blog avvenuta proprio in questi giorni. Tutto ciò dà conto dei malumori di un elettorato che si allontana .
Infine la sinistra, che si ferma, sommando tutte le aree, al di sotto del 7%. Il progetto federatore di Pisapia si è definitivamente arenato. La sinistra non riesce a intercettare il voto in uscita (rifugiatosi nell’astensione o nei pentastellati), proprio perché chi se ne è andato non riesce a individuare un progetto praticabile.
La stima dei seggi non fa che confermare le tendenze, con il centrodestra che arriverebbe a quota 248, il Pd, in calo, a 162, la sinistra con 25 seggi complessivi, ammesso che i diversi elettorati riescano davvero a sommarsi, i Cinquestelle a 178. Anche in questo scenario le maggioranze sono davvero difficili.
Se infine guardiamo ai collegi uninominali, stando alle prime stime basate su oltre 55.000 interviste distribuite sulle base dei collegi del Mattarellum per il Senato e in assenza delle candidature (due aspetti che potrebbero produrre cambiamenti), la parte del leone spetterebbe al centrodestra, con poco meno della metà dei seggi (109 su 231) che conquisterebbe in larga parte al Nord (non tutti, come qualcuno ha sostenuto nei giorni scorsi), seguito dal M5S con 71 scranni, concentrati al Sud, e da ultimo il Pd con 51 seggi, provenienti in gran parte dalle ex regioni rosse.
Molti ritengono che la nuova legge elettorale penalizzi i pentastellati sia per la loro indisponibilità a formare coalizioni sia per il profilo dei candidati nei collegi uninominali dove, presumibilmente, potrebbero esserci figure poco note o con limitata esperienza politica. In realtà il divieto di voto disgiunto potrebbe attenuare questo fenomeno.
Dalle stime, quindi, emergono tre Italie, che esprimono esigenze diverse e sono rappresentate da forze politiche diverse, in un contesto nel quale stanno prendendo piede aspettative di autonomia regionale, e non solamente nel lombardo-veneto. I soggetti vincitori nelle tre aree, per mantenere il consenso potrebbero essere tentati di accentuare le distanze anziché di ridurle.
Pertanto, individuare una maggioranza post elettorale, di larghe intese, tra forze avversarie, potrebbe rivelarsi estremamente complesso per almeno tre ragioni: innanzitutto gli elettori si sentiranno espropriati del loro diritto di decidere chi governerà; in secondo luogo è molto probabile che con una maggioranza trasversale l’azione dell’esecutivo possa assumere le caratteristiche di un «compromesso al ribasso» piuttosto che quelle di un governo di scopo; da ultimo, le divisioni presenti nel Paese e l’affievolimento del senso di identità nazionale potrebbero ostacolare la definizione di processi unitari.
Corriere 28.10.17
I ministri dem divisi alla nomina di Visco
Via libera al governatore, assenti in Consiglio tutti i renziani: Delrio, Lotti, Martina e la sottosegretaria Boschi
Il leader insiste: «Non condivido la scelta di Gentiloni, ma rispetto il capo del governo e le sue funzioni»
di Enrico Marro

ROMA Ignazio Visco è stato confermato ieri governatore della Banca d’Italia per altri sei anni, ma anche le fasi finali della procedura di nomina hanno dimostrato quanto questa scelta abbia lacerato i rapporti nello stesso governo. Dopo aver ricevuto il parere positivo all’unanimità dal Consiglio superiore di Bankitalia, come prevede la legge, il premier Paolo Gentiloni ha sottoposto il nome di Visco alla delibera del Consiglio dei ministri. Che si è riunito ieri mattina in formato ridotto. Erano infatti assenti quattro esponenti renziani: la sottosegretaria alla presidenza Maria Elena Boschi e i ministri Maurizio Martina (Agricoltura), che è anche vicesegretario del Pd, quello dello Sport, Luca Lotti, e quello delle Infrastrutture, Graziano Delrio. Assente anche la titolare della Salute, Beatrice Lorenzin (Ap). Presenti invece gli altri ministri del Pd. Dopo la delibera, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto di nomina che mette fine, almeno per il momento, alla tormentata vicenda.
Il leader del Pd, Matteo Renzi, che fino all’ultimo ha cercato di sbarrare la strada al governatore uscente, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Sulla Banca d’Italia ci sono state opinioni diverse» con Gentiloni, «ciascuno rimane sulle proprie idee. Buon lavoro al governatore Visco». «Renzi — attacca Renato Brunetta di Forza Italia — è un irresponsabile che non ha rispetto per le istituzioni». Per Matteo Salvini (Lega), la conferma di Visco è stata «il colpo di coda dei poteri forti: il governatore non ha vigilato sulle crisi bancarie, sotto di noi Bankitalia tornerà sotto il controllo pubblico». Contraria alla nomina anche Sinistra italiana.
Si distingue nel Pd il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, della minoranza del partito: «Visco garantisce stabilità e salvaguarda la credibilità, l’indipendenza e l’autorevolezza della banca centrale». Ma, aggiunge, è necessario riformare l’attività di vigilanza. Soddisfatti i sindacati nazionali e di categoria.
Per Visco ieri è stata una normale giornata di lavoro a Palazzo Koch. Ha ricevuto i complimenti e gli auguri di amici e colleghi, ma non c’è stata alcuna cerimonia. La sua prima uscita pubblica è fissata per martedì alla Giornata del risparmio. Quella più impegnativa quando sarà ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, tra novembre e dicembre.