Stop alle distinzioni fra marito e convivente. Il ministro: difendiamo le donne e chi subisce discriminazioni
Le donne vittime
Stupri, molestie e violenze in casa giro di vite e condanne più dure
Il piano della Pollastrini: aggravanti per il coniuge
di Concita De Gregorio
Via libera all'utilizzo delle intercettazioni ambientali e telefoniche durante le indagini
L'insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato Più tutela della vittima durante il processo
ROMA - È una sorpresa trovare nella stanza del ministro Barbara Pollastrini, Diritti e Pari opportunità, il pubblico ministero Silvia Della Monica celebre per essersi occupata non senza difficoltà anche personali di "mostro" quando lavorava a Firenze e di massoneria a Perugia. «Il nostro capo dipartimento», la presenta il ministro. Della Monica ha sulle ginocchia la cartellina che contiene il nuovo disegno di legge contro la violenza domestica, i maltrattamenti e le molestie persecutorie a sfondo sessuale. Una legge che vuole difendere le donne e tutti i «discriminati per ragioni sessuali», gay e trans inclusi. Siamo qui a parlare, in anteprima, proprio di questo: il testo sarà portato in consiglio dei ministri entro dicembre, è stato studiato di concerto con il ministro della Giustizia Clemente Mastella, è ispirato al modello spagnolo (quella sulla violenza domestica è stata la prima legge del governo Zapatero). La legge italiana prevede pene più severe per la violenza che avviene tra le mura domestiche con aggravante se a commetterla è il coniuge o - assai importante - il convivente. Un´apertura alle coppie di fatto, altro tema in calendario al ministero. Dunque: fino a sei anni di carcere, pena che consente l´uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali durante le indagini. Per la prima volta, inoltre, una legge si occupa delle molestie persecutorie (telefonate, sms, pedinamenti, lettere, mail), in inglese "stalking": pene da uno a quattro anni aumentate di un terzo se le minacce sono gravi con possibilità, anche in questo caso, di utilizzare le intercettazioni in deroga alla norma generale. Misure cautelari decise dal giudice per interrompere le persecuzioni che arrivano fino agli arresti domiciliari o al carcere per il molestatore. Fino ad oggi era un reato da contravvenzione, 516 euro di ammenda: la differenza è radicale. Inoltre, estensione della legge Mancino contro le discriminazioni razziali, etniche e religiose anche all´orientamento sessuale e all´identità di genere: l´insulto o la violenza contro un gay diventa aggravante di reato e reato in sé. Si aggiungano la maggiore tutela della vittima nel processo (potranno testimoniare una sola volta nel corso delle indagini preliminari con l´incidente probatorio, cosa che riduce il disagio del teste oltre che i tempi del processo) e nessun faccia a faccia con l´aggressore. Un osservatorio permanente in cui saranno coinvolti anche i centri antiviolenza (tre milioni di euro stanziati in Finanziaria) sarà attivo al ministero.
È la prima legge concepita in queste stanze «in intesa con i ministri di Giustizia, Lavoro, Interni, Famiglia, Politiche sociali, Scuola e Comunicazione», dice Pollastrini. Sarà varata dal consiglio dei ministri e poi sottoposta al Parlamento dopo la Finanziaria «e soprattutto dopo che qui abbiamo definito bene la missione, i confini di competenza e le forze disponibili al ministero». Prima di tutto quindi Pollastrini si è occupata delle deleghe: con un decreto del 19 luglio ha avuto tutte le deleghe nazionali e internazionali in materia di Diritti umani e sociali. Di seguito il gruppo di lavoro: sono arrivati il pm Della Monica, Stefano Ceccanti a capo dell´ufficio legislativo, l´ex sindaco di Modena Alfonsina Rinaldi ad occuparsi della segreteria politica, Marcella Ciarnelli dall´Unità a far da portavoce, l´ex senatrice ds Graziella Pagano per i rapporti istituzionali. «Poi, vista la coperta stretta della Finanziaria, abbiamo dovuto fare delle scelte. Primo, i diritti umani e dunque il programma contro la tratta degli esseri umani e il rifinanziamento di quello contro le mutilazioni genitali. Secondo, un piano d´azione contro la violenza alle donne e alle identità di genere». Qui il ministro sospira. «La verità è che le élites e le classi dirigenti, anche nel centrosinistra, non hanno capito bene cosa rappresentino le donne oggi. Non hanno colto per esempio fino in fondo il senso del discorso di Clinton a Blair: "dobbiamo passare completamente all´epoca delle pari opportunità". Non hanno capito che senza l´espansione della funzione attiva delle donne non si riuscirà a rivoltare il paese, a renderlo più dinamico tollerante rispettoso e non ci sarà vera crescita. Noi dobbiamo trovare la via italiana fra il modello Sègolene Royal e il quello delle quote: una via fatta di regole, libertà e responsabilità».
Regole, in primo luogo. «Perché nel comitato di bioetica, che decide delle sorti del corpo delle donne, non ci devono essere tante donne quanti uomini? Perché non alla Corte costituzionale, tra i direttori e i vice della Rai, nelle aziende? In Spagna in Francia, in Giappone ci sono piani per raggiungere il 65 per cento dell´occupazione femminile, da noi siamo al 45, al sud al 27». Ecco allora una prima misura, già approvata in Finanziaria e in vigore da gennaio: le aziende delle «aree svantaggiate» (soprattutto dunque al Sud) che assumeranno una donna avranno un risparmio ulteriore, con l´Irap, di 150 euro al mese per lavoratrice. «In Svezia in Germania e nel Nord Europa ci sono leggi che puntano ad avere nell´arco di 7-8 anni almeno il 40 per cento di donne nei cda delle società quotate in borsa. Il 10 per cento all´inizio e poi ad aumentare, con incentivi e premi, con beneficio economico per chi lo fa. Cominciamo a pensarci anche noi. Per ogni dirigente donna uno sgravio fiscale. Penso però anche ai Tar, alla Banca d´Italia: l´assemblea di Bankitalia è uno spettacolo deprimente da questo punto di vista, e l´obiezione che già sento che non ci sono donne di qualità a quell´altezza è l´ultimo grande bluff degli uomini che detengono il potere. Posso fornire elenchi lunghi così di economiste e filosofe della scienza, di magistrate e analiste di primissimo livello. Arginiamo la fuga all´estero, questo patrimonio è la nostra vera risorsa».
La legge contro la violenza, allora. «Si comincia da qui, si deve abbattere il muro della vergogna e dell´impunità. È una questione anche di cultura. Col ministro Fioroni siamo d´accordo per studiare un piano che inserisca i temi della non violenza e del rispetto della persona nei programmi scolastici, con Gentiloni parleremo presto di codici per la Rai e per il mondo delle comunicazioni. Bisogna però anche, insieme, punire. Rendere socialmente odioso quel che ancora è in qualche modo tollerato. In Italia un omicidio su quattro avviene in casa, ogni tre morti violente una è una donna uccisa dal marito, dal convivente. Ogni giorno almeno 7 donne subiscono violenza. Allora: non devono più essere tollerate le molestie continuate e gravi in famiglia, nei luoghi di lavoro, per strada. Chi fa violenza a gay, lesbiche, transessuali a causa della loro identità deve essere punito. Se il violento è un parente o un convivente la circostanza è più e non meno grave. Si parte da qui: da una grande e coraggiosa sferzata, serve uno sguardo laico e fiducioso». Sembra un augurio rivolto soprattutto ai suoi colleghi di governo. Sono giorni in cui le donne ds si scontrano - Turco contro Serafini - per la legge sulla droga. «Io non capisco perché se discutono due donne è un litigio e se lo fanno due uomini è un confronto. Gli uomini passano il loro tempo in guerre di potere, se due donne hanno diverse opinioni è subito una bega da cortile. Stiamo molto, molto attenti a usare le parole ad applicare le categorie: è un fatto culturale, vede, lo è anche nei giornali e in tv. Poi certo, trovare uno stile che tenda all´armonia è auspicabile per tutti ma per le donne, ancora una volta, è un compito in più».
Repubblica 2.12.06
Il presidente consegna al Quirinale i premi De Sica a registi e attori. E rilegge gli anni della protesta
Napolitano: "Ripensiamo il ´68 cinema di novità ma anche di furori"
Elogio di Rondi, direttore della Biennale della contestazione
"Era una stagione di movimenti, con le sue ragioni e i suoi schematismi"
di Silvia Fumarola
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceve al Quirinale il cinema italiano per i premi De Sica e torna ai tempi della contestazione giovanile. «Il ‘68 è stato un´epoca di movimenti» esordisce «una stagione che aveva le sue ragioni e una sua forza vitale ma anche i suoi schematismi e i suoi furori». Ha al suo fianco Gian Luigi Rondi, presidente dell´associazione e anima dei David di Donatello: era alla guida della Biennale di Venezia, investita dalla contestazione, e ne fu bersaglio. «Ora» dice il presidente «possiamo guardare con maggiore serenità a quelle vicende e alle persone coinvolte senza negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire; ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Cerimonia sobria, in clima bipartisan: se Napolitano da una parte elogia Rondi, andreottiano, citando una lettera indirizzatagli nel ‘71 da Visconti con cui caldeggiava la sua candidatura alla Mostra di Venezia, dall´altra premia Citto Maselli, sottolineando l´evoluzione della sua ricerca registica. Da appassionato, chiede sostegno per il cinema. «Non immaginavo che già nei primi mesi del mandato mi si sarebbero presentate queste occasioni per riflettere sul ruolo che hanno teatro, cinema, danza e musica, in cui operano le nostre risorse più significative per dare all´Italia coscienza di sé e farla apprezzare all´estero». Il ministro della cultura Francesco Rutelli lo ringrazia, annunciando una legge di sistema da portare in Parlamento nel 2007. «Occorre che lo Stato snellisca le norme e dia risorse certe perché il cinema italiano sta tornando ai vertici: è dovere delle istituzioni far sì che la tendenza si consolidi».
Sorridono i premiati: Mariangela Melato, Gigi Proietti, Margherita Hack, Kim Rossi Stuart, Antonio Avati, Uto Ughi, Maurizio Scaparro, Paolo Portoghesi, Ennio Calabria, Vania Traxler Protti, Aleksandr Sokurov, il sindaco di Roma Walter Veltroni a cui va il riconoscimento «per meriti letterari e cinematografici». L´applauso più affettuoso, con gli invitati nel Salone dei Corazzieri in piedi, va a Fernanda Pivano: Napolitano interrompe il rigido protocollo, andandole incontro e scambiando qualche battuta con lei. Poi s´intrattiene con gli ospiti, insieme alla signora Clio. Veltroni intitolerà a Vittorio De Sica una sala del Palazzo delle Esposizioni, e il figlio del maestro, Christian, presente con i fratelli Emi e Manuel, fa un appello perché Roma trovi uno spazio per proiettare i classici. Maselli è commosso, scambia una battuta con Ettore Scola: «Hai visto, caruccio Giorgio... Il premio mi dà la carica per il nuovo film Questa sinistra, uno sguardo sulla realtà politica italiana».
Repubblica 2.12.06
LA STORIA
Ma il 1968 del cinema italiano cominciò prima dei movimenti di piazza
Bertolucci, Bellocchio & C. quelli dei pugni in tasca
di Paolo D'Agostini
ROMA - Il ‘68 del cinema in realtà comincia prima, o molto prima, del ‘68 dei movimenti studenteschi. In Francia con i primi film di Truffaut, Godard e degli altri ragazzi terribili della Nouvelle Vague. In Inghilterra con il Free Cinema di Gioventù amore e rabbia o Morgan matto da legare. E, oltre che in molte altre parti del mondo, anche in Italia. Dove il ventitreenne Bernardo Bertolucci da Parma con Prima della rivoluzione nel ´64, e il ventiseienne Marco Bellocchio da Piacenza con I pugni in tasca nel ´65, firmano i due manifesti di una rivoluzione non solo generazional-giovanile ma anche stilistica. Che però non ebbe lo stesso seguito e le stesse conseguenze dell´azione (violentemente e aggressivamente critica prima che creativa) e delle opere dei cugini francesi. Perché da noi il "cinema di papà" non solo manteneva saldamente il potere ma, soprattutto, manteneva intatta una carica vitale (Fellini) e anche trasgressiva (Antonioni) inesistenti altrove.
I nostri due campioni di quella stagione aspra e irruenta (ma confermatisi tali - campioni - ben al di là delle peraltro sacrosante intemperanze giovanili) si sono, per la prima volta assoluta, confrontati pubblicamente in un faccia a faccia moderato lo scorso ottobre alla Festa di Roma da uno dei suoi direttori Mario Sesti. «Erano», ricordava Bertolucci, «due film se non fratelli cugini: il mio dolcemente e malinconicamente autobiografico e quello di Marco atrocemente autobiografico».
Detto questo, però, le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica rievocavano, più che le istanze artistiche ed espressive di quella stagione, i termini di una polemica politico-culturale molto italiana e molto interna alla storia della sinistra italiana e del suo ‘68 (e dintorni). Polemica che in particolare intorno al nodo istituzionale della Biennale di Venezia, alla battaglia per la riforma del suo statuto risalente ad epoca fascista, vide scendere in campo agguerritissimi gran parte dei cineasti di sinistra - in un panorama cinematografico che era quasi tutto di sinistra - contro la nomina del democristiano Gian Luigi Rondi. E il Presidente ha fatto ieri riferimento a un episodio che proprio il nostro giornale ha ricordato (sul "Domenicale" dell'8 ottobre) nel celebrare il centenario di Luchino Visconti: pubblicando ampi stralci di una lettera che il "conte rosso", distinguendosi dai suoi compagni, indirizzò a lui, allora responsabile culturale del Pci, in difesa del celebre critico, persona «capace, professionalmente provata e sufficientemente sensibile a ciò che la situazione richiede», stigmatizzando come «ingiusto e ingiustificato» osteggiarlo per ragioni politico ideologiche.
Quel clima, quell´atmosfera, quel "68 del cinema italiano", che aveva avuto negli exploit giovanili di Bellocchio e Bertolucci ma anche nelle prime prove di altri registi giovani o un po' meno giovani come i Taviani e Ferreri, come Liliana Cavani e Roberto Faenza la sua anticipazione artistica, si propagò, in nome di battaglie, secondo Francesco Maselli, per niente estremiste e distruttive ma responsabilmente e giustamente politiche, soprattutto nei santuari dei festival. Con l'abbattimento, in primo luogo, della Mostra veneziana che avrebbe poi tardato un decennio a risorgere. Sostituita lungo i primi anni Settanta dalle barricate del "controfestival" allestito in pieno centro di Venezia, leggendariamente animato da figure come Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini. Il quale, se il primo non si faceva pregare alla chiamata scapigliata e giovanilista, non fu certamente tenero nei confronti dei movimenti studenteschi e giovanili. Ma non mancò all´appello. Che cosa resta oggi? È la domanda che le pur equilibratissime parole del Presidente lasciano un po´ sospesa in aria.
Repubblica 2.12.06
Gli oscuri Anni Cinquanta
Un convegno di storici a Roma
di Lucio Villari
Al centro della discussione il clima indotto dalla guerra fredda. Quando in Italia, anche gli intellettuali moderati, denunciavano censure e repressioni
1956: la Grande Crisi del comunismo e dei comunisti, specialmente gli italiani. Grandi ripensamenti, allora, degli uomini di cultura comunisti. E gli intellettuali non comunisti, ma che non erano anticomunisti? Quale era il clima culturale di cinquanta anni fa in Italia? Ecco dei frammenti del tempo che fu; degli anni "intorno" al 1956.
Con la data "Natale 1954" un gruppo di critici e scrittori diffuse un appello che, nel clima conservatore e democristiano, dovette apparire per lo meno inconsueto. Lo avevano firmato Anna Banti, Alberto Carocci, Luigi Chiarini, Roberto Longhi, Alberto Moravia, Carlo Muscetta, Luigi Russo. Nessuno di loro era comunista (Muscetta era simpatizzante, ma la sua formazione era azionistica), ma il testo fu pubblicato con rilievo su l´Unità del 31 dicembre. Era un regalo per l´anno nuovo e un preoccupato segnale di una tensione politica che sarà molto viva nella seconda metà degli anni Cinquanta. Il testo era in difesa di Gaetano Salvemini, Arturo Carlo Jemolo, Piero Calamandrei, Mario Melloni e Franco Antonicelli fatti segno, da tempo, di intimidazioni da parte di esponenti di un governo che si sarebbe potuto definire blandamente di centrosinistra (era presieduto da Mario Scelba con vice presidente Giuseppe Saragat) e dalla variegata destra italiana. Era sotto accusa il loro antifascismo pubblicamente manifestato e la loro intransigenza democratica e laica, anche se Jemolo e Melloni, il futuro Fortebraccio, erano cattolici. Stava creandosi in Italia una politica "artificiale", sull´onda melmosa del maccartismo, che vedeva pericolosa e sovversiva la normale evoluzione della vita democratica e giudicava eccessiva la creatività artistica (specialmente nel cinema e nella critica letteraria e storica). I firmatari dell´appello rivendicavano perciò la necessità di ristabilire forme normali di relazioni tra le istituzioni e la libera ricerca intellettuale.
«A dieci anni dalla Resistenza - scrivevano - , ogni intellettuale, ogni antifascista è persuaso che la sua protesta non resta espressione individuale e velleitaria, ma corrisponde alla più profonda e diffusa coscienza di libertà e di distensione del popolo italiano. Per questo oggi intendiamo riconfermare tali sentimenti, e salutare con spirito di solidarietà quanti si rendono conto della necessità e della possibilità di dare uno stabile corso civile e democratico, di là dal susseguirsi al potere di questa o quella formazione governativa, a tutta la vita italiana nell´ambito di più sereni rapporti internazionali».
Parole quanto mai lievi e civili se si pensa che si era in tempo di guerra fredda, di ricatto atomico, di scontro senza quartiere tra stalinismo imperante (anche se il dittatore era scomparso da oltre un anno) e Occidente capitalistico. Erano parole di democratici che sognavano perfino come possibile l´alternanza di "questa o quella formazione governativa...". Ma erano sogni proibiti: il 1955 infatti cominciava male e si preparavano tempi duri. E´ interessante rievocarli per sottrarsi al fascino e ai miti della prima repubblica e leggere meglio la faticosa evoluzione, anche attuale, del nostro sistema sociale.
Ai primi di luglio 1955 la rivista Emilia pubblicava una lettera aperta di Francesco Flora, un autorevole critico letterario, al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Flora denunciava soprusi e censure prevalentemente clericali (alcuni mesi prima Vitaliano Brancati aveva scritto un pamphlet contro la censura dilagante che aveva impedito, tra l´altro, la messa in scena a Roma della sua commedia La Governante), e indicava la dilagante "avversione verso l´intelligenza" che il governo e le istituzioni centrali e periferiche dimostravano in vari modi. Qualcosa di grottesco stava infatti penetrando nella vita culturale italiana. Pareva si stesse costruendo un regime di tipo salazariano: un clerico-populismo felpato, anestetizzante, ispirato da un sempre più ieratico Pio XII il quale informava gli italiani che gli era apparsa la Madonna. Inevitabili, quindi, le censure e gli interdetti. Si interruppero ad esempio le rappresentazioni al Teatro Eliseo di Roma della Mandragola di Machiavelli (con uno straordinario Sergio Tofano) e Flora dava notizia a Gronchi di numerosi episodi analoghi: la polizia «non consentiva in alcuni comuni emiliani il dibattito su Bellissima e Senso di Visconti» e cercava di impedire che «la signora Marie Seton, collaboratrice del grande regista Eisenstein, proiettasse e illustrasse il film Time in the sun. Sembra che in questa occasione un funzionario di questura abbia detto: "Ma chi è questo Einstein? Sarà un film sulla bomba atomica!"». E ancora, «il veto che la Direzione generale dello spettacolo ha creduto di poter porre alla rappresentazione de La camera buia di Tennessee Williams in un teatro sperimentale di Bologna. E vogliamo sorvolare sull´amenità di imporre allo stesso teatro che il titolo di una commedia Ritratto di Madonna fosse mutato in Ritratto di donna?».
Insomma, forse era l´invadente presenza dell´ambasciatrice degli Stati Uniti Claire Boothe Luce a rendere più accesi, nel nostro paese, gli ultimi fuochi del maccartismo americano? Non è facile dirlo. Seppure in quel clima distorto, i registi continuavano a fare film, gli scrittori a scrivere, i teatri a funzionare. Ma, quando nel 1956 furono rivelati i crimini di Stalin e, in autunno, vi fu l´insurrezione ungherese, il moderatismo italiano ebbe un´arma polemica in più.
E questa volta furono i registi, i più grandi, a protestare. Il 7 settembre 1959, Roberto Rossellini inviò una lettera aperta al ministro del turismo e dello spettacolo, il democristiano Umberto Tupini. La lettera di Rossellini era stata inviata all´Agenzia Italia che ne aveva però trasmesse soltanto poche righe ai giornali. Il regista decise allora di rivolgersi direttamente a l´Unità che la pubblicò due giorni dopo. Era un invito al nuovo ministro a rompere con le pratiche del governo nei confronti della libertà espressiva (era stato bloccato, tra l´altro, un progetto di film su Matteotti) di cineasti e sceneggiatori. Scriveva Rossellini: «Il cinema nazionale - e per cinema nazionale intendo quel settore dell´attività cinematografica che tale è riconosciuto in Italia e nel mondo - non può dichiararsi sotto alcun aspetto soddisfatto del lavoro svolto da più di dieci anni dalla Direzione generale dello spettacolo e dalle persone che le sono preposte». E dopo avere elencato le ragioni di tale giudizio, Rossellini toccava il punto della protesta (che fu sottoscritta da De Sica, Fellini, Bolognini, Amidei) coinvolgendo anche, con straordinaria intuizione, la neonata televisione: «Gli esempi quotidiani mi convincono purtroppo che il cinema e la televisione hanno servito un prodotto sintetico e artificiale della cultura e della conoscenza, con il risultato che questi mezzi hanno sollecitato lo sviluppo mentale dei bambini, ma hanno anche ristretto l´apertura mentale dell´adulto. Infatti lo slogan corrente dei facitori di spettacoli è quello di produrre per un pubblico che ha la mentalità media del dodicenne». E Rossellini incalzava nel denunciare quanti proteggevano «il cattivo gusto, la diseducazione morale, la banalità» di questi potenti mezzi di comunicazione. Il regista si assumeva quindi la responsabilità piena della denuncia. Franchezza che il 9 settembre Rossellini manifestava a un convegno che si teneva all´isola di San Giorgio nell´ambito della Mostra del cinema, in corso in quei giorni a Venezia. Alla presenza, tra tanti, di registi come René Clair e David Lean, Rossellini dichiarò: «La censura italiana è forte perché noi siamo deboli. È tempo di finirla con film per adulti infantiliti. Il cinema deve assumere una sua precisa funzione sociale, portare avanti un suo messaggio civile. Dobbiamo essere in grado di lavorare non più con fibre artificiali ma con le fibre della verità». E a questa disarmata profezia, cinquanta anni dopo, non si potrebbe togliere neanche una virgola.
Corriere della Sera 2.12.06
Napolitano e il Sessantotto: anche furori e schematismi
«Ora si può dare un giudizio sereno su quegli anni»
di Lorenzo Fuccaro
ROMA — Parlare di cultura e di cinema alla cerimonia di consegna dei premi «Vittorio De Sica» consente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di indugiare sul '68, sulla «contestazione» e di criticarne il settarismo e la faziosità. Quella, nota, fu «un'epoca o una stagione che aveva le sue ragioni e la sua forza vitale, e anche i suoi schematismi e i suoi furori». Osservando quel tempo convulso, il Capo dello Stato rileva però che «ora possiamo guardare con maggiore serenità a quelle lontane vicende e alle persone che vi furono coinvolte, senza tendere a negare le ansie di rinnovamento che naturalmente si riproducono, ed è bene che si facciano sentire, ma liberandoci da ogni residuo di impostazioni troppo parziali o puramente negative».
Napolitano cita un ricordo personale, indotto dalla presenza del critico Gian Luigi Rondi «di cui tutti conosciamo la tenacia e la passione con cui ha sempre fatto ininterrottamente la sua parte e portato avanti il suo impegno», e al quale rivolge «espressioni di considerazione e di amicizia». «Mi riferisco — afferma il Presidente — alla lettera, da poco ritrovata in archivio che il grande Luchino Visconti mi scrisse nel febbraio del 1971 per svolgere sagge considerazioni sul modo con cui le forze dell'opposizione di allora avrebbero dovuto condursi rispetto ai problemi che lo interessavano e per esprimere un motivato giudizio di fiducia in Gian Luigi Rondi».
Napolitano, a quel tempo, era responsabile del settore cultura del Pci. Ed è appunto a lui che si rivolge Visconti, uno dei registi tra i più importanti e da sempre considerato un compagno di strada dei comunisti ma poco incline al settarismo. La circostanza fu il dibattito sorto su chi potesse dirigere la Mostra di Venezia.
Il nome di Rondi, uomo legato al campo dei moderati — a quel tempo critico cinematografico del quotidiano romano Il Tempo — era stato avanzato dalla maggioranza guidata dalla Dc ed aveva suscitato una forte polemica da parte del Pci. Ebbene Visconti scrisse a Napolitano — la lettera è stata ritrovata recentemente nell'archivio dell'Istituto Gramsci ed è stata presentata alla rassegna dedicata al maestro milanese nel quadro della festa del cinema a Roma — per esprimere, come ricorda oggi il Capo dello Stato, «un motivato giudizio di fiducia» su quel candidato. Visconti, insomma, nel suo ragionamento seppe sfuggire «i furori» del tempo.
Corriere della Sera 2.12.06
Il ritorno degli atei
Libri, riviste, siti web. In nome di Darwin e Hume
di Antonio Carioti
«Un tempo dirsi atei pareva di cattivo gusto e ci si dichiarava agnostici per apparire più rispettosi verso i credenti. Oggi però, di fronte alla crescente pretesa delle chiese, specie la cattolica, di imporre le credenze religiose in un contesto pubblico, di introdurle nelle costituzioni e nelle leggi, il pudore di una volta è venuto meno e l'ateismo è diventato una forma di legittima difesa dall'aggressività integralista». Così Carlo Augusto Viano, autore del pamphlet anticlericale Laici in ginocchio (Laterza) e di un articolo intitolato Elogio dell'ateismo apparso su «MicroMega», interpreta il revival della polemica antireligiosa in Occidente.
In effetti, se in Francia Michel Onfray ha scalato le classifiche con il Trattato di ateologia (tradotto in Italia da Fazi), anche l'America dei predicatori evangelici e dei teocon, dove mai potrebbe essere eletto presidente un ateo dichiarato, mostra interesse per i fautori dell'incredulità. Un servizio su «Us News and World Report» c'informa dei buoni risultati ottenuti in libreria dallo scienziato evoluzionista Richard Dawkins con
L'illusione di Dio (lo tradurrà Mondadori) e da Sam Harris, già autore del bestseller ateo La fine della fede (Nuovi Mondi Media), con la sua aspra Lettera a una nazione cristiana. Mentre continua a far discutere il modo in cui Daniel Dennett cerca di spiegare la fede in termini darwiniani nel saggio
Rompere l'incantesimo, di prossima uscita da Raffaello Cortina Editore.
E l'Italia? Finora i lettori hanno premiato testi che non attaccavano la religione in quanto tale, ma l'attuale pontefice (l'anonimo Contro Ratzinger edito da Isbn), o elogiavano il relativismo più che l'ateismo, come ha fatto Giulio Giorello nel pamphlet Di nessuna chiesa (Raffaello Cortina). Ma si espandono anche le associazioni culturali apertamente antireligiose, come l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (www.uaar.it), nella quale sta per confluire l'analogo gruppo Nogod (www.nogod.it). L'Uaar, che pubblica da dieci anni la rivista «L'Ateo», conta nel suo comitato di presidenza nomi come Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, Danilo Mainardi, Sergio Staino, Laura Balbo. E il suo sito web registra una costante crescita di accessi.
Un riscontro in libreria viene dal successo di Un'etica senza Dio (pp. 109, e 12), testo filosofico di Eugenio Lecaldano che in breve ha raggiunto la quinta edizione e per Laterza è il titolo più venduto del momento. L'autore, legato all'empirismo di David Hume, afferma senza esitare che «l'ateismo è la cornice concettuale più favorevole all'affermarsi di una moralità». È l'esatto contrario del celebre motto «se Dio non esiste tutto è permesso», coniato da Fjodor Dostoevskij: «Se si fa dipendere la morale — spiega Lecaldano al "Corriere" — da una rivelazione divina, s'inducono i fedeli a ripetere dei comportamenti in modo passivo, invece di fare appello alla loro responsabilità e abituarli a riflettere con la propria testa. Così il credente non riesce a salvaguardare l'autonomia dei principi etici, perché finisce per pensare che la soluzione alle questioni morali risieda nella fedeltà ai contenuti di una tradizione religiosa, trascurando le esigenze e i reali sentimenti delle persone, spesso non rispondenti ai dettami della dottrina». Molto meglio, per Lecaldano, fare a meno di Dio: «L'idea che la moralità sia indipendente dalle tradizioni confessionali e accomuni tutti gli esseri umani, a prescindere dal loro credo, consente di adeguare le concezioni etiche ai bisogni delle persone e ai problemi nuovi che si presentano. Inoltre aiuta a superare le situazioni di conflitto causate dalla scelta di mettere in primo piano le identità particolari di natura culturale e religiosa».
Se è dunque plausibile un'etica senza comandamenti divini, si possono anche spiegare le origini della vita e dell'uomo senza ricorrere a una dimensione trascendente? La risposta positiva viene dal filosofo della scienza Telmo Pievani, assai polemico, nel libro Creazione senza Dio (Einaudi, pp. 137, e 8), verso chi ritiene che vi sia l'impronta di un «disegno intelligente» nel mondo naturale: «Questa teoria non ha basi scientifiche e trovo inaccettabile che in America si pretenda di insegnarla a scuola insieme all'evoluzionismo. Ma Darwin va preso sul serio anche sul piano filosofico: la sua è una sfida alle fedi, perché dimostra che l'esistenza dell'uomo si può spiegare senza fare ricorso a un intervento sovrannaturale. Ciò non significa però che le teorie darwiniane comportino l'inesistenza di Dio. In questo dissento da Dawkins e Dennett, mentre ritengo possibile un dialogo tra forme diverse di sapere: quella scientifica e quella filosofico-religiosa. Il Dalai Lama si è confrontato in modo proficuo con studiosi darwiniani».
Più difficile è però dialogare con i cristiani. In un saggio sul numero di «MicroMega» appena uscito, Pievani critica non solo Benedetto XVI, ma anche il teologo eterodosso Hans Küng, grande rivale del Papa, e il suo libro L'inizio di tutte le cose (Rizzoli, pp. 266, e 18): «Ratzinger — spiega lo studioso — pretende di annettere e subordinare la ragione scientifica a una razionalità più ampia illuminata dalla fede, scartando come irrazionale l'idea darwiniana che la specie umana si sia evoluta solo per mutazioni casuali e selezione naturale. Küng invece respinge apparentemente le suggestioni del disegno intelligente, ma cerca comunque di reimmettere nel discorso scientifico temi di carattere teologico».
Insomma, i motivi di conflitto prevalgono sulle ipotesi di convergenza. Basta sentire Viano: «Fra il credente e l'ateo non c'è la simmetria asserita da chi considera indimostrabile tanto l'esistenza quanto l'inesistenza di Dio. Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l'esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l'onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c'è».
La Stampa 2.12.06
Com'era rosso il mio Partito
L'ex sindaco Diego Novelli: "I leader della sinistra ora vanno a pontificare in tv come quelli della destra"
di Alberto Papuzzi
Giuliano Ferrara? «Considera tutto quanto gli sta attorno corrotto, marcio, puzzolente: "Perché così è la vita". Considera il mondo un enorme porcile e lui ci sguazza con cinismo, fingendo di divertirsi. Non sono certo che sia un uomo felice. Anzi, dubito fortemente che lo sia». Adriano Sofri? «Me lo ricordo giovanotto, nel lontano 1969, davanti alla porta 2 di Mirafiori, travestito da Lenin, quando impartiva lezioni ai lavoratori sulle forme di lotta da adottare accusando i sindacati e il Pci di essere succubi della Fiat. Chi non era d'accordo con lui era "un traditore della classe operaia"». Su Lotta continua: «Quello che trovo intollerabile è la pretesa degli ex lottatori continui, siano essi oggi di destra (e sono tanti) o di sinistra, di essere sempre, con saccenteria, i primi della classe».
Ce n'è anche per Walter Veltroni: «Ha già messo da parte la sua vocazione per l'Africa. Ci ha detto che glielo ha chiesto la gente. "Walter, non mollare, non ci abbandonare, resta con noi". E lui ha ceduto a questo grande desiderio del popolo».
Sulfureo, scanzonato, talvolta arrabbiato, per lo più divertito, ricco di verve come un trentenne, ma anche dell'esperienza della sua età, un po' nostalgico ma senza retorica, Diego Novelli, il sindaco della Torino rossa del 1975, racconta la sua militanza comunista e le storie dei compagni, ora cancellati, in un libro che esce da Melampo: Com’era bello il mio Pci (pp. 160, e10), illustrato dal fumettista Paolo Deandrea e dedicato ai giovani, quelli che dicono «Questo mondo, così com'è, non ci piace».
Di famiglia antifascista, cresciuto in Borgo San Paolo, chiamato il Borgo rosso («il mio quartiere»), entrato giovanissimo nella redazione dell'Unità, edizione di Torino, da lui diretta fra il 1961 e il 1975, sindaco popolare per dieci anni, quindi europarlamentare, quindi deputato, è sempre stato innanzi tutto un giornalista militante, anzi un cronista, in possesso di uno sguardo acuto, privo di pregiudizi ideologici, e capace di esperienze diverse: reportage, corrispondenze, libri, inchieste, anche il film Trevico-Torino.
Tutto questo si ritrova nel libro, nella forma svelta dell'appunto, del diario, della nota politica, del ritratto al volo, della confessione e della riflessione. Ci sono, naturalmente, le varie stagioni della sinistra torinese, con i molti personaggi che le hanno popolate, da uno snob come Franco Antonicelli a un dirigente del peso di Adalberto Minucci, da Giancarlo Pajetta, l'eterno «ragazzo rosso», a Emilio Pugno, sindacalista degli anni duri. Sullo sfondo la predilezione per Enrico Berlinguer: «Lo strappo di Berlinguer con l'Urss è stato una pietra miliare». E ancora: «Chi predisse per primo la degenerazione della politica e dei partiti, con un atteggiamento che non esito a definire da profeta laico, fu Enrico Berlinguer (...). Il partito non lo capì». La scomparsa di Berlinguer è uno snodo chiave: «Fu soprattutto dopo la morte di Berlinguer, il Segretario che teneva la barra ferma sulla giusta rotta, che il Pci cominciò ad andare alla deriva».
Ma in questa cronaca dall'interno l'analisi politica s'intreccia, continuamente e strettamente, con l'esperienza umana e con la memoria personale. Questo è il Pci del militante Novelli, che si toglie anche i sassolini dalla scarpa, per esempio nella ricostruzione della sconfitta contro Valentino Castellani, attribuita all'appoggio dato al suo avversario nel ballottaggio dai residui dc e craxiani, persino da leghisti e da missini. Sotto il torchio finiscono anche vicende che videro Novelli maltrattato dai suoi stessi compagni di partito, come quando denunciò le collusioni mafiose di un esponente siciliano repubblicano e sul suo giornale dovette leggere una rettifica di Ugo La Malfa, accompagnata dalle scuse dell'Unità, che rimproverava di fatto al suo inviato di essersi fatto sfuggire dalla penna un'espressione scorretta. Decisa ma non aspra, in genere ironica, e con il gusto della battuta, la polemica è un po' il fil rouge che attraversa il libro.
Anima la polemica, ovviamente, il confronto fra ieri e oggi. «L'attuale classe dirigente dei Ds non ha più alcun rispetto non dico per gli elettori ma nemmeno per gli iscritti. Loro fanno tutto in televisione, attraverso Ballarò e Porta a porta. Ci vanno sempre gli stessi e pontificano su tutto e su tutti. Esattamente come fa la destra».
Oppure: «La Festa dell'Unità è una delle poche cose che si è salvata. Ma oggi è quasi del tutto commercializzata. Data in appalto». Oltre a Ferrara e Veltroni, a Sofri e Castellani, anche Giuliano Amato, Luciano Barca, persino Amendola, sono bersagli delle frecciate di Novelli. E Mussi, in una pagina che giustifica il titolo. «Per me il Pci è stato e sarà sempre una cosa bella. E non l'ho mai considerato "un bambolotto di pezza", secondo un'infelice definizione di Fabio Mussi, quando era impegnato a difendere la cosiddetta svolta della Bolognina».
il manifesto 2.12.06
l'intervento / La rivolta ungherese non è stata soffocata dal comunismo
La risoluzione approvata dal Parlamento europeo, il 24 ottobre scoroso, «concernente il cinquantesimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1956 e il suo significato storico per l'Europa», al Paragrafo 3, «sottolinea che la comunità democratica deve respingere inequivocabilmente l'ideologia comunista repressiva e antidemocratica e difendere i principi di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto e prendere una chiara posizione ogniqualvolta essi siano violati». E' stato invece respinto un emendamento che condanna tutte le iniquità commesse in nome del comunismo, ma in verità incompatibili con quel movimento in quanto aspirazione alla giustizia e alla libertà.
Gli estensori di questo documento si associano alla condanna di qualsiasi azione repressiva volta a imporre un ordine autoritario di marca imperialista che soffochi l'espressione di bisogni, aspirazioni, concezioni in fermento continuo nella società civile. Sappiamo che la distorsione stalinista del comunismo ha dato luogo, su vasta scala, a azioni repressive che hanno compromesso, nella coscienza di milioni e milioni di donne e di uomini, il valore di un'idea: la costruzione di un senso comune o comunista attraverso cui edificare nuove forme di vita associata e di partecipazione civile. Per questo riteniamo che i parlamentari europei, che hanno espresso un giudizio sommario sul comunismo, si espongono al sospetto o di una carente formazione culturale o di una larvata acquiescenza opportunistica.
E' preoccupante carenza culturale ignorare un lungo itinerario che è storia perché è pensiero alto, le cui vette si chiamano (per pronunciare soltanto alcuni nomi) il Platone assertore di un mondo immateriale e di valori ideali culminanti nel Bene e nella Giustizia, il Tommaso Moro santificato dalla Chiesa cattolica anche in ragione della sua utopia ugualitaria, un Karl Marx che invocava la libertà di ciascuno come condizione per la libertà di tutti, e che anche l'opinione comune del nostro tempo riconosce come un grande maestro dell'umanità, un Antonio Gramsci, il cui pensiero può riassumersi nel concetto della storia come, tutta, anelito di libertà, e che è il pensatore italiano, dopo Dante Alighieri, più studiato e più tradotto in tutti i continenti. La civiltà europea vorrà dunque recidere una delle sue radici storiche? E coloro che, dalle loro cattedre, impartiscono ai giovani studiosi o studenti la lezione di quelle opere classiche dovranno invece metterle al bando, immemori di quell'altra radice che è l'Illuminismo?
Nella storia del Novecento, mentre la lotta al fascismo (nel quale ideologia totalitaria e repressione politico-poliziesca coincidevano appieno e sotto ogni profilo) è stata la necessaria premessa per riconquistare la democrazia, al contrario l'anticomunismo virulento ha fatto da battistrada ovunque, in Europa come nelle Americhe, all'avvento del fascismo. A chi giova, dunque, ribattezzare sotto il segno dell'anticomunismo la rivolta ungherese, se la stessa mozione del Parlamento europeo, nel punto F delle premesse, contraddicendosi, rende «omaggio al coraggio umano e politico di Imre Nagy, il primo ministro comunista-riformatore dell'Ungheria» e se quel sommovimento fu attivamente sostenuto dal grande pensatore comunista György Lukács? Se anche la Primavera di Praga fu salutata e guidata dall'altrettanto generoso dirigente comunista Alexander Dubcek? E i tanti comunisti perseguitati o fatti fucilare da Stalin dovremo (in quanto essi sarebbero stati perseguitati e fucilati dall'«ideologia comunista») considerarli anche noi nemici del comunismo, come li giudicava Stalin?
Ma, dicevamo, altri denegatori del comunismo in assoluto potrebbero esporsi al sospetto, direbbe Gramsci, di trasformismo sia pure inconsapevole, se il loro assecondare gli ignari o gli intolleranti fosse dettato da cattiva coscienza o dal bisogno di far perdere le tracce del loro passato: se così fosse, non di quel loro passato converrebbe vergognarsi, ma della loro miseria presente.
Il giudizio sulle azioni liberticide come la repressione dell'Ungheria del 1956 non può e non deve essere contestualmente mitigato neppure adducendo altre colpe di altri soggetti e di altri tempi. Ma, confessiamo, ci consolerebbe il sapere che, in altre circostanze o in altre sedi, autorevoli rappresentanti dei popoli e delle tradizioni europee fossero più propensi a riconoscere i limiti, passati e presenti, delle politiche praticate e predicate dal cosiddetto mondo opulento. Voci maligne potrebbero insinuare che il muro di Berlino ha fatto scuola: sulla linea di frontiera che separa il Messico dal suo più potente vicino di casa o sulla terra palestinese nella quale le tre grandi religioni monoteiste dovrebbero incontrarsi, non scontrarsi. Ma è forse ancor più inquietante il muro ideologico (certamente incompatibile con i classici principi di libertà e con le cristiane massime della carità e dell'accoglienza, anch'esse una radice profonda della civiltà europea), quel muro che eguaglia a una sterminata moltitudine di quasi-paria, su scala mondiale e all'interno delle stesse nazioni occidentali, coloro che sono strutturalmente esclusi dal mercato, dal lavoro e persino dal cibo quotidiano.
***Etienne Balibar, philosophe, Un. La Sorbonne, Paris; Giorgio Baratta, pres. Intern. Gramsci Society-Italia, «L'Orientale» di Napoli; Jacques Bidet, philosophe, dir. de la revue «Actuel Marx» Paris; Derek Boothman, prof. di Traduz., Un. di Bologna; Giuseppe Cacciatore, dir. del Dip. Filosofia, Un. Federico II, Napoli; Carlos Nelson Coutinho, profess. Un. Federal Rio de Janeiro; Patrizio Esposito, fotografo e artista grafico; Dario Fo, premio Nobel per la Letterat.; Rada Ivekovic, prof. Un., Paris; Guido Liguori, Univ. di Calabria e dirigente Int. Gramsci Society-Italia; Marina P. Musitelli, prof. Letterat. It., Un. di Trieste; Alessandro Portelli, prof. La Sapienza di Roma; Giuseppe Prestipino, Un. di Siena, pres. on. Centro per la Filosofia It.; Franca Rame, attrice e senatrice; Annamaria Rivera, prof. di Etnologia, Un. di Bari; Rossana Rossanda, scritt. e giorn.; Edoardo Sanguineti, poeta, critico, prof. Un. di Genova; Silvano Tagliagambe, prof. Un. di Sassari; André Tosel, prof. de Philosophie, Un. de Nice; Mario Tronti, Un. di Siena, pres. Crs; Pasquale Voza, Un. di Bari, pres. Centro Interuniv. Studi Gramsciani