Liberazione 29.6.06
Un paleomarxista evangelico
Moravia aveva ragione su Pasolini
di Renzo Paris Una risposta polemica a Ernesto Galli della Loggia che ha accusato la sinistra di aver rimosso l’intellettuale. E soprattutto la sua denuncia della modernizzazione dei costumi e dell’ideologia edonistica e libertaria del consumismoLa polemica si riferisce a un editoriale pubblicato da Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”. La tesi è che la sinistra avrebbe dimenticato Pasolini, soprattutto per quel che riguarda il rapporto con la modernità distruttiva, da un lato, e la resistenza messa in atto dalla Chiesa nei suoi confronti, dall’altro. Avrebbe cioè dimenticato che la modernizzazione del costume italiano, così come indagata dal poeta, ha storicamente avuto i propri soggetti trainanti proprio nei ceti medi, in quella borghesia così disinvoltamente passata dai valori clericali a quelli dell’«ideologia edonistica del consumo». Pasolini metteva in dubbio che le mode libertarie avessero un significato progressista. Anzi, ravvisava in esse un falso progresso, una falsa tolleranza. La stessa libertà sessuale assumeva i contorni di un obbligo, di un dovere sociale, di un dettato maggioritario. Da queste argomentazioni pasoliniane Galli della Loggia trae la conclusione che ben altro giudizio la sinistra dovrebbe avere nei riguardi di quella Chiesa che oggi, pressoché da sola, combatte contro «il dilagare distruttrivo dei tempi», contro «il potere consumistico falsamente tollerante».
Dopo aver archiviato il cattocomunismo Ernesto Galli della Loggia, nell’articolo apparso sul
Corriere della sera dell’altro ieri e intitolato “I valori mutati della sinistra”, punta a archiviare anche la sinistra. Lo fa tirando in ballo Pasolini, ucciso nel 1975 e i suoi
Scritti corsari. In quel libro l’autore di
Petrolio, come è arcinoto, accusa il consumismo dei ceti medi che avrebbero sposato laicismo, tolleranza e conformismo adeguandosi ai tempi, da veri paladini della modernità. Le idee di Pasolini erano rivolte contro la stessa sinistra, che allora era coagulata attorno al Pci. La legge sull’aborto e la tolleranza sessuale erano segni di adeguamento ai tempi.
In sostanza l’editorialista del
Corriere della sera accusa la sinistra di essere la punta avanzata dei poteri forti, pur restando la cappa delle coperture ideologiche che la farebbe sentire pura e minoritaria. Se siete come tutti gli altri, sostiene Galli, smettetela di ritenervi diversi e soprattutto prendete esempio dalla Chiesa di oggi, invece di accusarla di dogmatismo e arroganza, riconoscetevi in quel disperato opporsi al «dilagare distruttivo dei tempi» e cioè datele ragione sui pacs e sulle coppie “insolite”, compresa l’idea del matrimonio cattolico, sano e puro, governato da Dio. Detto in altri termini la sinistra avrebbe indossato i panni di un personaggio di Molière, quel Tartufo che riassume il tipo dell’ipocrita nei secoli.
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto Pasolini che questa sinistra avrebbe dimenticato dopo averlo santificato. E’ vero, oggi gli stessi pasolinisti doc criticano il poeta, spesso per i suoi comportamenti sessuali che non rispondono al politicamente corretto. Fin da
Le ceneri di Gramsci negli anni Cinquanta Pasolini aveva coniugato la dipartita dal Friuli e dalla sua giovinezza in quella società agro-pastorale con la fine della Storia, con l’archiviazione dello «straccetto rosso». Il Pci aveva criticato
Ragazzi di vita perché aveva sottovalutato in quel romanzo le sezioni di borgata. Ma la nostalgia di Pasolini, come s’è visto dopo la sua morte, quella per il mondo non ancora industrializzato, era stata sempre nei cuori dei militanti del Pci che amavano ricordare come era verde la loro valle. Insomma sia i comunisti che l’estrema sinistra degli anni Settanta polemizzarono apertamente con il poeta proprio perché il consumismo era stata la loro bestia nera. Il Sessantotto fu un movimento totalmente anticonsumista. Fu il Settantasette a aprire alla società del divertimento.
Ora occupiamoci della sinistra. La morte di Pasolini aprì una nuova stagione. Laura Betti e il sottoscritto costruirono il suo archivio e la Betti divulgò il verbo pasoliniano, portandolo anche in India. Iniziò la santificazione del poeta sia come vittima dei poteri forti che come vittima dell’ambiente omosessuale che aveva sempre assiduamente frequentato. Mi sono battuto contro quella santificazione scrivendo un articolo sull’
Espresso in cui sostenevo che le tesi di Moravia sulla società italiana erano di gran lunga più avanzate di quelle pasoliniane. Moravia aveva scritto che l’Italia aveva bisogno di fare fino in fondo la rivoluzione industriale e i suoi mali venivano proprio da questa imperfezione mentre il mondo agropastorale pasoliniano era finito tutto in mafia. Ricordo un lettore di una casa editrice inglese che nei primi anni Settanta mi disse che Pasolini non trovava un editore in Inghilterra, che aveva fatto la rivoluzione industriale alla fine del Settecento e ragionava su altri mali. Secondo Galli della Loggia l’uomo della sinistra di oggi, dimenticandosi di Pasolini, avrebbe accettato tutte le rivoluzioni della modernità, compresa quella immateriale e globale, adeguandosi ai tempi, pigramente rivolto alle coperture ideologiche del passato, che ne facevano un minoritario duro e puro. Insomma se si vuole ammodernizzare il paese come Berlusconi, perché differenziarsi da lui? Io trovo davvero stupefacente che un editorialista come Galli della Loggia non si renda conto che Pasolini va contestualizzato, che è morto quando i canali televisivi erano due, non c’era internet e gli extracomunitari se li andava a cercare esteticamente in Africa. Pasolini come lo definì Moravia, era un paleomarxista evangelico. Galli della Loggia vorrebbe una sinistra paleomarxista e evangelica? Oppure tutta dentro il mondo degli squali della finanza internazionale, accanto a Bush per sempre, in Iraq e altrove, contro i sindacati e magari contro le tasse e i lavoratori ostili alla velocità dei guadagni, tutti a senso unico in questo paese? La vorrebbe con famiglie di dieci figli, fedeli a se stessi per l’eternità? Certo la sinistra oggi ha molte anime, ma dov’è quella apertamente consumistica, conservatrice e magari codina? Certo i tempi del paleomarxismo erano rassicuranti e anche quelli di chi con la parola “rivoluzione” nel cervello non aveva visto la realtà del nostro paese, ma oggi perché volere una sinistra appiattita ai poteri forti, indistinta dalla Cdl. Non è che a Galli della Loggia la sinistra proprio non gli va, sia con le coperture ideologiche, sia senza quelle, a volte, senza dubbio, accecanti coperture?
il manifesto 30.6.06
Amnistia: il via a luglio
di A. B.Roma. C'è una data: il 24 luglio la camera dei deputati inizierà a parlare di amnistia. A deciderlo è stata la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Ma l'esame partirà solamente se per quella data la commissione giustizia avrà licenziato il testo di un provvedimento. Marco Pannella, soddisfatto della calendarizzazione della discussione, ringrazia il presidente della camera Fausto Bertinotti per la proposta fatta. «In questo modo, con una garanzia di metodo, potrà essere trattato anche il merito», afferma il leader radicale.
Pesa sulla decisione presa dai capigruppo alla camera anche l'apertura fatta dal ministro della giustizia Clemente Mastella, che nella sua prima audizione alla commissione giustizia del senato aveva dato le cifre del possibile provvedimento: con un indulto per i reati fino a due anni potrebbero uscire di galera 10.481 detenuti, che salirebbero a 12.756 nel caso che l'indulto fosse previsto per i reati puniti fino a tre anni. Se poi in aggiunta all'indulto si ipotizzasse anche un'amnistia per i reati fino a quattro anni, la cifra aumenterebbe di un altro 20%. Nulla si sa invece delle tipologie di reati che rientrerebbero in un possibile provvedimento di clemenza. I Ds sono fermi nel voler escludere i reati legati alla corruzione. E' nota la posizione apertamente contraria ad un provvedimento di clemenza da parte di Di Pietro, che non lo vede come una priorità del governo. Ma c'è anche un «appello per la libertà di movimento» che porta in calce le firme di oltre 50 parlamentari dell'Unione e che chiede l'amnistia e la depenalizzazione per i reati politici e sociali. Dai picchetti sindacali fuori dalle fabbriche alle manifestazioni antiproibizioniste, alle «spese sociali», fino alle occupazioni per combattere l'emergenza casa.
Corriere della Sera 30.6.06L’ALLARME CARCERI Amnistia e indulto, accordo bipartisandi Alessandra ArachiROMA - Alla fine è stato messo all’ordine del giorno: il 24 luglio alla Camera si discuterà di amnistia e di indulto. Lo ha deciso ieri la conferenza dei capigruppo. E Clemente Mastella, ministro della Giustizia, spera che il provvedimento passi con molta rapidità. «È un’estate che è un vero tormento di caldo per chi è fuori, figuriamoci per chi è dentro al carcere», ha commentato il ministro. E ha aggiunto: «È importante sfoltire le carceri in attesa che si rivedano leggi come la Cirielli o la Bossi-Fini: un terzo dei detenuti è extracomunitario e magari in carcere con la revisione di questa legge non ci dovrebbe stare».
Per Mastella questa amnistia è anche un omaggio a papa Giovanni Paolo II che, dice, «arrivò quasi in fin di vita a Montecitorio per chiederci questo provvedimento».
Per il leader radicale Marco Pannella è la sospensione di un digiuno che andava avanti da venticinque giorni: insieme a lui hanno digiunato altre 4.121 persone (3.341 delle quali detenuti).
«Sono diciassette anni che nel nostro Paese non viene fatto un simile provvedimento e questo quando prima ne veniva fatto uno ogni due o tre anni», fa notare Enrico Buemi, deputato della Rosa nel pugno e autore di uno dei due testi di legge che verranno elaborati in commissione. «Saranno incardinati già da martedì per cominciare subito la discussione», garantisce Pino Pisicchio, Italia dei Valori, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio.
Ma per Gaetano Pecorella, Forza Italia, è comunque tardi: «Siamo andati già troppo avanti con il caldo e con la stagione, per lo meno per quel che riguarda l’indulto. È un provvedimento giusto ma prima di illudere i detenuti e fare una cattiveria dovremmo contare seriamente se in Palamento ci sono i voti per approvarlo».
Agi 29.6.06AMNISTIA: ALTRI DIGIUNATORI SOSPENDONO SCIOPERO DELLA FAMEDopo la decisione del presidente della Camera Bertinotti di calendarizzare l'amnistia e l'indulto per il prossimo 24 luglio, anche Daniele Capezzone e Sergio D'Elia (deputati della Rosa nel pugno), Rita Bernardini (tesoriere di Radicali Italiani), Elisabetta Zamparutti, responsabile della campagna Onu di 'Nessuno tocchi Caino', Dante Merlonghi, esponente marchigiano dell'Italia dei Valori, e Benedetto Herling militante radicale e nonviolento, nipote di Benedetto Croce, si aggiungono a Marco Pannella e sospendono dopo oltre tre settimane lo sciopero della fame. "Nel ringraziare il presidente Bertinotti per questa prima importante decisione - e' detto in un comunicato -, i partecipanti al Satyagraha rilanciano la lotta nonviolenta per meglio armarla di forza e consapevolezza diffusa sia sul tema della giustizia negata che sul rispetto della legalita' a partire dalla vicenda degli 8 senatori esclusi dal Senato". (AGI)
aprileonline.info 30.6.06Le realtà afro-italiane dei Cpt L’Ulivo parlava, in campagna elettorale, di superamento di queste strutture. Ma il ministro Amato ne ha ribadito ''l'utilità''di Alba SassoQuesto non è un articolo, è una soffiata. Ci sono migliaia di clandestini a piede libero, dalle nostre parti. È facile trovarli: sono nella piana del Tavoliere, nelle campagne del basso Salento, nei pascoli murgiani. A 50° gradi, al sole, che dove trascorrono il loro tempo l’ombra è un concetto poco meno che metafisico. Un sole che spacca le pietre, in questi giorni, ma anche le coscienze di chiunque abbia il coraggio di guardarsi intorno. Tutta “materia prima” per i cpt, si direbbe. La cui utilità è stata recentemente ribadita dal ministro degli interni. E sulla quale credo la realtà afro-pugliese di questo periodo aggiunga elementi di riflessione da cui non possiamo prescindere. E non tanto perché semplicemente non si può fare a meno di questa manodopera, pena mandare a rotoli l’economia di intere regioni. Quanto perché una riflessione seria su quella che era una delle parole d’ordine del programma dell’Unione, “superamento dei cpt”, non è ancora nemmeno iniziata, e dunque non esistono conclusioni possibili ad un dibatto mai esistito. E di dibattito vero, c’è bisogno. Concreto, saldamente ancorato ad una realtà che si ostina ad essere diversa da quella sognata da tanti. La realtà dei cpt, un incubo che si affaccia nei sogni di una società civile che spesso si addormenta, sperando di svegliarsi al mattino in un mondo nuovo. La “sindrome di don Rodrigo”, potremmo definirla. Solo che la peste, i cpt e tutto il loro bagaglio di orrori, sono lì, ostinatamente, si ripropongono alle nostre coscienze ogni mattina .
Conosco i cpt. Li ho visitati, ne ho respirato l’odore di povertà e di dolore. Li abbiamo visitati con tanti giovani: medici, avvocati, volontari delle associazioni. Dei tanti pochi che non vogliono rassegnarsi. Ho imparato molto, davvero, dal loro coraggio, dalla loro determinazione. Ho imparato a guardare. Ho visto il cemento grigio di una prigione che non offre la possibilità di guardare il cielo, di sentire l’odore del mare, anche quando è a pochi passi. Luoghi di isolamento e di scomparsa, luoghi che non consentono, soprattutto, nessuna possibilità concreta di pensare a se stessi come a persone; soggetti di diritti elementari: il lavoro, la dignità, la vita. Tutto questo non rientra nei compiti dei cpt. Sono stati rinchiusi nella struttura di Bari lavoratori regolarmente residenti, poveri cristi presi per caso in mezzo ad una strada, trasportati in un centro che esiste solo per avere la possibilità di dimostrare che esiste.
L’Ulivo parlava, in campagna elettorale, di superamento di queste strutture. Che vuol dire una ricognizione dell’esistente, a partire dalla considerazione della loro natura tardo coloniale. Ma anche approntare sistemi di integrazione che partano da esigenze concrete di sviluppo del territorio, evitando la trappola dello scontro ideologico sterile ed inconcludente. Da un coinvolgimento degli enti locali che sono la cerniera fondamentale su cui appoggiare ogni possibile piano di sviluppo ed integrazione. Il peggior favore che possiamo fare, a chi viene a raccogliere i pomodori per la nostra tavola lavorando 14 ore al giorno per pochi euro, è trasformarli in oggetto passivo di una disputa di principio, per intendersi quelle nelle quali la sinistra è specializzata, dividiamoci su tutto, purché non si risolva il problema. Questo dei cpt non solo è un problema su cui unirsi, è un maledetto problema concreto, che richiede risposte concrete.
Uno di quei temi su cui si può lavorare a costruire un programma, meglio, a metterlo in pratica. Il primo punto su cui è possibile unirsi è rifiutare i cpt cosi come sono. Un altro è proporre a tutti gli enti locali di approntare in termini certi piani di integrazione locali a partire dalle esigenze del territorio. È poco, forse, ma è tanto se riusciamo ad unire su questo il vasto ed articolato mondo del centrosinistra. C’è un sole cattivo, sulla nostra terra. Testimone silenzioso e spietato non solo delle ingiustizie della storia e della globalizzazione. Ma anche delle nostre ignavie, del non fare e del non progettare un futuro per tutti.
Agi 29.6.06
COGNE: INIZIATO PROCESSO SU DISCUSSIONE PERIZIA PSICHIATRICA(AGI) - Torino, 29 giu. - E' da poco iniziata, al Tribunale di Torino, la nuova udienza del processo d'appello a carico di Anna Maria Franzoni, accusata dell'omicidio del figlio Samuele Lorenzi, avvenuto a Cogne il 30 gennaio del 2002, e condannata in primo grado a trent'anni di carcere. Poche decine di persone si sono presentate questa mattina per assistere ad una seduta che e' pero' molto importante. E' infatti dedicata alla discussione della perizia psichiatrica eseguita dai quattro consulenti nominati dal presidente della Corte d'assise d'appello Romano Pettenati. Per gli esperti, Anna Maria, nel momento in cui Samuele venne ucciso, non era totalmente incapace di intendere e volere ma soffriva di uno "stato crepuscolare orientato". Si tratta di stati scatenati da un fattore esterno altamente stressante e "consistono in un peculiare disturbo della coscienza - come si legge nella perizia - che esordiscono bruscamente, e altrettanto bruscamente terminano" e alla fine dei quali "si ha amnesia sia dei contenuti immaginativi sia delle azioni compiute; l'amnesia e' tanto piu' profonda quanto piu' profonda e' l'alterazione dello stato di coscienza".
L'avvocato della difesa, Carlo Taormina, ha gia' definito insostenibili le tesi dei periti. La difesa d'altronde non ha mai accettato che venisse eseguita una nuova perizia dopo quella fatta in primo grado e che aveva dichiarato Anna Maria Franzoni capace di intendere e di volere. Gli esperti nominati dalla Corte hanno dovuto lavorare sulle testimonianze raccolte durante le indagini e sulle interviste rilasciate dai protagonisti di questa vicenda agli organi di stampa ma non hanno potuto parlare con la Franzoni che si e' rifiutata di sottoporsi alla perizia. (AGI) Cli/Rst 291149 GIU 06 . 291359 GIU 06
(AGI) - Torino, 29 giu. - Il presidente della Corte d'assise d'appello, Romano Pettenati, ha deciso di sospendere l'udienza odierna. La discussione prevista sulle conclusioni della perizia psichiatrica avverra' in aula il 13 luglio prossimo, quando potranno essere presenti tutti e quattro gli esperti che l'hanno condotta. Domani si svolgera' invece una nuova udienza che sara' dedicata alla discussione di un'altra perizia sulle tracce di sangue presenti sul piumino della camera da letto della villetta di Cogne, dove avvenne l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi. (AGI) Cli/Sic/Rst 291356 GIU 06 .
291547 GIU 06
Corriere della Sera 30.6.06IL PROCESSO Cogne, Taormina: «Lascio la difesa» Poi fa retromarciadi Cristina MarroneTORINO - «Io rimetto il mandato». È il nuovo colpo di scena dell’avvocato Carlo Taormina che ieri, alla decima udienza per il processo di Cogne, ha annunciato di voler abbandonare per protesta la difesa di Annamaria Franzoni. Salvo poi rimangiarsi tutto e tornare sui suoi passi quando, il giudice Romano Pettenati, ha accolto la sua richiesta: rinviare la discussione della perizia psichiatrica al 13 luglio, quando anche il quarto perito, Gian Battista Traverso (convalescente dopo un intervento al cuore) potrà essere presente. L’udienza (pubblico scarso) è cominciata con l’esposizione dei tre esperti sul metodo di lavoro utilizzato per la perizia psichiatrica. A cui Taormina si è immediatamente opposto: «Non si può discutere se non sono presenti tutti i periti». Ma il giudice è sembrato intenzionato ad andare avanti: «Traverso lo ascolteremo alla prossima udienza». L’avvocato non ha voluto sentir ragioni. Per tre volte ha interrotto l’esposizione, fino a quando ha minacciato di andarsene. E ai cronisti ha annunciato: «C’è l’ipotesi di una mia candidatura al Csm o alla Consulta. Si vota tra il 4 il 7 luglio, per questo ho chiesto al presidente di chiudere in pochi giorni». Poi ha assicura: «Il processo comunque lo porterò a termine». Alla fine il giudice, dopo una breve camera di consiglio annuncia: «Ho telefonato a Traverso. Ha detto che si sta ristabilendo. Alla prossima udienza ci sarà». Tutto rinviato al 13 luglio, quindi. Anche la discussione della consulenza psichiatrica di parte del professor Ugo Fornari che ieri ha depositato la sua relazione di 52 pagine. Definisce Annamaria una personalità «borderline» affetta da un «disturbo complesso di personalità». Dà importanza a un colloquio (intercettato) tra la Franzoni e il marito: Annamaria dice di «vedere» il momento del delitto, l’aggressione, il sangue. Lo attribuisce alla vicina Daniela Ferrod, ma per Fornari il racconto è una specie di «confessione inconscia». Cita anche un medico delle Vallette che annotò: «il suo pianto non sempre corrisponde a un reale vissuto d’angoscia». Si prosegue oggi con la discussione su alcune macchie lasciate sul piumone.
aprileonline.info 30.6.06
Le sfide della Sinistra Ds
Appuntamento domani, a Roma, Teatro Quirino, per l'Assemblea nazionale. Il ruolo della Quercia e la prospettiva di una sinistra rinnovata al centro del dibattito
di Gianni Zagato*Domani parlerà la sinistra Ds e l’attesa è forte. È forte perchè dopo la lunga tornata elettorale quella di domani è la prima vera occasione pubblica di incontro di dirigenti e militanti Ds di tutta Italia, non affidata alle interviste né alle domenicali cene riservate, per dire dei no e dei si. In modo ragionevole e chiaro, trasparente.
Chi ha messo al centro - ormai da un paio di anni e più - il tema della riorganizzazione di una parte del centro sinistra, facendo dipendere da ciò l’intero quadro politico nazionale, persino quello europeo e legandolo con filo doppio alla stessa prospettiva del nuovo governo, sente di trovarsi oggi dinanzi ad uno stallo. Sente - lo diciamo con rispetto e preoccupazione - di non sapere più esattamente né come andare avanti né come tornare indietro. C’è uno stato di crescente confusione, alimentata da un profluvio di esternazioni pubbliche e insieme da una assenza vera di discussione politica, dentro prima di tutto gli organismi dirigenti dei partiti, ma anche nei soggetti e movimenti di quella “società civile” che dovrebbe costituire la spinta (per taluni la frusta) ai partiti medesimi nel condurci verso il partito democratico.
Così, pochi mesi dopo le primarie che hanno legittimato la leadership di Prodi per la guida del governo, si torna a ripetere - a partire dalla netta e meritata vittoria amministrativa dei sindaci di centro sinistra - il medesimo errore di analisi politica. Quello di pensare che il consenso a Prodi del 16 ottobre e quello a Chiamparino e Veltroni di pochi giorni fa, sia traducibile automaticamente nel consenso degli elettori al nuovo partito democratico che si vuole costruire. Non è così. Sono cose certo legate, ma sono anche cose diverse. E compito di un gruppo dirigente non è mai quello di intraprendere facili scorciatoie che poi conducono, come si vede, allo stallo di oggi.
A soffrire di questo stallo sono in questo momento prima di tutto i Ds. Quel patrimonio ancora esistente e diffuso di militanza e partecipazione, quella cosiddetta “base” così a lungo indagata, persino mitizzata ma comunque ancora lì, ancora viva, oggi sente che c’è il rischio di “perdere identità”. Cosa sono oggi i Ds? Questo è il nodo vero da porsi con serietà e con verità. Ed è anche una questione non più rinviabile. Per questo ci vuole il congresso politico del partito. E questo, prima di tutto, chiederemo domani nella nostra assemblea. Non solo perché il congresso è l’unica, vera, autentica procedura democratica praticata da quei partiti – e ce ne sono ancora se rivolgiamo lo sguardo in Europa – che godono di buona salute e di discreti consensi, non solo per fermare la catena dei fatti (e misfatti, come certe forzature realizzate nel territorio nella direzione del partito democratico contro ogni norma statutaria vigente) compiuti passo dopo passo ma anche e, forse, soprattutto perché ormai quella che è in gioco è l’identità e l’esistenza stessa dei Ds nella scena politica italiana ed europea. C’è l’incertezza e la preoccupazione di una “base” che vive il processo verso il partito democratico senza passione né partecipazione, che si chiede “quale sia la linea vera del partito” e come emerga sempre di più tra i Ds e la Margherita un duplice problema, di “linguaggio” e di “valori”, come dire l’alfa e l’omega di un qualsiasi rapporto politico. E c’è, insieme, l’indeterminatezza del gruppo dirigente del partito non solo verso i tempi di marcia del nuovo soggetto, ma verso il tipo di rapporto politico che va praticato in questa fase con la Margherita.
I Ds sembrano vittime di una subalternità politica e di una prolungata cessione di sovranità verso la Margherita, quasi che quest’ultima finisca per mettere nel progetto del partito democratico le idee forza e il nucleo vero di classe dirigente e ai Ds tocchi semplicemente di consegnare in dote la loro rete organizzativa ancora consistente e poco più.
Per questa via, il nuovo partito democratico – se dovesse mai formarsi – produrrebbe, già dal suo inizio, un effetto politico che mai l’Italia ha conosciuto dal discorso di Stradella del 1875 ad oggi: la fine della rappresentanza di una sinistra autonoma, legata al socialismo in Europa.
Proprio mentre viviamo, dentro l’epoca di globalizzazione, gli effetti che può avere l’azione dell’Unione Europea nel campo economico, in quello dei diritti civili e sociali, ecco che in Italia si tenta di dare vita, come in una fusione fredda di un laboratorio sperimentale, ad un partito democratico che come suo primo atto recide il legame con l’Internazionale socialista e con il partito del socialismo europeo cioè con quella famiglia politica europea e mondiale che certo ha di fronte a sé ancora tanti nodi aperti, ma che continua ad esprimere il livello politico e organizzativo forse più avanzato di lotta e di azione sul terreno della giustizia sociale e della cittadinanza eguale.
Non si può fare la sinistra di un partito che nasce così, se davvero non si vuol finire per essere una sinistra innocua e folcloristica.
Il quotidiano cicaleccio sul partito democratico dovrebbe lasciare il posto – nella direzione di marcia degli stati maggiori – ai due obiettivi veri sentiti come tali dall’opinione pubblica del centro sinistra: l’unità politica dell’intera coalizione e una più forte qualità nell’azione del governo. Il giusto intreccio di questi due obiettivi costituisce la migliore riorganizzazione del campo del centro sinistra cui si può e si deve lavorare. Ds e Margherita debbono e possono collaborare dentro una coalizione ampia, ma a partire da una forte reciproca autonomia della loro azione politica, anziché procedere verso fusioni fredde che alimentano contrasti, sbiadiscono programmi, confondono identità e generano scontri di potere in ogni parte del territorio.
Noi mettiamo al centro l’autonomia e l’unità ma insieme anche il rinnovamento, della sinistra in Italia oggi. Diritti globali, equità sociale e laicità, sono i tre pilastri su cui si costruisce questa autonomia e questa unità.
È anche per noi una ricerca, una sfida, un impegno.
*coordinatore organizzativo Sinistra Ds
Repubblica 30.6.06Sempre più tesi i rapporti tra Rifondazione e Pdci. La Bolognesi: le mie lacrime non sono state inutiliDal ko a Prodi al dilemma Kabul il lungo derby dei cugini comunistidi Antonello CaporaleROMA - Litigarelli, cugini ma coltelli. I comunisti dell´ultima versione, quella in house di Oliviero Diliberto, stanno facendo ammattire di rabbia i compagni del presidente Fausto Bertinotti. C'era da aspettarselo? E certo che sì. Dopo cinquecento ore di governo comune, un conclave in campagna e due consigli dei ministri, il Pdci di Diliberto, in questi giorni molto tonico, agile, davvero in forma, ha afferrato per primo la bandiera del disaccordo e l'ha agitato come si deve. Su e giù sulle pagine dei giornali. Afghanistan: noi votiamo no.
Quando la storia della sinistra italiana assume il moto circolare di una montagna russa, la ruotona gira e un giorno c'è un compagno che sta su, con l'altro che si ritrova giù. Quando stava giù Bertinotti, sedeva nell´emiciclo a fianco di Diliberto, successe l'irreparabile. Il niet rosso prima di condurre Prodi alla resa portò il partito alla divisione e alle lacrime. Era il tempo del governo Dini, il "Rospo" da ingoiare. Pianse e tanto Marida Bolognesi per quel bacio eretico, molto controrivoluzionario. Venne naturalmente via da Rifondazione. Baciò tra le lacrime. «Ma non ho pianto invano, anche se oggi si ritiene di non smetterla mai con questa competizione. Più visibilità uguale più voti? Mah!».
Ma sì che la ruota gira, e oggi che Fausto si trova lassù, davvero in alto, da ex subcomandante a Presidente - il moto circolare riprende vigore e il pendolo ritrova intatta la sua ragione di esistere. Oggi Bertinotti sta buono e Diliberto, che sta giù, urla. L'antico adagio che riepiloga il senso storico della lotta fratricida, "il nemico è sempre quello che sta più vicino a te", ritorna buono, vivo e vegeto.
Spuntano i coltelli. Dall'editoriale di
Liberazione: «Il dissenso del Pdci è abbastanza stupefacente - scrive il direttore Piero Sansonetti - Allora viene il dubbio che i motivi che lo spingono ad opporsi fino all'ultimo all'accordo riguardino più questioni piccoline di immagine e di insediamento del partito che calcoli di politica estera». Accoltella tu che accoltello anch'io: «Capiamo e rispettiamo il travaglio che vive Rifondazione. Non è però accettabile che scarichi all'esterno i propri problemi alzando la polemica verso di noi». Di Iacopo Venier, responsabile esteri, la mano sull'impugnatura della lama. La giornata di ieri, ma vedrete che sarà così anche oggi e pure domani, raccoglie note e articolesse, piccole e grandi dichiarazioni al ritmo del ping pong: la pallina di qua, poi di là. Dopo il turno di Venier, la pallina è ritornata dalle parti di Rifondazione. Ecco Gennaro Migliore, il giovane capogruppo alla Camera: «Il Pdci è un problema per tutta la coalizione, non del Prc. Non è tollerabile una forza che cambia atteggiamento a seconda dell'uditorio che si trova di fronte». Da questa seconda dichiarazione è stato subito chiaro che i compagni avevano ritrovato l'antica verve, che la nuova battaglia è in grado finalmente di provocare feriti e contusi. Di nuovo si fa a pugni da quelle parti, e ancora, e di nuovo, è giunta la parola di Arturo Parisi, l'uomo che dovette contare i voti che uccisero Romano Prodi, e che oggi, ministro della Difesa, riflettendoci, ripete: «Se cade il governo si ritorna alle urne».
«Non sono pazzo», ha detto Diliberto. Ed è già un buon punto di partenza. «Il Pdci non farà mai cadere il governo come fece Rifondazione nel 1998, e non regalerà mai il Paese a Berlusconi», ha giurato il deputato Pino Sgobio. «Fa senso il fuoco di fila che ora viene lanciato nei nostri confronti».
Fa senso, sì. E lo spettacolo continua. In campo, in queste ore, ci sarà anche la stazza notevole del sottosegretario all'Economia Paolo Cento, richiesto dal premier di portare i senatori dall'Aventino all'aula. Tra i resistenti Cento conta anche sua cognata, l'ambientalista Loredana De Petris. La missione è dunque difficile, e aperta ad ogni risultato quanto e più della partita di stasera Italia-Ucraina durante la quale, come è giusto, ogni trattativa verrà sospesa. Si riprenderà subito dopo i titoli del Tg1.
Repubblica 30.6.06
Il ballo in maschera dell’Occidente
Come cambierà il rapporto identitario nel XXI secolo
di Amartya SenVIVIAMO in un mondo diviso, disgregato dalla disuguaglianza economica e dalla disaffezione politica, ma anche, sempre di più, dalla coltivazione, a fini violenti, di sistemi univoci di classificazione degli individui, che limitano profondamente la ricchezza degli esseri umani. Lo sfruttamento di un'identità conflittuale si manifesta in molte forme diverse, in distinte aree dell'interazione sociale. Gli individui combattono contro altri individui in nome di ciò che la loro presunta identità unica esige da loro, dividendosi rispettivamente secondo criteri di razza, di religione, di etnia o di nazionalità: tali divisioni si traducono in scontri razziali, massacri intercomunitari o stragi politiche.
In cui immancabilmente finiscono con l'essere cancellate tutte le altre affiliazioni degli individui diverse da quella specifica caratteristica in nome della quale viene combattuta un'artificiale battaglia ideologica. A livello globale, la forza divisoria della classificazione univoca assume sempre di più la forma della difesa di una separazione rigida, e teoricamente impenetrabile, tra religioni, o comunque tra civiltà concepite su base religiosa. Il XX secolo, nella sua fase terminale, ha visto fiorire le teorie – formulate esplicitamente o avanzate implicitamente – sul cosiddetto "scontro di civiltà". Spessissimo, ormai, gli aspetti politici dello scontro globale in corso sono considerati un corollario delle divisioni religiose o culturali a livello mondiale, e il mondo è visto sempre più spesso, quanto meno indirettamente, come una collettività di religioni, o di cosiddette "civiltà" definite innanzitutto in base alla religione, un'ottica che ignora tutti gli altri modi, e sono centinaia, attraverso cui gli individui vedono se stessi. Tutto questo è basato sul curioso presupposto che la popolazione mondiale possa essere classificata esclusivamente in base a un sistema di suddivisione unico e dominante.
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Questa visione univoca dell'identità, che attualmente è molto in voga, non è solamente incendiaria e pericolosa, è anche incredibilmente ingenua. Nella vita quotidiana, noi ci consideriamo membri di una quantità di gruppi, e a tutti questi gruppi riteniamo di appartenere. La stessa persona può essere, senza che ciò rappresenti la minima contraddizione, cittadina americana, di origine asiatica indocinese, con antenati vietnamiti, cristiana, progressista, donna, vegetariana, storica, insegnante scolastica, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, velocista, musicista jazz e profondamente convinta che gli alieni, immigrati dallo spazio nel corso dei secoli, siano presenti in massa sulla Terra e che siano facilmente identificabili in virtù della loro propensione a citare incessantemente Shakespeare (che è materia di insegnamento comune nei licei spaziali). Una persona possiede molte affiliazioni diverse, alcune abbastanza consuete (per molti versi assolutamente ordinarie, come l'essere ricco o l'essere povero, l'essere donna o l'essere uomo), altre piuttosto particolari, perfino eccentriche (a volte estremamente eccentriche). Ma ognuna di queste collettività, a cui la persona in questione appartiene simultaneamente, le conferisce un'identità specifica che può avere grande importanza, a seconda del contesto e delle circostanze, per determinare il suo comportamento e le sue priorità.
Data la natura ineludibilmente plurale delle nostre identità, siamo chiamati a prendere decisioni (a scegliere) sull'importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni determinato contesto. Se i terroristi e gli istigatori di violenza cercano di coltivare e sfruttare l'illusione di unicità, la classificazione a senso unico della popolazione mondiale in base a un unico criterio identitario dominante, legato alla civiltà di appartenenza, facilita loro il compito. Quelli che amano classificare per civiltà possono usare questo metodo come base di partenza per arrivare a sostenere la tesi dello "scontro di civiltà" (strada oggi molto battuta), oppure possono imboccare la via, confortevole e rassicurante, che porta a raccomandare il "dialogo tra civiltà", che è un sentimento di gran lunga più bello (e non del tutto impopolare anche nelle stesse Nazioni Unite): entrambi gli approcci, tuttavia, sono accomunati dall´errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone. Tutti e due questi approcci, in un modo o nell'altro, ci rendono più difficile adempiere a quelle che sono delle necessità, e cioè ragionare sulla varietà di affiliazioni e associazioni che ci caratterizza e assumerci la responsabilità delle nostre scelte.
Un esempio dei danni che provoca un simile approccio è bene illustrato dal modo in cui il mondo occidentale si è appropriato del patrimonio storico mondiale in materia di scienza e matematica, arrivando a considerare la scienza e la matematica moderne come discipline occidentali per eccellenza (nonostante molti fondamentali concetti scientifici o matematici abbiano origine da tutt´altra parte). Per fare un esempio, quando un matematico americano dei giorni nostri ricorre a un "algoritmo" per risolvere un difficile problema di calcolo, sta rendendo omaggio – di solito senza saperlo – ai contributi del matematico musulmano del IX secolo al-Khwarizmi, dal cui nome deriva lo stesso termine di algoritmo (il termine "algebra" viene dal libro arabo
Al-Jabr wa-l Muqabalah). Ignorando l'importanza di questa tradizione storica araba e musulmana, le grossolane classificazioni per civiltà tendono a mettere la scienza e la matematica nel paniere della "scienza occidentale", lasciando le altre civiltà a cercare motivi d'orgoglio nella profondità delle dottrine religiose. E il risultato è che i militanti non occidentali concentrano la loro attenzione sulle tematiche che li differenziano dall'Occidente (come i credi religiosi particolari, le usanze locali caratteristiche e le specificità culturali), invece che su quegli argomenti che rispecchiano le interazioni globali (e che includono la scienza, la matematica, la letteratura, la musica, la narrazione, la libertà di espressione e così via). La compatibilità tra oltranzisti occidentali ed estremisti islamici – né agli uni né agli altri, per fare un esempio, importa granché di un al-Khwarizmi – è una delle più perniciose alleanze di fatto di questo nostro inizio di secolo.
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Qualcosa di analogo si può dire del modo in cui l'oltranzismo occidentale si è appropriato del fondamentale concetto dell'assumere le decisioni attraverso il dibattito e il confronto pubblico, concetto che può essere considerato la base della democrazia deliberativa nel mondo moderno. La lunga tradizione di esempi di questo genere di processo deliberativo in Africa, in India, in Iran e nell'Asia occidentale, in Cina, in Giappone e nell'Asia orientale, viene totalmente ignorata allo scopo di creare la tesi peculiare dell'"eccezionalismo" occidentale. I fautori di questa visione della storia un tantino superficiale spesso ricorrono a ogni possibile diversivo per distogliere l'attenzione dai numerosi esempi di tolleranza e dialogo presenti nella storia mondiale, altrettanto diffusi degli esempi di intolleranza. La tesi dell'origine esclusivamente occidentale della democrazia deliberativa può essere sostenuta a partire da una curiosa, doppia rimozione: da un lato la rimozione degli esempi di tolleranza nelle culture non occidentali, dall'altro la rimozione dei casi di manifesta intolleranza all'interno della tradizione occidentale.
Non si dà alcuna importanza, ad esempio, al fatto che quando l'eretico Giordano Bruno veniva bruciato sul rogo a Roma con l'accusa di apostasia, l'imperatore indiano Akbar, un musulmano, aveva appena portato a termine il suo progetto di tradurre in legge il diritto di ogni cittadino a professare liberamente la propria fede, e aveva appena completato una serie di intensi incontri di discussione che avevano coinvolto le diverse comunità religiose presenti in India: induisti, musulmani, cristiani, ebrei, parsi, giainisti e altri, inclusi gli atei. La persecuzione operata dalle inquisizioni europee, o dai nazisti, se è per questo, sono implicitamente considerati casi insignificanti, mentre gli episodi di intolleranza nella storia islamica e nella storia di altre società non occidentali sono visti come la prova evidente dell'onnipresente intolleranza esistente in quelle società, svolgendo la funzione di fondamento empirico per lo sviluppo di una teoria monolitica sulla natura unicamente e intrinsecamente "occidentale" della tolleranza e del processo decisionale condiviso.
Le lezioni che traiamo dalla storia non possono, naturalmente, non basarsi su un'elaborata selezione, e non c'è niente di strano nel fatto che i democratici abbiano ragioni a sufficienza per celebrare certe conquiste del passato e contestualmente sminuire il pessimismo generato dalle infrazioni alla regola della tolleranza sociale e del dialogo pubblico. Questa selezione distorta viene fornita come dimostrazione della tesi, inspiegabilmente dogmatica, della contrapposizione tra il liberalismo dell'Occidente e l'intolleranza del resto del mondo, tesi che meriterebbe un'analisi molto più approfondita di quanto non avvenga normalmente.
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La grossolanità di questa "teoria delle civiltà" generata dall´illusione "solitarista", oltre a menomare la nostra capacità di comprensione della storia mondiale e del mondo contemporaneo, e a impedire una comprensione adeguatamente approfondita delle influenze causali che stanno dietro ai recenti sviluppi del terrorismo globale, confonde le idee su una serie di questioni politiche. Uno degli argomenti più penalizzati dalla retorica riduzionistica è quello dell'individuazione dei modi e dei mezzi per contrastare il terrorismo globale. Ma la ristrettezza della "teoria delle civiltà" rappresenta un ostacolo, un ostacolo artificiale, anche in molte altre questioni di rilevanza politica, tra cui la valutazione dei problemi creati dall'immigrazione da un Paese a un altro.
Al di là della gravità dei problemi pratici di un flusso migratorio in entrata relativamente cospicuo (e non si fa fatica a concepire problemi di difficile soluzione che siano reali, e non immaginari), va anche tenuto conto del fatto che storicamente le civiltà hanno tratto grande beneficio dall´immigrazione, sia l'immigrazione delle persone che quella delle idee. Anzi, la rapida diffusione delle idee spesso è stata merito dei movimenti delle persone. Non voglio dire che dovrebbe prevalere una concezione ampia della positività dei movimenti migratori, mettendo in secondo piano tutti gli argomenti che possono essere avanzati a discapito, ma difficilmente potremo giungere a una soluzione adeguatamente obbiettiva di determinati problemi se ci ostiniamo a non tenere minimamente conto di considerazioni generali. La specificità di un problema consiste in una descrizione delle sue dimensioni e del suo ambito. Non consiste in un irresistibile invito a essere limitati, sia di spirito che di mente. La storia dell'Europa, dell'Asia, dell'Africa, dell'America, sarebbero alquanto incomplete se le migrazioni fossero considerate ininfluenti. Poiché la tesi dello "scontro di civiltà" tende a promuovere, quantomeno implicitamente, una visione estremamente limitata della storia delle civiltà, è particolarmente importante esporre con chiarezza le tematiche generali.
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Se la follia della "teoria delle civiltà" è un esempio efficacissimo del danno che produce un sistema di classificazione "solitarista", esistono molte altre applicazioni, in altri ambiti dell'interazione sociale, di quello che è fondamentalmente il medesimo, scarno approccio. Lo stesso problema dell'immigrazione è caratterizzato da molte altre semplificazioni eccessive, legate alla tentazione di attribuire un'importanza univoca a una determinata identità umana. Per illustrare l'ampiezza e la portata del problema, mi soffermerò brevemente su alcune delle questioni che forse non sono affrontate nel modo dovuto negli Stati Uniti, con i loro dibattiti sull'immigrazione illegale e l'identità linguistica e letteraria.
Pensiamo, ad esempio, alla strombazzatissima richiesta di espellere dagli Stati Uniti tutti gli immigrati illegali, proposta che ultimamente sta guadagnando un certo seguito, nonostante la straordinaria storia di accoglienza ai nuovi arrivati che può vantare questo Paese. Gli immigrati clandestini, questo è ovvio, hanno l'identità di immigrati, oltre che quella di clandestini, e le autorità devono tenerne conto al momento di definire la linea politica da seguire sull'argomento. Ma, con l'aiuto di una propaganda ad hoc, gli americani già insediati nel Paese possono venire persuasi a considerare l'identità di immigrato clandestino come una descrizione completa di questi individui. Eppure queste persone hanno anche altre identità, non semplicemente quelle, che li accomunano a tutti noi, relative alla loro natura di esseri umani e al loro impegno per la loro famiglia e la loro comunità, ma anche quelle identità relative alla professione che svolgono, al ruolo particolare che interpretano nel sistema economico e alla prospettiva globale che apportano – direttamente o indirettamente – al dibattito pubblico americano.
L'identità ha un ruolo importante anche riguardo al trattamento di coloro che già sono immigrati e si sono stabiliti qui, negli Stati Uniti, oggi, a prescindere dal fatto se abbiano già acquisito o no la cittadinanza americana. In questo contesto, la questione della lingua è importante. L'apprendimento dell'inglese dovrebbe essere imposto a tutti? Certo, è evidente l'importanza che riveste la padronanza dell'inglese per chiunque venga a stabilirsi in questo Paese, e quello di cui si può fruttuosamente discutere sono i modi e i mezzi per ottenere questo risultato.
La cosa particolarmente nociva, però, è la proposta, di cui si è parlato molto, che mira a cancellare il diritto a ricevere spiegazioni sulle leggi federali e altri strumenti legali in una lingua che non sia l'inglese. La proposta ha senso soltanto in un contesto di profonda confusione tra il tipo di identità linguistica che una persona dovrebbe idealmente avere (in particolare essere in grado di parlare inglese, oltre a qualsiasi altra lingua che l'individuo in questione può aver imparato da piccolo) e l'identità linguistica che una persona effettivamente ha, che può essere ben lontana dall´ideale, in qualsiasi frangente, se quella persona, magari nonostante tutto l'impegno possibile, non possiede un'adeguata padronanza dell'inglese. Poter avere accesso alle leggi e alle normative è parte dei diritti fondamentali dell'individuo, e l'importante identità degli esseri umani in quanto persone in possesso di questi diritti fondamentali non può essere arbitrariamente rimossa adducendo punitive motivazioni di insufficienze linguistiche.
C'è poi una considerazione molto generale da fare, che si aggiunge alle tematiche che ho trattato in questi ultimi minuti. Una quota importante della violenza presente nel mondo in questo momento nasce dalla focalizzazione sull'identità religiosa degli esseri umani, come se nient'altro avesse importanza. In questo contesto, sostenere la rilevanza di un altro strumento di classificazione, diverso dalla religione, vale a dire le lingue che parliamo e con cui ci troviamo a nostro agio, contribuisce, secondo me, a neutralizzare l'artificiosa brutalità dei conflitti interreligiosi.
La lingua ha interpretato un ruolo simile in molti movimenti politici. Un esempio è la secessione del Bangladesh, dove la rilevanza attribuita alla lingua bengalese ha avuto l'effetto di rendere più semplice, al nuovo Stato, sviluppare una politica non religiosa – per non dire laica – e ha aiutato la consistente popolazione non islamica del Bangladesh a integrarsi meglio con la comunità maggioritaria, a cui era accomunata dalla lingua bengalese, a prescindere dalla fede religiosa. Di più: lo spostamento dell'attenzione dalla religione alla lingua ha avuto un grande effetto lenitivo, contribuendo a seppellire il ricordo degli scontri degli anni 40 tra induisti e musulmani in quello che oggi è il Bangladesh (analogamente a quanto accadeva nel resto del subcontinente): un processo costruttivo che è cominciato quasi subito dopo la divisione del subcontinente, avvenuta nel 1947 (molto prima della nascita del Bangladesh, nel 1971).
Il punto da affermare riguardo all'identità è il seguente: concentrare l'attenzione su un altro elemento di identificazione, diverso dalla religione, rappresenta un passo avanti, nel mondo di oggi, perché toglie centralità ai conflitti religiosi. La tendenza, nel mondo contemporaneo, a privilegiare un'identità in particolare rispetto a tutte le altre ha già fatto grandi danni, fomentando violenze razziali, conflitti intercomunitari, terrorismo religioso, repressione degli immigrati, negazione dei diritti umani fondamentali e via discorrendo. Mentre il nuovo secolo si dipana, è importante riaffermare la pienezza di esseri umani non miniaturizzati nella gabbia di un'unica identità. Non ci dobbiamo far rinchiudere in tanti piccoli compartimenti, come vorrebbero gli artigiani del malcontento e del terrore. Un unico, limitato sistema di classificazione non è in grado di cogliere la grandiosità dell'essere umano. Questa, a mio parere, è la sfida centrale del pensiero identitario all´inizio del XXI secolo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
il manifesto 30.6.06
Guerre sante Quando una religione monoteista si investe del potere terreno oppure vi si accorda, la strage in nome di Dio è sicura
L'eterna bestemmia in nome di Dio
«Cristiani in armi. Da sant'Agostino a papa Wojtyla» la ricostruzione di come cristianesimo e pace non sono sinonimi. Il saggio di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri per l'editore Laterza
di Rossana RossandaImpugnando il vessillo della croce nella mano sinistra e nella destra una spada sguainata, un angelo biondo si libra con ali immense sopra i crociati sulla strada di Gerusalemme, simile all'uccellaccio che in un turbinio di vesti, ali e spade minaccia Roma dagli spalti di Castel Sant'Angelo. E' Michele, l'arcangelo guerriero, simbolo di un dio vendicatore e sterminatore. Lo ha scelto Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri per la copertina del suo
Cristiani in armi (Laterza, 226 pagine, euro 16), dedicato con speranza ai nipotini perché riflettano, suppongo, come cristianesimo e pace non siano sinonimi. La tradizione belligerante viene dai fratelli maggiori. In un passo del
Deuteronomio Jahvé, assicurandogli la vittoria, invita il suo popolo a prendere d'assedio una città, e poi: «Passa a fil di spada ogni maschio, prendi per te le donne i bambini le bestie e tutto quel che vi trovi ... non lasciare in vita nessuno, votali tutti allo sterminio, demolisci i loro altari, spezza le loro stele, brucia le loro sculture...». Ma si potrebbe andare molto avanti: le conquiste di Giosuè, a cominciare da quella che a scuola mi raccontavano come pacifica (le mura che crollano al suono di tromba) è seguita dallo stesso sterminio, e così le altre vittorie di quel generale di Dio. Grondano di sangue le visioni dei più fra i profeti. La Jihad non ha inventato niente di nuovo, né parole né fatti. E anch'essa è persuasa di avere Dio dalla sua parte.
La parola di Cristo non ha segnato dunque una discontinuità? Non lo ammette il biblista Giuseppe Barbaglio, che pure ne ha scritto
Il dio violento (1990): egli vede correre anche nel Vecchio Testamento, come un filo rosso, accanto all'immagine del Dio terribile quella d'un Dio amoroso.
Sta di fatto che nei Vangeli non c'è che questo. Più che un paio di frustate Gesù non somministra ai mercanti nel tempio, invita l'offeso a porgere l'altra guancia e a guardarsi dal ferire di spada, conversa con gli infedeli come con chi ancora non sa, non invoca dal Padre suo alcuna vendetta - messaggio che in quei tempi calamitosi e nel ribollire della Palestina dovette suonare scandaloso, ma fu certo all'origine della sua straordinaria diffusione. Ma ecco che mille anni dopo il cristianissimo vescovo Guglielmo di Tiro descrive così le gesta dei crociati una volta presa Gerusalemme: «... Coperti di elmi e corazze percorsero strade e piazze della città uccidendo indistintamente tutti gli infedeli che capitavano, senza riguardo né all'età né al rango. Da ogni parte si vedevano nuove vittime, teste staccate dai corpi, non era possibile camminare senza traversare mucchi di cadaveri ... Poi, avendo saputo che gran parte della popolazione s'era rifugiata al di là dei bastioni del Tempio corsero sul posto in grande moltitudine colpendo con le spade chiunque incontrassero e inondando di sangue le strade. Essi compivano così i giusti decreti del signore ... poi si cambiarono le vesti, si lavarano le mani e camminando a piedi nudi con cuore umile gemevano e piangevano con devozione». Questo succedeva nel 1099, poco prima che Gregorio nascesse, per cui il pio vescovo si dette molto da fare per la terza crociata. Scene simili si producevano anche fuori della Terra Santa per il fiorire di pellegrinaggi, diciamo così, non autorizzati, nei quali qualche nobile raccoglieva tutto quel che trovava per strada e in cammino verso il Santo sepolcro faceva strage degli ebrei che capitavano a tiro. Di questa temperie selvaggia partecipano anche, nelle predicazioni, uomini di spirito elevato come Bernardo di Clairvaux e Pietro l'Eremita. Come è accaduto?
E' accaduto che nel 312 - mentre i cristiani erano ancora in clandestinità - l'imperatore Costantino sogna, la notte prima della battaglia di ponte Milvio, il solito angelo che gli addita la croce:
In hoc signo vinces. Vince, e dichiara il cristianesimo religione di stato. I cristiani, che allora vivevano senza esporsi in un loro costume di solidarietà e preghiera, escono allo scoperto e la loro chiesa si scambia favori con l'imperatore. Essa ordina ai fedeli di esser soldati (garantendogli che se muoiono ammazzando il nemico volano dritti in paradiso) mentre domanda al potere di interdire le altre religioni. Da allora al secolo scorso i rapporti fra chiesa e impero o stato restano stretti, anche se fra non pochi conflitti non di fedi ma di potere, e c'è voluto papa Wojtyla per condannare senza mezzi termini la guerra (che resta però come extrema ratio, tale e quale la pena di morte, nel catechismo).
Insomma, quando una religione monoteista si investe del potere terreno o vi si accorda, la strage in nome di Dio è sicura. Non che per il cristianesimo sia stato semplicissimo. L'antico interdetto del V comandamento, non ucciderai, assume un'altra valenza nella predicazione cristiana, per la quale è fondativo l'amore per l'altro, e la guerra non era neppure contemplata. La cultura di allora vede ogni conflitto in termini militari, scrive Maria Teresa Fumagalli, neanche Paolo vi sfugge e ogni conflitto anche interiore, fra fede e non fede, bene e male, culto di Dio e culto di sé, lotta a Satana e perfino nel famoso «Morte, dov'è la tua vittoria?» prende con naturalezza il linguaggio bellico. Ma con Paolo siamo soltanto alla forma. Più tardi i Padri si interrogano. Si interroga Ambrogio: perché, mio Signore, mi dici di vendere la tunica e comprare la spada, ma mi interdici di usarla? Sarà - prima scivolata - per legittima difesa? Agostino, suo discepolo e animo tragico, va molto oltre: se c'è il male nel mondo deve essere stato previsto dall'infinita sapienza di Dio, dunque è in qualche modo concesso - quasi obbligato. Il pessimismo di Agostino è radicale. Nella notte tenebrosa del creato dopo la Caduta c'è dunque anche la guerra, scriverà al dubbioso Fausto, essa è inevitabile come la tempesta, la sofferenza, la morte. Affermazione fatale, perché se connessa alla umana natura per volere di Dio, potrebbe anche, in certi casi, essere giusta.
In quali casi, che non siano la difesa - anch'essa non contemplata dai primi cristiani? Su questo si piegheranno i giuristi, specie dopo secoli di conflitti efferati e in seguito alla conquista spagnola delle Indie, per la quale, dopo un breve tentativo di dimostrare che gli indiani non sono specie umana, non esiste legittimazione alcuna. Il grande legittimatore sarà il domenicano Francisco de Vitoria, argomentatore inquieto la cui dottrina attraversa i secoli, e influenzerà anche i gesuiti inducendoli a rovesciare una loro prima posizione in difesa degli indigeni: il molinismo non lascerà scampo.
Così, se è rimasto sempre fra i cristiani chi non accetta la liceità della guerra, si troverà di regola fra i malpensanti o gli eretici. Contro la «peste» degli albigesi Innocenzo III reclama l'intervento dell'imperatore. E così dopo lunghe guerre periranno i catari. L'arcivescovo di Milano, scoperta nella diocesi di Torino una comunità pacifica, che perdipiù metteva i beni in comune, li manda al rogo tutti. Un punto particolarmente dolente accompagna la condanna della guerra: il suo più lucido contestatore, John Wyclif di Oxford e i suoi seguaci, i lollardi, la collegano alla volontà di dominio, che si radica nella proprietà. La persecuzione di Wyclif e dei suoi seguaci non avrà fine. Insomma il filone pacifista sarà assai minoritario nella chiesa. E per lungo tempo anche in quella riformata.
Ma non è diffuso neanche fra i pensatori laici. Esita il lucido Erasmo da Rotterdam, la guerra sta anche nell'
Utopia di Tommaso Campanella; soltanto Marsilio Ficino, credente, non demorde e sarà condannato. Nel Seicento e nel Settecento la più brillante intellettualità francese non è pacifista. Ma il lavoro della Fumagalli Beonio Brocchieri riguarda soprattutto la chiesa e arriva fino ai nostri giorni. Nessuno dei grandi pacifisti, da Milani a Balducci, per non parlare di Capitini e Buonaiuti, è stato amato. Della posizione dei papi davanti alle guerre è meglio tacere. Quanto è appassionante, e fin tragica, la discussione fra i Padri dopo l'editto di Costantino, tanto è fredda sotto il profilo religioso quella che segue con la modernità. Gli atei devoti vi possono trovare materia di consolazione.
Per non parlare degli stolidi araldi delle guerre di civiltà. E' roba nostra, europea, quella che ci torna in quelle che sentiamo come farneticazioni di Bin Laden o Al Zarkawi. La chiesa le aveva benedette quando con l'impero si scambiavano reciproci doni. Soltanto Agostino, credo, ha inserito la guerra nella sua tragica teologia della Caduta - peraltro sempre all'orlo dell'eresia - appena si lascino i suoi pensieri, nella banalità della storia anche ecclesiale, la guerra si rivela sempre passione di dominio. Che fra dominio e dominio ci possa essere una guerra giusta, è una terrestre e non altissima, controversia. Che possa essere Santa, come talvolta ha detto il Sacro soglio, è una bestemmia. Quanto alla guerra umanitaria è un ossimoro del presente - neanche ai papi più virulenti era venuto in mente.
il manifesto 30.6.06
Con l'abito talare, un peccato senza castigo
Abusi in sacrestia «I legionari di Cristo» di Jason Berry e Gerald per Fazi editore
di Barbara RaggiJason Berry e Gerald Renner, giornalisti investigativi, cattolici americani, non particolarmente liberal, con il libro-inchiesta
I legionari di Cristo (Fazi, pp. 377, euro 23,50) hanno ricostruito la vicenda dei preti pedofili, esplosa nella chiesa statunitense a metà degli anni '90. Senza confondere omosessualità con pedofilia, senza indulgere in scandalismo, raccontano le storie degli uomini e delle donne che sono stati violentati da bambini, dei sacerdoti (pochi) che li hanno sostenuti nella denuncia e del complesso apparato legato al codice canonico che ha favorito la copertura dei colpevoli da parte della Chiesa. Tra i passaggi più interessanti ci sono quelli relativi ai tribunali ecclesiastici e al funzionamento del codice canonico. Si scopre, per esempio, che il reato di pedofilia cade in prescrizione dieci anni dopo il compimento della maggiore età della vittima e che le chiese locali possono dare in custodia documenti riservati alle nuziature, protette dall'immunità diplomatica. Meccanismi pensati per ben altre situazioni, che avrebbero dovuto proteggere gli uomini della Chiesa da dittature o governi ostili alla libertà religiosa e che invece sono stati usati, con disinvoltura, anche per nascondere le responsabilità penali di sacerdoti coinvolti in reati penali comuni.
Gli autori del libro non hanno una tesi precostituita da difendere, non sono convinti che sia il celibato a essere la causa del problema. Tant'è che molti pedofili non sono sacerdoti ma «normali» padri di famiglia. La loro domanda è: perché la Chiesa ha deciso di ignorare le vittime, lasciandole sole, tacciandole di complotti contro la fede e facendo, in ultima istanza, ricadere la colpa su di loro? Non esiste una risposta univoca. C'è il bisogno di difendere il buon nome dell'istituzione e c'è la sessuofobia di cui è intrisa la gran parte della teologia cattolica. Dove c'è la caduta deve esistere anche la tentazione. E la tentazione è da sempre identificata in qualche comportamento seduttivo dell'altro sia una donna o un bambino, quindi è il sedotto che si trova nella condizione di vittima da proteggere.
Dall'analisi di Berry e Renner chi ne esce peggio è Giovanni Paolo II, il papa che molti vorrebbero santo subito, e il cui silenzio si è rivelato essenziale nel programma adottato dalle gerarchie locali per liberarsi del problema: spostare i sacerdoti denunciati di abuso su minori da una parrocchia a un'altra, senza mai avvertire le comunità locali. Per esemplificare le responsabilità del papa i due autori analizzano un caso emblematico, che coinvolge padre Marcial Maciel Degollado, fondatore della Legione di Cristo, una congregazione religiosa con un'organizzazione molto simile a quella dell'Opus Dei al cui fondatore, il santo Josemarìa Escrivá, Degollado deve molto.
Nato in Messico, Degollado è stato accusato fin dall'inizio della fondazione della congregazione, nel 1941, di abusare di minori e di imporsi sulla volontà dei seminaristi adulti per intrattenere rapporti sessuali. Il fatto che la congregazione ai suoi inizi abbia agito in America latina ha avuto un peso rilevante. I rapporti tra Messico e Santa Sede non sono mai stati rosei. Soprattutto durante gli anni '30 e '40 del '900, il governo messicano era accusato dal papa e dagli organi di stampa cattolici di ogni genere di misfatti. Uno degli scopi della Legione è l'evangelizzazione attraverso l'educazione e la creazione di scuole private d'élite. Negli anni la Legione si è rivelata una straordinaria macchina per raccogliere fondi e, insieme, per contrastare la teologia della liberazione e frenare l'emorragia dei cattolici verso le chiese protestanti.
Le prime denunce contro Degollado sono arrivate in Vaticano intorno agli anni '50 e, secondo gli autori, hanno dato vita a un'indagine interna che non ha avuto seguito e di cui la Legione nega persino l'esistenza. Poi, un gruppo coraggioso di ex legionari vittime di abusi da parte del fondatore, ha presentato istanze alla Santa Sede nel '76, nel '78 e nell'89. Il loro scopo non era solo la condanna del sacerdote ma la rottura del silenzio da parte del papa. Giovanni Paolo II stava attraversando il mondo chiedendo perdono per le colpe della Chiesa, e ora doveva intervenire affinché fossero resi pubblici i peccati (e i reati) di uno dei suoi figli. La sua parola avrebbe potuto spezzare il silenzio intorno alla pedofilia di una parte dei sacerdoti e portare conforto alle vittime. Ma questa parola non l'ha mai detta. Un silenzio, per Barry e Renner, legato al potere. La Legione fa un buon lavoro e non se ne può condannare il fondatore. Benedetto XVI è nella stessa situazione e, per di più, ha rischiato di essere chiamato in causa da un tribunale Usa come uno dei responsabili dell'occultamento dei dossier sui sacerdoti pedofili. La sua elezione al soglio di Pietro, che lo trasforma anche nel capo di uno stato straniero, ha fermato l'istanza del giudice americano. Quest'anno il fondatore della Legione è stato «condannato» a una vita riservata di preghiera e penitenza. Per gli autori del libro non è abbastanza. Come non lo è per le vittime.
sestopotere.com 30.6.06
BOBBIO, FESTIVAL CINEMATOGRAFICO "FARECINEMA 2006"(Sesto Potere) - Piacenza. 'Farecinema 2006' è ideato da Marco Bellocchio ed è articolato nelle due sezioni di “Bobbio Film Festival” e “Laboratorio di Cinema”. Si deve a Regione Emilia Romagna, Provincia di Piacenza e Comune di Bobbio, che fruiscono del sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano, ed è stato presentato oggi, mercoledì 28 giugno, in conferenza stampa, nella sede della Provincia di Piacenza, presenti, con il noto regista piacentino, gli assessori alla cultura di Provincia, Mario Magnelli, e Comune di Bobbio, Bruno Ferrari, e Donatella Ronconi, per l’editoriale “Libertà” e per la Fondazione di Piacenza e Vigevano.
Il programma di Bobbio – Film Festival è in via di definizione. Tutti i film saranno proiettati al cinema Le Grazie dell’antico borgo, dal 16 al 30 luglio, alla presenza di molti di coloro che hanno contribuito a realizzarli (registi, sceneggiatori, parte del cast), e che risponderanno, alla fine della proiezione, alle domande del pubblico. La rassegna sarà inaugurata lunedì 17 luglio da
Musikanten, di Franco Battiato (sceneggiatura di Manlio Sgalambro, produttore Francesco Cattini). Martedì 18 luglio è in programma “12:08 a l’east de Boucarest”, film vincitore del premio Camera d’Or (riservato alle opere prime) all’ultimo festival di Cannes (presenti Corneliu Porumboiu, regista, e Luciano Sovena, amministratore delegato dell’istituto Luce). Sabato 22 luglio si proietta “Anche libero va bene” (sarà presente Kim Rossi Stuart, si attende una conferma da Barbora Bobulova). Domenica 23 luglio sarà la volta di “Notte prima degli esami” (presenti Enrico Brizzi e Cristiana Capotondi). Martedì 25 luglio tocca a “Piano 17” (Marco e Antonio Manetti). Domenica 30 luglio si chiude con “Il regista di matrimoni” (Marco Bellocchio e Donatella Finocchiaro). Verranno proiettati, in date ancora da definire, “L’enfant (ma non ci saranno i registi, i fratelli Dardenne), “La battaglia del cielo (si attende una conferma dall’attrice Anapola Musckadiz), “La guerra di Mario” (ci sarà Antonio Capuano, si attende una conferma da Valeria Golino), “L’enfer” (si attende conferma da Danis Tanovic), “Sangue” (presenti Libero De Rienzo, Emanuela Barilozzi e Elio Germano, con il direttore della fotografia Francesco Di Giacomo), “My father (sarà presente Egidio Eronico), “10 canoe” (si attende una conferma dal produttore Domenico Procacci) e “La passione di Giosué l’ebreo” (si attende una conferma da Pasquale Scimeca). Al film giudicato migliore tra quelli proposti andrà il “Gobbo d’oro”, istituito nel 2005 da Marco Bellocchio e ispirato al famoso ponte “gobbo” di Bobbio
PROGRAMMA del LABORATORIO DI CINEMA 17 – 29 luglio 2006
Il laboratorio Farecinema, realizzato grazie all’impegno di Marco Bellocchio, bobbiese per ascendenza paterna e che a Bobbio ha ambientato suoi film importanti, nasce nel 1997. All’interno dell’attività dei corsi sono stati realizzati, per la regia di Bellocchio, una serie di cortometraggi che sono stati invitati alle rassegne ufficiali Torino Filmfestival e Kyoto Film festival (“Sorelle” e “L’affresco”, 2000), e al Festival di Salonicco del 2002, che ha proposto la retrospettiva completa di Bellocchio, corti compresi.
Il periodo di svolgimento del laboratorio coincide con quello del festival (il laboratorio si tiene in ore diurne, proiezioni e gli incontri con gli autori in ore serali). Partecipano, dal ’97, venti giovani cineasti provenienti da diverse regioni italiane scelti in una rosa di 70\80 candidati. Il programma prevede la realizzazione di un cortometraggio che permette di percorrere, nell’arco di tempo di due settimane, tutte le diverse fasi creative di una produzione cinematografica: ideazione, sceneggiatura, regia, scenografia, recitazione, riprese, sonorizzazione e montaggio. Durante il laboratorio la presenza di Bellocchio è costante. Lo affiancano di volta in volta diversi collaboratori, tra cui molti grandi professionisti, che curano settori specifici quali la sceneggiatura, la fotografia, il sonoro in presa diretta, il montaggio, le musiche.
Nel corso degli anni si sono avvicendati molti e diversi tecnici che hanno portato nei vari settori la loro grande professionalità.
Per la sceneggiatura hanno collaborato, oltre a Bellocchio, Stefano Rulli, Domenico Starnone, Vincenzo Cerami, Gloria Malatesta e Claudia Sbarigia.
La fase della produzione è stata illustrata nel corso di vari anni da Marco Muller, attuale direttore del festival del cinema di Venezia e da Mario Orfini.
Il montaggio è stato spesso curato da Francesca Calvelli, David di Donatello per il film premio Oscar “No man’s land” di Denis Tanovic. Altre lezioni sul montaggio sono state tenute da Roberto Perpignani, collaboratore di molti dei film di Bernardo Bertolucci.
Tra gli operatori alla fotografia si sono alternati vari professionisti, tra cui Giampaolo Conti, William Cantero, Matteo Fago e Marco Sgorbati.
I tecnici del suono in presa diretta che si sono succeduti sono pluripremiati nel panorama italiano, tra David di Donatello e Nastri d’Argento: Maurizio Argentieri, Bruno Puppato, Alessandro Zanon e Gaetano Carito.
FESTIVAL CINEMATOGRAFICO “Incontri con gli autori ”
Direzione artistica di Marco Bellocchio
Nel corso degli anni molti cineasti hanno aderito all’invito di Marco Bellocchio per partecipare alla rassegna cinematografica “FARECINEMA - Incontri con gli autori”.
Tra il 1997 e il 2000 hanno presenziato, tra gli altri, Mimmo Calopresti cui è stata dedicata una retrospettiva, l’allora direttore artistico del Festival di Locarno e attuale direttore del Festival di Venezia Marco Müller, lo scenografo Marco Dentici, il produttore Mario Orfini, gli sceneggiatori Stefano Rulli, Domenico Starnone, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia e giovani autori come Fulvio Ottaviano, i Manetti Brothers, Piergiorgio Gay, Edoardo Winspeare.
Nel 2001, in collaborazione con il produttore-direttore di Fabrica Cinema, Marco Müller, sono intervenuti per presentare i propri lavori di fronte a un pubblico che ha sempre gremito la sala, il regista cinese Zhang Yuan, con “Diciassette anni” premio della Giuria a Venezia nel 1999 e Danis Tanovic, con “ No man’s land”, premiato a Cannes nel 2001 per la migliore sceneggiatura. Tanovic ha successivamente vinto il premio Golden Globe e il premio Oscar 2002 per il miglior film straniero. Nel 2002 Müller ha presentato il film di Babak Payami “Il voto è segreto”, premio speciale per la regia al Venezia Film Festival 2001.
Nel 2002 la rassegna era in parte improntato sul tema politico, con filmati di Roberto Giannarelli, Francesca Comencini, Citto Maselli e l’iraniano Babak Payami. Il regista Emanuele Crialese e l’attrice Valeria Golino hanno presentato “Respiro”, mentre lo stesso Marco Bellocchio, insieme a Sergio Castellitto e Toni Bertarelli hano presentato “L’ora di religione”.
La Rassegna 2003, svoltasi dal 9 al 20 settembre, ha visto una folta partecipazione al ciclo di 10 proiezioni serali. Hanno partecipato, oltre a Marco Bellocchio, che presentava “Buongiorno, notte”, i registi Franco Battiato, Edoardo Winspeare, Riccardo Milani, Daniele Ciprì, Franco Maresco, lo sceneggiatore Vincenzo Cerami, il produttore Marco Müller, il montatore Roberto Perpignani. Gli intervenuti hanno presentato i propri lavori e al termine delle proiezioni hanno partecipato ad un’approfondita discussione con gli spettatori intervenuti.
All’edizione 2004, 13 serate dal 19 al 31 luglio, hanno partecipato i registi Alina Marazzi, Maurizio Fiume, Francesco Patierno, Alessandro Valori, Andrea e Antonio Frazzi, Saverio Costanzo (premiato poche settimane dopo con il Pardo d’Oro al Festival di Locarno con “Private”), Michelangelo Frammartino, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e il grande regista americano Abel Ferrara.
Nel 2005 , dal 17 al 30 luglio, la rassegna si trasforma in Festival e Marco Bellocchio istituisce il premio Gobbo d’Oro, con riferimento al simbolo di Bobbio, il medievale Ponte Gobbo, che andrà a premiare il film giudicato il migliore tra quelli proposti. Famosi critici quali Morando Morandini ed Enrico Nosei vengono invitati per condurre i dibattiti successivi alle proiezioni. Fra i partecipanti: Renato De Maria e Isabella Ferrari, Babak Payami, Francesco Munzi, Daniele Gaglianone Fabiana Sargentini, Emma Rossi Landi, Stefano Mordini e Valentina Cervi, Saverio Costanzo e Mario Gianani, Antonietta De Lillo. Il “Gobbo d’oro 2005” viene assegnato al film “Saimir” di Francesco Munzi, mentre il Premio del pubblico va a “Silenzio tra due pensieri” di Babak Payami.
(Sesto Potere)