sabato 21 aprile 2018

La Stampa 21.4.18
La rivincita di Marx icona pop
di Gianni Riotta

Antonio Gramsci, sfortunato e geniale pensatore, diceva che la differenza tra il filosofo Hegel e Karl Marx stava tutta «nel giornalismo», e aveva ragione. Editorialista accanito, Marx partiva sempre dalla realtà, con una delle penne più feroci della storia, capace di battute che, su twitter, spopolerebbero. Redatto nel 1848 con il fido Engels, il suo «Manifesto del partito comunista» viene ora, a sorpresa, riletto come manuale per guarire la crisi della democrazia occidentale e la disuguaglianza economica, diffusa da automazione e mercato globale, nei nostri Paesi.
Il vulcanico ex ministro greco Varoufakis rilancia in un pamphlet Marx «fonte di speranza», certo che abbia la soluzione per il capitalismo 4.0, da Uber ai robot. Il pittoresco guru neomarxista Slavoj Zizek incalza «Il comunismo sta per tornare e vendicarsi!». Al cinema code per il film «The Young Karl Marx», diretto da Raoul Peck, un Marx arrabbiato alla Grillo perfino nell’acconciatura, a teatro per la commedia inglese, un po’ musical, «Young Marx» di Bean e Coleman. Per chi associa, giustamente, l’autore delle migliaia di pagine di «Das Kapital» ai libri, ecco «Karl Marx, Greatness and Illusion» di Gareth Stedman Jones, tomo di 768 pagine, per Harvard. Mentre Google segnala 3.700.000 siti sul pensatore comunista, il fantasma di Marx, secondo Varoukafis «degno di Shakespeare», agita il XXI secolo, dopo il XX. Di solito si premia il Marx «giovane», che la critica definiva «umanista», lo scapigliato romantico dei «Manoscritti» 1844, quasi glissando sull’eredità delle dittature crudeli e dei gulag dove milioni di infelici, incluse generazioni che all’utopia di Marx avevano consacrato la gioventù, andavano a morte sotto il suo barbuto ritratto.
Il revival è comprensibile. Per primo Marx ha colto il senso della globalità senza confini e intuito che, infranto il feudalesimo agrario, la rivoluzione industriale avrebbe innescato ansia di libertà irrefrenabile, dal bisogno e dall’aristocrazia. Marx capisce che la macchina non è solo utensile «economico», ma anche motore «politico», e, prima di cibernetica e Intelligenza Artificiale, comprende che la tecnica ci rende «androidi», legando il destino umano a una «cosa», ieri telaio meccanico, oggi computer ed algoritmi (già Aristotele suggeriva che gli «authomata», le macchine, avrebbero emancipato l’umanità, schiavi inclusi).
Che direbbe Marx dei suoi tardi seguaci? Affibbiare a lui, che aspettava la rivoluzione in Europa ed era scettico, al confine della xenofobia, sul comunismo in Asia e Russia, i genocidi di Stalin e Mao è propaganda caduca, ma illudersi che le disuguaglianze, tanto deprecate dall’economista Piketty, guariscano a colpi di «Critica al Programma di Gotha» 1875 è moda effimera di chi Marx poco, o male, dimostra di aver studiato.
Marx aveva visto le disumane condizioni delle fabbriche inglesi, sottovalutando però la capacità di auto-riforma del capitalismo con welfare, salari, pensioni, mutua, pungolato da partiti socialisti e sindacati. L’operaio, però, non era solo l’«homo economicus» del «Capitale», credeva anche in Dio, nella patria, nella famiglia, e la storia dei nazionalismi lo prova anche con Brexit, Trump, Lega. Le proposte rivoluzionarie del «Manifesto» sono ormai realizzate, scuola, lavoro minorile, fisco, fine del latifondo agrario, tasse di successione, o confutate dalla storia con dolore, vedi tragedia dell’industria di stato sovietica o i 40 milioni di morti nella carestia di Mao con l’agricoltura centralizzata. Dare al vecchio Marx da risolvere i nostri guai, ignorando il progresso che ha salvato dalla miseria miliardi di esseri umani dal 1990, è ok su un palcoscenico, sbagliato in politica. Fosse vivo, Marx non ci ripeterebbe garrulo il «Manifesto» 1848, ne scriverebbe uno tutto nuovo, focoso: «Uno spettro si aggira per il web…».

Repubblica 21.4.18
La sentenza di Palermo
Stato - mafia, la trattativa ci fu 12 anni a Mori e Dell’Utri Di Matteo attacca Berlusconi
di Salvo Palazzolo


Assolto Mancino Condanne anche per Subranni e De Donno Il pm: sanciti i rapporti con l’ex premier. Che annuncia querela: assurdo tirarmi in ballo

Palermo «In nome del popolo italiano » . Il giudice Alfredo Montalto scandisce i nomi dei capimafia: «Bagarella Leoluca Biagio, Cinà Antonino. Colpevoli » . Poi, i nomi degli uomini dello Stato: « De Donno Giuseppe, Mori Mario, Subranni Antonio. Colpevoli, per le condotte commesse fino al 1993 » . Nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli, il silenzio è rotto da un urlo spezzato, che viene dalle fila del pubblico. Il presidente della seconda corte d’assise di Palermo continua a scandire un altro nome: « Dell’Utri Marcello. Colpevole, per le condotte commesse nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi». E un altro nome ancora: « Ciancimino Massimo. Colpevole».
Alle 16,05 di un giorno che arriva dopo cinque anni di processo, la trattativa fra lo Stato e la mafia non è più solo l’ipotesi di quei quattro pubblici ministeri che adesso se ne stanno immobili davanti alla corte: Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. La trattativa fra alcuni uomini dello Stato e i vertici della mafia ci fu. Fra il 1992 e il 1994, mentre l’Italia era insanguinata dalle bombe che uccisero i giudici Falcone, Borsellino, gli agenti delle scorte e poi fecero ancora altre vittime fra Roma, Milano e Firenze. Ora, il giudice Montalto legge un elenco di colpevoli. Non c’è più distinzione fra i mafiosi, il politico, i carabinieri. Sono solo imputati, colpevoli.
Spicca, nella lista, l’assenza del nome dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. L’attesa cresce, il colpo a sorpresa può essere dietro l’angolo. Accanto al presidente, c’è la giudice Stefania Brambille. Da una parte e dall’altra, la giuria popolare. Prosegue la sentenza, inesorabile: « Bagarella Leoluca Biagio, condannato alla pena di anni 28 di reclusione. Cinà Antonino, Dell’Utri Marcello, Mori Mario e Subranni Antonio, condannati alla pena di anni 12. De Donno Giuseppe, Ciancimino Massimo, alla pena di anni 8». E tutti, «interdetti in perpetuo dai pubblici uffici». Insieme, i mafiosi al 41 bis, l’ex senatore di Forza Italia in carcere per mafia e gli ex carabinieri del Ros che fino a un momento fa erano ufficialmente soldati dell’antimafia. Tutti accusati di «attentato a un corpo politico dello Stato». Sarebbe stato condannato anche Riina, ma la corte dichiara «l’estinzione del reato per morte del reo» . Solo l’ex ministro Mancino viene assolto. Era accusa to di falsa testimonianza. « Il fatto non sussiste » . Dicono i suoi legali, Nicolletta Piergentili e Massimo Krogh: « Siamo stati sempre fiduciosi nella giustizia » . E l’ex presidente Napolitano: « Contro di lui c’erano accuse grossolane».
« Una sentenza storica — commenta invece Nino Di Matteo, non appena la corte esce dall’aula — Viene sancito che mentre saltavano in aria i giudici, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina chiedeva ». Di Matteo sottolinea soprattutto un passaggio della sentenza: « I giudici hanno detto chiaramente che Dell’Utri fece da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi, da poco insediato, nel 1994». Fa una pausa e riprende: « Finora si era messa in correlazione Cosa nostra con Berlusconi imprenditore. Adesso, per la prima volta, questa sentenza mette in correlazione l’organizzazione criminale col Berlusconi politico. E non mi risulta che lui abbia mai denunciato quelle minacce di mafia che gli furono recapitate da Dell’Utri » . Sono parole che rimbalzano presto nel mondo politico. Dal Molise Berlusconi reagisce indignato e annuncia una querela: « Le parole di Di Matteo sono di una gravità senza precedenti. È assurdo e ridicolo il tentativo di accostare il mio nome alla trattativa Stato-mafia».
È il giorno della sentenza, che non si aspettavano neanche i cinquanta attivisti di Libera, di Scorta Civica e delle Agende rosse, il movimento fondato dal fratello del giudice Borsellino. Anche loro immobili ad ascoltare il verdetto. Perché, in fondo, gli ufficiali del Ros erano già stati assolti altre volte dalle accuse dei pm: per la mancata perquisizione nel covo di Riina, per la mancata cattura di Provenzano. Investigatori ritenuti spregiudicati, ma mai collusi. E poi sembrava che anche la condanna a 7 anni contro Dell’Utri stesse per essere spazzata via, dopo la stangata dell’Europa sul reato di concorso esterno. Nei cinque giorni della camera di consiglio, un tam tam insistente aveva ormai riempito Palermo: « Sarà assoluzione » . Invece, è una condanna durissima. Non ci sono solo gli anni di carcere, ma anche un maxi risarcimento che gli uomini dello Stato e i mafiosi dovranno pagare «in solido». Dieci milioni di euro, in favore della presidenza del consiglio. In aula c’è Luciano Traina, il fratello di Claudio, uno dei poliziotti morti con Borsellino. Dice: « Ora, voglio tutta la verità sulla strage di via D’Amelio».

Repubblica 21.4.18
Una verità controvento
di Attilio Bolzoni


In questo gorgo ci sono sì i carabinieri dei reparti speciali e i boss di Cosa Nostra, ma c’è soprattutto Dell’Utri, l’inseparabile amico di Berlusconi che gli ha portato in dote i compari palermitani

Questa sentenza dice che il cratere di Capaci — per quanto profondo — non è riuscito a ingoiarsi tutti i misteri e tutti i ricatti, i patti, i depistaggi, gli inganni. Dice che ci sono stati uomini delle istituzioni e di almeno un partito che hanno negoziato — per conto proprio e per conto terzi — con i peggiori criminali della storia italiana. Questa sentenza dice che lo Stato ha processato e condannato se stesso.
Quello che era annunciato come il verdetto che avrebbe chiuso per sempre un’epoca giudiziaria che si era aperta nel 1992 con l’uccisione del giudice Falcone, si è rivelato al contrario una vera “ bomba”. Precipitata improvvisa e violenta sulla politica con la condanna di Marcello Dell’Utri ( si scrive Dell’Utri ma si legge Berlusconi: è una sola la vicenda che li unisce da quasi mezzo secolo ed è molto siciliana), sugli apparati che hanno difeso senza pudore quegli ufficiali del vecchio Ros dei carabinieri specialisti nel doppio e nel triplo gioco, sulla stessa magistratura che sul processo Stato- trattativa si è divisa come e più di un’opinione pubblica che non poteva e non voleva credere che ci fossero “ pezzi” dello Stato in combutta con Totò Riina e con Leoluca Bagarella.
Contro ogni previsione — supportata dall’assoluzione di due anni fa dell’ex ministro Calogero Mannino che rappresentava in sostanza il pilastro dell’accusa sui patti fra Stato e mafia — la sentenza della Corte di Assise di Palermo mette in discussione una “ linea” giudiziaria che in molti davano buona per inerzia e riapre in modo clamoroso ogni investigazione su tutto ciò che di spaventoso è accaduto prima, durante e dopo i massacri del 1992. In questo gorgo ci sono sì i carabinieri dei reparti speciali e i boss di Cosa Nostra, ma c’è soprattutto “ Marcellino”, l’inseparabile amico di Silvio che gli ha portato in dote i compari palermitani ( prima i Bontate dell’aristocrazia mafiosa, poi gli emissari dei Corleonesi): ancora rinchiuso a Rebibbia per concorso esterno, ora deve fronteggiare quest’altra condanna per avere chiuso l’ultimo patto con Cosa Nostra. E non per un interesse puramente personale ma in quanto braccio destro e co- fondatore di Forza Italia, il partito che avrebbe cambiato subito dopo i massacri i destini del nostro Paese. Per l’attualità è Marcello Dell’Utri il personaggio centrale di questa raffica di condanne, arrivate nel corso delle trattative ( parola che ricorre sinistra dopo la sentenza) per la formazione del governo, un “ segretario” tutto fare di Silvio che alla fine del 1993 « si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa Nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario » .
Tesi sostenuta dalla pubblica accusa e accolta interamente dai giudici — 12 anni di reclusione chiesti dai pm, 12 anni la condanna — con “ Marcello” al fianco di Berlusconi, nominato capo del governo nel marzo 1994. Ma non ci sono state solo le pressioni per il 41 bis. Dell’Utri, prima sollecitato dal famigerato “ stalliere” Vittorio Mangano e poi dai terribili fratelli Graviano, si sarebbe fatto “ interprete” degli interessi di Cosa Nostra.
Sono stati tutti “ ambasciatori” dei boss gli imputati di questo processo che anche per gli osservatori più attenti sembrava destinato al niente, in controtendenza assoluta rispetto agli orientamenti di gran parte della magistratura inquirente che ha investigato sulle stragi e dintorni.
Un’indagine controvento. Soprattutto quando si è inoltrata nei meandri maleodoranti di quel reparto speciale dei carabinieri ( oggi c’è un Ros completamente rifondato e che nulla ha a che fare con il passato) guidati da quel generale Mario Mori dall’oscura radice e dal molto “ creativo” metodo d’indagine. Al centro delle investigazioni per l’incredibile mancata perquisizione del covo di Totò Riina e assolto, coinvolto nella mancata cattura del boss Bernardo Provenzano e assolto, questa volta il generale e il suo fidato scudiero Giuseppe De Donno sono rimasti imbrigliati nella morsa della trattativa, accordi che sono cominciati proprio da loro fra Capaci e via D’Amelio con contatti cercati con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. I carabinieri erano a caccia anche a quel tempo di “ coperture” politiche. Le trovarono? È mistero fitto. Di sicuro, alla vigilia della sua uccisione Paolo Borsellino venne a conoscenza di queste manovre e provò turbamento. Poi il 19 luglio, l’autobomba.
Il resto è cronaca recente. E tutto è cominciato con l’apparizione pirotecnica di Massimo “ Massimuccio” Ciancimino, il figlio più piccolo di don Vito, che fra tante patacche spacciate ha avuto il merito — solo con la mossa — di far riaffiorare ricordi a un po’ di ministri e di funzionari di alto rango che sembravano molto “ smemorati”. Sono stati alcuni di loro, in fondo, a trascinare sul banco degli imputati l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che però ieri è stato assolto. Colpi di scena che hanno oscurato mediaticamente, udienza dopo udienza, la “ sostanza” del processo. Forse, anche per questo, nessuno se l’aspettava una conclusione così fragorosa istituzionalmente.
Cosa ci consegna alla fine questa sentenza di Corte di Assise? Che la trattativa ci fu e non è nata nella mente delirante di qualcuno e nei “ teoremi” del cosiddetto “ rito siciliano”, che trattare con la mafia ( contrariamente a ciò che fino a ieri pensavano in molti anche ai vertici di cariche di rilievo) è reato, che per una volta la verità processuale non è troppo lontana dalla verità storica come ci hanno abituato tanti altri verdetti pronunciati in questi anni. I pubblici ministeri del dibattimento sulla trattativa — come ha ricordato nella sua requisitoria Nino Di Matteo — sono stati accusati da più parti persino di « essersi mossi con finalità eversive » . La sentenza spiega al contrario che non sempre la mafia sta da una parte e lo Stato dall’altra. Alcune volte possono anche mischiarsi. Sembra una banalità conoscendo la nostra storia, ma adesso c’è una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano.

Repubblica 21.4.18
Le conseguenze sulle alleanze
E M5S scarica il Cavaliere dopo aver aperto ai suoi voti
Di Maio: morta la Seconda Repubblica. Fraccaro: pietra tombale su Fi I grillini seppelliscono per sempre la soluzione dell’appoggio esterno
di Liana Milella


ROMA È frutto di un caso. Solo una pura coincidenza.
Ma destinata a cambiare la storia di M5S e del futuro governo.
S’incrociano, nella stessa giornata, il lunghissimo cammino del processo sulla trattativa Stato-mafia e la strada breve, ma tormentata, dei tentativi di dare all’Italia un nuovo inquilino per palazzo Chigi. E in poco più di un’ora, orologio alla mano, cambia l’intero scenario. La sentenza, chiosata dal pm Di Matteo, produce tra i vertici dei 5stelle un effetto singolare, sembra il bacio del principe sulle labbra di Biancaneve addormentata. Uno shock. Che, nell’ordine, colpisce Di Maio, Fico, Di Battista, Fraccaro. Solo per citare i maggiori esponenti del movimento.
«Il verdetto sul processo arriva al Berlusconi politico» sottolinea a Palermo il magistrato. E a Roma M5S sembra svegliarsi all’improvviso. E giunge perfino a dimenticare che appena ventiquattr’ore prima, nell’ansia di fare un governo a tutti i costi, superando le palesi ostilità dei berlusconiani, Di Maio aveva ipotizzato un appoggio esterno di Forza Italia e di Fratelli d’Italia.
«Un suicidio politico per M5S, una normalizzazione» come l’ha definita lo storico dell’arte Tomaso Montanari. Offerta peraltro sdegnosamente respinta. E che ha prodotto lo “schiaffo” immediato dell’ex Cavaliere, «a Mediaset non pulirebbero nemmeno i cessi».
Ma adesso tutto cambia. Adesso c’è Di Matteo. E quel macigno sulla strada delle trattative, perché «questa sentenza per la prima volta mette in correlazione la mafia con Berlusconi politico».
È il segnale di una liberazione.
Che trapela dallo staff di M5S prima come indiscrezione, in cui già prende piede lo stop a Forza Italia, la «pietra tombale» su ogni possibile interlocuzione con loro, e poi con il tweet di Luigi Di Maio.
«La trattativa Stato-mafia c’è stata, con le condanne di oggi muore definitivamente la seconda Repubblica» scrive il candidato premier grillino. E con la fine annunciata della Seconda Repubblica “muore” anche qualsiasi apertura a Berlusconi, mentre parte un tam tam verso il leader della Lega Salvini perché si smarchi dal suo alleato e faccia un passo avanti.
Non c’è ancora, nelle parole di Di Maio, il nome proprio del leader di Forza Italia. Perché nei momenti convulsi del dopo sentenza c’è ancora chi, ai vertici di M5S, raccomanda una minima prudenza e chiede di non personalizzare sull’ex Cavaliere il no a un accordo di governo con i forzisti. Ma ci pensa Alessandro Di Battista, in campagna elettorale in Molise, a rompere qualsiasi indugio ed esitazione. Addirittura lo chiama Caimano. «Con la storica sentenza sulla trattativa Stato-mafia si dimostra, una volta per tutte, che pezzi delle istituzioni sono scesi a patto con Cosa nostra. Tra i contraenti c’è Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi. Ora il Caimano sarà ancora più nervoso» dice Di Battista. Che conferma la lettura di Di Maio: «Finalmente e definitivamente oggi finisce la Seconda Repubblica».
«Bella giornata, bella sentenza, che riavvicina tanti cittadini allo Stato. E io sono contento da cittadino». È sempre Di Battista a ringraziare pubblicamente i magistrati di Palermo, come aveva fatto anche Di Maio, e a invitare chi conduce il confronto politico sul governo a tenerne conto. Sarà impossibile per M5S non farlo, a questo punto tornare politicamente indietro rispetto a un pomeriggio di invettive anti berlusconiane. Come la chiusura netta e senza sconti del neo presidente della Camera Roberto Fico che parla di «valore civile e morale straordinario» di questa giornata. Fico non cita Berlusconi, ma istituzionalmente, soprattutto se sarà il prossimo incaricato da Mattarella per tentare un nuovo governo, il suo giudizio conta.
Quell’invito «a fare luce sulle pagine buie della nostra storia per sentirci Stato» equivale a una netta chiusura per chi, secondo la sentenza, ha violato le regole basiche dello Stato stesso.
La sentenza, in un solo pomeriggio, ha liberato tutto l’anti berlusconismo di M5S, tant’è che un fedelissimo di Di Maio come Riccardo Fraccaro, consegna alle agenzie parole durissime: «È un macigno su un sistema di potere che tenta ancora di avvinghiare il Paese nei suoi tentacoli. Politicamente è una pietra tombale».

Repubblica 21.4.18
Il verdetto sulla trattativa Stato-mafia
La Repubblica rifondata su una sentenza
di Stefano Folli


Ancora una volta, secondo Luigi Di Maio, «muore la Seconda Repubblica». Era già morta il 4 marzo, a sentire il leader dei Cinque Stelle, sepolta sotto il 32,5 per cento ottenuto dal Movimento nelle urne. Ma è di nuovo defunta ieri pomeriggio in seguito alla sentenza del processo Stato-mafia. Il che introduce una variabile molto insidiosa nel labirinto della crisi politica. Anziché tenere separati i due livelli, quello della verità giudiziaria e quello della prassi politica, si tenta di intrecciarli fino a renderli inestricabili. A cavallo di questa tigre, Di Maio prova a slanciarsi di nuovo verso Palazzo Chigi, saltando le infinite contraddizioni e gli errori di manovra nel palazzo che in quaranta giorni ne hanno appesantito la marcia fino al sostanziale fallimento.
Non c’è da stupirsi. I Cinque Stelle hanno ottenuto buona parte del loro successo popolare in questi anni sul presupposto che le infiltrazioni criminali nello Stato abbiano alterato il gioco democratico. Per coincidenza la sentenza di Palermo arriva nel pieno di un passaggio politico confuso, dagli sbocchi ancora indecifrabili; e inevitabilmente permette a Di Maio di afferrare una preziosa ciambella di salvataggio nel momento più difficile. E non solo a lui. Il presidente della Camera, Fico, non ha nascosto il suo entusiasmo per un evento «straordinario»: eppure si tratta della terza carica dello Stato, una figura istituzionale, come si usa dire, che dovrebbe mantenere un minimo di distacco dalle passioni politiche.
Peraltro il “mafioso di Arcore”, definizione spesso riservata dai Cinque Stelle a Berlusconi, giusto ieri mattina si era scagliato non senza volgarità contro il vertice del M5S (gente che «a Mediaset pulirebbe i cessi»).
Si capisce quindi che Di Maio abbia sventolato la sentenza come una bandiera, visto che il co-fondatore di Forza Italia, Dell’Utri, ha ricevuto un’altra pesante condanna.
La fotografia del Paese, secondo una certa iconografia pentastellata, ne viene esaltata.
Del resto, non va dimenticato che il pubblico ministero del processo, Di Matteo, è intervenuto di recente a Ivrea a un convegno dei Cinque Stelle, tanto che qualcuno già se lo è immaginato — ma senza basi concrete — ministro in un governo Di Maio.
In ogni caso non è facile stabilire se la sentenza assesta davvero un colpo mortale a una Seconda Repubblica che a tanti sembra non essere mai nata. Di sicuro garantisce ai Cinque Stelle l’uso politico di quello che la sentenza ha definito. Come ha detto lo stesso Di Matteo, «sono sanciti i rapporti mafiosi di Berlusconi». Difatti è lì che i magistrati hanno colpito: Berlusconi non è condannato, ma in un certo senso è come se lo fosse. Spetta adesso a Di Maio e ai suoi sfruttare la circostanza per tentare di allargare la crepa fra il fondatore di Forza Italia e Salvini. Ma per riuscirci bisogna abbracciare senza riserve la tesi della natura criminogena non solo di Berlusconi, ma di una discreta fetta degli apparati, delle istituzioni, delle forze dell’ordine. E magari spiegare come mai di un certo Berlusconi, omonimo del personaggio qui descritto, Di Maio l’altro ieri fosse pronto ad accettare l’appoggio esterno a un esecutivo Cinque Stelle.
La Terza Repubblica, se nascerà eventualmente su tali premesse, sarà fondata sulla stretta alleanza — mai così salda — fra politici e magistrati. La legittimazione del nuovo assetto verrà dalla sentenza di Palermo e da altre analoghe che potrebbero seguire. In fondo non sarebbe la prima volta. Chi ha buona memoria ricorda gli anni di Tangentopoli: la delegittimazione degli avversari e il tentativo, peraltro non riuscito, di costruire una nuova classe dirigente fondata su una sorta di purezza rivoluzionaria. Stavolta è diverso, anche perché sullo sfondo ci sono i delitti della mafia e non i politici corrotti. Ma tutto si tiene, in un certo senso. Se Di Maio considera davvero il processo di Palermo come il secondo tempo della vittoria elettorale di marzo, il meno che si possa dire è che il compito istituzionale di Mattarella diventa ancora più complesso.

La Stampa 21.4.18
“Delusa, rinuncio al Nobel ebraico”
La rabbia di Israele contro Portman
L’attrice diserta la premiazione. Il governo: così si unisce al boicottaggio
di Giordano Stabile


Il conflitto fra Israele e i palestinesi irrompe a Hollywood e la protagonista è un’attrice ebrea, nata a Gerusalemme e naturalizzata americana. Natalie Portman, tre nomination in carriera e un Oscar come miglior attrice nel 2011 per il film «Il cigno nero», ha annunciato di voler rinunciare al Premio Genesis, conosciuto come il «Nobel ebraico». La cerimonia, prevista per giugno, è stata annullata e la decisione ha scatenato una tempesta in Israele. Portman non ha dato spiegazioni ufficiali al suo gesto. Una sua portavoce si è limitata a spiegare che «i recenti avvenimenti sono stati estremamente dolorosi per lei» e quindi «non si sente a suo agio nel partecipare ad alcun evento pubblico in Israele».
La Fondazione Genesis ha espresso la sua «tristezza» per la decisione, ha detto di «rispettare il suo diritto di criticare il governo» ma anche di temere che il suo gesto porti a una «politicizzazione» della cerimonia: «Una cosa che abbiamo sempre cercato di evitare». Ma è chiaro che il «no» di Portman è destinato a essere legato alle proteste nella Striscia di Gaza che nelle ultime tre settimane hanno portato alla morte di 39 palestinesi, 4 ieri, per il fuoco dell’esercito israeliano e al ferimento di altri 1400. Quando, lo scorso novembre, la Fondazione aveva annunciato di aver scelto lei per il riconoscimento, l’attrice si era detta «orgogliosa delle sue radici in Israele».
Portman aveva manifestato critiche alla politica israeliana già nel 2009 e si era detta «delusa» per la rielezione di Benjamin Netanyahu nel 2015. Ma non era mai stata sostenitrice del movimento «Bds» per il boicottaggio di Israele. Ora la sua presa di posizione è destinata a rafforzare il partito anti-israeliano nel mondo dello spettacolo, che già a dicembre si era spaccato in due dopo che la cantante Lorde aveva cancellato un concerto a Tel Aviv. Una posizione simile è stata presa più volte dalla rockstar Roger Waters dei Pink Floyd, mentre un altro gruppo storico, i Radiohead, ha dovuto affrontare critiche feroci per il concerto tenuto in Israele lo scorso 19 luglio. Il leader Thom Yorke ha poi replicato in una intervista con la rivista “Rolling Stone”: «Ci sono tantissime persone che non sono d’accordo con il movimento Bds: non crediamo nel boicottaggio culturale».
Il Premio Genesis, lanciato nel 2013, ha fra i propositi quello di fare del messaggio culturale un ponte fra Israele e il resto del mondo. Sono stati premiati, dal 2014, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, lo scultore Anish Kapoor, il violinista Itzhak Perlman e un’altra star di Hollywood, Michael Douglas. Tutti hanno donato il milione di dollari del premio a istituti di beneficenza. La Fondazione Genesis ha fatto sapere che Portman non intende restituire la somma, che probabilmente sarà donata, mentre i due milioni aggiuntivi promessi dal filantropo israeliano Morris Kahn andranno comunque a una Ong a difesa dei diritti delle donne.
Ma il punto è politico. Il ministro della Cultura, Miri Regev, è stata categorica: «Mi spiace molto che Natalie Portman sia caduta nella mani dei sostenitori del Bds». Un’attrice «ebrea che è nata in Israele», ha sottolineato Regev, «si è unita a coloro che vedono il meraviglioso successo della rinascita d’Israele come una storia di tenebra e tenebra», con una parafrasi del titolo del libro «Una storia d’amore e di tenebra» di Amos Oz, poi un film diretto dalla stessa Portman. Un deputato del partito Likud, Oren Hazan, ha chiesto addirittura la revoca della nazionalità israeliana all’attrice, nata in Israele nel 1981 ed emigrata a tre anni a Washington assieme ai genitori. Il Premio Genesis doveva segnare il ritorno trionfale nella sua terra di origine, come la regina Amidala da lei interpretata in «Guerre stellari». E invece Portman sembra aver voluto indossare la maschera di «V per Vendetta».

Repubblica 21.4.18
“Israele, rifiuto il tuo Nobel” lo schiaffo della star Portman per i morti del venerdì a Gaza
di Vincenzo Nigro


L’attrice rinuncia a un prestigioso riconoscimento dopo gli ultimi scontri Al confine altre vittime: anche un ragazzo di 15 anni tra i 4 palestinesi uccisi
Per il quarto venerdì di seguito, ieri Gaza ha protestato contro Israele. Poteva essere la giornata in cui i numeri dei manifestanti ( 3000) e soprattutto quello dei palestinesi colpiti dai soldati israeliani ( comunque un bilancio tragico: 4 morti e 700 feriti) avrebbero indicato una flessione della “ Marcia del ritorno”. Quasi un affievolimento in vista delle proteste finali di metà maggio. Ma, come spesso accade nelle dinamiche mediorientali, è stato un fattore di totale sorpresa a tenere alta l’attenzione dei media internazionali sulla protesta di Hamas, sulla Marcia che vorrebbe riportare i palestinesi nei territori che oggi sono di Israele.
Ieri mattina l’attrice israelo- americana Natalie Portman ha annunciato che non verrà a ritirare a Gerusalemme il Premio Genesis, quello che viene definito il “Nobel di Israele”. Di fatto rifiuta il riconoscimento proprio a causa di quelli che, in un comunicato diffuso dalla fondazione Genesis, l’attrice definisce « recenti avvenimenti ». Il riferimento è chiaro alla Marcia di Gaza, alla reazione di Israele alla mobilitazione di Hamas, al fatto che i cecchini israeliani prendono di mira i palestinesi che si avvicinano al recinto di separazione, sparano prima che riescano a danneggiarla per entrare in Israele.
La cerimonia solenne per la consegna del premio è stata annullata. Portman doveva ricevere un premio di 2 milioni dollari raccolti dalle fondazioni filantropiche dell’uomo d’affari Morris Kahn e dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, anche lui imprenditore di successo nel mondo dei media. Il premio doveva essere devoluto ad associazioni che lavorano per l’emancipazione femminile. Kahn, un ebreo sudafricano immigrato in Israele, ha criticato l’attrice. «Assieme alla fondazione Genesis provvederemo alle necessità delle organizzazioni femminili, per le quali abbiamo raccolto 2 milioni di dollari con la Fondazione Michael Bloomberg. Il premio sarà consegnato dalla Fondazione Genesis e non dalla signora Portman ».
Portman aveva ricevuto il premio proprio perché è una stella di Israele nel mondo: attrice famosa, da alcuni anni anche produttrice, di recente ha finanziato ed interpretato il film “ Sognare è vivere” tratto dal romanzo “ Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz.
Nel governo di Bibi Netanyahu le reazioni sono state furiose. Portman è stata accusata praticamente di tradimento innanzitutto dalla ministra della Cultura, Miri Regev: «Portman è caduta come un frutto maturo nelle mani dei sostenitori del Bds», dice la Regev, riferendosi alla campagna internazionale per il boicottaggio di Israele. Un altro deputato del Likud, Oren Hazan ha proposto che a Portman - nata in Israele con il nome di Neta- Li Hershlag – venga addirittura revocata la cittadinanza.
In verità Portman ha presentato la sua scelta con discrezione, non ha neppure fatto chiaramente un riferimento alle uccisioni di Gaza; ma ormai da mesi la stragrande maggioranza della comunità ebraica americana è entrata in rotta di collisione con gli ebrei di Israele, con i sostenitori dei partiti di destra e di quelli religiosi, tanto che ormai si parla apertamente di “questione americana”.
Tornano alle proteste di Gaza, a fine serata i morti erano 4, fra cui un ragazzo di 15 anni. I palestinesi questa volta hanno adoperato catapulte artigianali per lanciare pietre, hanno fatto volare aquiloni con bombe molotov. Venerdì prossimo la protesta continua.

il manifesto 21.4.18
Natalie Portman, scioccata da uccisioni a Gaza non ritira il Nobel ebraico
Israele/Striscia di Gaza. La destra al governo insorge contro l'attrice e regista israelo-statunitense alla quale un deputato chiede di revocare la cittadinanza
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Natalie Portman ha rovinato al governo Netanyahu i festeggiamenti per il 70esimo anniversario della proclamazione ‎di Israele. L’attrice, regista e produttrice cinematografica israelo-statunitense, ha fatto sapere ‎che non verrà a Gerusalemme a ritirare il Genesis Prize, il Nobel ebraico. A spingerla a fare un ‎passo indietro sono stati, ha fatto sapere, ‎«gli ultimi eventi per lei estremamente dolorosi e che ‎non si sente a suo agio a partecipare ad eventi pubblici in Israele‎». Portman non cita la ‎Striscia di Gaza ma è stato chiaro a tutti che la sua decisione è una reazione alle decine di ‎palestinesi uccisi nelle ultime settimane dal fuoco dei tiratori scelti dell’esercito israeliano ‎dispiegati lungo le linee di demarcazione con Gaza per contrastare la “Marcia del Ritorno”. ‎
L’ira della destra al governo in Israele è scattata immediata. La ministra della cultura Miri ‎Regev ha accusato la Portman di essersi schierata con il Bds, la campagna di boicottaggio di ‎Israele a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi. ‎«Nathalie, un’attrice ebrea che è ‎nata in Israele, si è unita a coloro che vedono il meraviglioso successo della rinascita d’Israele ‎come “una storia di tenebra e tenebra”‎», ha ironizzato Regev, parafrasando il titolo del libro ‎‎”Una storia d’amore e di tenebra di Amos Oz”, dal quale Portman ha tratto un film da lei ‎diretto. Il deputato del Likud, Oren Hazan, uno degli esponenti di punta dell’estremismo di ‎destra, ha invocato la revoca della nazionalità israeliana all’attrice. «Portman è un’ebrea ‎israeliana che da una parte usa cinicamente le sue origini per far progredire la sua carriera e ‎dall’altra si vanta di aver evitato di essere arruolata nell’Idf (l’esercito)‎», ha commentato ‎Hazan. Per Rachel Azaria, del partito Kalanu, la decisione dell’attrice Usa sarebbe il riflesso di ‎un cambio di atteggiamento degli americani ebrei nei confronti di Israele‏.‏
Portman aveva detto di voler devolvere i due milioni del Genesis Prize ad associazioni ‎delle donne e, stando a quanto riferito ieri sera dal quotidiano Haaretz, non restituirà la ‎somma. ‎

Corriere 21.4.18
Lerner e il viaggio in sei tappe alle radici dei pregiudizi
Da domani il reportage «La difesa della razza». La senatrice Segre: in Italia vedo troppa indifferenza
di Renato Franco

«Prima, durante e dopo la mia prigionia mi ha ferito l’indifferenza colpevole più della violenza stessa. Quella stessa indifferenza che ora permette che Italia e Europa si risveglino ancora razziste; temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite». Liliana Segre, la ragazzina reduce dall’inferno — espulsa dalla scuola a 8 anni perché ebrea, deportata a 14 nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau —, da qualche mese senatrice a vita, è la testimone vivente della necessità di non dimenticare il passato. È a fianco di Gad Lerner alla presentazione del suo nuovo programma, La difesa della razza, un reportage in 6 puntate in onda da domani alle 20.30 su Rai3.
Un’inchiesta che va alla radice dei meccanismi che ancora oggi dal pregiudizio etnico conducono alla discriminazione e alla persecuzione delle minoranze. Storie e testimonianze che si misurano e si scontrano con l’insidia del pregiudizio e del disprezzo nei confronti di chi percepiamo come altro, come diverso, nella riproposizione dell’automatismo «noi e loro». Ogni puntata affronta una discriminazione: noi e gli ebrei; noi e gli africani; noi e gli arabi; noi e i cinesi; noi e gli zingari; il razzismo contro gli italiani.
Teorie e simboli, «sentimenti osceni», che credevamo sepolti. Lerner cita Vorrei la pelle nera (successo del 1967 di Nino Ferrer) e Zingara (Iva Zanicchi e Bobby Solo vinsero il Sanremo 1969): «Chi avrebbe oggi il coraggio di cantare dei testi così? Ormai ci stiamo abituando a qualcosa a cui non dovremmo abituarci: la violenza, il pregiudizio, l’indifferenza. Questi 6 reportage nascono dall’idea di capire come è avvenuto che dall’odio razziale si arrivasse allo sterminio, come la propaganda sia stata imposta, con quale lessico e quali argomenti. Il tutto per filtrare quello che viviamo noi, tra i disagi sociali e le convivenze difficili. E chiedersi: come vengono promosse oggi quelle fobie?». Un racconto del presente con la lezione (mai imparata) del passato: «Penso che questo programma sia un atto necessario in tempi scellerati», aggiunge il direttore di Rai3 Stefano Coletta.
L’ultimo pensiero di Liliana Segre è un pugno per le nostre coscienze distratte dal futile: «Mi fa impressione quando sento di barconi affondati nel Mediterraneo, magari 200 profughi di cui nessuno chiede nulla. Persone che diventano numeri anziché nomi. Come facevano i nazisti. Anche per questo non ho mai voluto cancellare il tatuaggio con cui mi hanno fatto entrare ad Auschwitz». Matricola 75190.

Repubblica 21.4.18
La follia lungo il confine di Gaza

di Roger Cohen

Quando i cecchini sparano per uccidere i civili che si avvicinano a un muro, nella mente di chiunque abbia vissuto a Berlino suona un campanello d’allarme. E io ho vissuto a Berlino. Ho attraversato tante volte la barriera che separa il primo mondo di Israele dalla prigione a cielo aperto di Gaza, disseminata di macerie. È un passaggio violento a un luogo di irrazionalità. Come sempre Israele esagera: « occhio per ciglio » , come dice Avi Shlaim, docente di Oxford nonché ex soldato delle forze armate israeliane.
Israele ha il diritto di difendere i propri confini, ma non di usare mezzi letali contro dimostranti per lo più disarmati, come ha già fatto causando la morte di 35 palestinesi e il ferimento di quasi mille. La reazione spropositata deriva dal fatto che Israele considera minacciata la propria esistenza, ma è una tesi che convince sempre meno. Il predominio militare israeliano sui palestinesi è schiacciante e gli Stati arabi hanno perso interesse per la causa palestinese. A detta di Israele, Hamas usa donne e bambini come scudi umani per i dimostranti violenti intenzionati a penetrare la barriera e a uccidere gli israeliani. Secondo un copione ben noto, seguiranno indagini internazionali dall’esito inconcludente e l’odio raddoppierà. Israele vince ma perde. Chi odia Israele e gli ebrei va a nozze. La pornografia la riconosci subito e lo stesso vale per una reazione militare sproporzionata. Ti si rivolta lo stomaco. Gaza Redux: la violenza è inevitabile. Il cosiddetto status quo israelo-palestinese è un’incubatrice di massacri. È importante guardare al di là della barriera di Gaza, simbolo di fallimento come tutte le barriere. È il risultato della morte della diplomazia, dei compromessi svaniti e del trionfo del cinismo. Persino il presidente Trump ha perso interesse per « l’accordo definitivo » e vede luccicare la Corea del Nord.
Qualche settimana fa sei ex direttori del Mossad, il servizio di intelligence israeliano, hanno lanciato l’allarme. Se i massimi responsabili della sicurezza di Israele definiscono autolesionista l’attuale condotta del Paese, vale la pena di ascoltarli. Così si è espresso Tamir Pardo, capo del Mossad dal 2011 al 2015, intervistato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth: « Se lo Stato di Israele non decide cosa vuole, finirà per esserci un solo Stato tra il mare e il Giordano. È la fine della visione sionista». Al che Danny Yatom, direttore dal 1996 al ’ 98, replica: “ È un Paese che degenererà o in uno Stato di apartheid o in uno Stato non ebraico. Giudico pericoloso per la nostra esistenza continuare a governare i territori. Non è il genere di Stato per cui ho combattuto. C’è chi dirà che abbiamo fatto tutto noi e che manca una controparte, ma non è vero. La controparte esiste. I palestinesi e chi li rappresenta sono i partner con cui dobbiamo confrontarci » . È per questo convincimento che il primo ministro Yitzhak Rabin è morto assassinato da un esponente israeliano del fanatismo messianico, contrario a qualsiasi compromesso territoriale, che a partire dal 1967 ha conquistato influenza. Non c’è controparte se hai scelto dio al posto di svariati milioni di persone che preferisci non vedere. Ma se guardi, i partner ci sono.
Anche da parte palestinese la fede nella soluzione dei due Stati è diminuita negli ultimi vent’anni. È sempre più frequente l’uso del termine “occupazione” per definire l’esistenza stessa di Israele, invece che la Cisgiordania e Gaza, occupate nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni ( Israele si è ritirato da Gaza nel 2005 mantenendone però il controllo, tra l’altro, tramite blocchi aerei e marittimi).
Le marce del venerdì a Gaza sono manifestazioni di protesta contro il blocco imposto da 11 anni, ma puntano anche a riaccendere l’interesse internazionale per la causa dei palestinesi che rivendicano il diritto di tornare alle case da cui nel 1948 furono cacciati. Il diritto al ritorno è un eufemismo per indicare la distruzione di Israele come Stato ebraico. È coerente con l’uso assolutista del termine “occupazione” per definire Israele stesso. I palestinesi hanno perso le loro case dopo che gli eserciti arabi nel 1948 dichiararono guerra a Israele che aveva accettato la risoluzione Onu che sollecitava l’istituzione di due Stati di pari dimensioni circa, uno ebreo e uno arabo — nella Palestina sotto mandato britannico. La risoluzione era un compromesso nel quale credo ancora, non perché fosse una bella soluzione, ma perché era ed è tuttora migliore rispetto ad altre opzioni.
I palestinesi intransigenti amano definirsi lungimiranti. Bene, 70 anni non sono pochi e i palestinesi hanno sempre perso. La metà del territorio ormai è diventata un quarto in qualunque accordo si possa immaginare. Non vedo come questa tendenza si possa invertire in futuro in assenza di una leadership palestinese coesa e pragmatica, orientata a un futuro a due Stati: pc per i bambini invece dell’accesso a oliveti perduti.
I morti hanno dato la vita per niente. Israele, con le sue reazioni esagerate, si è messo il cappio al collo, ponendosi in una posizione moralmente indifendibile. I leader palestinesi hanno suffragato i versi di Yeats: “Abbiamo nutrito il cuore di fantasie, con quel cibo il cuore si è fatto brutale”. Shabtai Shavit, che è stato direttore del Mossad dal 1989 al ’ 96 ha dichiarato: « Per quale motivo viviamo qui? Perché i nostri figli continuino a combattere guerre? Che pazzia è questa per cui il territorio, il Paese, è più importante della vita umana?».


Repubblica 21.4.18
Antifascismo l’ultima battaglia sul 25 aprile
di Simonetta Fiori


Due schieramenti si fronteggiano per l’elezione del nuovo vertice degli istituti di storia della Resistenza. Dietro la contesa la diversa concezione di una tradizione culturale e politica messa in crisi anche dai risultati elettorali
Che succede nella rete dei sessantaquattro istituti di storia della Resistenza, una delle ultime agenzie culturali della sinistra sopravvissuta agli smottamenti di questi anni? Domanda pertinente in un paese che si appresta a celebrare un inedito 25 aprile, con una maggioranza di italiani che ha votato per un movimento dichiaratamente afascista (Cinque Stelle) o per una destra nazionalista fascioleghista (il partito di Salvini) o per una destra che dal fascismo orgogliosamente proviene (Fratelli d’Italia). Alla Casa della Memoria, il bell’edificio milanese all’ombra del Bosco Verticale che ospita l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (a cui fa capo la rete degli istituti), è in scadenza la carica del presidente Valerio Onida, e sono cominciate le grandi manovre per la successione. Con due principali candidature, ed è già questa una novità nella settantennale storia dell’istituto che non ha mai assistito a duelli per il vertice: Alberto De Bernardi, attuale vicepresidente, e Paolo Pezzino, membro del comitato scientifico.
Dalla futura presidenza dipende anche la conferma dell’attuale direttore Marcello Flores, che s’è mosso in sintonia con De Bernardi. Perché l’interesse intorno a questa competizione? Perché in gioco sono visioni storico-politiche diverse, che le opposte fazioni tendono a caricaturizzare: da una parte il fronte “revisionista”, incline a strizzare l’occhio all’opinione anti antifascista e responsabile del discusso museo del fascismo a Predappio (De Bernardi - Flores), dall’altra una sinistra ibernata, a cui imputare arroccamento identitario e un uso di categorie antiquate. Fin qui la contrapposizione macchiettistica, che a dire il vero confligge con il profilo di studiosi apprezzati: Flores per i suoi studi sul totalitarismo comunista, Pezzino per una storiografia innovativa e niente affatto ortodossa sulle stragi nazifasciste e De Bernardi per un manuale tra i più adottati nelle scuole superiori. Per uscire fuori da un teatrino molto nervoso, potrebbe essere interessante domandare ai protagonisti cosa pensino dell’antifascismo: è ancora una categoria valoriale, una bussola culturale a cui ricorrere in un’Italia attraversata da pulsioni e istinti riconducibili al fascismo? O è una cara memoria da riporre serenamente in soffitta insieme a tanta attrezzatura del Novecento? Lo chiediamo a Flores, divenuto in rete bersaglio dei Wu Ming per una affermazione comparsa su Città Futura: «Antifascismo? A me ormai il termine antifascista, considerando anche chi lo usa con più forza e frequenza, fa venire in mente la Ddr». Professor Flores, che voleva dire? «Non si può usare fuori contesto una frase che riguardava l’antifascismo militante antidemocratico.
L’antifascismo oggi ha un valore politico, certo, ma solo se siamo capaci di storicizzarlo e di porci la questione della democrazia.
Antifascismo non può essere fare picchetti contro Casa Pound. A Forlì è finita con una scazzottata: una logica che non ci appartiene.
La vera emergenza oggi non è il ritorno del fascismo ma gli studenti che minacciano i professori. Problemi che la vigilanza antifascista non è capace di sciogliere». Ma al di là dell’uso retorico esercitato dalla sinistra antagonista dei centri sociali, non pensa che oggi il pericolo sia rappresentato non dal ritorno del fascismo organizzato ma dalla penetrazione nel tessuto sociale di abitudini culturali riconducibili a quella tradizione (vedi la destra nazionalista e xenofoba della Lega)? «Certo che è un problema.
Ma dobbiamo porci la domanda: come è stata possibile questa penetrazione? Perché La Lega dopo gli accadimenti di Macerata ha aumentato i consensi?
Scendere in piazza non basta».
Un’opinione analoga viene espressa da Alberto De Bernardi, che in passato ha manifestato la sua contrarietà a «fascismi e fascisti di cartapesta inventati per tenere in vita il mito dell’antifascismo». E ora, in un paese che invoca la razza bianca e “l’Italia agli italiani”, corregge la sua opinione? «Forse eccedo in ottimismo, ma non vedo all’orizzonte una minaccia autoritaria», dice lo studioso. «C’è il problema d’una destra xenofoba, questo sì, ma non penso che la democrazia sia a rischio. Da qui forse dipende anche una diversa concezione dell’Istituto che mi divide da Pezzino: io penso a una realtà più aperta, che collabori con altre forze culturali, invece di chiuderci in un fortilizio a difesa di un’identità minacciata». L’antifascismo, aggiunge, «è un’importante cultura politica che serve a capire alcuni dei processi in atto, ma non può essere usato come categoria onnicomprensiva che mette insieme No Tav e simpatizzanti di Assad. E la battaglia deve mantenersi su un piano culturale e pedagogico, non immediatamente politico».
«Ma chi dice che l’antifascismo oggi sia riducibile al picchetto contro Casa Pound? O alle bandierine ideologiche sventolate a sproposito?». Dalla sua casa di Pisa, Pezzino si mostra sorpreso.
«Questa è una fotografia caricaturale dell’antifascismo.
Come mi appare ridicola l’accusa secondo la quale vorrei chiudermi in una fortezza identitaria: non è certo questo il mio proposito, che ambisce al collegamento con istituti di ricerca europei. Mi piacerebbe invece capire quali siano le realtà a cui De Bernardi sta pensando: forse zone d’opinione che negli anni passati hanno contribuito alla banalizzazione del fascismo?». Le missioni principali dell’Istituto Parri, continua Pezzino, devono rimanere l’analisi dell’evo contemporaneo e la formazione degli insegnanti. «Ma questo non significa rinunciare ad avere un ruolo politico-culturale in un paese in cui la sinistra tende a essere afasica». L’antifascismo in questo modo «non è certo la difesa del deserto dei tartari, ma elemento vitale della battaglia politica attuale. All’indomani della caccia all’uomo nero a Macerata, mi sarebbe piaciuto che l’Istituto Parri contribuisse all’analisi dei simboli esibiti da Traini: la militanza nella Lega, il razzismo armato, il saluto romano, la bandiera italiana. E invece c’è stato un assordante silenzio». Come è mancata negli ultimi anni, aggiunge Pezzino, una riflessione sui rigurgiti neofascisti. Fare oggi della pedagogia antifascista «significa non urlare al ritorno del regime ma avere la consapevolezza che forze politiche che non si richiamano a quell’esperienza veicolano elementi come il nazionalismo e il razzismo». Sullo sfondo della battaglia tra i due candidati rimangono questioni per niente marginali: il rapporto con l’Anpi e il museo di Predappio. Se l’asse Flores-De Bernardi non è stata avara di critiche molto dure all’associazione dei partigiani, specie sotto la direzione di Smuraglia, la fazione pro Pezzino vorrebbe stabilire un confronto.
Quanto al museo sul fascismo, Flores e De Bernardi ne sono stati i principali sostenitori, mentre Pezzino interpreta il malumore di chi contesta la scelta della città natale di Mussolini come sede. A fine anno alla Casa del Fascio cominceranno i lavori. E intanto al vertice dell’Istituto Parri il 9 giugno ci sarà il nuovo presidente: a sceglierlo sarà il comitato che raccoglie i presidenti dei sessantaquattro istituti.

Repubblica 21.4.18
Desideri o diritti? Quel dubbio oscuro delle nostre società
di Giulio Azzolini

Il saggio del direttore del “Mattino” Alessandro Barbano
È un’analisi dolente del declino italiano Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà
(Mondadori). Venti capitoli in cui il direttore del Mattino Alessandro Barbano richiama “crisi” di vario livello. Crisi globali: del discorso pubblico nell’epoca di Internet; dello stato sociale a fronte delle metamorfosi del lavoro; della sovranità politica in un mondo interdipendente. Ma soprattutto crisi italiane: dei soggetti collettivi (i ceti medi, i partiti, le associazioni sindacali e padronali) e dei valori tradizionali (la delega politica, il sapere, persino la verità).
Barbano ritiene che questi fenomeni – le cui vittime principali sono i giovani, le donne, i meridionali, gli immigrati – abbiano una matrice comune.
Ciascun problema viene infatti ricondotto al “dirittismo”, a un’«ipertrofia maligna dei diritti» che in Italia avrebbe contagiato tutte le forze politiche, specie le più radicali. Oggi i diritti non sarebbero più il «carburante della democrazia», ma i «fucili puntati contro di essa». La «malattia dei diritti», quindi, come chiave di lettura della nostra decadenza. La tesi è controcorrente, non inedita, e merita di essere discussa seriamente.
La posizione di Barbano è paradossale poiché il senso comune porta a credere l’opposto. Ogni giorno deboli e meno deboli lamentano la carenza di diritti adeguati. Perfino i diritti ritenuti acquisiti, come ad esempio i diritti politici, vengono percepiti, per dirla con Norberto Bobbio, come «promesse non mantenute».
Come mai, allora, «troppi diritti»?
Nei suoi tratti essenziali, l’argomento fu delineato nel Rapporto sulla Crisi della democrazia, redatto nel 1975 per conto della Trilaterale, e da allora è stato riproposto in svariati modi – di recente, con acume, da Dominique Schnapper ne L’esprit démocratique des lois (Gallimard, 2014) e da Jason Brennan in Contro la democrazia (2016, ora tradotto da Luiss University Press).
Barbano ha il merito di mettere a fuoco il nesso tra espansione dei diritti e progresso tecnico. In breve, la prima non avrebbe indebolito a tal punto il tessuto civile del nostro paese (e non solo), se non fosse stata accompagnata dal secondo. «Poiché la tecnica apriva, grazie ai suoi potenti mezzi, nuove possibilità, ciò che diveniva possibile era per ciò stesso anche giusto. Così le possibilità sono diventate desideri e i desideri diritti».
Ma la posizione di Barbano si caratterizza anche per la prospettiva che suggerisce. Dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, non invoca riforme che accentrino e accelerino il processo decisionale, ma scommette piuttosto su un fattore politico-culturale, che gravita intorno all’idea di «moderazione integrale». Barbano auspica una cultura politica moderata, che proponga apertamente di rilanciare la democrazia rappresentativa e rinnovare quelle mediazioni politiche, sociali e culturali che, a suo giudizio, sono l’architrave di ogni società bene ordinata.

giovedì 19 aprile 2018

La Stampa 19.4.18
“Non lasciatemi sola nella lotta contro Satana”
Il racconto di Sandra, da cinque anni seguita da un esorcista Esami clinici negativi. Ma emicrania e vesciche non passano
1990: la fondazione della Aie, Associazione internazionale degli esorcisti
di Andrea Tornielli


«Sto lottando e non so quando finirà. Lo voglio chiedere urlando: aiutateci!». Sandra è una distinta signora di 45 anni, sposata, con due figlie già grandi. Vive in una grande città del Nord Italia. Da dieci anni, racconta scandendo le parole con pacatezza quasi non parlasse di sé, è assalita da strani fenomeni. I tanti esami clinici non sono riusciti a diagnosticare nulla e da cinque anni si sottopone regolarmente agli esorcismi.
Un sacerdote pronuncia su di lei preghiere di liberazione dal Maligno. «Ci sono giorni che trascorrono normali, mentre in altri non hai la forza di alzarti dal letto in preda a dolori fortissimi alla testa, che non passano neanche con dieci pastiglie di antidolorifico. Il fenomeno si accentua nei giorni delle festività cristiane».
Tutto è cominciato con una specie di insofferenza al momento di entrare in chiesa. «Mi sentivo inquieta, desideravo solo uscire, andare via. Non riuscivo più ad avvicinarmi a un tabernacolo». «Ho dovuto abbandonare il lavoro e ricordo ancora la prima volta che i miei “amici” – li chiamo così – si sono manifestati. Sono entrata dall’esorcista e mi sono messa a ridere in modo isterico. Ridevo involontariamente e dentro di me piangevo perché non riuscivo a fermare quella risata innaturale. Poi non ricordo più niente, si sono manifestati gli “amici” con cui convivo…».
“Ti prendono per matta”
Chi crede in Dio e nell’esistenza del male personificato in Satana, ascolta con una certa inquietudine questi racconti. Chi non crede, li spiega con possibili patologie psichiche. Ma sia gli uni che gli altri possono fermarsi ad ascoltare il grido, la richiesta di aiuto che emerge dalla storia di Sandra. «Quando ti capita di vivere un’esperienza come la mia, vieni isolato. Perdi gli amici. Nessuno vuole più avvicinarsi. Ti prendono per matta oppure se ne stanno alla larga perché hanno paura che si tratti di una malattia contagiosa». Sandra sorride amaramente.
A bruciarle nell’anima è anche questo senso di abbandono. «Mio marito sa tutto, le mie figlie no. Quando i fenomeni si manifestano, dico loro che ho l’emicrania. Anche nei giorni di festa, anzi proprio in quelli, devo trascinarmi in chiesa a ricevere l’eucaristia, perché mi fa star meglio. Anche se quando la ricevo il palato mi brucia, come se avessi inghiottito qualcosa di bollente, appena uscito dal forno. Anche bere l’acqua benedetta mi provoca una reazione di fastidio rivoltante, peggio dell’olio di ricino. E se provo a mettermi una catenina con una medaglia benedetta, sul collo mi si formano delle vesciche come se avessi indossato una collana incandescente».
All’origine
Sandra finora non aveva mai raccontato la sua storia. Si è convinta a farlo, cedendo all’insistenza del cronista, solo perché spera che possa essere di qualche aiuto per altri. «Io sono ancora in mezzo al guado, mi aggrappo alla croce. Chiedo a Dio di avere la forza per reagire. Se vi accorgete di avere un amico con problemi spirituali, stategli accanto. È l’amore che allontana il demonio, lui non lo sopporta, perché il suo mestiere è dividere, creare odio. Vorrei che ci fossero comunità per poter stare accanto a persone come me. Vorrei che ci fossero più sacerdoti esorcisti per seguirci, ascoltarci, aiutarci». «Purtroppo - dice la donna con un velo di mestizia sul volto - a essere disposti ad ascoltarti sono le sette, che non vogliono aiutarti ma portarti dentro il loro gruppo». Sandra è convinta che all’origine del suo male ci sia qualcosa di oscuro accaduto quando era neonata, al momento del battesimo: «Quello stesso giorno i miei padrini mi hanno consacrata a Satana».
Don Aldo Buonaiuto, coordinatore del servizio Antisette della Comunità Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi ed esorcista, è tra i relatori al corso per esorcisti che si sta svolgendo a Roma: «Sono storie che inquietano e che ci confermano quanto ha appena scritto Papa Francesco nell’esortazione “Gaudete et exsultate”: il Maligno è un essere personale che ci tormenta, non pensiamo che sia un mito, un simbolo, una figura o un’idea. Bisogna accostarsi a storie come questa con attenzione e discrezione, senza sensazionalismi. C’è bisogno di preti preparati a compiere il rito di esorcismo così come prescritto dalla Chiesa».

La Stampa 19.4.18
Una settimana di lavori a porte chiuse
250 preti studiano sette e nuovi culti


Una settimana di lavori e 250 iscritti. Si chiude sabato la XIII edizione del «Corso sull’esorcismo e la preghiera di liberazione» organizzato dall’Istituto Sacerdos dell’Ateneo Regina Apostolorum e dal Gris (Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa). «Il nostro impiego è la formazione accademica dei sacerdoti. Il corso - spiega padre Luis Ramirez, uno degli organizzatori - è pensato per chi vuole aiutare quanti hanno bisogno di guarigione spirituale, ma che spesso soffrono anche di disturbi psicologici, di dipendenza da sostanze e altro». Quest’anno si parla di stregoneria in Africa, dei culti afroamericani in America Latina, delle sette e del New Age in Spagna. E anche di pedofilia e pedopornografia, crimini ricorrenti nei riti occulti e satanici.

Il Fatto 19.4.18
Non c’è democrazia senza eguaglianza
Idee assenti - La Costituzione non indica vaghi principi, ma obiettivi precisi e spiega come raggiungerli. Il dibattito politico però ha rimosso il tema nelle sue declinazioni cruciali, l’accesso alle cure e alla cultura
di Salvatore Settis

Vita dura per chi, negli estenuanti negoziati all’inseguimento di ipotetiche alleanze di governo, cerca col lanternino non solo qualche rada dichiarazione programmatica, ma un’idea di Italia, una visione del futuro, un orizzonte verso cui camminare, un traguardo.
Al cittadino comune non resta che gettare un messaggio in bottiglia, pur temendo che naufraghi in un oceano di chiacchiere. La persistente assenza di un governo è un problema, certo. Ma molto più allarmanti sono altre assenze, sintomo che alcuni problemi capitali sono stati tacitamente relegati a impolverarsi in soffitta. Per esempio, l’eguaglianza.
Di eguaglianza parla l’articolo 3 della Costituzione, e lo fa in termini tutt’altro che generici. Non è uno slogan, un’etichetta, una predica a vuoto destinata a restare lettera morta. È l’articolo più rivoluzionario e radicale della nostra Costituzione, anzi vi rappresenta il cardine dei diritti sociali e della stessa democrazia. E non perché annunci l’avvento di un’eguaglianza già attuata, ma perché la addita come imprescindibile obiettivo dell’azione di governo. L’articolo 3 dichiara che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, ma non si ferma qui, anzi quel che aggiunge è ancor più importante, e non ha precedenti in altre Costituzioni. “La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’eguaglianza fra i cittadini è qui affermata attraverso la loro dignità sociale. La dignità, raggiunta mediante il lavoro, è identificata con il pieno sviluppo della persona. Dignità, sviluppo della persona e lavoro convergono per creare equilibrio fra i diritti del singolo e i suoi “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). La democrazia secondo la Costituzione è dunque “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, e il suo protagonista è il cittadino-lavoratore: perciò l’art. 4 garantisce il diritto al lavoro. Questa idea di democrazia risulta dalla somma di dignità personale e sociale, lavoro, eguaglianza, solidarietà. Dà forma concreta alla sovranità popolare dell’art. 1, ed è il fondamento di larga parte della Carta: non solo gli articoli sui diritti e doveri dei cittadini e sui rapporti etico-sociali (artt. 13-34), ma anche quelli sui rapporti economici (artt. 35-47) e politici. Una parte, questa, che include anche la seconda parte della Costituzione (Ordinamento della Repubblica).
Irraggiandosi su tutta la Costituzione, il principio di eguaglianza sostanziale introdotto dall’art. 3 comporta il progetto di una profonda modificazione della società. Qualcosa da cui siamo, in tempi di impoverimento crescente, di alta disoccupazione e di crescita delle disuguaglianze, più lontani che mai. Quel testo così rivoluzionario fu il “capolavoro istituzionale” di Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, allora capo di gabinetto del ministero della Costituente, retto da Pietro Nenni. Dal libro sull’art. 3 di Mario Dogliani e Chiara Giorgi (nella bella serie sui principi fondamentali della Costituzione pubblicata da Carocci) risulta anche il contributo in Costituente di Moro, La Pira, Fanfani. Ma questa “norma-cardine del nostro ordinamento costituzionale” (Romagnoli), che dovrebbe ispirare ogni legge e ogni atto del Parlamento e dei governi, è stata troppo spesso ignorata. Eppure il traguardo costituzionale dell’eguaglianza, data la sua straordinaria, visionaria forza e ricchezza, dovrebbe essere la stella polare di qualsiasi programma di governo.
Per fare solo qualche esempio: il diritto alla salute prescritto dall’art. 32 della Costituzione è palesemente uno strumento di eguaglianza, dunque dev’essere identicamente garantito a tutti. Ma ognun sa che vi sono regioni (specialmente nel Sud) dove il costo pro capite della sanità è assai più alto che in altre (Centro-Nord), mentre i servizi offerti sono molto meno efficienti; per non dire della quota di famiglie impoverite che, a causa delle crescenti spese (ticket etc.), tendono a rinunciare a ogni cura (28.000 nuclei familiari in Calabria, 69.000 in Sicilia). C’è forse un piano per correggere questa stortura? E come rimediare alla crescente disoccupazione giovanile (58,7 per cento in Calabria)? Il “reddito di cittadinanza” è un rimedio ma non una risposta, e una vera politica del lavoro e della piena occupazione è di là da venire. A fronte di una Costituzione che individua nel lavoro l’ingrediente essenziale della dignità della persona e della democrazia, quali sono i progetti dei partiti? Per fare solo un altro esempio: anche la cultura, e in particolare l’istruzione scolastica, è secondo la Costituzione un ingranaggio irrinunciabile della dignità personale, dello sviluppo della persona, e dunque della democrazia. Ma che cosa si intende fare per invertire la rotta di una crescente disuguaglianza di classe favorita da una scuola che è stata battezzata “buona” proprio nel momento in cui da cattiva diventava pessima? E da cosa nascerà l’innovazione e lo sviluppo (dunque anche l’occupazione), se l’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del Pil, contro il 3,3 per cento della Svezia, il 3,1 per cento dell’Austria, il 2,9 per cento della Germania? E se l’università è mortificata da pessimi criteri di valutazione della ricerca, strangolata dalla persistente carenza di fondi, umiliata dalla precarizzazione crescente dell’insegnamento?
L’eguaglianza non è un traguardo facile, ma ignorarlo vuol dire calpestare quella stessa Costituzione che i cittadini hanno difeso nel referendum del 4 dicembre 2016. Quel voto, e così quello del 4 marzo di quest’anno, chiedono radicali cambiamenti, ma in quale direzione? Per uscire dalla palude bastano volti nuovi, nuove alleanze, nuovi slogan? Da questo Parlamento e dal futuro governo dovremmo esigere la competenza e l’immaginazione necessarie a indicare un traguardo degno della nostra Costituzione e della nostra storia. Un futuro per cittadini-lavoratori che nella dignità della loro persona e nella solidarietà riconoscano l’alfabeto della democrazia e la speranza per le nuove generazioni.

Il Fatto 19.4.18
Calamandrei: oggi perfino lui sarebbe un “anti-sistema”
di Peter Gomez


“Bisogna ricominciare a distinguere che altro è il lavoro professionale redditizio e altro l’ufficio politico gratuito, e che chi mescola le proprie cariche politiche con i propri affari personali, inquinando nello stesso tempo la vita privata e la vita pubblica, le ragioni della politica e quelle della scienza e dell’arte, non è un grande politico, né un grande scienziato, ma è semplicemente un miserabile cialtrone”. Chi pensate lo abbia scritto? Un antiberlusconiano invasato, da anni in attesa di veder finalmente approvata una vera legge sul conflitto d’interessi? Un antirenziano moralista che storce il naso davanti alle riunioni di corrente tenute da Matteo Renzi negli uffici dell’azienda farmaceutica di famiglia del capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci? O peggio ancora un indefesso populista demagogicamente convinto che “la politica non è una professione e che gli onori si chiamano così perché non danno guadagno”. No, questa frase non esce dalla penna e dalla mente (per molti malata) di nessuno di loro. A metterla nero su bianco, nell’agosto del 1943, è stato Pietro Calamandrei, il più citato, ma meno ascoltato, tra tutti i nostri Padri costituenti. A lui nel corso degli anni sono state intitolate decine di scuole, aule, lapidi, luoghi di riunione e, per celebrare e ricordare il fine giurista, anche un palazzo di giustizia. È l’omaggio ipocrita di una nazione da sempre condannata a commettere gli stessi errori.
Così, rileggendo le 23 pagine di La politica non è una professione, ben ristampate in tiratura limitata dalle Edizioni Henry Beyle, viene da chiedersi quante e quali polemiche susciterebbe oggi il pensiero di Calamandrei se in Parlamento qualcuno ripetesse che “affinché si crei una classe politica capace di dirigere il Paese, occorre (…) gente che sappia prima di tutto governarsi in modo onesto in casa sua e nella propria professione, perché non possono aspirare a dirigere il proprio Paese coloro che nella loro cerchia famigliare e nella propria economia privata ostentano esempi clamorosi di malgoverno o di malcostume. Educazione politica ed educazione morale sono la stessa cosa: per esercitare con purezza gli incarichi politici a beneficio della collettività ci vuole (…) quello stesso senso del dovere che si dimostra prima di tutto nel compiere con onestà il proprio lavoro o nel sacrificarsi con semplicità per i figliuoli”.
Sì, non è difficile capire che nell’Italia capovolta di questi anni, le parole di Calamandrei verrebbero bollate in tv come antisistema e che frotte d’intellettuali, sulle ali di un revisionismo sempre più di moda, definirebbero falsa pure la sua analisi sui comportamenti dei tanti gerarchi fascisti. Uomini che si “erano mossi sapendo con lucida freddezza cosa volevano: invece che la via degli studi, lunga e faticosa e raramente fertile di guadagni cospicui, essi videro nella violenza politica il mezzo sbrigativo per arrivare rapidamente alla ricchezza; e nella prepotenza connessa ai pubblici uffici il mezzo per difenderla e per accrescerla”.
Oggi fortunatamente il fascismo non c’è più e non c’è nemmeno il rischio che ritorni. Restano invece i gerarchi. Questa volta in apparenza democratici. E resteranno sempre se, chi si presenta come nuovo, non comprenderà che “per risanare la nostra Italia dolorante” non basta “cacciar via i profittatori dai posti che occupavano” se poi ci si mette “in loro vece nei posti ancora caldi del loro passaggio”. Sì, rileggere Calamandrei conviene. A tutti.

La Stampa 19.8.18
Piketty, ora la contesa è tra sinistra bramina e destra dei mercanti
L’economista francese ha studiato la grande mutazione degli ultimi 60 anni: i partiti un tempo legati ai ceti popolari oggi sono votati soprattutto da quelli più istruiti
di Stefano Lepri


Alle elezioni del 4 marzo ci si è stupiti che il Pd sia andato bene quasi solo nei quartieri migliori di Roma, Milano e Torino. L’apparente paradosso che ha attratto i cronisti non ha in realtà nulla di strano, né di particolarmente italico; nemmeno forse è passeggero. Indica il punto dove è giunta una lunga storia.
Per riesaminare gli schemi con cui interpretiamo la politica, molti elementi erano già disponibili; occorreva montarli insieme. Ci prova ora Thomas Piketty, il noto autore di Il capitale nel XXI secolo (Bompiani 2014), con uno studio ricchissimo di dati, Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality and the Changing Structure of Political Conflict, accessibile sul sito www.piketty.pse.ens.fr. Mostra che sia il voto a sinistra della borghesia colta, sia la protesta popolare contro tutte le élite hanno radici profonde.
Usa, Francia e Inghilterra
Una grande mutazione è maturata per gradi nel corso degli ultimi sessant’anni. Quando il dopoguerra ha riportato la democrazia in tutti i grandi Paesi dell’Occidente, a votare per la sinistra erano innanzitutto i poveri. La discriminante politica principale era quella che alcuni chiamavano lotta di classe.
Lungo i decenni - lo studio esamina Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna - nell’elettorato della sinistra ha acquistato peso, fino a dominare, il livello di istruzione. Alla destra rimane invece l’ammontare del patrimonio (chi nasce ricco vota da quella parte); il livello di reddito personale, un tempo decisivo, influisce poco. Ne risulta che sempre più destra e sinistra rappresentano due élite rivali, una di censo e l’altra di cultura: Piketty, citando con ironia le caste indù, conia i termini «mercanti» e «bramini». Caste, per l’appunto, dirà qualcuno in Italia. Di fronte a esse, il popolo si è man mano ricollocato, secondo linee diverse da quelle del XX secolo.
La nuova spaccatura
La soglia che segna il mutamento, secondo lo studioso francese, è il momento in cui il 10% più istruito della popolazione comincia a votare più a sinistra del restante 90%. Secondo i dati da lui raccolti, Usa e Francia l’hanno varcata durante la seconda metà degli Anni 60 (il Sessantotto potrebbe entrarci qualcosa), la Gran Bretagna durante gli Anni 80. Dunque ben prima della globalizzazione e dell’afflusso massiccio di immigrati si indebolivano le ragioni classiste del voto a sinistra. I fenomeni recenti hanno aggiunto fattori di ricollocazione politica nuovi (eppure già visti: all’inizio del XX secolo, nei Paesi di immigrazione come Usa e Australia erano xenofobi i sindacati dei lavoratori).
Quanto la globalizzazione abbia accelerato la tendenza già presente, avverte Piketty, lo potrà dire l’estensione delle ricerche ad altri Paesi. Certo nella spaccatura di oggi - trasversale a quella destra/sinistra - tra chi sostiene l’apertura al mondo e chi vuole ripiegare sulle identità e sulla sovranità nazionale, il grado di istruzione conta assai. Negli Usa vota per il Partito democratico il 51% di chi ha una laurea breve, il 70% dei laureati ordinari e il 75% di quelli con diploma di terzo ciclo; nel 1948 erano nell’insieme il 20%. I francesi 60 anni fa votavano a sinistra per il 38% se laureati, per il 57% se con licenza elementare o meno; ora al contrario circa 60% i primi, 45% i secondi.
Piketty ha guadagnato fama documentando che le disuguaglianze nei Paesi avanzati sono parecchio cresciute negli ultimi due o tre decenni. Ma perché, si interroga ora, al contrario la gente se ne preoccupa di meno? Oggi appena il 51% dei francesi ritiene che lo Stato dovrebbe togliere qualcosa ai ricchi per darlo ai poveri; quindici anni fa erano il 63%.
ll mercato globale sembra arricchire una minoranza. Tuttavia l’azione dello Stato, se guidata dalla sinistra, può apparire vantaggiosa solo a una differente élite. Di qui il populismo. In Francia, una buona quota del 51% ostile ai ricchi vota Marine Le Pen. Ovunque è in voga la polemica contro gli «esperti», anche quando non collegabili alla sinistra, come la Banca d’Inghilterra a proposito della Brexit.
Intanto in Italia
D’altra parte una sinistra «bramina», votata da tutte le fasce di reddito, non sa se occorra premiare merito e iniziativa oppure puntare ancora sull’eguaglianza. In Italia, basta guardare le giravolte dei governi a guida Pd sull’istruzione: prima con la «Buona scuola» si promette di incentivare i migliori, poi per contrastare la perdita di consensi si sceglie una ministra vicina ai sindacati.
Benché la destra soffra dilemmi analoghi, tipo la scelta tra prezzi bassi del supermercato e sopravvivenza del bottegaio, a Piketty preme la sorte della sinistra. Dal suo lavoro alcuni, come l’economista turco-americano Dani Rodrik, concludono che bisogna tornare alle ricette egualitarie tradizionali. I risultati elettorali di Leu in Italia o della Linke in Germania non incoraggiano; Piketty ribatte suggerendo una nuova sintesi tra egualitarismo e internazionalismo.
Intanto le carte della politica continuano a rimescolarsi, seppure con soluzioni delle quali è arduo prevedere la stabilità: Emmanuel Macron va oltre destra e sinistra puntando sul merito e sugli esperti, i Cinque Stelle cercano un opposto finora non chiaro. La mutazione continua, chissà verso dove.

Il Fatto 19.4.18
Ingiustizie a palazzo: il racconto di Iacona
di Antonio Esposito


Da qualche giorno è in libreria, edito da “Marsilio”, il bel volume di Riccardo Iacona dal titolo Palazzo d’ingiustizia. Il libro racconta la storia di Alfredo Robledo, pm presso il Tribunale di Milano che, dopo avere per anni indagato, con coraggio e determinazione, su gravissimi casi di corruzione politica e di criminalità economica, si trova a dover lavorare con il nuovo “capo” della Procura della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati, magistrato “famoso”, non per essersi “mai distinto per indagini che avessero avuto un particolare rilievo mediatico”, bensì “per aver fatto soprattutto, ‘politica’ nelle correnti, nell’Anm” – ove aveva ricoperto incarichi quasi ininterrottamente dal 1986 al 2006, più volte segretario nazionale e, infine, presidente – e, naturalmente, nel Csm. Il libro narra la storia di un magistrato che si era “permesso di opporsi allo strapotere del Procuratore capo” in ordine alla gestione di delicate inchieste finite sulle prime pagine dei giornali: le indagini sul dissesto dell’ospedale San Raffaele; su Formigoni; su Gamberale e la gara d’appalto per la cessione delle quote che il Comune di Milano possedeva nella Sea; l’inchiesta sulle firme false nelle liste di FI alle regionali del 2010 e quelle su Expo 2015. “Robledo punta il dito contro Bruti Liberati, a suo dire responsabile di aver tentato di rallentare o influenzare le indagini per motivi che nulla avevano a che vedere con l’esercizio autonomo dell’attività investigativa”, motivi che tendevano a “privilegiare ‘la sensibilità istituzionale’ all’applicazione della legge”.
L’autore racconta lo scontro richiamando documenti inediti tra i quali i provvedimenti con i quali l’A.G. di Brescia (Procura e Gip) – pur archiviando le accuse contro Bruti Liberati (seppur con motivazioni non sempre molto convincenti) – censurano duramente le iniziative dello stesso (sicuramente suscettibili di accertamenti disciplinari che non saranno mai espletati). Significativo è il decreto di archiviazione del Gip ove – in relazione alla circostanza che Bruti Liberati aveva “dimenticato” in cassaforte il fascicolo dell’inchiesta sulla vicenda Sea Gamberale e non lo aveva passato per tempo a Robledo affinché potesse subito indagare – si legge che tale dimenticanza “ha fatto sì che Gamberale partecipasse indisturbato alla gara, quale unico concorrente, aggiudicandosela con un euro solo in più. Tale evento rappresenta certamente un vantaggio patrimoniale per la società di Gamberale e allo stesso tempo un danno per il Comune di Milano”. E così, ancora, il Tribunale di Brescia archivia la posizione di Bruti Liberati in relazione alle indagini sulla falsità delle firme dei candidati di FI anche se “alcune remore del Procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica”. Il libro ricorda anche il provvedimento con il quale Bruti Liberati riserva a se stesso il coordinamento di tutte le indagini “Expo” esautorando l’aggiunto Robledo dalle relative indagini, provvedimento duramente censurato dal Procuratore Generale che accusa Bruti Liberati di aver “bypassato ingiustificatamente il sistema dei criteri obiettivi e automatici di assegnazione dei procedimenti all’interno di ciascun dipartimento con indubbio vulnus alla trasparenza”. E quando Robledo si rivolge al Csm – l’organo più politicizzato di tutti – non può immaginare che la vicenda si sarebbe conclusa con la sua sconfitta, con “esito per lui infausto”; non avrebbe mai immaginato che sulla vicenda vi sarebbe stato un irrituale, intervento del capo dello Stato (“Re Giorgio”) – che non sarebbe mai dovuto intervenire su un caso specifico, sul conflitto tra un Procuratore capo e un Procuratore aggiunto – il quale, con il suo “monito”, il suo “diktat” – cui obbediscono i silenti consiglieri – fa pendere la bilancia in favore di Bruti Liberati che uscirà indenne dalla vicenda. Ed è a questo punto che l’autore affronta la questione, anche con inedite interviste a vari magistrati, del “sistema delle correnti”, ritenute dal giudice Andrea Mirenda “associazioni di diritto privato che si sono impadronite di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm distribuendo incarichi e trasformandolo in un mezzo di asservimento dei magistrati… Il Csm non è più l’organo di autotutela, non è più garanzia dell’indipendenza, ma è diventato una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati ma faziosi che promuovono i sodali e abbattono i nemici”. Per comprendere a quale punto di non ritorno sia giunta la degenerazione correntizia basterà rifarsi alla frase rivolta a Robledo da Bruti Liberati – mai dallo stesso smentita e ritenuta una “battuta di spirito” – “ricordati che al Plenum sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, un voto di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al consiglio che Robledo mi rompeva i c. e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata nominata la Gatto che poi avremmo sbattuto all’esecuzione”. A quando, allora, lo scioglimento delle correnti?

il manifesto 19.4.18
Morti per amianto all’Olivetti: imputati tutti assolti in appello
Giustizia Negata. Il secondo grado a Torino ribalta la sentenza di Ivrea: scagionati i fratelli De Benedetti. L’amarezza dei familiari, del sindacato e del sindaco: siamo senza parole.
di Mauro Ravarino


TORINO Tutto capovolto. La Corte d’appello di Torino, presieduta da Flavia Nasi, ha assolto tutti gli imputati del processo per le morti da amianto alla Olivetti di Ivrea. Per i giudici «il fatto non sussiste». In primo grado fra i condannati c’erano i fratelli Carlo e Franco De Benedetti, ex massimi dirigenti dell’azienda informatica, ai quali, nel 2016, fu inflitta una pesante condanna di 5 anni e 2 mesi per omicidio colposo e lesioni. E c’era anche l’ex ministro Corrado Passera, condannato in primo grado a un anno e 11 mesi di reclusione. «Siamo stupiti e amareggiati, un colpo di spugna così non ce lo aspettavamo – ha detto a caldo Federico Bellono, segretario generale della Fiom di Torino – leggeremo le motivazioni ma il messaggio è comunque devastante, perché decine di lavoratori sono morti per l’esposizione all’amianto e non hanno avuto giustizia».
Il processo nasce da un’inchiesta avviata dalla procura di Ivrea nel novembre 2013 che riguardava i decessi per mesotelioma di alcuni ex operai morti tra il 2008 e il 2013. A Ivrea, dove l’Olivetti resta un simbolo nel pantheon della città, il tribunale aveva condannato gli imputati. A Torino, la sentenza non è stata confermata. L’appello si era aperto il 7 febbraio scorso con un colpo di scena. La Procura generale aveva consegnato alla Corte e alle difese degli imputati una documentazione, risalente al periodo compreso tra il 1978 e il 1986, ritrovata in un magazzino della Telecom di Strada Settimo, a Torino, e riferita all’acquisto di materiali utilizzati per l’assemblamento delle macchine da scrivere, fra cui il talco che – secondo la tesi dell’accusa – era contaminato d’amianto. Secondo il pg Carlo Maria Pellicano, quel talco sarebbe stato utilizzato in Olivetti anche dopo il 1981, almeno fino al 1986, diversamente da come affermato dalle difese degli imputati. Un elemento che, però, la Corte non ha ritenuto utile per una condanna.
Sarebbe stata la controversia scientifica sul tema del cosiddetto «effetto acceleratore» nelle malattie provocate dall’amianto a far cadere le accuse contro gli imputati. La tesi della difesa è che gli imputati non hanno colpe per le malattie che colpirono i lavoratori: l’esposizione all’amianto risalirebbe agli anni Sessanta e a essere processati sono stati i vertici che si insediarono a partire dal 1978. Secondo alcuni scienziati a essere decisivi per lo sviluppo della patologia sono i primi due anni. Altri però sostengono che esiste un «effetto acceleratore» che vale anche per le epoche successive: se è così, il dirigente diventa colpevole. Il problema è che l’argomento «effetto acceleratore» resta controverso. La vicenda non è conclusa.
«Finché non saranno depositate le motivazioni non sapremo il perché di questa sentenza. Ma se emergeranno dei profili per l’impugnazione, la impugneremo. E daremo battaglia», ha sottolineato il pg Pellicano, uno dei tre magistrati che hanno sostenuto la pubblica accusa. «Per ora – ha concluso – noi e la difesa siamo sull’1-1». Soddisfatto Tomaso Pisapia, legale di Carlo De Benedetti: «I giudici d’appello sono stati molto coraggiosi nel distruggere una sentenza di primo grado che era profondamente ingiusta».
L’amarezza a Ivrea è alta: la sensazione è che quelle del Canavese siano state considerate «morti di serie B» rispetto ad altri procedimenti giudiziari molto simili. «Siamo tutti molto sorpresi. Nessuno se lo aspettava», ha dichiarato il sindaco di Ivrea, Carlo Della Pepa, dopo la sentenza. «Sono due sentenze che mi lasciano sbalordito perché vanno l’una in contraddizione dell’altra». Per Bellono della Fiom ai giudici di Torino è forse «mancato il coraggio» dopo la sentenza di primo grado, in tribunale a Ivrea, che, invece, aveva condannato tutti gli imputati. «Ovviamente questa tragica vicenda non può chiudersi in questo modo – ha aggiunto il sindacalista – altri procedimenti sono ai nastri di partenza: le famiglie delle vittime non meritano una tale scandalosa impunità».

il manifesto 19.4.18
Ventimiglia, sgomberata la tendopoli sul fiume Roja
Ci vivevano circa 200 migranti. All’alba l’intervento delle ruspe mandate dal Comune
di Gabriele Proglio


VENTIMIGLIA Nuovo sgombero a Ventimiglia, deciso dal sindaco Pd Enrico Ioculano. Alle prime luci dell’alba, un ingente schieramento di forze di polizia – oltre cento tra Questura, carabinieri, guardia di finanza e municipale – ha circondato il campo di via Tenda. All’interno vivevano, da ormai oltre cinque mesi, più di duecento persone. Afghani, somali, eritrei, etiopi. Ma anche algerini, tunisini, sudanesi. Alcune le donne. Molti i bambini. Chi ha potuto, si è messo in marcia nella notte per attraversare la frontiera. Gli altri sono rimasti.
Alle sei il via alle operazioni di cleaning. Ancora una volta questo termine è stato usato per abbonire la pillola, per celare, dietro un’azione di pulitura delle sponde del fiume Roja, una vera e propria operazione militare contro chi non ha nulla. Ancora una volta il diritto internazionale è stato terreno di battaglia per ridefinire i poteri sui territori. E non sorprende, dunque, che sia stato dato il mandato, da parte della municipalità di Ventimiglia, a un’azienda privata, la Docks Lanterna, per ripulire la zona da tende e baracche. Le ruspe hanno distrutto tutto e portato via vestiti e materassi.
Decine di persone, appartenenti ad associazioni e a ong hanno seguito lo svolgimento dei lavori. In molti hanno aiutato chi era rimasto nel campo a raccogliere i pochi effetti personali. Intorno alle dieci il campo era completamente militarizzato. Improvvisamente, ha preso fuoco una delle casette. Probabilmente, questo è frutto dell’esasperazione di chi, dopo mesi di notti all’addiaccio e senza alcun servizio igienico, si trova nuovamente per strada ed è, per l’ennesima volta, sotto i riflettori della stampa. Non sono state date alternative. Ed è comprensibile la rabbia e la frustrazione. Anzi, l’incendio, e la sua spettacolarizzazione da parte di gran parte dei media, è il simbolo di una guerra, a bassa intensità, che si sta combattendo sul confine.
L’alternativa non esiste. L’unica possibilità era spostarsi al campo della Croce Rossa. Per entrarvi, però, è necessario essere schedati. Vi è un coprifuoco da rispettare ed è presente un presidio costante della polizia. Ma, soprattutto, è obbligatorio farsi prendere le impronte digitali. Sebbene le autorità chiariscano che i dati non entrano nel circuito di controllo delle frontiere, moltissimi migranti dubitano. Ed è normale. Chi ha attraversato il deserto, subito le violenze delle carceri libiche, chi si è aggrappato a un gommone per arrivare a Lampedusa, certo non rischia di far fallire il progetto migratorio per così poco.
La scorsa notte decine di persone hanno cercato di attraversare il confine, passando per le montagne. Sono oltre trenta i fermati dalla polizia francese. Identificati, sono stati rimandati in Italia. Altri, rendendosi conto di non riuscire a farcela, hanno fatto retromarcia e sono ritornati a Ventimiglia, senza più un posto per la notte. C’è anche chi ce l’ha fatta, come Abdul. Ma una volta arrivato a Menton, è stato bloccato dalla polizia e rispedito in Italia, in modo illegale. Le forze dell’ordine stanno controllando gran parte dei sentieri che portano in Francia. Il passo della morte, ad esempio. Quello, per intenderci, percorso da Grabriele Del Grande in «Io sto con la sposa». Anche gli altri passaggi sono presidiati dall’esercito e praticamente inaccessibili.
Questa non è solamente l’Europa di Schengen e di Dublino, è l’Europa delle polizie. La militarizzazione dei territori di frontiera è tale da rimettere in discussione gli stessi regolamenti comunitari e gli accordi transfrontalieri. Ne è l’esempio il respingimento dei minori non accompagnati da parte della polizia francese. Numerose associazioni e ong – tra cui Asgi, Amnesty International France, Intersos, Caritas Ventimiglia-Sanremo, Diaconia Valdese, Terre des Homes, Oxfam – hanno documentato e denunciato questi respingimenti, in violazione della normativa internazionale e dei diritti umani. Si tratta di minori che fuggono dall’Eritrea, dal Sudan, dalla Guinea, dal Mali, dalla Costa d’Avorio; minori che non sono stati iscritti a scuola né a corsi di formazione, senza permesso di soggiorno e tutore. La maggior parte deve scegliere tra l’attendere un anno l’ottenimento del ricongiungimento famigliare o attraversare irregolarmente le frontiere. I più propendono per questa seconda opzione. La Francia da almeno due anni li rinvia in Italia, senza permettere loro di presentare domanda d’asilo.
Ieri sera ancora non si sapeva dove avrebbero dormito le persone del campo di Via Tenda. Qualcuno dice nella hall della stazione ferroviaria. I lavori di sgombero, invece, andranno avanti ancora per alcuni giorni. La polvere che si alza ha cancellato le speranze di tante persone. Ciascuno di loro aveva il suo buon motivo per arrivare in Europa. Un motivo per sperare in un futuro migliore, oltre il Mediterraneo. Assan è scappato dalla guerra in Siria, dalle bande dell’Isis. Amal ha lasciato l’Eritrea ancora piccola, la mamma l’aspetta in Francia. «Sono di Mogadiscio, là c’è il caos», erano le parole di Ahmed. Tutti erano passati per l’inferno della Libia, tra carceri e smugglers. Alcuni, come Albert, erano scappati dal Darfur. Speranze ancora una volta cancellate per far posto all’Europa delle nazioni e dei confini.

il manifesto 19.4.18
L’urlo «Ebrei», poi le cinghiate: aggrediti due giovani a Berlino
Germania. Secondo i dati del Bundestag, sono 681 i casi di antisemitismo registrati nel paese ogni anno. Stavolta è toccato a due giovani di 21 e 24 anni, un tedesco e un israeliano aggrediti da tre sconosciuti
di Sebastiano Canetta


Presi a cinghiate al grido di «ebrei» solo perché indossavano la kippah. Aggrediti per strada in pieno giorno nel cuore del quartiere radical-chic della capitale che si immaginava popolato solo di hypster, turisti, studenti-Erasmus.
Succede a Berlino nel luogo più inaspettato e meno suscettibile al rischio di obiettivo sensibile. Ma accade ancora in Germania dove l’antisemitismo rimane un problema storico che continua a coincidere con cronaca e attualità. Tanto che il numero di casi analoghi viaggia al ritmo di 681 all’anno, come segnalano dai dati depositati al Bundestag.
Stavolta tocca a due ragazzi di 21 e 24 anni, un tedesco e un israeliano, attaccati a Prenzlauer-Berg da tre sconosciuti, che hanno caricato il filmato su You Tube. Prima l’urlo: «Yahudi» (ebrei in arabo) poi la fuga che i due hanno cercato inutilmente di fermare. A salvarli, la pronta reazione del più giovane e la difesa con il lancio di bottiglie, oltre all’intervento di una donna che in inglese ha minacciato di chiamare la polizia.
Si apre così l’ennesimo fascicolo all’attenzione non solo della politica, «insostenibile» secondo Jdfa, il Forum per la democrazia contro l’antisemitismo. Un faldone da aggiungere agli episodi che il governo ha dovuto ammettere già lo scorso agosto su sollecitazione del deputato dei Verdi Volker Beck.
Nei primi sei mesi del 2017 erano cresciuti di 27 casi i reati violenti e di incitamento all’odio. Per questo «l’ultima aggressione è intollerabile» come monita la portavoce del governo Ulrike Demmer, mentre la ministra della Giustizia Katarina Barley twitta: «E’ una vergogna per il Paese. Dobbiamo fare il possibile per proteggere gli ebrei».

Il Fatto 19.4.18
Scorretti e premiati, i rapper antisemiti tedeschi
Rigurgiti - L’album dei due artisti mediorientali è stato considerato il migliore dell’anno
Scorretti e premiati, i rapper antisemiti tedeschi
di Mattia Eccheli



Il rap antisemita travolge la Germania della musica. L’assegnazione dei premi Echo doveva essere una formale e spettacolare passerella. Come lo era stata per artisti italiani del calibro di Andrea Bocelli, che ha già vinto 7 oscar della musica tedesca, di Claudio Abbado (9), della mezzosoprano Cecilia Bartoli (13) e perfino dei Kastelruther Spatzen (13), i Passerotti di Castelrotto, un gruppo altoatesino di grandissimo successo in Germania. Invece, per i riconoscimenti nelle categorie “miglior album dell’anno” con la raccolta “Jung, brutal, gutaussehend 3” (Giovane, brutale, di bell’aspetto) e “hip-hop/urban national”, la Deutsche Phono Akademie (emanazione dell’associazione delle case discografiche, la Bvmi) ed i due vincitori sono stati investiti delle polemiche.
Si tratta del 33enne Flix Blume, noto come Kollegah, e del 31enne Farid Hamed El Abdellaoui, in arte Farid Bang, musicista tedesco di origini marocchine nato nella enclave spagnola di Melilla, in nord-Africa. Sull’interpretazione di alcuni passaggi del brano “0815” non ci sono dubbi. Due frasi sono agghiaccianti, soprattutto nella delicata fase politica che sta attraversando l’Europa, scossa da rigurgiti xenofobi e neonazisti. “Il mio corpo scolpito meglio di un detenuto di Auschwitz” e “faccio di nuovo l’Olocausto, arrivo con le molotov”, cantano i due. Anche durante la proclamazione il pubblico ha mostrato il proprio dissenso, accompagnando il verdetto con bordate di fischi. Il premio ha innescato reazioni forti, in un paese che non smette di fare i conti con il proprio ingombrante passato. I populisti di destra della Alternative für Deutschland non hanno raccolto solo i voti del ceto medio deluso e non pochi sono i movimenti che si ispirano al Terzo Reich.
Nel paese esiste una frangia di estremisti che i servizi segreti tengono sotto controllo. In seguito all’assegnazione dei riconoscimenti, vari artisti hanno deciso di restituire i premi ricevuti in passato. È il caso del quartetto Notos, del musicista rock Marius Müller-Westernhagen, del produttore Klaus Voormann, del pianista Igor Levit e del direttore d’orchestra, Enoch zu Guttenberg. Voormann ha diffuso una nota per esprimere la sua incapacità di comprendere “la mancanza di responsabilità” da parte degli organizzatori ai quali imputa di “non essere riusciti a trarre per tempo le dovute conclusioni”. Voormann ha contestato alla Deutsche Phono Akademie di aver anche consentito ai due una “esibizione marziale”. Cristoph Hübner, vice presidente del Comitato di Auschwitz, ha parlato di un “eclatante fallimento del comitato etico”, liquidando come “spettrale” la manifestazione.
Il ministro degli Esteri Heiko Maas ha bacchettato come “vergognosa” la scelta. Già nel corso della serata, la scelta era stata criticata dal cantante Campino. Gli allori dipendono da vendite e classifiche e la Bvmi ha fatto sapere di voler rivedere la procedura d’assegnazione.
Il caso di Kolleagh e Farid Bang, che in passato si sono già visti negare ripetutamente esibizioni per via dei testi dei loro brani, non è isolato. Anche a Xavier Kurt Naidoo, 46 cantante tedesco figlio di una sudafricana con radici irlandesi e di un indo-tedesco, sono state attribuite posizioni antisemite, tanto che la sua partecipazione alla Eurovision Song Contest del 2016 era stata annullata. In sua difesa – i testi sono stati definiti anche anti-americani ed anti-democratici – erano tuttavia intervenuti fior di artisti, al di sopra di ogni sospetto. Nella Germania cosmopolita, interrazziale e interreligiosa (sull’appartenenza dell’Islam al paese è in corso un durissimo scontro politico fra la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro degli Interni Horst Seehofer) il dibattito su cosa sia consentito e cosa no è aperto. Soprattutto dopo che anche l’ironia pubblica su Hitler era sbarcata al cinema con il docufilm “Lui è tornato” e che dopo era stata autorizzata la rilettura (critica) del testo chiave del Führer, “Mein Kampf”.

Corriere 19.4.18
Il discorso
Israele sia una casa non una Fortezza (ricordando Uri)
Israeliani e palestinesi ossono stringere un rapporto che nasce nel lutto comune
di David Grossman


La mia famiglia ha perso Uri in guerra, un ragazzo dolce, allegro e in gamba. Ancora oggi, quasi dodici anni dopo, mi è difficile parlare di lui in pubblico. La morte di una persona cara è anche la morte di una cultura privata, personale e unica, con un suo linguaggio speciale e i suoi segreti. Tutto questo è svanito per sempre, e non ritornerà mai più. (...)
È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. (...)
Io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo. (...)
È anche il nostro modo non solo di piangere la perdita insieme, bensì anche di contemplare il fatto che non abbiamo fatto abbastanza per scongiurarla.(...)
Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione. Io spero che potremo celebrare questa ricorrenza per molti anni ancora, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria.
Come definire la casa? La casa è il luogo i cui muri — i cui confini — sono chiari e pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile e serena. (...)
I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni (...) non siamo ancora arrivati a quel punto. Non siamo ancora a casa. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa. La strada per risolvere l’immensa complessità dei rapporti che intercorrono tra Israele e i palestinesi può riassumersi in una formuletta: se i palestinesi non hanno una casa, nemmeno gli israeliani potranno averne una. Ma anche l’opposto è vero: se Israele non ha una casa, nemmeno la Palestina sarà casa per il suo popolo. (...)
Quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa. E quando il ministro della difesa Lieberman tenta di impedire ai palestinesi costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia casa. (...)
E quando il governo israeliano è pronto a mettere a rischio la vita dei richiedenti asilo e di deportarli in luoghi a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è molto meno di una casa ai miei occhi. E quando il primo ministro diffama e accusa le organizzazioni per i diritti umani Israele diventa ancora meno di una casa. Per tutti. (...)
Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere. Perché riconosciamo quanto sia bello per noi avere uno Stato, e siamo orgogliosi delle sue scoperte e conquiste in tantissimi campi. (...) Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo ideale è stato snaturato. (...)
Ci è consentito sognare. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: «Una nazione libera nella nostra terra». E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

La Stampa 19.4.18
Massimo Cacciari
“Scenario incredibile se i vincitori trattano con i principali perdenti”
intervista di Nicola Pinna


L’unico scenario a cui Massimo Cacciari è certo di non dover mai assistere è proprio questo: «Che il Movimento 5 Stelle tenti di fare un accordo col Pd. Questo mi sembra davvero incredibile. Assurdo che il partito vincitore delle elezioni accetti di essere condizionato dalla forza più sconfitta».
Neanche se a guidare un ipotetico governo fosse Fico, il grillino che in qualche modo sembra più vicino alle idee della sinistra?
«Cambia davvero molto poco. Il vero problema è che i Cinque Stelle dovrebbero ritrovarsi a trattare con Renzi, che ha ancora la guida della parte più forte e più rappresentativa del partito. Non solo: il Movimento dovrebbe accettare le proposte del Pd, dovendo persino concordare i nomi delle persone a cui affidare tutti gli incarichi».
Quale può essere ora la via d’uscita?
«Quella di un governo istituzionale. Per Mattarella questa può essere l’unica soluzione realmente praticabile. Vista la situazione che si è creata, il M5S ha l’ultima possibilità per riuscire a far parte di un governo: quella di un esecutivo in cui sono dentro tutti, scelto dal Capo dello Stato, magari con l’incarico di riformare la legge elettorale. Soltanto in questa situazione i grillini e il Pd potranno stare insieme».
La trattativa tra Lega e M5S oggi è fallita definitivamente oppure c’è un’altra possibilità?
«La soluzione a questo caso resta ancora nelle mani di Berlusconi. Di Maio e il Movimento su questo punto hanno la strada sbarrata: non possono in nessun modo tornare indietro. Sarebbe una figuraccia se facessero cadere il veto che hanno posto fin da subito sull’ex premier. La mossa più utile, se si vuole sbloccare la situazione, potrebbe farla Berlusconi: si faccia da parte».
Ma quanto le sembra probabile che possa accadere?
«Poco, ma sarebbe bello a quel punto vedere se Di Maio e Salvini sono in grado di formare un governo. Tutti gli italiani li potrebbero giudicare alla prova dei fatti. L’alternativa è che i vincitori delle elezioni dicano chiaramente di aver fallito».

La Stampa 19.4.18
Tomaso Montanari
“Chi tocca Silvio muore, non c’è alternativa all’intesa dem-grillini”
intervista di Matteo Indice


«Chi tocca Berlusconi muore: è praticamente successo a Renzi e Di Maio non poteva che comportarsi come ha fatto, altrimenti oltre alla premiership avrebbe perso la faccia».
Stallo insuperabile o l’accordo fra dem e grillini si farà?
«Premessa: vedere l’“avvocatessa” di Silvio Berlusconi consultarsi con lui m’ha fatto un certo effetto. Per me che sono uno storico dell’arte poi, quell’immagine nella cornice di Palazzo Giustiniani ha riportato le lancette dell’orologio parecchio indietro. Ciò detto, che alternative ci sono al Movimento che si allea con il Pd?».
Governi istituzionali, il voto...
«Ma non si può andare avanti o votare all’infinito, con l’idea di trasformare in maggioritario un sistema proporzionale: sarebbe come aprire una noce con un badile. Quelle due forze devono fare una cosa abbastanza semplice, sedersi a un tavolo».
E se Di Maio mette qualche veto?
«È notorio che quando ci si siede a un tavolo per un confronto fra due parti non sovrapponibili, non si può sapere prima come ci si alzerà».
Di Maio ha detto cose tremende del Pd e il Pd di Di Maio.
«Milioni di voti dei democratici sono andati ai Cinquestelle, è questo il dato fondamentale che li mette in comunicazione».
Perché Salvini non molla Berlusconi?
«Mah, ci sono in ballo un po’ di giunte al Nord e poi lui senza la coalizione rischierebbe di ritrovarsi a fare la spalla di Di Maio, e basta».
Ovvero?
«Salvini è il capo del centrodestra perché la Lega è il partito che lì ha preso più voti; ma senza le altre componenti non è il leader di nulla, conta assai meno».
È un momento tetro, drammatico?
«Ma no, la democrazia e le trattative sono una bella cosa, smettiamola con questo strisciante desiderio di autoritarismo. Ci si confronti e magari il Partito democratico smetta di lasciare che la Lega su certi temi, la guerra per esempio, sia l’unica a dire le cose tipiche della sinistra sociale».


Il Fatto 19.4.18
Scuola, oggi la firma del contratto. Gilda in forse, Snals dice no


È prevista oggi la firma del contratto della scuola, dopo la trattativa con i sindacati e il via libera della Corte dei Conti (tra i 37 e i 52 euro netti di aumento e 435 euro lordi medi di arretrati). “Il traguardo raggiunto – commenta la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli – ci consente di dare il giusto riconoscimento professionale ed economico, dopo oltre 8 anni di attesa”. Restano però le voci critiche: se la Snals ha deciso e già annunciato di non sottoscrivere l’accordo mentre la Gilda si riunirà stamattina per decidere. “Viene da chiedersi – commenta invece Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – cosa ci sia da essere soddisfatti: gli incrementi non sarebbero dovuti andare sotto i 300 euro”. Ieri, poi, i sindacati hanno dovuto smentire la notizia circolata online sull’intenzione – scaturita da un gruppo di lavoro al ministero – di aumentare le ore di lavoro dei docenti. “È materia contrattuale. Il comitato potrà elaborare delle proposte ma poi queste dovranno essere confrontate con i sindacati. Non è comunque materia che rientra nel contratto che si firmerà oggi, scritta così è una bufala” ha detto Lena Gissi, della Cisl, in linea con quanto riferito anche da Cgil, Uil e Gilda.

Repubblica 19.4.18
Insegnante minacciato in aula
I prof umiliati e il rispetto da insegnare
di Chiara Saraceno


Uno studente di un istituto tecnico di Lucca ha reagito a una insufficienza prima ingiungendo in malo modo al professore di dargli sei, poi, di fronte al rifiuto, ha chiesto retoricamente chi comandasse e ha ingiunto al professore, che si è ben guardato dall’obbedire, di inginocchiarsi. Il tutto tra le risate dei compagni, registrate nel video che ha ripreso la scena. Di che cosa ridevano?
Del professore che vedevano umiliato dall’atteggiamento di un loro compagno, o di quest’ultimo, del suo modo così sgraziato, così eccessivo e “fuori di testa” di reagire a un brutto voto da farlo apparire psicologicamente disturbato? O di tutti e due?
Qualcuno si sarà forse anche spaventato.
Qualcuno avrà fatto finto di nulla. Non si è sentito nessuno consigliare al compagno di smetterla, quasi aspettassero di vedere come andava a finire. Chissà, forse l’insegnante spaventato avrebbe obbedito all’ingiunzione di inginocchiarsi; o invece avrebbe preso il ragazzo per il bavero, mettendosi dalla parte del torto.
O forse quel ragazzo è considerato dai compagni come uno non “dei loro”, uno di cui ridere quando ne fa una delle sue e da mettere alla gogna sui social. Non ne sappiamo nulla, a parte quel video, che insieme documenta un fatto drammatico e ne cela origini e contesto, oltre alla ragione per cui il video stesso è stato girato e fatto circolare: per divertirsi? Per mettere alla gogna il compagno? Per denunciare un professore di non sapere tenere la classe? Per passare il tempo?
Quel ragazzo che ha minacciato l’insegnante ha certamente problemi comportamentali, deliri di onnipotenza.
Appare un esempio eclatante di quella zona di guerra che troppo spesso sembrano diventati la scuola e il rapporto tra insegnanti, alunni e genitori, dove gli insegnanti appaiono sempre più delegittimati, privati di qualsiasi autorevolezza.
Ma anche i compagni che assistono, ridono, girano video, come se fossero spettatori di qualche cosa che non li riguarda, mentre altri forse si ritirano spaventati, non sono del tutto estranei a questa strisciante delegittimazione del rapporto educativo. Non sfidano gli insegnanti con comportamenti irriguardosi, eseguono i compiti e le azioni richieste. Ma se ne stanno come ostaggi passivi del lungo tempo scolastico, da vivacizzare con gli imprevisti del comportamento dei compagni o degli insegnanti, documentati dal video di un cellulare usato come schermo difensivo rispetto alla noia, ma anche a un coinvolgimento in prima persona. Come se si ponessero in una situazione di estraneità rispetto alla relazione educativa, decidendo a priori che non ne può venire nulla di interessante e sorprendente per sé stessi.
Il ritiro dell’attenzione interiore, della curiosità, della disponibilità a farsi coinvolgere, è meno drammatico della violenza verbale e fisica. Ma, mentre può costituirne il terreno di coltura, non è meno problematico per il rapporto educativo che costituisce la ragione stessa dell’insegnamento. Punire gli atteggiamenti violenti e non consentire la mancanza di rispetto è doveroso e necessario. Ma non elimina la questione del come educare al rispetto, all’attenzione, anche alla passione per l’apprendimento e al superamento dei fallimenti, a scuola e in famiglia.

Repubblica 19.4.18
Hollande
“La sinistra perde perché su sicurezza e migranti è tra l’incudine e il martello”
intervista di Anais Ginori


L’ex presidente François Hollande François Hollande, 64 anni, è stato il 24° presidente della Repubblica francese dal 2012 al 2017. Dopo la fine del primo mandato ha scelto di non ricandidarsi all’Eliseo. Il successore Emmanuel Macron è stato consigliere di Hollande e ministro dell’Economia nel governo a guida socialista.
Hollande ha appena pubblicato in Francia il libro “Les leçons du Pouvoir” (Stock, 2018).
Putin guarda all’Europa e all’Occidente come corpi deboli, senza coesione, in declino E infatti è legato alle estreme destre ovunque Cosa piaceva di Renzi?
Che fosse giovane, intrepido, audace Poi le stesse qualità sono state interpretate come segno di arroganza

PARIGI «Ero e rimango socialista. Non mi ritiro dalla politica». Nel nuovo ufficio affacciato sui giardini delle Tuileries, con il labrador Nemo che passeggia tra le stanze, François Hollande appare calmo, affabile, seppur meno gioviale e spiritoso di come l’avevamo conosciuto qualche anno fa. Nel libro appena pubblicato, Les leçons du Pouvoir, l’ex presidente tira le somme del quinquennio all’Eliseo. Ripercorre i momenti più forti, tra cui gli attentati a Parigi del 2015, la guerra in Mali, mentre glissa sulle foto col casco, la separazione da Valérie Trierweiler, scaricando sui giornalisti una parte delle colpe.
«Ho fatto scelte giudicabili – ammette – ma noto che nel mio caso i media hanno rotto una certa tradizione francese di rispetto della vita privata». Hollande rivendica di aver lasciato un Paese con i conti risanati e in ripresa, «senza aver mai applicato l’austerità». Per la riabilitazione è presto. «Spero che un giorno i francesi mi guarderanno in modo diverso». Uno dei suoi rimpianti è non essere intervenuto in Siria contro Assad nell’estate 2013 a causa dell’improvviso voltafaccia di Barack Obama. «Quella rinuncia ha avuto conseguenze notevoli sull’equilibrio non solo della regione ma del mondo».
Che cosa sarebbe cambiato?
«Tutto. La scelta di privilegiare i negoziati non ha fatto scomparire le armi chimiche del regime. Vladimir Putin ha interpretato il dietrofront di Obama come un’opportunità per spingersi più avanti in Siria e in Ucraina. E l’opposizione contro Assad è stata sommersa dagli islamisti».
L’intervento occidentale arriva troppo tardi?
«Approvo la decisione francese di partecipare all’attacco. Vediamo però che il regime ha riconquistato militarmente parte del territorio.
Turchia, Russia, Iran sono pronti a spartirsi la Siria. Uscire dalla crisi è diventato più difficile».
Perché Obama si è tirato indietro all’ultimo minuto?
«È una scelta che non ho condiviso seppur comprensibile. Si era impegnato davanti al popolo americano a non varare nuovi interventi militari».
Alla fine Trump si sta rivelando un alleato più affidabile per la Francia?
«Trump è già intervenuto in Siria nell’aprile 2017. All’epoca stavo ancora all’Eliseo, avrebbe potuto propormi di partecipare. Non l’ha fatto. Adesso lancia una nuova operazione ma al tempo stesso annuncia di voler ritirare i suoi soldati. Non vorrei che questa rappresaglia nasconda un disimpegno militare più ampio».
Macron riesce a far ragionare l’imprevedibile leader Usa?
«Nella diplomazia ci sono le relazioni personali, la qualità degli argomenti, l’intelligenza di capire le situazioni. Ma non si può far niente davanti a un presidente guidato soltanto dai propri interessi».
Trattare con Putin è difficile?
«Combina seduzione e brutalità. È al tempo stesso convincente e minaccioso. Sono estremamente lucido su ciò che pensa dell’Europa e dell’Occidente: li guarda come corpi deboli, moralmente fiacchi, senza coesione, in declino. E infatti è legato alle estreme destre ovunque in Europa. Soltanto una parte dell’estrema sinistra non l’ha ancora capito».
Nel libro descrive Angela Merkel come una cancelliera meno dogmatica di ciò che alcuni pensano.
«Non eravamo sempre d’accordo, in particolare sul sostegno alla crescita e all’occupazione, sull’austerità della politica imposta ai popoli. Ma siamo sempre stati animati dal supremo interesse europeo. Dico spesso: Madame Merkel si prende il suo tempo ma alla fine fa sempre la scelta giusta».
L’Italia è stata lasciata da sola sulla crisi dei migranti, con conseguenze politiche che sono sotto gli occhi di tutti. Perché l’Europa non ha fatto nulla?
«È vero. Matteo Renzi non ha mai smesso di allertarci, chiedere una revisione degli accordi di Dublino.
L’ho sostenuto per quanto ho potuto ma ha vinto la politica dello struzzo. L’Europa ha nascosto la testa sotto alla sabbia».
Era il suo unico alleato?
«È così. E lui ne aveva abbastanza di vedere tutti questi consigli europei che non producevano mai decisioni. Posso testimoniare che si è davvero battuto. A volte si è ingiusti nel valutare i leader».
Dietro alla sconfitta di Matteo Renzi c’è anche un dato personale?
«Spesso quel che si ama in un leader diventa poi il suo punto debole. Che cosa piaceva di Renzi? Che fosse giovane, intrepido, audace. Qualche tempo dopo, le stesse qualità sono state interpretate come segno di arroganza».
È preoccupato per la situazione politica in Italia?
«Sì, perché è un nuovo sintomo della crisi democratica che tocca i partiti di governo ovunque in Europa. Su 28 governi europei solo quattro, cinque con la Grecia, sono di matrice socialdemocratica».
La sinistra paga un prezzo più alto quando va al governo?
«Siamo schiacciati tra l’incudine e il martello. Da una parte la destra ci attacca su sicurezza e immigrazione. Dall’altra una parte della sinistra ci considera traditori.
E alla fine dei conti chi vince? I populisti o i conservatori».
En Marche è un movimento conservatore?
«Se mi fossi presentato, Emmanuel Macron non sarebbe presidente oggi. Avrebbero vinto François Fillon o Marine Le Pen. Il mio senso di responsabilità ha impedito che succedesse».
Come ha fatto a non accorgersi della scalata verso il potere del suo ex consigliere e ministro. Ha peccato di ingenuità?
«Quando lavoro con dei ministri, mi fido di loro. Non sospetto ad ogni momento che vogliano prendere il mio posto».
Macron ha raccontato di essere partito dal governo in disaccordo con le scelte economiche, come l’aliquota al 75% sui patrimoni più alti.
«Non rimpiango nulla di quella misura. E dare oggi vantaggi fiscali agli stessi contribuenti più ricchi, scegliendo di tassare pensionati e redditi più modesti mi pare fonte di una forte incomprensione».
Quando ha parlato con Macron l’ultima volta?
“Al momento del passaggio di consegne all’Eliseo, quasi un anno fa».

Il Sole 19.4.18
Svolta e continuità
La «governabilità rivoluzionaria» di Cuba senza Castro
di Roberto Da Rin


Un nuovo inizio, forse. Quello della “ governabilità rivoluzionaria”, un ossimoro che a Cuba non dispiace. Ancora una volta sarà la storia a giudicare, ripeterebbe il Lider Maximo Fidel. Intanto in “quest’isola dell’oppressioni” o in “quest’isola delle meraviglie”, a seconda dei punti di vista, va in scena un cambio epocale.
«Sarà un’altra dittatura, con un altro nome alla presidenza, non ci saranno cambi», dicono i cubano-americani, gli esuli a Miami. «È una svolta, eccome», replicano i cubani legati all’ortodossia, più numerosi di quanto si creda. Chissà. Raúl Castro cede la presidenza a Miguel Díaz-Canel, 58 anni, il primo presidente che rompe la linea dinastica iniziata nel 1959 con Fidel e terminata oggi. Come annunciato due anni fa, Raúl lascia: lo scranno va a un “giovane” di quasi sessant’anni. Un presidente nato dopo la Rivoluzione del lider maximo Fidel Castro, del 1959. Raúl e Fidel, uno vivo, l’altro no, rimarranno due presenze disincarnate ma ingombranti nel nuovo corso. Le grandi sfide sono tre: l’abolizione della doppia moneta, l’autosufficienza energetica e l’abolizione del Partito unico.
La doppia moneta
È la più odiosa delle nemesi, almeno per l’élite cubana più illuminata. E di certo per il popolo cubano. Nel Paese circolano due monete, dal 1994. Il peso cubano (Cup), con cui si pagano i salari statali e il peso convertibile (Cuc), equiparato all’euro, il cui cambio è 20 volte superiore a quello del Cup. È con il peso convertibile che si possono acquistare i beni in vendita a L’Avana. Il doppio sistema monetario ha creato due società parallele e rappresenta la distorsione più marcata del governo rivoluzionario, genera una disuguaglianza palese, un’insuperabile contraddizione per i padri della Revol ucion che avrebbero voluto porre le basi di una struttura sociale innanzitutto egualitaria.
La “libreta”, tessera annonaria con cui ogni famiglia riceve gratuitamente un paniere alimentare, è inadeguata alle esigenze di una sopravvivenza decorosa. L’erosione di benessere è iniziata con la crisi dell’Unione Sovietica che inviava prodotti a prezzi calmierati in cambio di zucchero. Tra il 1989 e il 1993, quel periodo especial, definito così per la durezza della crisi, il Pil è crollato del 35%, il consumo di carne annuo è crollato da 39 a 21 chili pro capite e quello di pesce da 18 a 8. Alcuni prodotti alimentari, con la diffusione dei mercati “agropecuarios”, agroalimentari, sono acquistabili con i pesos cubani. Tutto il resto lo si paga in pesos convertibili, moneda dura, cui hanno accesso i militari, i politici e coloro che lavorano in ambito turistico. Oppure ricevono rimesse dagli Stati Uniti. Rafael Rojas, storico ed economista, indica l’incapacità di generare davvero un’economia mista (pubblico/privato) come «il più evidente tra gli insuccessi del Castrismo». E infatti la società cubana chiede, magna voce, maggiore autonomia, libertà di movimento, accesso a Internet, fine della censura, maggiore facilità di impresa.
Il partito unico
AAA….(R)evolución politica cercasi. Sembrava caduto il muro d’acqua che separa L’Avana da Miami e invece il ciclone Trump ha rimesso tutto in discussione. I consulenti di «The Donald» hanno rievocato lo spettro dell’isola comunista da combattere o almeno avversare. E quindi torna tutto come prima, con il bloqueo, l’embargo americano sempre vivo e il partito unico cubano sempre verde. Vero. Sono state introdotte riforme importanti, ma il modello politico non è stato modificato in modo sostanziale. I due riferimenti, Cina e Vietnam, sono rimasti tali. Il partito resta unico: le elezioni non sono un indicatore del reale sostegno della popolazione al governo: lo scollamento tra sistema di voto ed effettiva adesione alle scelte politiche si è registrato già nel 1998 quando il consenso al partito unico veleggiava attorno al 90%, ma in quelle stesse settimane vennero registrate richieste di visto per gli Stati Uniti provenienti dal 30% degli elettori. A oggi il Partito unico, il Poder Popular non lascia spazio a candidati indipendenti. Non molti anni fa è stato sabotato l’accesso a 170 candidati indipendenti che avrebbero creato un mercato politico-elettorale. Sono questi i corposi dossier sul tavolo del nuovo presidente Miguel Díaz-Canel. Un politico certamente conservatore, mai critico con il modello socialista ma capace di intraprendere, pur nel solco della Revolucion, un percorso di riforme.
L’autosufficienza energetica
Il periodo più duro. Quello che ha incrinato le convinzioni più granitiche dei castristi, dentro e fuori Cuba. È il “periodo especial”, appunto, quella stagione di ristrettezze seguite al tracollo dell’Unione Sovietica. Erano gli anni Novanta, quando le studentesse diventavano jeneteras e si offrivano ai turisti per pochi dollari. Oltre a quello alimentare è stato quello energetico il deficit più deflagrante. Negli anni a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta vi sono stati continui “apagones”, blackout. Fino a 15 al giorno. La soluzione è arrivata dal Venezuela; il governo amico di Hugo Chavez – uno dei pilastri di quella Alianza bolivariana che offriva mutuo soccorso ai Paesi soci – forniva a Cuba circa 90mila barili al giorno di petrolio. Petrolio in cambio di medici e maestri cubani che hanno rafforzato il sistema scolastico e quello sanitario del Venezuela. Un patto durato a lungo. Ora però il Venezuela del presidente Nicolas Maduro è impantanato in una crisi drammatica. Il crollo del prezzo del petrolio ha amplificato gli errori del governo di Caracas e L’Avana non potrà contare a lungo su questa rendita di posizione. Ecco perché l’approvvigionamento energetico è uno dei fattori critici di (in)successo della Revolución cubana. I rapporti tra Venezuela e Cuba rimangono strettissimi e c’è chi sostiene che la permanenza al governo di Maduro sia imputabile solamente al controllo militare esercitato dall’Alto comando basato a L’Avana.
Le elezioni presidenziali del Venezuela, in programma il 20 maggio prossimo, saranno seguite con particolare apprensione dal neo presidente. Sì perché, nella pur improbabile ipotesi di sconfitta di Maduro, L’Avana potrebbe risvegliarsi nel baratro di un’altra grave crisi energetica. Un incubo. A meno di non chiedere soccorso agli amici lontani, Russia e Cina che, vista la posizione geografica dell’isola, difficilmente direbbero di “no”.

il manifesto 19.4.18
Il manicomio di Girifalco. Come impazzire di guerra
«I demoni del mezzogiorno», di Oscar Greco pubblicato da Rubbettino
Complesso Monumentale Girifalco (CZ)
di Claudio Dionesalvi


Storditi dalle bombe, feriti nella mente, terrorizzati dalla vita in trincea, scioccati per la morte spaventosa dei commilitoni. Molti dei soldati che impazzirono al fronte durante la prima guerra mondiale, furono ricoverati nel manicomio di Girifalco, in provincia di Catanzaro. Le loro traversie, quelle de I demoni del mezzogiorno, sono narrate in un libro pubblicato da Rubbettino (pp. 256, euro 18) e scritto da Oscar Greco, docente universitario di storia contemporanea, che già in altri suoi studi ha ricostruito importanti vicende politiche e sociali. Sue sono le più dettagliate ricerche sugli anarchici calabresi emigrati oltreoceano, sull’epistolario del ministro comunista Fausto Gullo, sugli effetti nefasti dell’industrializzazione nel Mezzogiorno.
Più che una lineare monografia, sono almeno tre i percorsi di ricerca che s’intrecciano. A fonderli è il tema della sofferenza. Nel suo progressivo allargarsi, lo zoom disvela i tratti della vita quotidiana all’interno dell’istituzione totale di Girifalco, l’impatto della guerra sull’Italia del primo novecento, la condizione di chi all’epoca soffriva di disagio psichico.
ESPLORANDO l’arco cronologico dal 1881 al 1921, in questo lavoro introdotto dalla prefazione di Mary Gibson, Greco si concentra sul rapporto tra guerra, follia, pregiudizio e marginalità. La struttura manicomiale calabrese, indagata dalle viscere dei suoi archivi, diviene così periscopio, osservatorio elettivo sulla storia della psichiatria in Italia e le prassi terapeutiche adottate in base ai differenti approcci scientifici. Preziosi i paragrafi dedicati all’influenza della dottrina lombrosiana, matrice dell’atavismo nell’anamnesi delle patologie mentali. Interessante anche la ricognizione sulla teoria del «costituzionalismo degenerativo dei calabresi», inquadrato nel mito negativo della «razza delinquente». L’immane tragedia del primo conflitto mondiale fiaccò definitivamente la società meridionale, già gravemente provata dalle politiche repressive adottate dallo Stato sabaudo nei decenni post-unitari. La guerra del ‘15-’18 ne sterilizzò le relazioni sociali e i legami umani.
SOTTRAENDO migliaia di ragazzi alle proprie famiglie, oltre che degli affetti, le privò di preziose braccia che avrebbero potuto provvedere al loro sostentamento. «L’espansione del sistema manicomiale nel nostro Paese – scrive Greco – ha avuto una singolare caratteristica rispetto al panorama europeo; si è attuata solo dopo l’Unità e ha coinciso con la formazione della Nazione. Come dire che nel momento stesso in cui l’Italia costruiva le sue città, il suo sistema giuridico, gli enti e le sue istituzioni, ha anche costruito i luoghi ove confinare i soggetti non presentabili e non in grado di contribuire alla costruzione della nuova società: i folli, i derelitti, i vagabondi, gli oziosi, in una parola le «classi pericolose» per l’ordine borghese».
TRA I SUPERSTITI dei combattimenti, durante e dopo il quadriennio in trincea, tantissimi tornarono affetti da nevrosi di guerra. È significativo che tale patologia in taluni casi colpì anche persone distanti dalle zone del conflitto, familiari di giovani impegnati nella Grande guerra. In virtù di un attento studio delle cartelle cliniche, Greco riserva pagine autonome alla condizione delle donne internate: «Nel manicomio di Girifalco finivano, al pari delle vere malate, quelle che si discostavano dall’ideale di madre e sposa esemplare e che con le loro condotte e le loro esuberanze non conformavano il proprio stile di vita agli stereotipi culturali dominanti».
Sia in merito alla questione di genere sia nell’analisi del disperato tentativo di sfuggire al mattatoio bellico, che alcuni soldati attuarono fingendosi malati, riaffiora la riflessione sulla perpetua difficoltà di individuare un confine tra normalità presunta e patologia mentale. Il libro offre una carrellata di foto che ritraggono le attività giornaliere all’interno del manicomio di Girifalco, la sua natura di Panopticon. Fuori da qualsiasi tentazione di sprofondare nella retorica antimilitarista, con scientifica freddezza il messaggio rimane quello di sempre: uccidendo milioni di persone, la guerra produce fantasmi non solo nel mondo esterno, ma anche e soprattutto nella psiche umana.

Il Fatto 19.4.18
Le cimici di Stalin e Secchia contro Togliatti e Nilde Iotti
Ricoverato a Ivrea. Togliatti dopo l’incidente del 1950Roma 1951 - La “Vigilanza” del Pci decide di spiare il segretario: la sua compagna lo influenza troppo ed è vicina al Vaticano
di Fabrizio d’Esposito


Il 22 agosto 1950, poco dopo mezzogiorno, un’Aprilia grigia targata Roma percorre la strada provinciale Ivrea-Aosta. Al termine di un tratto in salita, ci sono una curva e un bivio e c’è un camioncino fermo in mezzo alla strada. L’auto grigia prosegue e il camioncino, un ambulante di verdura, svolta bruscamente a sinistra. L’autista dell’Aprilia frena ma l’impatto sembra inevitabile. A quel punto sterza a destra e l’auto va a sbattere contro un paracarro, ribaltandosi completamente.
Sull’auto ci sono quattro adulti e una bambina: Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista; la sua compagna Nilde Iotti e la piccola Marisa Malagoli, sorella di Arturo, uno dei sei operai uccisi quell’anno a Modena dalla polizia del dc Scelba; l’autista di nome Zaia; la guardia del corpo del compagno “Ercoli”, Giacomino Barbaglia. Reduce dalla Valsesia, la “comitiva” è diretta in Valtournenche, in Valle d’Aosta, dove abita Cristina Togliatti, sorella del segretario. Il “Migliore” è il ferito più grave. Solo “contusioni multiple”, però. E sulla fronte ha un grosso livido. Viene ricoverato all’ospedale di Ivrea.
L’inizio degli anni Cinquanta è il cuore della stagione centrista della feroce repressione anticomunista della Dc di De Gasperi e Scelba. Gli americani hanno calato completamente il loro ombrello, economico e politico, sull’Italia e i governi dell’unità antifascista sono finiti nel 1947. Poi il 18 aprile 1948, con l’epica vittoria scudocrociata contro il Fronte socialcomunista. Dal maggio dal 1947 alla metà del 1950 le forze dell’ordine ammazzano 87 lavoratori, in gran parte comunisti. È la Guerra fredda. L’Italia sceglie il Patto atlantico e il Pci è fedele all’Urss di Stalin. Il grande Partito comunista ha oltre due milioni di iscritti, 10mila sezioni e 52mila cellule. Nella sede nazionale di Botteghe Oscure il capo dell’Organizzazione è il “rivoluzionario” Pietro Secchia, vicesegretario. Il Partito è strutturato militarmente e l’Ufficio Quadri e la Vigilanza controllano fino all’ossessione dirigenti e militanti.
Il 31 ottobre 1950, Togliatti è nella clinica Salus di Roma. A distanza di due mesi dall’incidente in Valle d’Aosta le sue condizioni sono peggiorate. Ha frequenti mal di testa e quel giorno ha perso conoscenza. Deve essere operato alla testa e ad autorizzare l’intervento sono Secchia e Luigi Longo, l’altro vicesegretario. Nell’operazione vengono asportati due grossi grumi di sangue. Tutto va nel verso giusto e Togliatti si risveglia subito. Il problema è un altro, però. Dal suo letto il compagno segretario ha chiesto a Secchia di indagare sul periodo che va dal misterioso incidente del 22 agosto al ricovero di fine ottobre. Il sospetto, Secchia, già lo conosce. Glielo ha confidato Mario Spallone, il medico personale di Togliatti: avvelenamento. Già dal 1948, dopo l’attentato di Pallante, i sovietici accusano i compagni italiani di non fare abbastanza per la sicurezza del “Migliore”. In tutto il Paese il clima è cupo e gli americani hanno allestito l’operazione Stay- Behind. La famigerata Gladio per reprimere un’eventuale insurrezione comunista. Ma l’inchiesta “interna” sul presunto avvelenamento non dà riscontri.
Roma un anno dopo. Alla fine del 1951, a dicembre. Una squadra della Vigilanza di Botteghe Oscure è nei pressi della casa di Togliatti, in via Arbe a Roma. Sono in tre. Aspettano che il loro segretario vada via. Poi entrano e piazzano vari microfoni: nel tinello, nello studio, nella camera da letto. L’ordine è arrivato dall’Ufficio Quadri, dove il vice è Giulio Seniga, comunista ambiguo e fedelissimo di Secchia, che poi scapperà con la cassa nel 1954 provocando la fine politica del suo capo. L’inaudito blitz del Partito per spiare Togliatti origina dalla diffidenza verso Nilde Iotti, considerata vicina al Vaticano. La via parlamentare e italiana al socialismo indicata dal “Migliore” coincide, secondo Mosca e i “rivoluzionari” di Secchia, con una linea troppo morbida di fronte alla repressione dc. E dieci mesi prima, Togliatti, ha rifiutato “l’invito” di Stalin e della direzione del Pci di andare a Praga a dirigere il Cominform. In quell’occasione Secchia accusò Togliatti di farsi influenzare troppo da Iotti.
La storia dei misteri del togliattismo negli anni Cinquanta, prima della morte di Stalin nel 1953, è stata ricostruita da Vindice Lecis, studioso e giornalista del gruppo Espresso, nel suo ultimo libro: Il nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel Pci della Guerra fredda. Un lavoro che ne segue altri due analoghi, La voce della verità e L’infiltrato. E la conferma che negli archivi del Pci c’è ancora tanto da raccontare.

Corriere 19.4.18
Scienza
L’universo e i suoi meccanismi spiegati per Raffaello Cortina dal divulgatore Neil de Grasse Tyson
Guardare il cielo per capire noi stessi Il segreto (semplice) dell’astrofisica
di Edoardo Boncinelli


«L’universo non è obbligato ad avere un senso per te». Questa dichiarazione d’esordio ci chiarisce che abbiamo a che fare con un testo scientifico, anche se di carattere divulgativo. Stiamo parlando di Astrofisica per chi va di fretta di Neil deGrasse Tyson (edito da Raffaello Cortina), un fisico americano che tanto sta facendo per la divulgazione e la formazione di un’accettabile cultura scientifica nella gente. Si tratta di un’introduzione semplice e relativamente concisa all’astrofisica dei nostri giorni, uno dei capitoli più appassionanti dell’avventura scientifica.
È curioso il destino dell’astronomia e della cosmologia. L’uomo ha sempre alzato gli occhi al cielo e ha osservato quello che si vedeva lassù. Buona parte della prima «scienza» e della prima filosofia sono nate da questa sua abitudine. Per non parlare dell’astrologia, l’arte divinatoria che fa ancora dire a qualcuno che il destino è scritto nelle stelle. Chissà perché. Verso la metà del secondo millennio della nostra era l’osservazione del cielo è divenuta addirittura protagonista di accese dispute e di quella che è, forse, l’unica grande rivoluzione scientifica della storia. Da una parte abbiamo avuto le alate speculazioni di Giordano Bruno sull’infinità dei mondi, dall’altra la rovente contrapposizione fra visione tolemaica e visione copernicana delle vicende del cielo e delle stelle. Ai tempi di Galileo il sole e le altre stelle divennero oggetto di roventi dispute sul piano scientifico e su quello religioso e proprio intorno all’anno 1600 ci si mise anche l’astronomia osservativa, mostrando in cielo la presenza di stelle che prima non c’erano e che dopo non ci saranno, cioè nove e supernove, facendo così toccare con mano a tutti quanti che il cielo non è affatto immutabile.
In questo clima arroventato dalle dispute sulle questioni celesti nacque il metodo sperimentale della scienza che tante applicazioni ha trovato sia quaggiù che lassù. E per un paio di secoli almeno, lo studio del cielo ha rappresentato al meglio la scienza e la concezione dell’universo come palestra di principi e leggi universali.
Poi la fisica, la chimica e la biologia hanno momentaneamente messo in ombra lo studio del cielo. La nuova biologia in particolare l’ha fatta da padrona per buona parte del secolo scorso, monopolizzando la scena della scienza di frontiera, per le sue scintillanti novità e perché la biologia ci riguarda veramente da vicino. Da qualche hanno il cielo o, meglio, l’universo è ritornato in primo piano e ha raggiunto spesso le pagine della cronaca.
Perché? Per diversi motivi, razionali e irrazionali. Intanto, l’astronomia si associa sempre più spesso alla cosmologia, lo studio dell’intero universo e della sua possibile storia, la storia quasi infinita di un’espansione globale da un originario Big Bang, quando tutto era concentrato in qualcosa di simile a un singolo punto, dove temperatura ed energia erano altissime, a una moltitudine di stati intermedi — per dimensione, energia e temperatura —, fino all’universo dei nostri giorni. Un universo ricco di corpi celesti — pianeti, stelle e galassie — che si allontanano vertiginosamente l’uno dall’altro, al punto di minacciarci di perdere in continuazione «compagni d’avventura» così che tra poco, in cielo, vedremo solo gli astri appartenenti alla nostra galassia, la Via Lattea. In questa grande giostra c’è sepolta la storia dell’inizio e, molto probabilmente, della fine di tutto.
In secondo luogo, lo studio scientifico del cielo si salda con frequenza sempre maggiore con la fisica delle particelle elementari a costituire una nuova disciplina che prende sempre più spesso il nome di astrofisica. Spesso studiare certe zone del cielo equivale a fare osservazioni nel ventre dei potentissimi acceleratori di particelle che sono sempre più grandi e più costosi. Qua il cielo ci aiuta ad approfondire la conoscenza della fisica di base. Se a questo si aggiunge la caccia a possibili forme di vita alternative alla nostra e corrispondentemente a pianeti, anche remoti, sui quali ci potremmo rifugiare se la Terra non potesse più ospitarci, si capisce la forza d’attrazione psicologica dell’argomento, anche se di imminente in tutto questo si può anticipare ben poco. Di queste storie parla il libro e dei due problemi che oggi ci assillano maggiormente: l’esistenza della cosiddetta materia oscura e dell’energia oscura.
Tutto ciò non ci darà il senso dell’universo, cioè della vita, ma di meglio al momento non si può fare. E poi questo senso lo possiamo sempre trovare dentro di noi.