sabato 19 aprile 2008

PIETRO INGRAO
«Siamo in un momento aspro e delicato per la nostra nazione. Si sono svolte le elezioni politiche e hanno visto la vittoria di un capo reazionario come Silvio Berlusconi. Ritengo che sia un evento brutto e grave per il mio paese e soprattutto per le grandi masse di lavoratori, oggetto di duro sfruttamento. Non c’è tempo però per lacrime e recriminazioni. Non possiamo rinchiuderci nel guscio di casa. Bisogna riprendere da subito, da domani stesso, la lotta. Ci sono già di fronte a noi nuovi appuntamenti brucianti, di grande importanza: prima di tutto l’elezione del sindaco di Roma capitale: città che è un simbolo per il mondo intero. Avanti allora a lavorare adesso col popolo e nel popolo per l’elezione di Francesco Rutelli, combattente generoso e conoscitore profondo delle questioni romane, a guida della metropoli capitolina. Questo è il compito alto e grave che sta ora dinanzi alle forze democratiche e di sinistra, e che non ci consente soste. La lotta continua. Da vecchio e testardo militante mi rivolgo al popolo romano e chiedo, invoco: in queste ore cruciali dia ognuno un contributo per eleggere Rutelli a sindaco di Roma»

l’Unità 19.4.08
Rifondazione, dopo la sconfitta l’assalto al quartier generale
Giordano potrebbe ritrovarsi in minoranza. Il Pdci propone di riunire i comunisti: critico Rizzo, no dal Prc
di Simone Collini

A SINISTRA le macerie sono ancora fumanti, tutti parlano di ricostruire, ma intanto ci si spacca per segnare la posizione, complici i congressi straordinari convo-
cati per luglio.
In casa Pdci, Oliviero Diliberto propone di ripartire dall’unione dei comunisti, la direzione del partito approva a larga maggioranza la proposta ma Marco Rizzo non partecipa al voto per protesta, visto che il segretario ha sì definito morta e sepolta la Sinistra arcobaleno, ma ha anche rivendicato che era l’unica scelta possibile alle ultime elezioni.
In casa Prc, Franco Giordano propone di dar vita a una costituente della sinistra, uno «spazio pubblico in cui tutte e tutti possano intervenire, pesare e decidere», sottolineando che non ha «mai pensato allo scioglimento di Rifondazione comunista». Ma Paolo Ferrero e le minoranze del Prc non esiteranno, alla riunione del comitato politico nazionale che si apre oggi e si chiude domani, a sfidare anche con un voto il segretario, proponendo di sostituire in questa fase congressuale la segreteria con un comitato di gestione all’interno del quale la maggioranza sia minoranza (l’ipotesi è che ne facciano parte un esponente indicato da Giordano, uno da Ferrero e uno dalla componente Essere comunisti di Claudio Grassi). Due esempi che la dicono lunga sulle difficoltà che dovranno essere superate a sinistra e che annunciano congressi tutt’altro che semplici, sia per il Prc che per il Pdci.
La sua proposta Diliberto la mette sul piatto alla direzione del partito: abbandonare al suo triste destino la Sinistra arcobaleno e lavorare invece per l’unificazione di Comunisti italiani e Prc. «Ora occorre ricostruire la sinistra iniziando da noi stessi, quindi rimettendo insieme i due partiti comunisti e tutti gli altri comunisti che non si riconoscono in Rifondazione e nel Pdci». Questa sarà la piattaforma con cui Diliberto si presenterà al congresso dei Comunisti italiani, che verrà convocato per luglio. Una piattaforma che però, per il segretario del Pdci, deve poggiare su una «autocritica severissima» su quanto fatto negli ultimi mesi con la Sinistra arcobaleno: «Il simbolo, l’insediamento sociale, la campagna elettorale sbagliata e anche il profilo della sinistra stessa». Ora bisogna «ricostruire da capo», ripartendo dalla falce e martello: «Con quel simbolo due anni fa abbiamo preso 3 milioni e 700 mila voti. Con l’Arcobaleno solo un milione». L’autocritica non è però per Rizzo abbastanza severa: il coordinatore del Pdci chiede di votare la relazione di Diliberto per parti separate, annunciando il suo voto contrario per la parte riguardante il passato (Sa unica scelta possibile) e a favore per il futuro. Richiesta respinta, e allora Rizzo non partecipa al voto. Alla fine la relazione viene approvata, dai 104 membri della direzione, con due no, cinque astenuti e sette non partecipanti alla votazione.
Ben più infuocata sarà la riunione del comitato politico di Rifondazione, a cui di sicuro non parteciperà Fausto Bertinotti. Si apre oggi con la relazione di Giordano, che rilancerà la costituente della sinistra e risponderà no alla proposta di Diliberto, che il capogruppo uscente del Prc Gennaro Migliore non esita a definire «ancora più disastrosa della già cataclismatica sconfitta elettorale». I lavori si chiudono domani, con un voto che può mettere in minoranza il segretario. Lo scenario è questo: Ferrero, anche lui contrario alla proposta di Diliberto, proporrà insieme a Giovanni Russo Spena e Ramon Mantovani non solo «il rilancio di Rifondazione» ma anche la creazione di un comitato di gestione che curi la preparazione del congresso; la minoranza dell’Ernesto presenterà un documento da mettere al voto in cui si punterà il dito sulle responsabilità del gruppo dirigente; andrà all’attacco anche la minoranza guidata da Grassi, che tra l’altro ha poco apprezzato la risposta di Migliore a Diliberto. Se, come al momento appare possibile, si sommeranno i voti di Ferrero e delle minoranze, Giordano finirà in minoranza. E Ferrero potrebbe cominciare da una posizione di vantaggio la campagna congressuale.

l’Unità 19.4.08
«Liberazione»: paura per il futuro del giornale

Il comitato di redazione e le rappresentanze sindacali unitarie di Liberazione, «alla luce dell’esito elettorale di domenica e lunedì scorso, che ha prodotto l’esclusione dal prossimo Parlamento della Sinistra Arcobaleno, esprimono la propria preoccupazione e quella dei lavoratori e delle lavoratrici per il destino e l’autonomia della testata». In una nota, il cdr e le rsu «chiedono quindi garanzie da parte della società editrice di Liberazione, la Mrc Spa, riguardo le sorti del giornale e il mantenimento dei livelli occupazionali nell’immediato e nel prossimo futuro». Le preoccupazioni delle rappresentanze sindacali si riferiscono in particolare ai contributi pubblici destinati ai quotidiani che fanno riferimento a Gruppi parlamentari, qual è appunto Liberazione, che ha come riferimento Rifondazione comunista.

Corriere della Sera 19.4.08
Resa dei conti Il ministro: comitato di gestione. Il no di Giordano
Prc, Ferrero va all'assalto Cambi in vista a «Liberazione»
Bertinotti si prepara a dare l'addio alla vita politica
di Maria Teresa Meli

ROMA — Non sarà oggi l'addio di Fausto Bertinotti. Oggi, per il Prc, sarà il giorno della divisione, che preluderà a una possibile scissione, più in là nel tempo. Paolo Ferrero e suoi alleati in nome della falce e martello intendono riprendersi il partito nel comitato politico che si riunisce nel pomeriggio. E hanno i numeri per farlo. Come hanno i numeri per commissariare Liberazione. Con un vero e proprio blitz, ossia destituendo il direttore Piero Sansonetti e mettendo al suo posto l'ex capogruppo del Senato Giovanni Russo Spena (legato a Ferrero dalla comune militanza in DP), oppure limitandosi a commissariarlo. Ma al momento l'opzione più gettonata dal ministro della Solidarietà sociale è la prima.
Fausto Bertinotti, comunque, non ci sarà. Oggi, per ovvi motivi di opportunità. Ma potrebbe non esserci neanche un domani. Il "subcomandante" Fausto, come lo chiamavano i suoi quando tutto andava bene, sta maturando la decisione di lasciare la vita politica attiva. «E' stato grave da parte mia - è il suo pensiero - non capire quello che stava succedendo e non posso rifuggire dalle mie responsabilità». Le dimissioni che aveva dato in diretta tv non bastano. Certo, ora Bertinotti non lascerà soli i "compagni" che finiscono in minoranza per essere stati dalla sua parte. Li accompagnerà fino al congresso prossimo venturo che con tutta probabilità si svolgerà a luglio. Ma il suo viaggio, probabilmente, terminerà lì. Medita addirittura di chiedere "scusa", Bertinotti, ma più in là, non quando Ferrero, oggi, lo metterà sul banco degli imputati.
Dunque, il presidente della Camera non andrà al comitato politico. E non ascolterà l'intemerata di Ramon Mantovani secondo il quale «il gran frequentatore dei salotti deve andarsene a casa». In compenso ci saranno tutti gli uomini di Bertinotti, dal segretario dimissionario Franco Giordano all'ex capogruppo a Montecitorio Gennaro Migliore. Dovranno essere loro a fare da bersagli all'offensiva di Ferrero e dei suoi. Il ministro della Solidarietà sociale, però, giocherà d'abilità. Formalmente non si impossesserà subito in prima persona del partito, ma proporrà all'ala bertinottiana di Rifondazione un comitato di gestione in cui siano presenti tutti. All'apparenza un'offerta di pace, in realtà un modo per coinvolgerli nella conduzione del partito, cosicché al congresso, quando Ferrero proverà a farsi eleggere segretario, non potranno smarcarsi da lui.
Ma se questa è la proposta, Giordano e gli altri hanno deciso di rispondere di "no": non entreranno in un organismo «fintamente collegiale», fanno sapere, e che «in realtà verrà gestito dal solo Ferrero». Questo "no", però, non equivarrà a un annuncio di scissione. I bertinottiani tenteranno di riprendersi la maggioranza al Congresso (e in questo caso il loro candidato sarà Migliore). Ma se non non ci riusciranno si troveranno davanti a una strada obbligata: quella della scissione. Per fare che? «Per cercare», rispondono loro, «di costruire la sinistra con chi ci sta». Ossia con la Sd di Fabio Mussi, con un pezzo dei verdi (l'altro pezzo vuole già confluire in tutta fretta nel Pd) e con una parte dei movimenti.
Alla fine la sinistra risulterà polverizzata. Ci saranno il Prc con falce e martello di Ferrero, il Pdci di Diliberto (con cui però il ministro di Rifondazione non vuole allearsi), la sinistra critica di Turigliatto, quella di Ferrando e quella movimentista e non comunista dei bertinottiani... Un arcipelago piccolo, ma, in compenso, molto frastagliato.

l’Unità 19.4.08
«Una casa comune per i comunisti»
Centinaia le adesioni

Sono centinaia le adesioni all’appello «Comunisti di tutta Italia, unitevi», fatto proprio anche dalla segreteria di Comunisti italiani. L’appello era stato lanciato cento intellettuali o esponenti del mondo del lavoro e dello spettacolo: da Ciro Argentino, operaio Thyssen, all’astrofisica Margherita Hack, al filosofo Gianni Vattimo. E ancora lo storico Luciano Canfora, Vauro, Bebo Storti, Marco Baldini. Un appello alla costruzione di una «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario», rivolto alle «centinaia di migliaia di comunisti senza tessera».
L’appello attacca duramente la proposta di Franco Giordano, Prc: «Non condividiamo l’idea di un soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente un’accelerazione, nonostante il fallimento politico-elettorale. Proponiamo invece una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (Prc e Pdci) vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche auto-referenziali». Insomma, l’obiettivo è «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario».

l’Unità Roma 19.4.08
Gli ultras e lo squadrismo mistico-fascista
Gli arresti e il sequestro dei documenti che hanno permesso di collegare lo stadio e l’assalto a Villa Ada
di Massimiliano Di Dio

TEORIE «Il nucleo più consapevole degli Ultras Lazio ha un retroterra teorico che lo porta a identificare nello squadrismo mistico-fascista l’essenza di una condotta che vuole essere una risposta alla sterilità politica contingente». Tifo e ideologie fasciste appaiono per la prima volta insieme per iscritto nel manifesto del tifoso dell’Olimpico. Titolo: «Ultras: oltre il tempo. Storie di barricate e lacrimogeni». Un documento di ventinove pagine trovato a casa di Roberto Sabuzi, 41 anni, fede laziale. Per tutti lui è er Capitano, uno dei tifosi arrestati nella capitale per gli assalti alle caserme la notte dell’11 novembre scorso, subito dopo l’uccisione di Gabriele Sandri. «Quando parte "la carica alle guardie" - si legge - il grido di battaglia, come una sfida intera al mondo antifascista, rimane il classico Duce Duce». Quello stesso grido che accompagna gli ultras di estrema destra nella spedizione punitiva del 28 giugno 2007 a Villa Ada durante il concerto rock della Banda Bassotti. I feriti allora furono tre ma quell’irruzione, ribadiscono ora i carabinieri, «confermò la matrice politica che univa le singole tifoserie, laziali e romaniste, la cui aggressività trovava sfogo anche al di fuori dello stadio». Spedizioni punitive all’insegna della xenofobia. Dettate da un linguaggio senza filtri: «Sarebbe da sparaje in faccia alle guardie. Che te credi che non m’andrebbe de ammazzalla na guardia?», «Sti rumeni stanno infestando la nostra razza», «Stasera voglio ammazzare qualcuno, voglio andare in battaglia». Tra gli obiettivi portati a termine secondo l’accusa, oltre all’attacco a Villa Ada, anche un tentato incendio ad una baracca di rom, l’occupazione di un immobile Atac e soprattutto l’assalto alla caserma di via Guido Reni. In programma poi l’attacco ad un campo nomadi quale risposta all’omicidio di Giovanna Reggiani e una missione violenta in Campania per partecipare agli scontri sui rifiuti. Insieme a Sabuzi finiranno in manette altre quindici persone accusate, a seconda delle posizioni, di associazione a delinquere, devastazione e lesioni. Per alcuni c’è l’inedita aggravante del terrorismo. Molti sono vicini a Forza Nuova, tra loro anche Daniele Pinti, scarcerato insieme a Fabio Pompili perché risultato estraneo al contesto accusatorio e transitato nelle liste del “popolo della vita per Alemanno”. Gli inquirenti sanno di aver sferrato un duro colpo alla caccia avviata contro «gli sbirri e le strutture dello Stato». La sensazione è di aver decapitato ma non annientato l’organizzazione. Dopo gli arresti, non ci sono stati nuovi episodi di violenza. «Sanno di essere sotto controllo - fanno sapere gli investigatori -. Ma l’attenzione è sempre alta. Possono fare danni enormi. All’Olimpico la coltellata alla gamba potrebbe trasformarsi in altro e ci vuole poco per far scappare il morto». Lo stadio sotto controllo, com’è ovvio. Secondo i dati del Viminale su un esercito di 75mila tifosi, oltre 20mila sono violenti. Di questi 15mila si ispirano alla destra oltranzista e 5mila all’estrema sinistra. Gente pronta a colpire in ogni modo l’avversario. Tra le tifoserie più temute: quelle della Roma (Bisl, Basta infami solo lame, Tradizione e distinzione) e della Lazio (Banda noantri, cui appartenevano almeno tre degli arrestati). Entrambe ormai accomunate dalla matrice politica di estrema destra. «L’ultras nasce e muore clandestino - recita un volantino del 2003 diffuso da Bisl all’Olimpico - soprattutto non tradisce i suoi amici perché il numero uno resta chi lo vuole eliminare. Onore ai detenuti, ai diffidati, morte alle spie».

l’Unità Roma 19.4.08
«Con Gianni Alemanno l’estremismo fascista»

«Al di là degli apparentamenti, Alemanno e i suoi alleati più o meno ufficiali rischiano di far arretrare Roma e la cultura democratica che l’ha caratterizzata in questi anni», avvertono a due voci i vertici romani di Pd e Sinsitra Alternativa. Denunciano Riccardo Milana e Patrizia Sentinelli: «Alemanno ha candidato tra i suoi un esponente di Forza Nuova, Daniele Pinti. Abbiamo una destra xenofoba e intollerante che ha visto come protagonista Luca Romagnoli, un signore quarantenne che ha fatto impallidire il parlamento di Strasburgo con le dichiarazioni che negavano l’Olocausto». A riprova gli esponenti politici che sostengono Rutelli nella sfida per Roma mostrano le locandine che pubblicizzano le iniziative dei centri sociali di destra, primo fra tutti Casa Pound: Paolo Di Canio che fa il saluto fascista sotto la Curva Nord; Benito Mussolini, ancora in fase squadristica, che sgrana gli occhi in un primissimo piano. E ancora: camice nere ritratte in pose plastiche mentre partono alla ‘carica’ con il fez ben calcato sulla testa. «In un clima in cui si parla di legalità ci sono sedi di proprietà pubblica occupate da anni da circoli della destra in continuità con le ideologie del Ventennio e con cui Alemanno si appresta a fare un’alleanza», dice Riccardo Milana, segretario romano del Partito Democratico. E poi aggiunge: «A casa Pound è andato a fare campagna elettorale Francesco Storace, il 14 marzo. Alemanno - continua l’esponente Pd - nel 2003 sosteneva ancora che il fascismo non fu solo leggi razziali e non può essere definito il male assoluto, nè tantomeno An può apparire come un partito antifascista».
«Questa città ha comunque gli anticorpi per rispondere a questi personaggi», dice anche Massimo Cervellini, segretario romano di Sinistra Democratica.

l’Unità Firenze 19.4.08
25 aprile, l’appello di Anpi, Arci e Cgil

Primo avvertimento al premier in pectore Silvio Berlusconi, che in passato spesso ha snobbato le celebrazioni del 25 aprile, festa della Liberazione: «Attui il dettato della nostra Costituzione nella sua interezza e sia sempre rispettoso di tutti i diritti che la Costituzione consente al popolo italiano». Parola dell’ex partigiano «Pillo», oggi noto come Silvano Sarti, presidente dell’Anpi provinciale di Firenze. E per tramandare a giovani e bambini l’importanza e il significato della Liberazione, Arci, Cgil e Anpi organizzano per il 25 aprile iniziative e feste nelle case del popolo di Firenze e provincia, incontri nelle fabbriche e un’intera giornata di manifestazione in piazza Ghiberti, promossa con gli studenti universitari. Il 21 aprile la Cgil sarà alla Galileo insieme al presidente nazionale Anpi Tino Casali, mentre il 23 è previsto un incontro al nuovo Pignone col presidente della Regione Claudio Martini. Il 24, invece, per inaugurare un nuovo piano della sede del sindacato è stata organizzata una tavola rotonda col sindaco Leonardo Domenici. Pranzi, proiezioni, dibattiti, mostre, incontri e musica animeranno invece le tante iniziative organizzate presso i circoli Arci del territorio fiorentino, sia nei giorni del 25 aprile che successivamente. «Democrazia, lavoro, libertà, antifascismo: è fondamentale tramandare i valori del 25 aprile e della Costituzione ai più giovani, soprattutto in questo momento così particolare», vogliono ricordare Francesca Chiavacci, presidente di Arci Firenze, e Mauro Fuso, segretario della camera del lavoro. t.gal

Corriere della Sera 19.4.08
La verità nascosta del regime «mussolinista»
Piero Melograni: non ci fu un'ideologia fascista ma soltanto il potere personale di un dittatore
di Dario Fertilio

Si comincia con il dramma delle trincee: fango e baionette sui fronti del '15-18, e poi quella rabbia per la «vittoria mutilata» che sarebbe presto degenerata in fascismo. E si finisce con la tragedia dell'aprile 1945, quando nel crepuscolo del regime si consumano grandi eroismi e piccole vendette da guerra civile.
Tra l'uno e l'altro evento, in un arco di tempo da riassumere e spiegare — anche per smontare i luoghi comuni interpretativi intorno a quegli anni — c'è lo storico Piero Melograni. La sua rivisitazione del ventennio nero — una ricerca in cui ha selezionato, interpretato e commentato una enorme quantità di materiale con l'aiuto della giovane studiosa Federica Saini - rappresenta anche l'occasione di lanciare una diversa definizione del regime. Che fu in realtà, secondo il suo giudizio, «mussolinismo ».
Ma c'è una differenza significativa tra i due termini?
«Certo, ed è essenziale, come compresero per primi i fratelli Rosselli: anzi, nei Quaderni di Giustizia e Libertà sostennero più volte questa tesi. Se vogliamo afferrare il senso del sistema di potere del ventennio, dunque, conviene evitare di definirlo "fascista". Fu un regime mussoliniano. Perché il centro del sistema di consenso era rappresentato da lui stesso, il Duce, e nessun altro. E perché è ormai tempo di comprendere che anche i dittatori hanno bisogno di consenso».
Il che si può tradurre così: il fascismo, in quanto sistema politico, non possedeva una vera e propria consistenza ideologica. Infatti, osserva Melograni, «ne aveva molto meno di quella che gli è stata attribuita in seguito. Oltretutto, l'uomo che ne era a capo si poteva definire una persona fortemente indecisa». E dire che secondo l'opinione corrente, compresa quella degli avversari, Benito Mussolini incarnò il "decisionismo". Tanto che molti decenni dopo, in circostanze diversissime, gli avversari del "decisionista" Bettino Craxi si sarebbero serviti proprio del paragone con Mussolini per attaccarlo.
«Una fama completamente immeritata, quella del Duce capace di prendere sempre la decisione giusta » afferma Melograni. «I suoi collaboratori, a cominciare dal capo della polizia Carmine Senise, hanno riferito che Mussolini subiva talmente l'influenza altrui, da dare sempre ragione all'ultimo che gli aveva parlato».
Si potrebbe capovolgere lo slogan «il Duce ha sempre ragione», insomma, nello slogan «il Duce dà sempre ragione»... «E non è solo una battuta. Si arrivava ad estremi incredibili: non era raro che gli accadesse di rispondere affermativamente a progetti completamente contraddittori, sottoposti a lui lo stesso giorno! Una conferma diretta di un simile atteggiamento viene da Guido Leto, il capo della polizia segreta fascista, la famosa e lugubre Ovra».
Dunque, si trattava di una condizione legata alla personalità unica di Benito Mussolini, o piuttosto di un tratto comune agli altri grandi dittatori del suo tempo?
«Qualcosa in comune lo avevano. Il comportamento di Adolf Hitler, ad esempio, era a dir poco ondeggiante. L'architetto Albert Speer, a lui molto vicino, scrisse che si lasciava influenzare moltissimo da coloro che sapevano prenderlo per il verso giusto. Credo che sia corretto definirlo un incompetente accentratore, o per lo meno che questa fosse una delle sue caratteristiche peculiari».
Un bel paradosso: fascismo e nazionalsocialismo finirono per affidarsi entrambi a leader indecisionisti. «Ma con una precisazione: l'ideologia nazionalsocialista era molto più potente e strutturata di quella fascista ». Se ne può dedurre che una caratteristica del dittatore totalitario novecentesco sia stata quella di lasciarsi imprigionare dal mito del consenso. Un consenso talmente "totalitario" da voler accontentare tutti, o quasi, tanto che — secondo Melograni — «Mussolini e Hitler furono schiavi del loro stesso consenso».
In una certa misura anche Stalin si può ricondurre allo stesso profilo psicologico: «Secondo la figlia Svetlana, lo si vedeva ben poco al lavoro, nel suo ufficio. Certo era molto più rozzo di Mussolini. E forse persino più rozzo di Hitler».
Le loro personalità erano ben diverse, dunque, da come oggi le immaginiamo. Erano, si direbbe, tutti e tre schiavi del loro potere. «Insomma — spiega Melograni — incarnavano il contrario del principio di onnipotenza. Succubi dei loro collaboratori, prigionieri e spaventati dal ruolo che interpretavano ».
Ma questa affinità di fondo non può cancellare le grandi differenze tra l'uno e l'altro, che « furono profonde, in parte ideologiche e in parte dovute a condizionamenti geopolitici. E influì sul comportamento dei dittatori il carattere dei loro popoli ».
Resta da stabilire se il «mussolinismo » sia stato un fenomeno realmente «totalitario», nel senso che soppresse la società civile, o semplicemente «autoritario», rassegnato a convivere entro certi limiti con centri di potere concorrenti. A questo proposito, secondo Melograni, «la svolta fu quella del 1938: leggi razziali e alleanza con Hitler. Da quel momento si può parlare di un vero totalitarismo fascista, mentre fino ad allora il ruolo dei Savoia aveva fatto somigliare piuttosto l'Italia a una diarchia, in cui il capo del regime condivideva il potere con il Re».
Tuttavia, se chiamiamo «mussolinista» la dittatura, dove va a finire quella famosa categoria dell'uomo «fascista», che nel costume e nel linguaggio politico è sopravvissuta quasi fino ad oggi, sia pure sotto forma di insulto? Secondo Piero Melograni essere "fascista" equivaleva di fatto a dichiararsi fanatico. Dunque, «più fascista di Mussolini, confermandosi tale anche dopo, durante la Repubblica sociale». Ben diverso era invece Mussolini, «che aveva il senso della mediazione, e sapeva come comportarsi... e non a caso si era fatto le ossa nel partito socialista».
La parabola del fascismo si chiude dunque definitivamente con la morte del Duce?
«Sì, anche se la Repubblica Sociale era già una cosa completamente diversa dal regime, prigioniera di fatto della Germania. La verità è che Mussolini aspirava a una pace di compromesso fra i due blocchi in guerra, in cui lui avrebbe potuto svolgere il ruolo di mediatore».
Eccoli dunque, i tre grandi dittatori messi in fila da Piero Melograni, ognuno con il suo profilo psicologico "indecisionista". «Mussolini, Hitler e Stalin interpretarono ugualmente la paura verso il mondo moderno, incarnarono una reazione al caos. Il che coincise, per Hitler e Mussolini, con un tentativo di ritorno all'ordine della civiltà contadina, agricola, "verde". Lenin invece, ancor prima di Stalin, concepì il tutto come un salto a marce forzate nel futuro».

Corriere della Sera 19.4.08
L'antropologo Marc Augé descrive come si pensano le soluzioni nell'era dell'esistenzialismo pratico
Le utopie hanno rubato il futuro
«Ora cambiamo il mondo senza doverlo immaginare»
di Marc Augé

Il tema del migliore dei mondi deve situarsi in rapporto ai due tipi di miti apparsi nella storia: i miti di origine, fondatori delle religioni, di cui i filosofi occidentali hanno potuto dire che la modernità del XVIII secolo li aveva uccisi, e i miti del futuro, i grandi racconti fondatori delle ideologie politiche progressiste, che la storia del XX secolo avrebbe fatto scomparire.
Le due declinazioni del tema dell'altro mondo presentano paradossi, differenze e similitudini. Le utopie laiche possono apparire più generose e disinteressate delle religioni di salvezza, poiché non promettono alcuna ricompensa individuale a breve termine e non si interessano alla morte individuale. Ma entrambe hanno conseguenze nel mondo attuale (se designiamo con l'espressione «mondo attuale» il mondo in cui viviamo e con l'espressione «mondo virtuale» il mondo che le religioni o le utopie pretendono di sostituirgli). Le religioni di salvezza, infatti, accordano importanza alle «opere»; quanto alle utopie laiche, esse sono state spesso legate a filosofie della felicità che hanno cambiato il rapporto con la vita «mondana». Storicamente, le une e le altre sono state sovente, per una moltitudine di individui, un modo di vivere il mondo attuale piuttosto che un modo di cambiarlo.
Forse l'attualità ci invita a sfumare il tema della fine dei due tipi di miti. Se è vero che l'esistenza di forme aggressive di religione (islamismo, evangelismo) può farci temere un XXI secolo dilaniato da concezioni opposte e ugualmente retrogradi del mondo — il che smentirebbe il tema della fine dei miti di origine e del trionfo della modernità —, non bisogna sottovalutare l'aspetto politico delle nuove affermazioni religiose, né il loro aspetto reattivo. Forse la modernità è ancora da conquistare e noi siamo al centro di una crisi che in realtà è simile a una fine. Inoltre, se è bene constatare l'indebolimento delle proiezioni politiche di vasta portata, non sono da escludere sorprese in questo campo; le concezioni dominanti non sono più sicure delle loro precorritrici, e l'assenza o l'indebolimento di rappresentazioni costruite dell'avvenire può costituire un'opportunità per cambiamenti effettivi che si sono nutriti dell'esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo pratico. Le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto i rapporti di sesso e i modi di comunicare (la pillola, Internet), non sono nate dall'utopia, ma dalla scienza e dalle sue conseguenze tecnologiche. L'esigenza democratica e l'affermazione individuale prenderanno probabilmente strade inedite che solo oggi intravediamo.
Dall'inizio del XX secolo, la scienza ha compiuto progressi accelerati che oggi ci lasciano scorgere prospettive rivoluzionarie. Nuovi mondi cominciano ad aprirsi davanti a noi: da un lato, l'universo, le galassie (e questo cambiamento di scala non sarà privo di conseguenze, a termine, sull'idea che ci facciamo del pianeta e dell'umanità); dall'altro, il confine tra la materia e la vita, l'intimità degli esseri viventi, la natura della coscienza (e queste nuove conoscenze comporteranno una ridefinizione dell'idea che ogni individuo può farsi di se stesso). Quello che sapremo del mondo cambierà il mondo, ma questi cambiamenti sono oggi inimmaginabili; non possiamo sapere, per esempio, quali saranno i progressi della scienza entro i prossimi trenta o quarant'anni.
A tal proposito, due osservazioni: 1) Se nel campo dell'educazione non si realizzeranno cambiamenti rivoluzionari, c'è il rischio che l'umanità di domani si divida fra un'aristocrazia del sapere e dell'intelligenza e una massa ogni giorno meno informata su quello che la conoscenza comporta. Questa disuguaglianza riprodurrebbe e moltiplicherebbe la disuguaglianza delle condizioni economiche. L'educazione è la priorità delle priorità.
2) Le conseguenze tecnologiche della scienza sono come una seconda natura. Le immagini e i messaggi ci circondano e ci rassicurano, ci alienano dal nuovo ordine delle cose senza necessariamente darci i mezzi di comprenderlo. È qui il rischio connesso a ciò che ho chiamato «cosmotecnologia». Essa ci dà l'illusione che il mondo sia finito. Aiuta a vivere, ma può anche essere il passaggio che apre a tutti gli sfruttamenti se coloro che alla cosmotecnologia si richiamano non hanno una coscienza esatta del suo ordinamento.
La scienza non ha bisogno di disuguaglianze, né di dominazione. Se, di fatto, dipende dai politici che la finanziano, e in larga misura la orientano, la scienza risponde di diritto solo al desiderio di conoscere. Riguardo a questa esigenza, la miseria e l'ignoranza sono fattori di ritardo. Un mondo che ubbidisse soltanto all'ideale di conoscenza (e di educazione) sarebbe più giusto e insieme più ricco. Constatare che la scienza cambia il mondo significa ammettere che non esiste un altro mondo se non quello che stiamo cambiando; un mondo che, in sé, è al tempo stesso fine e finalità.
(Traduzione di Daniela Maggioni) Nostradamus (1503-1566). In alto scritta su un muro di Roma, citazione attribuita a Paul Valéry.
Dà il titolo a una raccolta di poesie di Mark Strand (foto Ciofani) Marc Augé, 72 anni, ha pubblicato l'anno scorso «Il mestiere dell'antropologo» (Bollati Boringhieri)

Repubblica 19.4.08
Sfida Capezzone-Bergamini per il portavoce del Cavaliere

ROMA - Daniele Capezzone potrebbe essere il nuovo portavoce di Silvio Berlusconi, quando il leader del Pdl si insedierà a Palazzo Chigi. Paolo Bonaiuti, l´attuale portavoce, sembra infatti destinato ad assumere una carica ministeriale nel nuovo governo. E in quel caso il suo ruolo verrebbe appunto ricoperto dall´ex segretario radicale, che nell´ultima legislatura era stato eletto nelle liste della Rosa nel Pugno all´interno dell´Unione. Non è escluso che la "squadra" della comunicazione di governo venga in realtà composta da un tandem. Molti fanno anche il nome di Deborah Bergamini, ex assistente del Cavaliere, poi direttore del Marketing strategico della Rai e consigliere di amministrazione di RaiTrade, ed ora deputato del Pdl.

Repubblica 19.4.08
Criminali impuniti
Un saggio di Filippo Focardi con nuovi documenti
Quando la politica cancella la memoria
di Simonetta Fiori

I responsabili delle stragi naziste in Italia beneficiarono di un´amnistia occulta, mai riconosciuta dalla verità ufficiale
Svelate le trame filonaziste del vescovo austriaco Alois Hudal
L´esiguità dei processi italiani rispetto alla giustizia in Europa

È un capitolo oscuro, tuttora irrisolto, che si nutre del controverso rapporto tra politica e storia. Politica e storia di sessant´anni fa, ma anche politica e storia di oggi. Investe un tema delicato, la memoria italiana dei crimini nazifascisti subiti dal nostro paese, ma anche il confronto con i crimini commessi altrove dai nostri soldati, in Grecia e in Jugoslavia, in Francia, in Albania e in Etiopia. Una memoria fragile, incline a reticenza, che lo storico tedesco Lutz Klinkhammer stigmatizza - nel raffronto con gli altri paesi europei - come "forte anomalia italiana": sia per l´esiguità dei processi penali celebrati nel dopoguerra, sia per la ripresa tardiva dei dibattimenti dopo la scoperta negli anni Novanta dell´"armadio della vergogna", centinaia di istruttorie insabbiate negli scaffali della procura militare. Di fatto un´amnistia per occultamento, dettata da ragioni diverse, non ultimo garantire l´impunità ai criminali di casa nostra.
Ora un nuovo libro di Filippo Focardi, arricchito da una nutrita documentazione, aiuta a ricostruire questa pagina ancora incompiuta, "sbianchettata" appena due anni fa dalla "verità" di Stato sancita - in conclusione dei lavori della Commissione d´inchiesta parlamentare sulle stragi nazifasciste - dall´allora maggioranza di centro-destra (Criminali di guerra in libertà, Un accordo segreto tra Italia e Germania federale, 1949-1955, pagg. 170, euro 18,20, Carocci). Non fu una tessitura politico-diplomatica - sentenziò nel febbraio del 2006 il Parlamento italiano - a impedire i processi contro gli aguzzini tedeschi o a vanificarne l´esito. Si trattò più semplicemente di negligenza da parte della giustizia militare. Ed è da escludere - recita ancora la relazione di maggioranza della Commissione - qualsiasi relazione tra il corso rallentato dell´azione giudiziaria verso i criminali tedeschi con la pratica dilatoria attuata dal governo italiano verso l´estradizione dei criminali italiani, richiesta avanzata soprattutto dalla Jugoslavia. Anzi, sostennero i parlamentari di centro-destra, sarebbe più opportuno concentrarsi sulle violenze commesse dai partigiani di Tito contro gli italiani, da qui la proposta di istituire una commissione di inchiesta sulle foibe. La politica ieri, la politica oggi. Ma le cose stanno esattamente così? Non agì piuttosto, al principio degli anni Cinquanta, una ragion di Stato che pose un freno alla giustizia militare?
L´"accordo segreto" cui allude il titolo di Focardi non è in realtà una novità storiografica. Lo rivelò lo stesso studioso nel 2003 in un convincente saggio su Italia Contemporanea. Nel novembre del 1950 Heinric Höfler, compagno di partito e amico personale del cancelliere Adenauer, s´accordò con il conte Vittorio Zoppi, segretario generale del ministero degli Esteri, per la liberazione dei criminali di guerra tedeschi condannati con sentenza definitiva. Nel giro di pochi mesi, attraverso decreti di grazia firmati dal presidente Luigi Einaudi e controfirmati dal ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, i militari furono rimpatriati in Germania. Tra essi, i quattro ufficiali del cosiddetto Gruppo di Rodi, in testa il generale Otto Wagener, responsabili dell´uccisione sull´isola greca di numerosi prigionieri di guerra italiani.
Nel nuovo lavoro di Focardi acquista centralità un curioso personaggio finora rimasto sullo sfondo, il vescovo austriaco Alois Hudal, rettore del Collegio teutonico presso la Chiesa di Santa Maria dell´Anima a Roma. Il prelato si distinse nel dopoguerra per "l´attività caritatevole" al cospetto dei criminali tedeschi in Italia, "poveri connazionali" secondo una sua bizzarra definizione. Fu Hudal nel maggio del 1949 a scrivere una lettera a monsignor Montini, futuro Paolo VI, per sollecitare la Santa Sede verso una sanatoria a beneficio dei prigionieri di guerra tedeschi condannati in Italia, missiva cui fece immediatamente seguito un´iniziativa del Vaticano a favore del "gruppo di Rodi". Il profilo di Hudal si staglia nitidamente dietro le manovre diplomatiche di questi anni, fino al suo "licenziamento" decretato nel giugno del 1951 dal ministro della giustizia tedesco, il quale in una lettera lo ringrazia per "l´opera disinteressata e piena di abnegazione", invitandolo a riconsegnare i soldi fino a quel momento amministrati per le necessità dei criminali. «Un emissario di fiducia del governo tedesco», sintetizza Focardi, che utilizza le carte dell´archivo personale di Hudal già studiate da Matteo Sanfilippo.
In fondo, il governo tedesco fece con noi esattamente quel che l´Italia aveva fatto con la Grecia. Nel marzo del 1948 anche le autorità italiane s´erano adoperate per la liberazione dei nostri criminali di guerra responsabili di sanguinose rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile greca. Accordi naturalmente condotti in gran segreto, in paesi in cui erano ancora molto vive le ferite impresse dal nazifascismo.
La "pista politica" è dunque quella che spiega l´impunità dei criminali - italiani e tedeschi - pista incomprensibilmente negata dalla relazione conclusiva approvata a maggioranza dalla commissione parlamentare sulle stragi nazifasciste (che pure poteva tener conto delle preziose acquisizioni storiografiche). La ragion di Stato e il contesto internazionale vengono invece letti come fattori decisivi nella relazione di minoranza presentata dal centro-sinistra, che fa riferimento proprio al caso del generale Wagener e coimputati, raccontato estesamente in questo volume di Focardi.
Le nuove ricerche della storiografia europea consentono inoltre di cogliere l´anomalia italiana in tutta la sua portata nel raffronto con gli altri paesi. Se l´Italia fu capace di dare solo tre ergastoli (Kappler, Reder e Niedermayer), di cui uno in contumacia, due sole condanne a più di 15 anni di reclusione (Wagener e Mair), ben dodici assoluzioni su un totale di ventisei persone processate, un piccolo paese come la Danimarca - dove l´occupazione tedesca fu certo meno sanguinaria - celebrò tra il 1948 e il 1950 almeno settantasette processi, con settantuno condanne. Le cifre prodotte da Focardi sono impressionanti. In Belgio furono condotti trentuno processi contro una novantina di criminali, con pene molto pesanti tra cui ventuno condanne a morte (solo due eseguite). In Olanda i criminali di guerra processati furono duecentotrentuno, con diciotto condanne a morte (cinque eseguite). In Francia i processi furono centinaia, circa cinquanta i giustiziati.
Né provvidero i tedeschi a riscattare le vittime italiane. Tutti i fascicoli aperti in Germania alla metà degli anni Sessanta si conclusero con "un non luogo a procedere". Con l´eccezione di Caiazzo, nessuna strage di civili italiani ha mai avuto un processo. Per la giustizia non ci sono colpevoli.

Repubblica 19.4.08
Klinkhammer "L'Italia ha un problema di coscienza"

Lutz Klink-hammer, autore di studi fondamentali sull´occupazione tedesca in Italia, fa riflettere su un aspetto paradossale della nostra storia: da una parte siamo il paese che meno degli altri ha fatto i conti con i crimini del nazifascismo, dall´altra non abbiamo rivali nella detenzione di due personaggi-simbolo come Kappler e Reder. «Dagli anni Cinquanta in poi», dice lo storico, «l´Italia si dimostrò il paese occidentale con l´atteggiamento più duro nell´esecuzione della pena inflitta ai due criminali nazisti condannati all´ergastolo, Herbert Kappler e Walter Reder. Nonostante le insistenti richieste di Bonn, il governo italiano non acconsentì al rilascio del boia delle Fosse Ardeatine, fino a quella strana "fuga" dal Celio».
Una durezza in realtà apparente. Per due criminali in galera, tutti gli altri beneficiarono di un´amnistia occulta.
«Sì, la carcerazione di Kappler funzionò da evento simbolico, dietro il quale far passare l´insabbiamento di tutte le altre stragi. Rimane il fatto che l´Italia fu l´unico paese della nascente comunità europea a non concedere, per tre decenni, il rilascio di un criminale di guerra tedesco».
Altri criminali furono rimpatriati o mai processati.
«Le ragioni dell´insabbiamento cambiarono nel corso dei decenni. Alla fine degli anni Quaranta il rallentamento della giustizia serviva ad evitare la punizione dei criminali di guerra italiani. Alla metà degli anni Sessanta, su esplicita richiesta della Germania, le autorità italiane decisero di riaprire una decina di casi, mentre centinaia rimasero occultati».
Il risultato finale è che quei crimini sono rimasti impuniti.
«Sì, l´altro aspetto dell´anomalia italiana è la ripresa tardiva dei processi negli anni Novanta. Istruttorie e dibattimenti sono ancora in corso, ma è sempre più difficile provare la colpevolezza. È passato troppo tempo per una condanna certa».
L´anomalia rivela l´incapacità di misurarsi con quella storia.
«L´Italia ha un problema di coscienza. Quella guerra fu combattuta all´inizio con i tedeschi e questo crea difficoltà e imbarazzi. In Germania c´è stata Norimberga: in qualche modo alla riflessione siamo stati costretti. In Italia c´è ancora chi inneggia a Mussolini».
S.Fio.

Repubblica 19.4.08
Festival della filosofia
Schopenhauer. Il mondo non ha senso
di Franco Cordero

La parabola del filosofo Schopenhauer, artista della lingua viva capace di svelare i verminai della storia
La Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico e il filosofo non è certo un patriota
La sua opera dissona dai tempi quindi cade e qualche recensore fa dello spirito
Nel 1848 l´hegelismo più cortigiano ha perso l´appeal ed emerge il buio

Quando nasce Sainte-Beuve, controllore della bienséance letteraria francese (Boulogne-sur-Mer 1804), viaggiava nel continente e oltre Manica il figlio appena adolescente d´un facoltoso mercante tedesco: Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788) conosceva la Francia del Direttorio avendo abitato due anni a Le Havre; nei Reisetagebücher appare già pensatore introverso. Dal 17º anno fa pratica commerciale in una Casa d´affari amburghese, non avendo la stoffa dei Buddenbrook, e anche Heinrich Floris, suo padre, nasconde punti fragili se, come pare, muore suicida senza motivo perché gli affari vanno bene nell´Europa 1805. Johanna Troisiener è una fredda e vanitosa «précieuse ridicule»: rimasta vedova, trasloca da Amburgo a Weimar aprendo un salotto; tra gli ospiti annovera Goethe, gli Schlegel, i Grimm, Wieland; scrive romanzi à la page.
Stupisce che Arthur resista due anni nella Casa Jenisch, poi coltiva lettere classiche tra Gotha e Weimar. Nell´autunno 1809 studiava medicina: filosofo d´istinto, cambia Facoltà; a Göttingen coniuga Platone e Kant, non trascurando gl´inglesi, specie Hume. Due anni dopo sperimenta l´insegnamento berlinese d´un Fichte profeta della riscossa tedesca: la Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico ma non esiste tedesco meno patriota d´Arthur; s´addottora, 2 ottobre, discutendo i quattro fondamenti della ragione sufficiente. Tornato a Weimar, frequenta Goethe, sulla cui teoria dei colori pubblicherà una memoria. Lì scopre fonti buddistiche e indiane, guidato dall´orientalista Friedrich Mayer. Madre letterata e figlio in rotta col mondo sono incompatibili: dalla primavera 1814 s´asserraglia in Dresda, immerso nell´opus, finché nasce Die Welt als Wille und Vorstellung (Brockaus, Leipzig 1819); tre nomi, il mondo come volontà e immagine. Nella premessa, agosto 1818, indica i percorsi d´una lettura seria. Chi cerca svago vada altrove. Cos´è il mondo: «Vorstellung» significa quel che percepiamo; «Wille» denomina l´oscuro substrato, in lingua kantiana «fenomeno» e «noumeno». Sotto i fenomeni batte un impulso senza senso, privo d´ogni fine: nell´animale umano lo chiamiamo Es, da cui affiora precariamente l´Io; ed è anche gravità, cristalli, magnete, materia viva, poussées vegetali, catena biologica.
«Die Welt» svela un pensatore artista dalla lingua viva, immaginosa, moderna, e scoperchia i verminai della storia, contro l´ottimismo hegeliano (Spirito=Stato prussiano). Libro choquant, dissona dai tempi, quindi cade piatto. Qualche recensore fa dello spirito. Dal 1820 è Privatdozent: Hegel l´ha beccato nella discussione; e lui lancia una sfida fissando le sue lezioni nelle stesse ore; vanno deserte; invano bussa a Heidelberg e Würzburg. Con eguale sfortuna ritenta la scena accademica 1825-31. Infine, abbandona Berlino infetta dal colera, del quale muore l´antagonista soverchiante; e trasloca sul Meno, fermo nell´assunto che la storia non meriti credito: l´Io spunti dal Wille, motore del nonsenso cosmico, donde cannibalismo, omicidio, asservimento, rapina, invidia, gusto del male; l´animale umano patisca bisogno, desideri, conflitti, delusione, sospeso tra dolore e noia, in una sequela stupidamente meccanica alla cui fine «ricomincia il ballo» (ed it. Laterza, 1968, 416, 57; ivi, C. Vasoli, viii-liii); l´arte apra intervalli quieti; sia raccomandabile la compassione; e l´unica terapia radicale consista nel rinnegare l´impulso egotistico, ma non è chiaro come, se regna una ferrea causalità.
L´autore violava la consegna ascetica nella guerra accademica: insegue premi banditi da accademie scandinave; ne ottiene uno («la mia premiata monografia: ivi, 385, 55); e diamogli atto d´essere tutto fuorché narciso; anzi, intrattiene con l´Io rapporti d´irsuta antipatia. L´opera era finita al macero: dopo 24 anni la ristampa con dei Supplementi, forse sentendo aria nuova, sebbene la prefazione deprechi i tempi. Manca ancora qualche anno. L´ultimo capoverso denuncia le manovre omertose d´una filosofia ridotta ad affare pratico: gl´integrati tengono d´occhio ministero, Chiese, profitto editoriale, afflusso studentesco, solidarietà corporativa; scambiano lodi; inscenano rumorose feste; aborrono chiunque pensi, salvo strappargli qualche piuma adoperabile nel loro mercato verbale; sinora è riuscita la politica del silenzio, prima o poi però le idee importanti emergono. L´explicit è un´allegoria: l´aerostato sale dall´aria caliginosa nell´atmosfera pura restandovi; niente l´abbasserà (Francoforte sul Meno, febbraio 1844: ivi, 11-23).
La scossa sopravviene nel 1848: convulsioni, reazione, arcigno ordine borghese; l´hegelismo cortigiano ha perso l´appeal; il malato non crede più al medico imbroglione che lo convinceva d´essere sano; va fuori legge la sinistra hegeliana, parente dello spettro comunista. Smontata la fiera d´una finta razionalità, emergono fondali bui. L´irregolare post-kantiano offre un diversivo anestetico e l´establishment cambia cavallo, dall´ottimismo filisteo alla mistica del Nulla. Piacciono i Parerga und Paralipomena, 1851.
«Die Welt» va muovendosi. L´ormai vecchio libero docente rentier senza uditorio ha rotto le chiavarde.
Settembre 1859, nuova edizione accresciuta: l´autentico pensiero, nota malinconicamente, avrebbe vita meno dura se gl´inetti a produrlo non impedissero che nasca, congiurati; ci sono voluti 41 anni perché fosse letto; cita Petrarca, De vera sapientia; è tanto vedere la sera, avendo corso l´intero giorno. Nella fortuna tardiva rimane eremita. Muore venerdì 21 settembre 1860 lasciando erede universale un fondo berlinese pro vittime 1848-49, dalla parte dell´ordine, beninteso.
Nietzsche gli rende onore (terza Inattuale, autunno 1874): sotto il geroglifico mondano ha scoperto un teatro futile col quale mascheriamo la paura d´essere soli (vedi Pensées, sub Misère de l´homme e Divertissement); l´educato pratica un´impavida scepsi; non sa essere invidioso né maligno; ammira le qualità eminenti; lavora al perfezionamento della natura (Schopenhauer come educatore, Opere, III.1, 406-12). Era ignoto, adesso l´adoperano quale «pepe metafisico» (ivi, 435). In mano d´una cultura versipelle «Die Welt» diventa narcotico, evasione, fantasia quietistica, ma l´antistoria è angoscia luterana: Doctor Martinus la grida negli opuscoli contro i contadini, e qui c´entra poco il capitalismo tirato in ballo dagli scoliasti marxisti; secondo tutt´e due, i ribelli aggravano l´infelicità dello stare al mondo. Misantropo, orfico litigioso, profeta del disimpegno, anticipa Freud e continua Pascal, sulla «misère de l´homme» tra bisogno, desiderio, dolore, falso piacere, noia mortale. L´analisi schopenhaueriana è ferro acuminato. L´effetto varia secondo le mani.
Non s´era mai visto l´analogo tra i filosofi tedeschi: impara le lingue, viaggia; sperimenta commercio, vanità letterarie, faide accademiche; ignora le guerre patriottiche; detesta Fichte imbonitore del germanesimo; rifiuta i cagliostrismi hegeliani; vede chiaro negl´instrumenta regni. Insomma, è l´antipode dell´intellettuale organico: gli adepti spendono quel tanto d´acume che l´autorità permette, e del mestiere nelle «mosse volpine»; promuovendosi servono persone, caste, chiese, governi dominanti; sono «pensatori riconosciuti dallo Stato»; «non ha mai turbato nessuno» è l´epitaffio da scolpire sulla loro tomba (ivi, 422s., 451, 457).
Nietzsche appartiene alla stessa famiglia, malvista da chi pensa disciplinatamente, spesso fraintesa e presentata a testa in giù, infatti György Lukács li classifica «distruttori della ragione», agenti imperialisti, come Kafka. Le sue plumbee glosse applicano i canoni d´un marx-leninisno staliniano, quindi lasciamolo da parte: è Sainte-Beuve stile Politburo, ancora vivo quando i giovani inalberano l´»imagination au pouvoir»; partendo dall´ebreo maledetto Baruch Spinoza, siamo scesi all´annus mirabilis 1968. Tentiamo un consuntivo. La sagra ha inciso nel costume, dalla moda alla vita familiare (due anni dopo viene il divorzio). In politica genera dei gruppuscoli, equivoca rivolta senza fondamenti né prospettive.
Aveva il fiato corto l´»imagination» i cui corifei aspiravano al potere: «nte toi que je m´y mets moi»; quel rissoso verbiage ha lasciato idee importanti? L´assalto era innocuo. Colpiva duro Papini, stroncatore cortese della crociana Logica come scienza del concetto puro (Leonardo, III, 1905, 115-20), idem contro l´Estetica (Lacerba, I, 1 giugno 1913, 116-19). Gli scorridori 1968 sono logomachi dall´eloquio gestuale, aggressivo, molto adoperabile nelle battaglie assembleari, dove raccoglie noia o ringhi chi porti idee chiare, sintassi, parsimonia verbale. I media, poi, scatenano sinergie i cui spettacoli abbiamo sotto gli occhi. Infine la jacquerie causa danni permanenti ispirando riforme scolastiche dall´abbecedario all´Università. Dopo quarant´anni è impopolare l´arte del pensare.

venerdì 18 aprile 2008

l’Unità 18.4.08
Sinistra, che fare
Da dove ripartire
di Giuseppe Tamburrano


Che fare? Così titolava il famoso opuscolo di Lenin. Già: che fare? Vorrei proporre alcune riflessioni sul risultato più clamoroso e inaspettato di queste elezioni: la (quasi) scomparsa della sinistra. E mi chiedo, preliminarmente: è l’effetto del superamento nella moderna società della dicotomia destra-sinistra, come molti sostengono, o è il «tradimento» della sinistra politica che non ha saputo interpretare i bisogni e le aspirazioni di un’area sociale - e culturale - che c’è, che è rimasta orfana e si è dispersa nel non voto, nel voto per partiti estranei di centro e di destra?
La sinistra sociale e culturale c’è, c’è stata e con molte articolazioni, divisioni, errori era - nella prima repubblica - attorno al 40% (socialisti, comunisti e «sinistra diffusa»). Non può essere scomparsa.
È mutata perché cambiata è la società, ma c’è. Ci sono le vecchie e nuove povertà, i bisogni sociali, le aspirazioni ideali. La società moderna è divisa, diversamente divisa rispetto a ieri, ma divisa: e la dialettica che è la forza del cambiamento e del progresso non si è esaurita: la storia non è finita. E per tanti aspetti nuova perché è il portato, appunto, del processo e del progresso. Prima conclusione: la sinistra c’è ma si è quasi dissolto il soggetto politico che la incarna e la rappresenta.
La controprova empirica è che in Europa c’è la destra e c’è la sinistra. E la sinistra è socialista: anche se lo è più di nome che di fatto e deve aprire gli occhi sui problemi del mondo e rinnovarsi.
Oggi in Italia ci sono fondamentalmente due “poli” ma uno, quello diretto da Berlusconi, paradossalmente è alleato con un partito, la Lega, che si reclama rappresentante di vaste categorie operaie, e ospita una intellighenzia che civetta con concetti di sinistra (Tremonti); e l’altro, quello diretto da Veltroni, che, con un altro paradosso, pur avendo le sue radici nella sinistra storica, ha fatto ogni sforzo per non apparire (e non essere?) di sinistra rifiutando persino e recisamente la parola, l’etichetta “sinistra” per disputare all’altro polo la rappresentanza di interessi e di ceti moderati ed occupare un’area di centro.
Insomma vi è una sinistra storica che rifiuta di esserlo tout court, che non si riconosce nemmeno nella sinistra moderata che è il socialismo europeo, e vi è una sinistra politica che ha preteso di esserlo in modo radicale ma è svanita perché ha doppiamente “tradito” la sua area di riferimento partecipando ad un governo che ha praticato una politica impopolare e non rinnovando il suo “antagonismo” in un progetto di socialismo moderno.
Che fare? È possibile rimettere le cose al loro posto? E rivolgo la domanda prima di tutto a Veltroni. Il quale ha tentato di realizzare in Italia l’operazione riuscita a Blair in Inghilterra. Il leader laburista, senza cambiare nome al partito, ha adottato il liberismo della signora Thatcher: molti elettori conservatori stanchi e delusi di un lungo e ormai inefficiente governo conservatore (erano finiti i tempi ruggenti della signora!) hanno sposato il liberismo del giovane e brillante Tony.
In Italia - questo è stato l’handicap di Veltroni - il governo che ha deluso non è stato diretto dall’avversario Berlusconi, ma dall’amico Prodi. E Veltroni non ha potuto scrollarsi di dosso l’impopolarità di quel governo. E il suo disegno non ha avuto successo. Se ha imparato la lezione il leader del Partito democratico deve guardare dalla sua parte, deve guardare a sinistra, a quel progetto tante volte annunciato e mai neanche avviato di costruire anche in Italia un grande partito socialista di tipo europeo e se possibile più avanzato e moderno di quello europeo.
Sarà un processo lungo - ma abbiamo lunghi anni di governo Berlusconi - che forse vedrà la scissione di Calearo e di Colaninno (e speriamo non di tutta l’ex Margherita), ma è l’unica via per un leader che voglia costruire il futuro e “rassembler” la sinistra: come ha fatto Mitterrand il quale ha invertito il corso e la crisi della screditata socialdemocrazia francese; come ha fatto Nenni che, nel 1956, ha capovolto la sua politica frontista e ha restituito al Psi la sua identità democratica.
Ma un compito importante spetta alla residua sinistra radicale. Bertinotti ha lasciato la carica, ma non ha perso la “carica”. Coinvolgendo il Partito socialista occorre avviare un profondo processo costituente, una Epinay o un congresso di Venezia (Psi 1957) ma non per rilanciare l’Arcobaleno: lo lasci perdere perché non ha annunciato bel tempo, ma è stato foriero dell’uragano. La «via maestra, l’immortale» (ho citato Lenin, cito anche Turati), il quadro di riferimento è il socialismo.
Quella sinistra può rinascere dalle sue ceneri a condizione che 1) a provarci non siano solo quelli che in cenere l’hanno ridotta: e perciò Bertinotti deve cercare nuove facce; 2) si parta dalle idee, dalla ricerca di una nuova identità del progetto socialista, e si cerchi di propagare questo processo al Pd, incalzando Veltroni.
E concludo con l’ultimo paradosso. Il modello del capitalismo globalizzato è in crisi; si accentua il malessere sociale nelle aree metropolitane colpite dalla recessione e si aggravano le già drammatiche condizioni dei Paesi poveri colpiti anche da una crisi alimentare di enormi proporzioni. Ormai il ricorso alla mano pubblica è chiesto e praticato dall’establishment. È il momento della sinistra: la quale invece cerca il “centro”, difende il mercato o si gingilla con un “antagonismo” fraseologico mentre operai, lavoratori precari o a reddito insufficiente, pensionati, famiglie povere, giovani in cerca di avvenire, cittadini tartassati da tasse o rifiuti se ne vanno verso la Lega o la sfiducia.

l’Unità 18.4.08
Dal 1950 al 2002 i sacerdoti accusati di pedofilia sono stati 4392. Negli Stati Uniti le vittime sono almeno cinquemila
Abusi sui minori, cono d’ombra sul viaggio americano
di Stefano Pistolini


La parola chiave è «inerente». C’è una questione più inerente delle altre al viaggio del Papa in America, in corso di svolgimento. Ma andiamo con ordine. Perché la ferita è aperta. La questione non è sanata. L’offesa non è lavata. Benedetto XVI lo sa così bene, che ha atteso il fatidico non-luogo di un aereo in viaggio tra Roma e Washington, in procinto di sbarcare nella capitale americana e di essere affettuosamente accolto da un presidente in dismissione come George W. Bush, per ribadire d’essere ben al corrente dell’allarmante congiuntura: i contraccolpi dell’imperdonabile, perniciosa diffusione della pedofilia nel clero cattolico statunitense, macchia di vergogna che ha prodotto e produce dolore, riflessione e pentimento. Ma da navigato amministratore di anime Ratzinger sa che la pedofilia dei prelati non ha, nel continente di cui adesso è ospite, lo stesso attutito impatto che ha avuto qua da noi: là è diventato un ostacolo psichico in certi casi insormontabile nel relazionarsi con serenità col cattolicesimo, è diventato uno scandalo indicibile, un germe infettivo, una piaga così purulenta che solo un intervento divino, o perlomeno una parola decisiva dal legale rappresentante di Dio in terra, potrà mondare l’onta. E di tutto ciò Benedetto XVI sa che ora l’America gli chiederà ragione, dopo che ha mal tollerato il suo negarsi al passaggio da Boston, la diocesi culla di questa satanica escrescenza.
Due sono i fattori da aggiungere all’analisi. Il primo riguarda le dimensioni macroscopiche del fenomeno: secondo lo studio condotto dal John Jay College, dal 1950 al 2002 sono 4392 i sacerdoti americani (su 109.000) accusati di relazioni sessuali con minorenni. Di questi, per le più diverse motivazioni, poco più di un centinaio sono stati condannati dai tribunali civili. Lo stesso studio precisa poi che il 78,2 % delle accuse si riferisce a minorenni nella postpubertà e che i sacerdoti accusati di vera pedofilia sono 958 in 52 anni, ovvero una media di 18 all’anno. Negli Stati Uniti oggi sono circa 5.000 le persone che hanno dichiarato di essere state vittima di abusi sessuali da parte dei sacerdoti. Lo scandalo, che a partire da Boston ha contagiato la nazione, è costato fin qui oltre 1,5 miliardi di dollari alla Chiesa cattolica Usa in risarcimenti, a cominciare da quello formidabile da 660 milioni di dollari che la diocesi di Los Angeles, guidata dal cardinale Mahoney (anch’egli travolto dalle accuse) ha pagato a 508 vittime di molestie sessuali, molte delle quali avvenute in un passato lontano, con un’intesa che ha posto fine a tutte le azioni legali nei confronti dell’arcidiocesi più popolosa d’America, per quanto non abbia certo messo a tacere le inquietudini dei fedeli. Il risarcimento medio per ciascuna vittima di molestie è stato stabilito in 1,3 milioni di dollari. Altre diocesi hanno rischiato la bancarotta, come quella di Boston che ha pagato 157 milioni di dollari, o i 129 milioni sborsati dalla diocesi di Portland. Cinque diocesi - San Diego, Davenport, Portland, Spokane e Tucson - hanno richiesto la protezione dalla bancarotta.
Il secondo fattore, che aggrava la drammaticità della vicenda, riguarda le ventilate responsabilità dirette di Joseph Ratzinger nella vicenda, che pongono ancor più sotto i riflettori il pontefice al fatale appuntamento di questo viaggio in America. Risale al 1962 il documento emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede consistente in un’«Istruzione» dal titolo «Crimen Sollicitationis», che sanciva la competenza esclusiva della Congregazione su alcuni reati tra cui «la violazione del Sesto Comandamento» che recita «non commettere atti impuri» laddove coinvolgessero un membro del clero e un minorenne. La firma del documento è del cardinale Alfredo Ottaviani, con l’approvazione di papa Giovanni XXIII. Ma nell’anno 2001 il «Crimen Sollicitationis» viene menzionato nella lettera «De Delictis Gravioribus» che rivede l’istruzione alla luce delle riforme dei codici di diritto canonico. E qui le firme sono quelle dei cardinali Ratzinger e Bertone, che qui non disinnescavano, bensì reiteravano (contrariamente a quanto sostenuto dal Vaticano) la volontà della Chiesa di Roma di farsi giudice unica di particolari delitti commessi nel suo grembo. Una responsabilità che nel settembre 2005 negli States costa a Ratzinger una procedura giudiziaria civile per l’accusa di complotto allo scopo di coprire le molestie sessuali di un seminarista del Texas contro tre ragazzi. Accusa poi bloccata dal vice ministro della giustizia Usa Peter Keisler in nome dell’immunità di cui Benedetto XVI, nel frattempo divenuto Papa, gode in quanto capo di Stato, secondo quanto stabilito dalla Corte Suprema. E comunque un segno di rispetto che certamente non è sfuggito al Papa tedesco.
Così il viaggio americano di Ratzinger va in scena in questo cono d’ombra. A Boston i comitati delle vittime di violenze sessuali hanno comprato pagine sui quotidiani per manifestare la loro rabbia verso il pontefice. Che, fin dall’inizio, fin dalle dichiarazioni d’alta quota con cui ha rotto gli indugi ed è piombato sul punto dolente di questa visita pastorale, dimostra la volontà di superare questa crisi spinosa. Errori commessi, omissioni, colpe. Infine il desiderio di ristabilire la dignità di un clero che rischiava d’essere travolto dal disastro-pedofilia. Mentre si sgranano le giornate della sua visita americana, appare chiaro che i motivi dell’espiazione e della ritrovata serenità sono molto più al centro delle intenzioni di Benedetto XVI di quanto si sarebbe potuto presupporre scorrendo il denso programma di appuntamenti politici del viaggio. La sensazione è che, tra Washington e New York, Ratzinger intenda soprattutto mettere riparo al torto commesso da quei cattivi soldati dell’esercito di cui ora è il responsabile tattico e morale.

l’Unità 18.4.08
"Le parole non bastano a noi abusati dai religiosi"
Il leader dell´Associazione: "A quell´incontro solo in pochi. Ora servono fatti"
di Arturo Zampaglione


"Chiediamo che sia dato il buon esempio, punendo chi ha protetto i responsabili "

NEW YORK - Le vittime dei preti pedofili non si accontentano né delle espressioni di «profonda vergogna» di Benedetto XVI, né dell´incontro di ieri del Papa con alcuni di loro.
«Ci aspettavamo un atteggiamento più fermo nei confronti di vescovi e cardinali che hanno nascosto le nefandezze dei sacerdoti», si lamenta Peter Isely. «Invece il Papa non ha redarguito nessuno e si è limitato a pregare assieme a un piccolo numero di vittime, scelto con molta cura, rifiutandosi di incontrare i membri della nostra associazione».
Molestato da un sacerdote del Wisconsin quando aveva appena 13 anni - e rimasto cattolico - , Isely è uno dei leader dello Snap (Survivors network of those abused by priests), l´associazione cui fanno parte 4500 vittime e che in questi giorni accompagna la visita pontificia con manifestazioni di protesta. Gli obiettivi? «Chiediamo che sia dato il buon esempio, punendo alcuni prelati che hanno protetto i pedofili ed estendendo le norme introdotte negli Stati Uniti al resto della Chiesa», dice Isely in un colloquio con Repubblica.
Non è importante, per voi, la grande attenzione del Papa per un problema che ha scosso e indebolito la Chiesa americana?
«Abbiamo apprezzato le parole del Santo Padre: ma sono rimaste per aria, a 10mila metri d´altezza, cioè alla stessa quota dell´aereo che lo portava qui negli Stati Uniti, senza mai scendere sulla terra e tradursi in azioni concrete. Il Papa si è seduto accanto al cardinale di Chicago, Francis George, senza mai rimproverarlo. E ha deplorato l´onnipresenza della pornografia e dei temi sessuali in televisione come se fossero una causa della pedofilia dei sacerdoti».
Che ha fatto di male il cardinale di Chicago?
«Nel 2005, invece di sospendere Daniel McCormack, un sacerdote arrestato per pedofilia, il cardinale lo trasferì in un´altra parrocchia, dove il prete continuò a molestare i bambini, tanto da essere arrestato una seconda volta. Vede: non sarà mai possibile evitare casi di pedofilia, ma se vengono scoperti non si può proteggere il colpevole. Invece è proprio quello che ha fatto la Chiesa: rifiutandosi di denunciare alla magistratura i sacerdoti pedofili, o trasferendoli in altre diocesi o persino all´estero».
Ora però la Chiesa americana ha voltato pagina.
«È vero, ma ci sono ancora molte ambiguità. Secondo i dati forniti dai nostri vescovi, ci sono stati 5180 sacerdoti pedofili: alcuni sono morti, come quello del Wisconsin che molestò 40 ragazzini tra cui il sottoscritto, ma altri sono stati semplicemente nascosti. E non è mai stato punito alcun responsabile dell´insabbiamento istituzionale».
Perché ha da ridire sulle critiche di Ratzinger alla pornografia?
«Capisco che il Papa abbia difficoltà nell´accettare che la sacralità del sacerdozio venga tradita dalla pedofilia. Ma questa è la realtà. E per combattere il problema non bisogna dare la colpa alla cultura di massa perché incensa la sessualità, ma allertare la magistratura e soprattutto allontanare i complici, anche se indossano la porpora. Mi sorprende pure che le sanzioni del diritto canonico per i sacerdoti pedofili si applichino soltanto agli Stati Uniti, non a tutta la Chiesa: come se il problema fosse solo americano, mentre sappiamo bene che è mondiale».

l’Unità 18.4.08
Lorenz, l’uomo che aveva capito il caos
di Andrea Barolini


È MORTO l’altro ieri a Cambridge il meteorologo che teorizzò il funzionamento dei fenomeni complessi. Celebre la sua frase «il battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un tornado in Texas?»

Forse oggi - anche per chi non ha studiato fisica né si è mai chiesto come funzionino le previsioni del tempo - la frase «può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un tornado in Texas?» non sembra più una provocazione. Quando Edward Lorenz la pronunciò (ufficialmente) per la prima volta, il 29 dicembre del 1979 alla conferenza annuale dell’American Association for the Advancement of Science, il mondo non conosceva l’effetto serra (per lo meno al di fuori del mondo accademico), i ghiacciai sulle montagne resistevano e il clima non aveva dato segni di squilibrio allarmanti. Era difficile, insomma, comprendere come i comportamenti collettivi potessero avere conseguenze globali. Figuriamoci quelli individuali. Figuriamoci il battito d’ali di una farfalla. Eppure lo scienziato americano aveva ragione. Tanto che la sua «teoria del caos» ha rivoluzionato, dagli anni 60 ad oggi, tutte le discipline scientifiche. «Ha messo fine all’universo cartesiano e ispirato la cosiddetta terza rivoluzione scientifica del ventesimo secolo, dopo le teorie della relatività e della fisica quantistica», ha spiegato Kerry Emanuel, docente di scienze atmosferiche al Massachusetts Institute of Technology.
Lorenz è morto mercoledì, novantenne, nella sua casa di Cambridge. Era nato nel 1917 a West Hartfort, nel Connecticut; si era laureato in matematica prima al Dartmouuth College nel 1938 e due anni più tardi ad Harvard. «Da ragazzo ero sempre stato interessato ai numeri, e insieme affascinato dai cambiamenti del tempo», scrisse più tardi. Nel 1943 si era specializzato come meteorologo al Mit. Proprio come meteorologo, poté approfondire la materia in tempo di guerra (la seconda mondiale), mentre prestava servizio per l’aeronautica americana. Dimostrò già allora ciò che è oggi noto a chi si occupa di previsioni del tempo. E cioè che i modelli matematici (che simulano, sulla base di equazioni fisiche, le condizioni dell’atmosfera nel futuro prossimo) hanno dei limiti temporali di previsione. L’attendibilità, infatti, è superiore all’80% solo nei primi tre - quattro giorni.
Quello che è passato alla storia come l’«effetto farfalla» - citato anche in best seller come Jurassic Park di Michael Crichton - saltò agli occhi di Lorenz nel corso di un programma di simulazione del clima che si basava su dodici variabili. Lo scienziato scoprì che, ripetendo la stessa simulazione ma modificando (seppur di pochissimo) i valori immessi, l’elaborazione finale fornita dal computer si discostava notevolmente dai risultati precedenti. In quegli anni creò una sorta di modello-giocattolo della meteorologia: il suo computer non aveva memoria né velocità sufficienti per elaborare una simulazione realistica del comportamento dell’atmosfera. Anche in questo caso i risultati forniti dalla macchina non erano mai gli stessi. Per quanto si trattasse di modelli ricorrenti, in ogni ripetizione variavano sempre alcuni elementi. Erano, appunto, imprevedibili. Da qui l’intuizione della teoria del caos.
Sulla scorta di quei risultati, nel 1963 Lorenz pubblicò un articolo intitolato Deterministic Nonperiodic Flow in cui - partendo da un modello dinamico non lineare per la descrizione dei moti convettivi nell’atmosfera (ovvero la circolazione delle correnti) - descriveva il fenomeno del «caos deterministico». Le conclusioni alle quali giungeva erano simili a quelle descritte dal matematico francese Henri Poincaré (precursore del relativismo einsteiniano) 60 anni prima. Ma suscitarono grande scalpore per la loro «graficizzazione» (il renderle immagini, attraverso l’elaborazione al computer) e per l’interesse di cui già godeva la meteorologia anche al di fuori dei circoli accademici.
Le sue intuizioni gli sono valse numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Kyoto per le scienze applicate per aver dato vita ad «una rivoluzione pari a quella di Isaac Newton nel modo con cui l’uomo vede la natura», si legge nelle motivazioni.
Ma non il Nobel, perché la meteorologia non è tra le discipline premiate. E forse è ora che lo diventi…

l’Unità 18.4.08
Un nuovo sguardo sulla vita
Ha messo d’accordo il caso e la necessità
di Marcello Buiatti


In tutte le discipline scientifiche, l’introduzione dei concetti relativi alla complessità ideati da Edward Lorenz ha avuto un effetto dirompente. Il denominatore comune di tutto è l’aver trovato una sorta di «soluzione» alla contrapposizione tra i concetti di caso e di necessità. Mentre fino a qualche decennio fa si tendeva a considerarle come categorie separate - e, in qualche misura, dicotomiche - oggi le si osserva come parti diverse di un tutto. È scomparso l’aut-aut «o caso, o necessità» per lasciare spazio, appunto, ai sistemi «complessi». Per chi studia la natura, nelle sue diverse forme, ciò ha significato cominciare a valutarne i comportamenti secondo, da un lato, la loro predeterminazione (la «necessità»), dall’altro i suoi elementi di casualità. Da queste considerazioni, la fisica ha partorito lo studio delle dinamiche non lineari, a partire dal 1961, attraverso l’applicazione delle modellizzazioni matematiche. La biologia, invece, sta superando le concezioni che interpretano la vita come un’evoluzione predeterminata dalla nascita (attraverso le «istruzioni» del nostro Dna) oppure, al contrario, come frutto del caso. La prima corrisponde ad una visione meccanicistica, in cui l’essere vivente è costituito come una macchina fatta di singoli componenti che, presi ciascuno singolarmente, sono identici in tutti gli esseri umani. Come se fossimo organismi dotati di «programmi» con un’unica «configurazione». Nel secondo, la concezione è quella teorizzata non già da Darwin ma dai neutralisti, sostenitori appunto della casualità.
Ci sono voluti i moderni studi di genetica per superare questa dicotomia. In particolare, l’aver dimostrato come solo l’1,5% del nostro Dna sia composto da geni - mentre il resto è costituito da «strumenti» che controllano quei geni, interagendo al contempo con il contesto esterno -, ha imposto un ripensamento delle teorie sull’evoluzione umana. Oggi sappiamo che i nostri geni sono «ambigui»: ciascuno di essi è in grado di produrre non una sola, ma fino a 60mila diverse proteine. E ciò accade proprio in funzione degli stimoli esterni. L’evoluzione attuale della biologia ha giovato anche alla fisica, che fino a poco tempo fa studiava sistemi complessi di durata relativamente breve (ad esempio la dinamica della forma di una goccia d’acqua), mentre oggi ha a disposizione gli stessi esseri viventi.
L’eco del lavoro di Lorenz, insomma, continua a riverberare in tutte le discipline scientifiche (non ultime la psicologia, la psichiatria e la medicina). E, con essa, si fa largo un’idea relativista in tutte le branche della scienza.

l’Unità 18.4.08
Aimé Césaire: il poeta della «negritudine» che non amava Sarkozy
di Marco Innocente Furina


È morto ieri il poeta cantore della cultura nera caraibica, Aimé Césaire. Noto in italia per titoli come Negro sono e negro resterò, Diario del ritorno al Paese Natale e Una stagione nel Congo, Césaire si è spento all’età di 94 anni nell’ospedale di Fort-de-France, la città, capoluogo della Martinica, di cui è stato sindaco per 56 anni, e dove era stato ricoverato il 9 aprile per problemi cardiaci. Insieme ad autori come il senegalese Léopold Sédar Senghoer, Césaire aveva coniato il termine «negritudine», come «affermazione dell’orgoglio di essere nero», anticipazione di quel «nero è bello» che sarebbe diventato lo slogan dell’emancipazione degli afroamericani.
Dopo gli studi secondari in Martinica, si trasferisce a Parigi dove frequenta l’Università e conosce il senegalese Léopold Sédar e Léon Gontran Damas originario della Guiana. Insieme si appassionano alle opere sull’Africa scritte da autori europei, scoprendo la storia e i tesori del continente nero. Una rivelazione che porta Césaire a elaborare il concetto di négritude, come nozione che comprende i valori spirituali, artistici, filosofici dei neri africani, e che costituirà lo sfondo ideologico di tutte le lotte per l’affermazione dei diritti degli afroamericani.
Come poeta è considerato uno dei massimi esponenti del surrealismo francese, ma in lui l’impegno letterario si accompagnò sempre a quello civile e politico. Nel 1932 fondò la rivista L’Etudiant Noir (lo studente nero), una pubblicazione in cui per la prima volta alcuni scrittori di colore rifiutano di seguire i modelli tradizionali della letteratura europea. Tornato in patria diede vita al partito progressista della Martinica con l’obiettivo di perseguire l’autonomia della sua isola (tutt’ora dipartimento d’oltremare francese) e «l’uguaglianza sociale». Nel 1950 pubblica il Discorso sul colonialismo, un virulento attacco contro l’Occidente, accusato di essere responsabile del «più grande cumolo di cadeveri dell’umanità». Ma il suo lavoro più popolare è il poema, risalente al 1939, Diario del ritorno al Paese Natale, che può essere considerato l’enciclopedia degli schiavi neri e al tempo stesso l’espressione della speranza della liberazione.
Il poeta non venne mai meno al suo impegno politico e coerente con la sua dottrina anticolonialista nel 2005 rifiutò di incontrare il ministro degll’Interno, Nicolas Sarkozy in visita nelle Antille. «Non saprei come adeguarmi allo spirito e alla lettera della legge del 23 febbraio 2005 - aveva spiegato - che riconosce il ruolo positivo della presenza francese oltre mare». Alla fine l’incontro ebbe luogo un anno dopo, nel marzo del 2006, ma il poeta non rinunciò a un forte gesto simbolico, regalando una copia del suo Discorso sul colonialismo a Sarkozy. Che ieri l’ha voluto ricordare così: Césaire è un «simbolo di speranza per tutti i popoli oppressi», grazie alla lotta per il «riconoscimento della sua identità e la ricchezza delle sue radici africane». Parole di cordoglio anche da Segolene Royale che ha definito il poeta l’«illustre simbolo di una Francia multirazziale».

l’Unità 18.4.08
Roma. «Un voto per difendere la città democratica»
di Jolanda Bufalini


Morassut: Alemanno non ha voglia di fare il sindaco, quando glielo proposero disse «ho già dato»

«HO GIÀ DATO». Forse ora si mangia le mani ma allora, quando Gianfranco Fini si era sfilato, Gianni Alemanno di primo acchito rispose così all’ipotesi di una sua candidatura a Roma. Con tutto il rispetto, come si dice a Roma, «nun glie va», chiosa ora l’ex
assessore all’Urbanistica della giunta Veltroni Roberto Morassut e, del resto, è comprensibile «perché fare il sindaco di Roma è il mestiere più faticoso che possa capitare a un esponente politico». Insomma, Alemanno non si meriterebbe una vittoria, per tanti motivi fra i quali c’è pure quella svogliatezza, quel senso di costrizione di una candidatura nata da mediazioni politiche e non da una scelta per la città: «Non è stato certo assiduo in consiglio comunale, anzi è stato un campione di assenteismo. E ora ha a portata di mano l’obiettivo che preferiva, una poltrona da ministro».
Francesco Rutelli invece ha fatto una scelta che è un atto di amore per la città. C’è l’investimento fatto su un leader nazionale. «C’è l’esperienza che consentirebbe a Francesco di entrare subito in medias res, in un momento delicato per lo sviluppo di Roma che deve fare i conti con una sempre maggiore internazionalizzazione, con la globalizzazione e la multiculturalità».
Questo è solo una delle ragioni per cui Morassut, che è stato segretario della federazione romana dei Ds, chiama, al «tumultus»: «come dicevano gli antichi romani quando c’era ragione di allarme per la città: ognuno prenda in mano l’agenda, spedisca e mail, prenda iniziative in ogni caseggiato, in ogni strada, in ogni mercato perché la vittoria è a portata di mano, ha ragione Francesco quando sottolinea che ci sono 84mila voti di vantaggio. E il voto per Rutelli e Zingaretti può segnare subito la riscossa democratica del centro sinistra in una città che da 15 anni vive un’esperienza di buongoverno, che viene giudicata tale anche da molti osservatori internazionali». Il voto, oltretutto, cade a metà fra le celebrazioni del 25 aprile e del primo maggio. «Forse la discriminante antifascista non è più posta con la forza di un tempo ma un problema attuale c’è: questi sono stati di giorni di offesa al tricolore, alla presidenza della Repubblica. È importante la risposta di saldo legame con i valori della Repubblica e della giustizia sociale».
Preoccupano l’ex assessore l’alleanza a livello nazionale delle due B: Bossi e Berlusconi e l’apparentamento locale con le forze rappresentate da Storace: «L’ostilità a Roma, il malgoverno, la questione morale e l’estremismo sono quattro argomenti per non votare Gianni Alemanno», dice: «Alemanno fa nel programma promesse mirabolanti di un milione e mezzo per le periferie romane, mentre Berlusconi annuncia misure impopolari. Più modestamente, chieda al governo Bossi-Berlusconi se confermeranno per il 2009-2010 lo stesso stanziamento che Prodi ha dato per finanziare “Roma Capitale” nel 2007-2008, di 650 milioni. Il più grande finora erogato». Malgoverno? «Storace, che ora si apparenta con Alemanno, ha distrutto i bilanci e la sanità del Lazio, era a capo di una giunta che ha un numero impressionante di inquisiti». Estremismo? «Storace ha forse condannato quei gruppi violenti che abbiamo visto in azione soprattutto allo stadio? Come si concilia questo con i discorsi sulla sicurezza urbana? E come si concilia l’apparentamento con una forza neofascista di fronte alla chiara presa di posizione della comunità ebraica attraverso le parole del presidente Pacifici?»
A proposito di apparentamenti c’è un’altra cosa che Morassut vuole dire: «Sono oggetto di valutazioni che spettano a Francesco Rutelli, io do una testimonianza personale: nel periodo molto conflittuale con la giunta Storace, io ho trovato sia in Ciocchetti che in Dionisi, assessori all’urbanistica regionale in tempi diversi, atteggiamenti aperti e propositivi».

Repubblica 18.4.04
La comunità ebraica verso il sit-in "Il Pdl rifiuti l´appoggio di Storace"
di Gabriele Isman


Perla Pavoncello "Se ci fosse questa alleanza con la Destra resterei spiazzata"

ROMA - «Alemanno e Storace erano assieme nella Destra sociale, e sono ancora amici. No, l´apparentamento non ci piace». Angelo Sermoneta, 60 anni, commerciante, è il presidente del Circolo del ‘48, anno della nascita dello Stato di Israele, intitolato a Raimondo Di Neris, che, tornato da Auschwitz, divenne una delle anime del ghetto romano. Si misurano umori e sensazioni della comunità ebraica all´indomani delle dichiarazioni a Repubblica di Riccardo Pacifici che da poche settimane, della stessa comunità, è presidente. Esponenti della comunità si mobilitano: per lunedì si annuncia un sit-in al Portico d´Ottavia, cuore del ghetto. «Una serata contro il fascismo», annuncia Vittorio Pavoncello, candidato per la lista Rutelli. «Pacifici - spiega Pavoncello - ha voluto ricordare che Fini ha intrapreso un percorso partito a Fiuggi. Ora un apparentamento con Storace sarebbe un ritornare indietro in quel percorso».
A fine giornata è lo stesso presidente, da Israele, a intervenire: «Se Buontempo continua a dichiararsi fascista, sono certo che la mia Comunità sarà compatta e unita nel respingere al mittente le sue farneticanti dichiarazioni», attacca Pacifici. «Da questo momento entrerò in silenzio stampa fino al termine ultimo dell´apparentamento che dovrebbe avvenire domenica alle 19. Dopo, faremo le nostre legittime considerazioni».
Dallo stesso schieramento di Alemanno attacca Perla Pavoncello, la precaria che in uno studio della Rai si era sentita rispondere da Berlusconi che per sistemarsi nella vita bisogna sposare un milionario. «Non so se ci sarà», dice la Pavoncello che per alcune ore era anche stata data in corsa per le Comunali nelle liste del Pdl, «ma se ci fosse questa alleanza con la Destra spiazzerebbe le mie certezze».
Poco dopo le 18 nel Circolo di via della Reginella c´è una riunione per ragionare sul ballottaggio del 27 e 28 aprile. Arriva Stefano Valabrega, 55 anni, vicepresidente degli ebrei romani: «Qualsiasi forma di fascismo vecchio o nuovo è inaccettabile per la comunità». E Sermoneta: «In questi giorni abbiamo visto per le vie di Roma i camion scoperti con le bandiere fasciste de La Destra di Storace. Poi ogni ebreo è libero di votare come crede. Fra Alemanno con Storace e Rutelli, mi tappo il naso e voto Rutelli».
Carla Di Veroli è nel coordinamento romano del Pd: l´estate scorsa fu derubata e picchiata da due romeni, ma ora sta bene. «Buontempo - dice Di Veroli - ha dichiarato che a Roma se c´è la comunità ebraica ci possono stare anche gli zingari. Nel loro programma si prevede la chiusura di tutti i campi rom, e se potessero, deporterebbero loro e noi. Tanto è il settantesimo anniversario delle leggi razziali che colpirono ebrei e zingari».
L´apparentamento risulta davvero «una pessima idea» come alle agenzie la definisce Tullia Zevi: «Non si può non tener conto di chi ha un pesante passato e una nostalgia altrettanto pesante» dice l´ex partigiana di Giustizia e Libertà che suggerisce ad Alemanno di «dormirci su e ripensarci». La riunione prosegue. Sui muri del Circolo, tra immagini d´epoca e cimeli, un pezzo di filo spinato: «Viene da Auschwitz, l´ha riportato chi è riuscito a tornare vivo. E per noi i tempi non sono cambiati» dice Sermoneta.

Repubblica 18.4.04
Per la prima volta consultabili su Internet tutte le carte dello scienziato
Darwin, i segreti in un clic
di Enrico Franceschini


Fotografie, appunti, diari, scambi epistolari: tutti consultabili su Internet La Cambridge University Library pubblica gli scritti dello scienziato
Oltre ai testi più celebri, ora sono consultabili anche alcune "chicche" come un manuale di cucina scritto di suo pugno
Il curatore del nuovo sito: "È una delle più importanti collezioni nella storia della scienza"

«Sono rimasto estremamente colpito da circa un mese di osservazione del carattere dei fossili Sudamericani, e delle specie animali dell´arcipelago delle Galapagos. Da questi fatti, e specialmente dal secondo, derivano tutte le mie idee». Così scriveva, prendendo furiosamente appunti su un taccuino di pelle, Charles Robert Darwin, nel luglio del 1838, tre anni dopo essere tornato in Inghilterra dal viaggio intorno al mondo che avrebbe cambiato la sua vita, e anche la percezione universale dell´evoluzione umana.
Quel foglietto di carta ingiallito dal tempo, su cui scorre la calligrafia quasi illeggibile di uno dei più grandi scienziati della storia, è ora a portata di mano di chiunque abbia un computer e una connessione a Internet. La Cambridge University Library, che nel 1942, sessant´anni esatti dopo la morte di Darwin, ricevette dai suoi eredi l´archivio personale dell´autore di «Le origini della specie», ha messo infatti da ieri sul web l´intera documentazione, vale a dire oltre 20 mila libri, manoscritti, lettere, taccuini e circa 90 mila immagini, schizzi, fotografie, disegni. «Fino ad oggi questi materiali erano stati esaminati soltanto da accademici e studiosi nelle sale chiuse al pubblico della nostra biblioteca», spiega John van Wyhe, direttore di «Darwin Online», come si chiama l´iniziativa. «D´ora in poi invece saranno a disposizione di tutti, gratis, su Internet. Darwin ha cambiato per sempre la nostra percezione della natura, e le sue carte dimostrano come immensamente dettagliate fossero le sue ricerche. Diffonderle in questo modo segna una rivoluzione nell´accesso a una delle più importanti collezioni nella storia della scienza». E rappresenta pure un´altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, del potenziale e del valore della rete che ci mette in comunicazione con tutto e con tutti.
Chiaramente suddivisa per argomenti e cronologia sul sito www.darwin-online.org.uk, la collezione Darwin include le prime stesure manoscritte della teoria dell´evoluzione, appunti sul viaggio della Beagle, la nave su cui il naturalista, appena 22enne, viaggiò per cinque anni dall´Inghilterra all´America Latina fermandosi alle isole Galapagos, i suoi dubbi religiosi, la sua meraviglia davanti alle tartarughe giganti, agli iguana e ad altri animali fino a quel momento sconosciuti, ma anche tutto quanto Darwin raccolse nel corso della sua esistenza, libri, articoli di giornali, recensioni delle sue opere, il diario dei suoi anni giovanili con le prime osservazioni ornitologiche, il primo disegno del cosiddetto «albero della vita», oltre alla sua numerosa corrispondenza privata. Altri materiali fanno luce sulla vita della sua famiglia, cioè di una tipica famiglia intellettuale e altolocata dell´epoca vittoriana, compreso il libro di ricette di sua moglie Emma e anche una guida, scritta da Darwin medesimo, su come si cucina il riso, quasi si trattasse di un complicato esperimento scientifico: «To cook rice. Add salt to the water and when boiling stir in the rice» («Per cucinare il riso. Aggiungere sale all´acqua e gettare il riso quando bolle»), comincia la dettagliata spiegazione. Leggendola, è come trovarsi in cucina con lui, e scoprire che per Darwin tutto era appassionante, misterioso, degno di essere studiato, analizzato, osservato: perfino una banalissima pentola d´acqua che bolle sul fuoco.
Le carte coprono tutta la vita di Darwin, dai momenti salienti, come la pubblicazione del suo libro «L´origine della specie» nel 1858, che andò esaurita in un giorno e fece istantaneamente di lui uno scienziata di fama mondiale, alle polemiche sulla fede e con la religione, che lo accompagnarono fino alla morte, nel 1882, quando ricevette un funerale di stato nella cattedrale di Westminster, dove fu sepolto, accanto alla tomba dell´altro grande scienziato britannico, Newton. C´è anche, nell´archivio dei suoi documenti on line, un curioso memorandum sul matrimonio, che Darwin vergò, forse con intento vagamente umoristico, nel 1838, quando aveva 29 anni ed era ancora scapolo: «Ragioni per non sposarsi. Libertà di andare dove si vuole, conversazione con uomini intelligenti al club, nessun obbligo di visitare i parenti della sposa, niente spese e preoccupazioni per i figli, niente bisticci familiari, niente perdite di tempo, niente ansie e responsabilità, puoi leggere la sera quanto vuoi, puoi spendere tutti i soldi che vuoi per i libri». Il club per gentiluomini in cui preferiva fare conversazione, piuttosto che stare a casa con una consorte, era il celebre «Atheneum», nel centro di Londra, dove a tutt´oggi è conservata, identificata da una targhetta, la poltrona su cui sedeva Darwin. Ma gli argomenti in favore del matrimonio, alla fine, prevalsero sui piaceri della conversazione tra uomini e del celibato: «Figli, compagnia costante, un´amica per la vecchiaia. Comunque sia, meglio di un cane». Non proprio un gran complimento alle donne: ma l´anno seguente lo scienziato si sposò, e dalla moglie Emma, una sua lontana cugina, ebbe ben dieci figli (tre morirono in tenera età), che lo appassionarono, si può dire, non meno degli iguana, come testimoniano gli appunti ora finiti su Internet. Dopo la nascita di William Erasmus, suo primogenito, il 27 dicembre 1839, per esempio lo studioso scriveva, evidentemente compiaciuto: «Durante la prima settimana, sbadiglia, si stiracchia esattamente come farebbe un vecchio signore, ha il singhiozzo, starnutisce rumorosamente».
L´evoluzione della specie, in questo caso della specie personale e privata di Charles Robert Darwin, da quel momento era garantita. E lui lo annotava coscienziosamente sul suo taccuino.

Repubblica 18.4.04
Nelle periferie crescono le bande femminili La polizia di Parigi: sono peggio dei maschi
Le ragazze delle banlieues dure, violente e arrabbiate
di Giampiero Martinotti


Fra i 13 e i 16 anni sono soprattutto nere e figlie di immigrati di prima generazione
Ha fatto scalpore una rissa in periferia: botte e minacce per un amore conteso

«Mettetevi nei nostri panni: quando due bande di ragazzotti si affrontano, è abbastanza facile dividerli, basta picchiarli di santa ragione e alla fine si calmano. Ma quando a battersi sono delle ragazzine? Dobbiamo pestarle come i maschi? É impossibile, ma al tempo stesso diventa più difficile mettere fine a una rissa». L´ufficiale di polizia manifesta i dubbi e lo sconcerto di fronte a un fenomeno nuovo, ancora marginale, eppure in crescita costante: la formazione di bande femminili nelle banlieues. Che come quelle maschili non esitano al confronto fisico, non solo con le mani, ma anche con cacciaviti, coltelli, mazze. Le statistiche, per quanto possano prestarsi a letture diverse, danno una consistenza a questa realtà. Certo, solo una ragazza per sei maschi è stata responsabile di violenze fisiche "gratuite" (cioè non legate a furti o altro) nel 2007, ma in cinque anni il loro numero è aumentato del 140 per cento.
Il fenomeno è preoccupante. Finora, infatti, nelle banlieues esistevano due profili radicalmente diversi a seconda del sesso. Da un lato, i maschi, più violenti, più inclini ad agire in branco, a organizzarsi in bande che controllano «il proprio territorio», abituati fin da piccoli alla baby delinquenza, allo spaccio di droga, alle bagarre. Dall´altro, le ragazze, che frequentano assiduamente le scuole (a differenza dei maschi), che studiano per crearsi una posizione, come si diceva un tempo, sfuggire alle periferie in cui sono cresciute e soprattutto a una cultura familiare che le opprime. Adesso, le cose sono un po´ cambiate, non tutte le ragazze credono di poter sfuggire alla loro condizione attraverso la scuola e il lavoro.
Malgrado i francesi siano reticenti (per non dire ambigui), le ragazzine violente appartengono a un gruppo etnico ben definito: sono nere e figlie di immigrati di prima generazione. Alla base, insomma, ci sarebbe un fenomeno di sradicamento. Hanno fra i 13 e i 16 anni, cercano di avere comportamenti da maschiaccio, si vestono in maniera vistosa, pensano che mostrarsi come una "dura" sia indispensabile per imporsi nel quartiere e farsi rispettare. Ripetono insomma i cliché maschilisti. E la loro violenza, spesso, si riversa contro le ragazzine femminili, che si vestono scollate, le «puttanelle» che cercherebbero di rimorchiare i ragazzi del loro quartiere.
L´unica grande rissa femminile finora conosciuta, svoltasi in febbraio a Chelles, nella periferia parigina, aveva infatti questo motivo: una battaglia tra una ventina di ragazzine (armate di cacciaviti e perfino di un coltello da carne proveniente dalla mensa scolastica) a causa di una banale storia di flirt tra giovani che vivono in quartieri diversi. Niente a che fare con una moderna versione dei Capuleti e Montecchi, ma piuttosto una vicenda di «branco», di delimitazione del proprio potere all´interno di un territorio.
Potere seduttivo, fisico, violento. Come fanno i maschi. Secondo lo psicanalista Didier Lauru, le ragazze «s´identificano alla violenza dei maschi sia per difendersi sia per avere un´identità positiva, che non sia quella della vittima, poiché questa posizione violenta dei maschi è quella valorizzata fra gli adolescenti delle borgate». In pratica, la violenza è l´altra risposta a una cultura maschilista, propagata dal rap, in cui le ragazze sono sottomesse e spesso trattate da prostitute. E per sottrarsi a questo cliché adottano i comportamenti maschili, come dimostra il linguaggio di una delle ragazze protagoniste della rissa di Chelles: «Mi capita spesso di picchiarmi. Se una ragazza mi guarda male, se viene dal mio settore, la sfondo, la inc...». Parole che rivelano come le femmine abbiano letteralmente ripreso il comportamento dei maschi.
Di fronte a questa violenza, i genitori sono disarmati. Quasi sempre si tratta di famiglie arrivate da poco, che già si battono per integrarsi, per far propri i valori educativi e culturali europei e che non sanno cosa fare di fronte a ragazze che sfuggono sia ai vecchi canoni africani sia ai nuovi canoni europei. E sono le madri ad affrontare da soli la situazione, visto che i mariti pensano che l´educazione dei figli, in particolare delle ragazze, riguardi esclusivamente le madri.
Del resto, alcuni membri di associazioni che lavorano nelle banlieues tendono a relativizzare il fenomeno: il problema non sarebbe tanto una crescita della violenza femminile, ma piuttosto l´età in cui le ragazzine cominciano ad avere comportamenti delinquenziali. Un problema non molto diverso da quello dei maschi. Ma c´è soprattutto un elemento che sembra differenziare i due sessi: i ragazzi continuano sulla strada della violenza e della piccola criminalità anche una volta diventati adulti. Le ragazze, invece, sarebbero violente durante l´adolescenza e poi rientrerebbero nei ranghi: verso i 18-20 anni vogliono sposarsi, avere un lavoro, fare figli. Ma il fenomeno è troppo recente per trarre conclusione perentorie sui suoi sviluppi.