La giacca del Presidente
Il Quirinale può rifiutarsi di firmare una legge lo dice la Costituzione, c’è chi lo pretende. In realtà è un potere “debole” e poco usato
di Tania Groppi
Nella democrazia maggioritaria e conflittuale alla quale è approdata la lunga transizione italiana, guardare in modo salvifico al Colle più alto, invocando un intervento del Capo dello Stato che ponga freno allo strapotere di una maggioranza onnipotente e la riporti nell’alveo della Costituzione è diventata un’abitudine.
Ciampi prima, Napolitano poi, sono stati di frequente “tirati per la giacchetta” dall’opposizione, invitati più o meno pesantemente a usare i propri poteri di garanzia: l’autorizzazione alla presentazione al Parlamento dei disegni di legge governativi, la promulgazione delle leggi, l’emanazione degli atti normativi del governo.
Dei tre poteri, è soprattutto la promulgazione delle leggi ad essere al centro dell’attenzione: quasi non c’è legge importante sulla quale non si chieda al Presidente di “non firmare”, utilizzando la possibilità di rinviarla alle camere per un nuovo esame. L’esperienza tuttavia ci mostra (emblematico il caso, nel luglio 2008, della “legge Alfano”, fulmineamente promulgata dal Presidente nonostante le molteplici richieste di rinvio, non in ultimo quella di cento costituzionalisti) che assai raramente queste pressioni hanno successo: non è una novità, se già nel 1953 il presidente Einaudi promulgò la cosiddetta “legge truffa” e lo stesso fece Ciampi con la legge elettorale del 2005.
I presidenti hanno sempre usato con grande prudenza il potere di rinvio. A partire dal primo caso, Einaudi nel 1949, i rinvii sono stati soltanto 59: in particolare 23 fino al 1983 e 36 dal 1983 ad oggi, con un incremento significativo nelle presidenze Pertini (7) e Cossiga (ben 22, di cui 15 negli ultimi 19 mesi di mandato). I motivi del rinvio, che la Costituzione lascia indefiniti rimettendoli alla discrezionalità del Presidente, hanno riguardato in ben 36 casi la violazione dell’articolo 81.4 della Costituzione, ovvero la norma che impone alle leggi di spesa di indicare la copertura finanziaria. Al di fuori di questo settore (nel quale tra l’altro il controllo della Corte costituzionale è molto difficile), i rinvii si contano sulla punta delle dita: se si escludono i 13 di Cossiga ne restano due di Einaudi, uno di Leone, uno di Scalfaro e cinque di Ciampi. Proprio la prassi della presidenza Ciampi è la più interessante: nonostante il Presidente abbia affermato (rispondendo alla domanda di una studentessa in un dibattito pubblico a Berlino, nel 2003) di poter utilizzare il rinvio soltanto in caso di «manifesta non costituzionalità» della legge, ha poi compiuto rinvii dettagliati e di grande peso, come nel caso della legge Gasparri sull’emittenza radiotelevisiva e della riforma dell’ordinamento giudiziario.
Dietro questa cautela c’è la considerazione che il potere di rinvio sia “un’arma spuntata”. Esso sconta limiti pesanti, proprio sulla base delle previsioni costituzionali: il Parlamento può infatti superare il rinvio con una nuova deliberazione a maggioranza semplice, lasciando la legge immutata (anche se le leggi riapprovate senza alcuna modifica sono solo 8 su 59), o apportando poche modifiche formali che non soddisfano i rilievi presidenziali. Non si tratta di un’ipotesi di scuola: i più importanti rinvii della presidenza Ciampi hanno prodotto meri ritocchi, senza intaccare l’essenza dei testi rinviati. A questo punto il Presidente è comunque obbligato a promulgare, tranne (secondo la dottrina, non essendosi mai in concreto realizzata l’ipotesi) qualora la legge sia tale da attentare ai principi supremi dell’ordinamento, nel qual caso egli potrebbe rifiutarsi, aprendo la via ad un drammatico conflitto istituzionale. Non è quindi difficile capire perché spesso i presidenti (non ultimo Napolitano, che non ha ancora operato alcun rinvio, pur avendo rifiutato di emanare un decreto-legge, nel caso Englaro) preferiscano incidere sulla produzione legislativa con il complesso di strumenti informali che vanno sotto il nome di “moral suasion”, spesso più efficaci. Tuttavia, anche qui non mancano i problemi, muovendosi in una zona sottratta al controllo dell’opinione pubblica, nella quale diventa difficile individuare le responsabilità. In definitiva, si ripropone, con estrema urgenza e attualità, il vero problema: quello delle nuove esigenze di garanzia che implica l’evoluzione della nostra forma di governo. Esigenze che né il rinvio presidenziale né la “moral suasion” possono soddisfare. Soltanto un ripensamento delle garanzie costituzionali nel loro complesso (che comprenda anche nuove vie d’accesso alla Corte costituzionale da parte delle minoranze parlamentari) può alleggerire il compito immane che oggi grava sul Presidente e contribuire a preservare la legalità costituzionale dalle aggressioni alle quali è sempre più sottoposta.
Corriere della Sera 11.7.09
Il candidato Pd Il chirurgo da anni segue i progetti nei Paesi poveri: «Attenzione all’effetto annuncio»
Marino: «Con 5 dollari si salva una vita»
di M.Antonietta Calabrò
ROMA — Pochi sanno che Ignazio Marino, (Pd), chirurgo di fama in un settore della medicina «ad alta tecnologia», si è sempre interessato anche della medicina nei Paesi in via di sviluppo, quella che con cure a basso costo salva la vita a milioni di persone. Ha fondato un’organizzazione non governativa in Honduras, «Imagine», dal titolo della canzone di John Lennon. Come senatore ha seguito gli interventi del Global fund, per l’aiuto a 140 Paesi, istituito al G8 di Genova. «Sono soddisfatto - concede Marino riferendosi ad un aumento del 50 per cento dell’impegno italiano in materia sanitaria - , ma, secondo me, siamo nuovamente all’effetto annuncio. Certamente è stata aumentata la promessa di fondi, ma fino a ieri, venerdì 10 luglio 2009, non è stato speso neppure un dollaro degli aiuti a cui l’Italia si era impegnata per quest’anno. Quindi, adesso, non capisco come faremo a spendere in cinque mesi oltre duecento milioni. O meglio chiedo a Berlusconi: quando verranno spesi i fondi previsti per il 2009, dal momento che siamo già a metà luglio?». Marino è però preoccupato soprattutto dall’impatto che i ritardi nel versamento degli aiuti possono avere sulle popolazioni bisognose. «Ogni dollaro non speso, ogni ritardo spiega il senatore del Pd - , sono vite umane perse. Le faccio un esempio. Bastano cinque dollari per comprare una zanzariera trattata con repellenti (che ha efficacia per 5 anni) che è la migliore prevenzione per la malaria. Con 100 dollari si paga un trattamento contro l’Aids ». E a questo punto emergono le cifre drammatiche delle malattie considerate i «tre grandi killer» nel mondo e cioè la malaria, la tubercolosi e l’Aids. «Due milioni di Aids, 1,5 milioni di tubercolosi, due milioni di malaria - dettaglia Marino -. Gli infettati dalla tubercolosi sono due miliardi, cioè un terzo della popolazione mondiale ». E poi il dato più drammatico: «Solo in Africa, per la malaria, ogni giorno muoiono 3.000 bambini, bambini sotto i cinque anni. E’ una cifra mostruosa». Secondo il chirurgo-senatore non sarebbe «la prima volta che l’Italia non fa quello che dice. E’ già successo nel 2005, nel 2006 e nel 2007. Con le ultime tre Finanziarie del governo Berlusconi che ha preceduto il governo Prodi si erano accumulati 280 milioni di dollari di arretrato italiano». Una situazione a cui avrebbe posto rimedio «il ministro degli Esteri D’Alema che per recuperare ha dovuto stanziare 400 milioni di dollari nel 2008». C’è la questione sostanziale delle vite umane perse, ma c’è n’è anche una di credibilità internazionale. «Certamente, tanto più che nel 2001 a Genova l’Italia aveva promesso di essere il secondo donatore in assoluto del Global fund, dopo gli Stati Uniti - ricorda Marino -. Per questo avevamo ottenuto un posto nel consiglio di amministrazione del Fondo. La Francia (che ha donato quest’anno 450 milioni di dollari) e la Spagna (215) nominano invece un consigliere in comune. Finirà che reclameranno il nostro posto».
Repubblica 11.7.09
Ma il leader storico è prudente: "Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà"
Radicali: "Doppia tessera per Marino"
Pannella contro il divieto dei Democratici, Rutelli apre. Mina Welby si iscrive
di Giovanna Casadio
Per lo scienziato-senatore il primo ostacolo è ottenere l´appoggio del 5% degli iscritti
ROMA - Marco Pannella, il leader radicale, protesta con Rutelli: «Non capisco perché voi Democratici vietate la doppia tessera...». Francesco Rutelli, ultimo segretario della Margherita e leader democratico, apre: «Se gli obiettivi sono gli stessi, se non sono contrastanti», perché no; anche se «il divieto nasce da un´esigenza di lealtà che però non deve essere irregimentazione». Dialogo tra i due a Radioradicale. I Radicali sono molto tentati dal sostegno a Ignazio Marino, e sul web parte un tam tam, in vista del tesseramento (che si chiude tra dieci giorni) per il congresso. Mina Welby, la vedova di Piergiorgio, si schiera e, «come atto di disobbedienza civile contro il divieto della doppia tessera», lei radicale prende quella democratica. Oggi sarà con Marino (e con Beppino Englaro) al Rototom Sunsplash festival reggae a Osoppo.
L´appoggio dei Radicali allo scienziato-senatore - ora sfidante di Dario Franceschini e Pierluigi Bersani per la leadership del Pd - non si spinge fino a fare una lista ad hoc. «Oddio, da noi tutto può succedere, se alcuni decidono, auguri - replica Pannella - Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà, però ai radicali lui piace molto» Inoltre, «la vittoria di Marino sarebbe un grosso contributo a una riforma del Pd, sarebbe un fatto positivamente traumatico». Il feeling tra il Pr e lo scienziato, in prima linea nelle battaglie laiche sulle questioni bioetiche e dei diritti civili, è di vecchia data: «C´è una profonda sintonia». Pannella è convinto che effettivamente alle primarie, se supererà la soglia del 5% prevista al congresso, Marino avrà il popolo dalla sua. E Marco voterà per Ignazio? «Vedremo , non lo escludo però voglio prima vedere il percorso. E poi, detto senza acrimonia né sufficienza vorremmo un Pd più anglosassone. Stiamo comunque dando una mano al dibattito con queste trasmissione, dopo Franco Marini e Rutelli, per i quali sono state fatte trasmissioni ad hoc, potrebbero venire Franceschini e Bersani...».
La partita in questo momento si gioca sul tesseramento, saranno i tesserati entro il 21 luglio a votare nei circoli le diverse mozioni presentanti dai candidati. Secondo i dati che circolano nel partito i tesserati sarebbero 470 mila più 7 mila tessere online e le regioni pià arretrate rispetto agli obiettivi del tesseramento sarebbero quelle del Nord, oltre al Molise. È qui che potrebbero entrare in gioco doppia tessera e Radicali.
I supporter di Marino, in particolare i "piombini" cioè il gruppo dei trenta-quarantenni, hanno lanciato la mobilitazione per il tesseramento soprattutto sui blog, Giuseppe Civati, che della mozione-Marino è coordinatore, invita nel suo blog a iscriversi e a segnalare eventuali difficoltà ad avere la tessera. Paola Concia fa di più, e sul blog indica il numero telefonica della sua segreteria alla Camera per il supporto pratico.
Al programma sta lavorando in questi giorni il segretario uscente e ricandidato, Franceschini oltre alla ricerca del luogo in cui presentarlo. Doveva essere Prato, la città persa dal centrosinistra dopo 63 anni e dove forte si è abbattuta la crisi. Ma l´ipotesi è tramontata, e probabilmente la kermesse di Franceschini sarà a Roma.
l’Unità 11.7.09
Il Pd stoppa la doppia tessera
«Non si può fare»
La prima è stata Mina Welby: in tasca la tessera radicale, si è andata a iscrivere al Pd, vicino casa. Roma, quartiere Tuscolano, circolo Subaugusta. Obiettivo: sostenere la candidatura di Ignazio Marino. E a quanto pare - secondo le segnalazioni arrivate al suo staff - ha già fatto proseliti. Ma il Garante Luigi Berlinguer conferma che né la sua né le altre iscrizioni potranno essere confermate. A meno di non modificare lo statuto che non consente la doppia tessera. Ma per farlo bisognerebbe convocare l’assemblea nazionale. E a questo punto - spiega Berlinguer - non c’è più tempo né modo per farlo. MA.GE.
l’Unità 11.7.09
L’antagonista «ombra» di Marino e la sua idea di laicità
«Su temicome questo significa il rispetto delle diverse posizioni»
Spina etica per il Pd, Binetti con Buttiglione contro l’aborto
di Susanna Turco
Coi centristi per «ammortizzare» gli effetti della 194. E contro Marino, perché la sua posizione sul ddl Calabrò non diventi «l’unica del Pd». Così, la Binetti sfida il Pd a «dimostrare la sua laicità».
La teodem per eccellenza del Partito democratico aveva avvertito tutti per tempo. «Se si candida Ignazio Marino, mi candido anche io». Era il 12 giugno, appena dopo le europee. Ma Paola Binetti, una che dalle battaglie contro la 194 in poi di tutto si può incolpare tranne che di incoerenza, aveva già le idee chiare. Sapeva che, se il fronte del dibattito del Pd si fosse spostato sui temi etici, lei sarebbe stata lì pronta, col suo filo da torcere.
E oggi che, tra una polemica sul fine vita e un duello in punta lama su laicità e «posizione prevalente», il suo profilo (toh, la Binetti) ricomincia a stagliarsi sugli assetti del centrosinistra come ai tempi in cui deteneva al Senato la golden share della sopravvivenza del governo Prodi, la numeraria dell’Opus Dei non fa altro che dar corpo a quell’annuncio.
Si muove e parla infatti come una candidata ombra al congresso del Pd. Contro Marino, anzitutto. Non per contendere la «leadership organizzativa», «per la quale ci vogliono competenze e strutture che non ho», bensì per conquistare la «leadership morale del partito», ossia «valorizzare quei valori cattolici di cui il Pd ha bisogno»: tutte cose già dette in sordina un mese fa.
L’anti-Marino
Tutte cose che la Binetti conferma tanto più adesso, sotto forma di un suo «forte impegno personale per il bene del partito»: «Perché certo, la candidatura di Marino comporta il rischio che tutte le posizioni sul tema della laicità si spostino a sinistra: un motivo in più per sostenere con maggior forza le mie convinzioni, ed evitare che finiscano nell’angolo», ragiona.
Con una mano, intanto, puntella in commissione Affari sociali il ddl Calabrò sul fine vita, da lei condiviso nella sostanza e per il quale si augura una approvazione «tempestiva ma non precipitosa». E, con l’altra, sostiene alla Camera la mozione del centrista Buttiglione per «una iniziativa per la moratoria contro l’aborto»: un testo semplice, si discuterà lunedì, che porta la firma di sei deputati Udc, più la sua - che non compare in calce «per un disguido». Una mozione che, spiega Buttiglione, «non ha nulla contro la 194». Eppure, aggiunge la Binetti, «naturalmente chiede più attenzioni verso la vita nascente, e dunque anche una applicazione completa di quella legge, come ammortizzatore dei suoi effetti, visto che oggi la 194 non può essere toccata: provocherebbe troppe divisioni».
Cosa abbia tutto ciò in comune con la laicità «sacra e indiscutibile» appena proclamata da Franceschini, è la stessa Binetti a spiegare. «Su temi così, laicità significa precisamente rispetto delle diverse posizioni. Dunque, quanto il Pd sia laico lo verificheremo nei fatti, sul fine vita per esempio». Di certo, c’è che lei si «batterà» perché la «posizione prevalente di Marino» non diventi «unica ed esclusiva». «Non permetteremo che accada», ha detto ieri in un convegno. Parole che da sole valgono una mozione congressuale.
il Riformista 11.7.09
Laicità va cercando anche il Pd
di Ritanna Armeni
La candidatura di Ignazio Marino per la segreteria del Pd ha un merito e, insieme, mostra un limite. Il merito consiste nella possibilità di riportare il tema della laicità al centro del dibattito del partito. Il Pd sui temi della laicità è stato spesso insufficiente, timido, propenso alla mediazione prima che all'approfondimento. E lo è ancora oggi. Ne è spia la preoccupazione mostrata da Dario Franceschini per il quale quella di Marino è «una candidatura che divide». I suoi timori e le sue incertezze hanno contribuito non poco alle sconfitte che si sono susseguite su questioni fondamentali: la legge sulla fecondazione assistita, i diritti delle coppie omosessuali, il testamento biologico. Temi importanti, sui cui si forma la cultura e il comune sentire di un Paese e la cui soluzione non può essere influenzata dalla necessità di mediare con le gerarchie ecclesiastiche prima di fare un esame delle esigenze poste dalla società e dei nuovi orizzonti proposti dalla scienza. Il limite (che non è di Marino ma della situazione in cui si trova il Pd) sta nel fatto che per riportare i temi della laicità nella composizione della identità del Pd si è ricorsi a una candidatura alla segreteria, come se ormai fosse impossibile costruire una parte importante del volto di un partito senza ricorrere all'immagine di un leader, senza riportarla alla contesa fra uomini (e qualche donna). Insomma la candidatura di Marino mostra l'incapacità grave in un'organizzazione politica di parlare di contenuti, magari in forma anche aspra, senza introdurre l'elemento della personalizzazione leaderistica. Comunque, immaginiamo si possa riaprire il negletto capitolo laicità e si possa discuterne in modo approfondito evitando gli errori passati. Il primo da evitare è la stucchevole differenza ormai in voga (l'ultimo a riproporla è stato Piero Fassino) fra laicità e laicismo. Dove il laicismo è termine negativo e la laicità positivo. Il primo evoca radicali e mangiapreti. I laicisti un po' come i comunisti negli anni 50. Quelli mangiavano i bambini, questi uccidono gli embrioni e non hanno una cultura della vita. Il secondo indica ragionevolezza, mediazione con il mondo cattolico, moderazione nei contenuti, rapporto imprescindibile con la Chiesa. Come si vede la distinzione, proposta da un teocon come Marcello Pera, a seconda dei punti di vista, getta una luce negativa su entrambi i termini. Il secondo errore da evitare è quello di pensare che il concetto di laicità possa rimanere sempre uguale a se stesso. Che la laicità del terzo millennio non abbia nulla di diverso da quella novecentesca o da quella ottocentesca. Che sia un residuo di queste, o che costituisca il suo spontaneo prolungamento. Non è così. Anch'essa va ripensata alla luce delle novità politiche e sociali. In un mondo in cui le religioni hanno acquistato nel bene e nel male una così grande importanza (imprevista fino a qualche anno fa) uno Stato laico non può che essere includente, cioè garantire l'espressione dello spirito religioso senza pregiudizi o chiusure. Compito duro, ma necessario, nel momento in cui la globalizzazione fa convivere negli stessi confini uomini e donne che praticano diverse fedi e hanno con esse un diverso rapporto. La laicità del terzo millennio non è la negazione di valori o l'adeguamento a un'anarchia etica e a un edonismo privo di responsabilità, ma è la ricerca di valori in un mondo che è divenuto molto più complicato in seguito al progresso scientifico, alla convivenza stretta nei nostri territori di diverse religioni e culture, a una più complessa distinzione fra bene e male. Come si risolve il problema del rispetto delle scelte religiose quando calpestano i diritti umani? Come si affrontano i nuovi confini fra la vita e la morte? Mettere paletti, distinguere fra bene e male, fra giusto e ingiusto per il bene del singolo e dell'umanità è oggi un compito necessario per un'etica laica, che non può supinamente accettare l'esistente (né quello della ricerca scientifica e delle tecnologie né quello dello stravolgimento dei diritti della persona legati alla religione) e che non ha come come àncora il messaggio rivelato di un soprannaturale. Essere laici oggi è un percorso di dubbio e di ricerca. Con un consapevole e fortissimo senso del limite. I laici devono anche accettare di non trovare la soluzione giusta in assoluto ad un problema, ma, sicuramente, possono e devono trovare la soluzione meno dolorosa, meno dannosa e più rispettosa. Possono sostenere a esempio una legge sull'aborto che limiti il più possibile danni e dolore, senza pretendere di intervenire sul rapporto di ciascuno con la vita e con la morte. Un partito di sinistra ha il dovere di percorrere la strada della laicità. Sapendo che l'uso del dubbio, della critica, il senso del limite non possono intaccare la determinazione ad andare al fondo dei problemi. Oggi la laicità non riguarda solo il rapporto con la Chiesa, ma innanzitutto il rapporto che gli uomini e le donne hanno con se stessi e fra di loro, il tipo di relazione che vogliono costruire, le regole che vogliono darsi. Un partito che vuole essere nuovo e moderno può prescindere da tutto questo? No. Su questo si misurano gli elementi di novità e di gioventù e non sull'età anagrafica di uomini e donne.
il Riformista 11.7.09
Conti in rosso
Prc in bolletta taglia i dipendenti
di Mattia Salvatore
Vento di crisi economica a Rifondazione Comunista. I conti non sono in rosso, peggio. E i dipendenti saranno i primi a pagarne le conseguenze. Le cifre sono da brivido: nel 2008 il partito ha chiuso con un buco di 500mila euro e quest'anno la stima prevista è ancor più gravosa, arriva a 2 milioni. Il Prc campa grazie ai rimborsi statali per le elezioni a Camera e Senato del 2006. Nel 2008 la batosta della Sinistra Arcobaleno e alle europee la lista Comunista, pur avendo miglior sorte, non ha ottenuto nessun rimborso perché l'asticella fissata al 4%. Prima della legge votata in fretta e furia l'anno scorso al Parlamento era al 2. Uno dei motivi per cui il segretario Paolo Ferrero è nero dalla rabbia. Ora si trova costretto, a malincuore, a tagliare posti di lavoro. Come qualsiasi altra impresa in stato di crisi. Anzi, forse anche peggio perché i dipendenti di partito non godono dello statuto dei lavoratori, quindi possono esser mandati per strada senza alcun problema. Dai 125 attuali si dovrà scendere a non più di 40. Per i licenziati la direzione del Prc ha previsto una buonuscita: 7mila euro per chi ha lavorato meno di 56 mesi, invece per chi supera questa soglia spetta una mensilità per ogni anno di servizio. Il piano al momento non è stato sottoscritto dalla maggioranza dei lavoratori tra cui monta il malcontento. M., quarantenne, ha diciotto anni di lavoro alle spalle nel Prc e adesso si troverà con quasi 30mila euro in tasca ma senza alcuna possibilità di futuro. Come lui molti altri. «Mi sembra di rivivere il caso Alitalia - denuncia qualcuno - I manager hanno portato l'azienda al fallimento e poi loro hanno buonuscite profumate mentre a rimetterci sono i lavoratori». Altri ricordano a Ferrero la battaglia sull'estensione dell'articolo 18. Tanto che per Vittorio Mantelli, responsabile del dipartimento Inchiesta, bisogna fare una battaglia politica per «estendere lo statuto dei lavoratori anche agli stipendiati di partito, bisogna fare pressioni su Fini perché spiga il Governo a fare subito un decreto». A sentire il tesoriere Sergio Boccadutri la situazione è ancor più grave: «Da aprile 2010 andranno per strada anche i dirigenti, perché toccheremo il fondo - dice - Quelli allontanati ora almeno avranno una buonuscita». Per risalire si punta alle regionali dell'anno prossimo, dove basta un eletto per avere il rimborso, e a ridurre le spese. «Sarò molto più rigoroso sui rimborsi spese», aggiunge Boccadutri, che tra le voci in entrate menziona «la valorizzazione del patrimonio». Forse il trasferimento in una sede più modesta. Poi c'è il capitolo Liberazione, un passivo gravoso per Rifondazione che per salvarla ci ha già rimesso 10 milioni in 5 anni. Il 16 luglio ci sarà un incontro tra Fnsi, Fieg e redazione per valutare un piano di ridimensionamento: giornale a 12 pagine, riduzione dei redattori da 33 a 16 con contratti di solidarietà e rilancio del web le proposte sul tavolo. Per gli altri dipendenti ci sarebbero prepensionamenti e cassa integrazione. «Capiamo lo stato di crisi ma il ridimensionamento è eccessivo», afferma il cdr di Liberazione, il quale non ha comunque intenzione di alzare muri, «vogliamo però che ci sia un piano di rilancio che adesso manca». Infine una grana tutta romana: la città è piena di manifesti «Rifondazione è come i padroni, non paga i lavoratori». Ad affiggerli una cooperativa di attacchinaggio «Zona Rossa» che da anni lavora per il Prc. Nel 2008 ha lavorato per la campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno, fatturando alla fine 70mila euro. Soldi che non sono mai arrivati perché la federazione capitolina, scossa da scissioni, ha un buco di 300mila euro. Pare addirittura che il bilancio in rosso del partito sia finito nelle aule dei tribunali.
Corriere della Sera 11.7.09
Diplomazia Il termine «Judenrein» nel colloquio con il tedesco Steinmeier
Israele, polemica su Netanyahu Ha usato una parola nazista
Il premier: la Cisgiordania non sarà «ripulita dagli ebrei»
di Davide Frattini
GERUSALEMME — La parola lo avrebbe lasciato senza parole. Frank-Walter Steinmeier ha annuito senza replicare, quando Benjamin Netanyahu ha evocato la pulizia etnica nazista contro gli ebrei per difendere gli insediamenti in Cisgiordania. «I territoripalestinesinonpossono diventare judenrein», ha dichiarato il primo ministro israeliano all’ospite diplomatico che più di tutti è ipersensibile al termine. «Non ha detto nulla. Che altro poteva fare?», ha raccontato un consigliere del premier.
Il ministro degli Esteri tedesco ha parlato, dopo il ritorno ieri in Germania (è stata la quattordicesima visita nella regione). E ha ripetuto la posizione europea e americana: «Le possibilità di raggiungere un accordo di pace sono le migliori degli ultimi quindici anni. Bisogna trovare una soluzione e non sarà possibile fino a quando le colonie continuano a essere ingrandite ». Quella di Netanyahu non è stata una gaffe. Il governo ha inserito «judenrein» nel vocabolario da usare per contrastare l’offensiva della comunità internazionale. Il premier ha incitato i ministri a usarlo per sostenere le costruzioni in Cisgiordania e la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come Stato ebraico. Il vice Dan Meridor ha invitato i giornalisti stranieri a chiedere «se i palestinesi permetteranno agli ebrei di vivere tra loro o se invece sarà proibito. Judenrein: così è stato chiamato in altre nazioni». Il giorno dopo la frase è stata ribadita da un parlamentare del Likud. «Netanyahu ha dimostrato orgoglio nazionale», lo ha lodato Arieh Eldad, deputato dell’estrema destra.
La strategia è criticata da chi come Avi Primor ha rappresentato Israele in Germania (è stato ambasciatore fino al 1999). «Una mossa sbagliata, proprio con il ministro del Paese che ha compiuto un profondo esame di coscienza sul passato. Dobbiamo stare attenti a non banalizzare il ricordo dell’Olocausto. In Europa si oppongono all’occupazione, nessuno è contrario al fatto che in futuro gli ebrei vivano in uno Stato palestinese». «E’ un errore associare ad altri gli orrori commessi dai nazisti — commenta Zalman Shoval, ex ambasciatore a Washington —. I palestinesi sono contrari ad accettare il riconoscimento di Stato ebraico come precondizione per non pregiudicare le trattative sul ritorno dei rifugiati ».
I primi cento giorni di governo sono stati segnati dalle schermaglie con gli americani sul blocco delle colonie. Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri e leader del partito ultranazionalista Israel Beytenu, si è tirato fuori dalle trattative con una spiegazione che ai commentatori è sembrata solo sarcasmo: «Vivo a Nokdim (un insediamento a sud di Betlemme, ndr) e potrei essere accusato di conflitto d’interessi».
Corriere della Sera 11.7.09
Lessico hitleriano
Judenrein
Letteralmente «ripulito dagli ebrei», o meglio ancora «purificato», Judenrein è un termine dell’ideologia nazista degli anni ’30 e ’40 spesso scambiato con il più comune Judenfrei («libero dagli ebrei») Il glossario della Shoah
A differenza di «Judenfrei», la parola «Judenrein» contiene un più esplicito riferimento all’ideologia ariana, perché implica la «purificazione» non solo dagli ebrei, ma anche da qualsiasi traccia di sangue ebraico: al termine di questa «pulizia», nell’aberrante ideologia nazista, sarebbe stata possibile l’arianizzazione della società. Il termine, quindi, è stato identificato con la soluzione finale.
Nel 1941 l’Estonia è stata definita il primo Paese «Judenfrei». In tutta Europa, in nome di quest’ideologia, sono stati uccisi 6 milioni di ebrei
l’Unità 11.7.09
Saint Etienne nel sobborgo di Firminy tre notti di devastazioni dei giovani arabo-francesi
Aveva ventun anni Momo, il ragazzo arabo-francese impiccato in cella. Per la polizia è un suicidio
Francia, altri roghi e rivolte contro la polizia nella Loira
di Rachele Gonnelli
Come nelle banlieue parigine la tranquilla cittadina della Loira di Saint Etienne è messa a ferro e a fuoco dalla rabbia dei ragazzi figli di immigrati. Non credono al suicidio in cella di un loro amico, Mohamed detto Momo.
Tre notti di devastazioni e grida, di macchine e negozi dati alle fiamme, a Saint Etienne nella Loira, sud est della Francia. Una nuova fiammata di rabbia dei giovani arabo-francesi, come nel 2005, come nel 2007. Solo che stavolta non sono le banlieue parigine a rivoltarsi contro la polizia ma i ragazzi dei casermoni firmati Le Corbusier di Firminy, sobborgo di una placida cittadina immersa nella campagna. La rabbia invece è la stessa. Anche questa volta la polizia è sotto accusa per la morte di un ragazzo di appena 21 anni, Mohamed Benmouna, fermato per una sciocchezza, un tentativo di estorsione, e morto in cella in circostanze a dir poco singolari. Fermato e portato in commissariato da cui è uscito lunedì in coma. È morto in ospedale. Sul suo corpo non c’erano segni di violenze, l’autopsia dice «arresto cardiaco per soffocamento». Gli agenti hanno raccontato che il ragazzo si sarebbe costruito una fune con brandelli di lenzuola e vestiti, avrebbe praticato due buchi nella parete di cartongesso della cella e si sarebbe legato e appeso. La telecamera della guardiania è risultata essere rotta, da mesi e mai aggiustata. E soltanto un mese fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui accusa la polizia francese di brutalità e abusi verso detenuti in attesa di giudizio soprattutto africani o nordafricani, con casi di sevizie e omicidio come fu l’anno scorso per il sans papier Abou Bakar Tandia, del Mali, morto in cella per ferite multiple, secondo la polizia autoprocurate.
La famiglia di Mohamed si dispera e non crede alla versione della gendarmeria di Chambon-Feugerolles. «Cosa è successo? - vuole sapere il padre Abdelkader, nato in Algeria - dov’erano per tutto quel tempo i poliziotti? E poi la corda, i buchi, non è possibile, voglio delle verifiche». La madre Malika è convinta che suo figlio sia stato picchiato a morte e poi sia stato simulato un suicidio. «Non era cattivo e aveva appena trovato un lavoro». Di certo non ci credono gli amici di Mohamed «aka Momo», cioè alias Momo, il suo nome da tenero nelle bande di graffitari e ballerini free-style per le strade maleodoranti di Firminy. Tra martedì e giovedì notte hanno devastato e dato alle fiamme 32 auto, un centro commerciale con tabaccheria e farmacia, un ristorante. «Urlavano fortissimo e spaccavano tutto - racconta una signora ai microfoni di France2 - ho avuto davvero paura e ho telefonato ai miei figli».
L’inchiesta già quasi chiusa
La polizia ha faticato a respingerli con cariche e gas lacrimogeni. E la sarabanda è durata tre notti. Nove ragazzi sono stati fermati ma ora Brice Hortefeux, ministro dell’Interno, ha promesso «misure di sicurezza eccezionali». La famiglia di Momo ha fatto un appello alla calma e convocato per ieri nel primo pomeriggio un corteo silenzioso. Gli ispettori del Dipartimento di polizia della Loira hanno avviato un’inchiesta interna e riscontrato «disfunzioni» nel commissariato di Chambon. Ma il procuratore Jacques Pin per Momo continua a parlare solo di suicidio.
l’Unità 11.7.09
A Teheran la conta dei morti
«Ma i basiji trafugano corpi dalle morgue degli ospedali»
di Rachele Gonnelli
Sarebbero molti di più dei 20 morti denunciati dalle autorità le vittime della repressione in Iran. I medici raccontano di come le milizie basiji trafugano i corpi e falsificano i referti. Sui blog video delle violenze di ieri l’altro.
Ci sarebbe anche un cittadino statunitense residente a Teheran, tra le persone arrestate ieri per aver partecipato alle manifestazioni di commemorazione del massacro di studenti di dieci anni fa, il 9 luglio. Si chiama Kian Tajbakhsh ed è stato anni fa consulente della fondazione di George Soros, il magnate molto attivo nel sostenere le «rivoluzioni di velluto» dei Paesi dell’est. Haadi Ghaemi dell’associazione internazionale Human Right in Iran ha denunciato alla rivista Time che la polizia ha fatto irruzione in casa sua, sequestrato il suo computer e lo ha messo in arresto.
Secondo il sito Roozonline, collegato agli iraniani d’America, molte persone che sono state arrestate in queste ultime ore e nelle settimane successive alle elezioni per le proteste contro i brogli e Ahmadinejad, sono detenute in condizioni disumane. «Particolarmente in pericolo è Mahsa Amrabadi - scrive Rooz - una giornalista incinta che si dice essere sottoposta a forti pressioni». Bijan Khajehpur, analista economico, arrestato la scorsa settimana all’aeroporto internazionale di Teheran sarebbe «in cattive condizioni di salute, anche a causa dell’insufficienza renale di cui è affetto». Altri testimoni confermano che le autorità carcerarie costringerebbero i detenuti a fornire confessioni di comodo, estorte anche con la tortura.
Basiji style
Sui blog e su Facebook continuano a essere postati numerosi video delle violenze perpetrate per strada contro i dimostranti del 9 luglio. Si vedono di nuovo in azione le milizie Basiji, già responsabili del massacro di dieci anni fa. Vanno ancora in due sulle moto, con i caschi e i bastoni, ma a differenza dei pestaggi subito dopo il voto quando si mostravano neri come cavalieri dell’apocalisse, ora indossano abiti civili, magari con il gilet antiproiettile sopra. Sono loro, sempre loro, secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano progressista britannico Guardian, a sottrarre i cadaveri delle persone uccise per strada dalle camere mortuarie degli ospedali. Prima ancora di chiedere alle famiglie di omettere le circostanze della morte del parente o di imporre ai medici di stilare referti di comodo inventando malattie o decessi improvvisi. «I basiji - racconta una fonte ospedaliera - hanno manipolato i registri degli ospedali, e identificato i feriti. I cadaveri li confiscano, e dicono alle famiglie che stati trasferiti in altre strutture per la donazione di organi. Se i decessi sono causati da armi da fuoco, tolgono i proiettili dai corpi che poi riportano in ospedale, annotando una causa di morte diversa». E un altro medico: «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, la gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco». «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti».
Cosa ci guadagnano per tutto questo? «Ad esempio non pagano le rette universitarie - spiega il blogger Saeed Valadbaygi - e hanno quote riservate nei posti pubblici e nelle facoltà». «Saranno tutti basiji nel prossimo anno accademico, temo», dice Saeed.
Repubblica 11.7.09
L’ultima trama di Sindona
di Simonetta Fiori
L´11 luglio di 30 anni fa un killer sparò ad Ambrosoli Il libro del giudice dell´inchiesta Turone (scritto con Simoni) ricostruisce quegli anni
Il bancarottiere si uccise: voleva che fosse una morte strana per offuscare la memoria del commissario liquidatore
Potrebbe apparire una storia d´altri tempi l´avventura tra politica, Vaticano e mafia di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano morto oltre vent´anni fa per un caffè al cianuro. E´ un grande romanzo criminale quello appena licenziato non da giallisti esperti, come si potrebbe ricavare dal passo narrativo, ma dai due magistrati che indagarono meticolosamente i crimini nazionali e internazionali di un finanziere-assassino dotato di un inusuale talento istrionico, nella vita come nella morte. Giuliano Turone era il giudice istruttore che condusse con Gherardo Colombo l´inchiesta giudiziaria sull´omicidio di Ambrosoli, ucciso da un killer americano assoldato da Sindona. Gianni Simoni era il magistrato che investigò sulla misteriosa morte del detenuto eccellente nel carcere di Voghera. Insieme hanno scritto un libro di duecento pagine che sulla base di innumerevoli atti giudiziari, sparsi in altrettanti processi, ricostruisce esemplarmente un pezzo di storia italiana fondata sull´intreccio tra potere politico, potere finanziario e potere criminale (Il caffè di Sindona, Garzanti, euro 16). Intrighi di un´Italia scomparsa? «Non del tutto», risponde Turone. «E´ di pochi giorni fa l´intervento del procuratore generale della Corte dei Conti sulla larga diffusione della corruzione in Italia. Siamo tra i primi in Europa per trame oscure e strapotere di mafie e camorre. Sembra difficile raddrizzare certe storiche storture nazionali. Da quelle vicende sono trascorsi molti anni, ma siamo ancora in mezzo al guado».
L´urgenza civile che muove il racconto è anche quella di onorare la memoria di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, assassinato l´11 luglio di trent´anni fa su ordine di Sindona. Il risarcimento dell´«eroe borghese» - dal titolo del bellissimo libro di Corrado Stajano - passa anche attraverso la soluzione di un enigma rimasto irrisolto nell´opinione pubblica, ma non nelle (poco conosciute) carte processuali. Il mistero riguarda il cianuro inghiottito dal bancarottiere nel carcere di Voghera. Omicidio o suicidio? Se nell´immaginario comune è radicata la tesi più spettacolare dell´assassinio, i due magistrati non hanno dubbi sull´uscita di scena volontaria: si trattò dell´ultima straordinaria beffa di Sindona, simulatore beffardo e talentuoso, che scelse di ingoiare il veleno, ma mettendo in scena un omicidio del tutto verosimile. L´ultima sceneggiata di un criminale fantasioso, «autentico Fregoli dei trasformismi malandrineschi», che morendo da vittima di poteri oscuri voleva dare nuova dignità a sé e alla sua famiglia, intossicando il lavoro di chi si era adoperato per scoprire i suoi delitti. «Nel progetto freddamente coltivato da Sindona», dice Turone, «il suo omicidio, destinato a rimanere senza responsabili, avrebbe fatalmente indebolito le diverse inchieste condotte su di lui. Ma come, avete scoperto tutte le sue malefatte e non sapete chi l´ha ucciso? Anche il coraggioso lavoro di Ambrosoli rischiava di essere offuscato da quest´ultima beffa».
I capitoli più avvincenti riguardano la romanzesca uscita di scena di Sindona, ricostruita nelle motivazioni più profonde - l´ossessione per la morte di un ex potente abbandonato da tutti - e nei dettagli più inaspettati, dalle bustine di zucchero fatte sparire dal suicida alla sorveglianza blindata ad opera di giovani agenti di Monastir. A sostegno del suicidio, la prova più convincente consiste nella particolare qualità del cianuro, sostanza dotata di un odore e un sapore così ripugnanti da indurre qualsiasi persona a fermarsi disgustata al primo sorso di caffè (ricordiamo che Sindona bevve il caffè chiuso in gabinetto, senza lasciarne neppure una goccia nel bicchiere). Per gli appassionati del genere «caffè al veleno», va aggiunto che Pisciotta fu assassinato con la stricnina, che ha altre caratteristiche. Come Sindona si procurò il cianuro? Non gli era difficile - sostengono i magistrati - riceverne una dose nel corso delle udienze che lo videro incriminato per il delitto Ambrosoli. Il suo biografo tedesco Nick Tosches ha raccontato che al termine del loro primo incontro, nella cella di Voghera, gli aveva domandato "quale vago raggio di speranza lo sostenesse". E lui, col sorriso luciferino: «Morire».
Ma le pagine più impressionanti investono direttamente la storia d´Italia, i suoi palazzi del potere, gli intrecci tra la politica, la finanza, i poteri criminali, il Vaticano. Sindona era un finanziere potentissimo, uomo di fiducia dello Ior, celebrato nel 1973 da Giulio Andreotti come il «salvatore della lira». La trama dei loro rapporti è documentata da una fitta mole di carte giudiziarie, oltre che da atti politici e nomine di banchieri - come quella di Mario Barone al Banco di Roma - che negli anni Settanta tentarono di favorire i traffici di Sindona. Nel prosieguo della lettura, ci si imbatte in trame occulte, ricatti, mascalzonate - non ultima l´incriminazione di Mario Sarcinelli e Paolo Baffi - tutti rigorosamente certificati nelle note a piè di pagine. Tra i protagonisti figura anche Licio Gelli, il capo di quella loggia P2 di cui Sindona insieme a molti altri era un affiliato. Fu indagando sulla morte di Ambrosoli che i magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono il 17 marzo del 1981 gli elenchi della loggia segreta e successivamente il piano di Rinascita nazionale. Quello stesso piano di Rinascita nazionale recentemente rivendicato con orgoglio da Gelli, risuscitato in una televisione locale. «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti», ha detto Gelli in conferenza stampa. «Tutti ne hanno preso spunto. L´unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo». Che sentimenti prova oggi l´ex magistrato Turone di fronte a questa Italia? «Una grande malinconia», dice sottovoce. «Si prende atto con amarezza che i tentativi che sono stati fatti per combattere le mafie, tutte le mafie, sono per larga parte falliti. Cosa proverebbe oggi uno come Giorgio Ambrosoli davanti allo spettacolo della finanza corrotta? In Italia manca una religione civile, capace di legare responsabilmente l´individuo alla società».
Al pari di altri suoi colleghi autorevoli, Giuliano Turone ha lasciato la magistratura prima del tempo. Oggi si dedica agli studi giuridici e al teatro. Gli piace recitare soprattutto Shakesperare e Kafka.
Repubblica 11.7.09
Quando la democrazia era il governo dei peggiori
Per secoli ha goduto di pessima fama. Era il regime della moltitudine incolta e vendicativa contro i benestanti, perciò facile alla manipolazione da parte dei tiranni
di Nadia Urbinati
Anticipiamo un brano dall´introduzione di Lo scettro senza il re, il nuovo libro di che esce in questi giorni (Donzelli, pagg. 138, euro 15)
Gli antichi consideravano la democrazia come il governo dei poveri. Si ha democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo è nelle mani della moltitudine dei nati liberi (in alcuni casi, sia da parte di padre che da parte di madre), i quali sono in maggioranza poveri. Ma per i moderni la democrazia è il governo della classe media, come Alexis de Tocqueville aveva appreso nel corso del suo viaggio americano (1831). È corretto affermare che la storia della cittadinanza moderna prende avvio dalla fine del lavoro servo e che i moderni abbiano adattato la democrazia a una società fondata sul lavoro retribuito e lo scambio monetario, un ordine economico che ha bisogno di una moltitudine di consumatori, gente né troppo ricca né troppo povera.
Una conseguenza importante di questa conquista di civiltà è che nella democrazia moderna i cittadini e le cittadine devono essere responsabili in modo diretto del proprio sostentamento, con la conseguenza di disporre di un tempo limitato per la cura degli affari pubblici. Ciò ha indotto alcuni pensatori a sostenere, come ha fatto Montesquieu, che il governo dei moderni assomiglia a un governo misto, perché l´elezione – come ci hanno tramandato Erodoto e Aristotele – è un´istituzione «aristocratica», in quanto discrimina tra i cittadini (chi elegge deve scegliere e quindi escludere) e soprattutto non consente loro, a tutti loro indistintamente, di governare ed essere governati a turno. Ma dalla diagnosi di Montesquieu si può trarre anche un´altra conclusione: ovvero che, invece di essere alternativa alla partecipazione, la rappresentanza rende quest´ultima più complessa e l´esclusione meno appariscente.
L´eguaglianza universale ha arricchito il valore normativo della democrazia dei moderni facendola più inclusiva di quella antica, ma nello stesso tempo ha ristretto la possibilità della partecipazione e, soprattutto, ne ha modificato le modalità. Autorevoli filosofi politici hanno per questo considerato la rappresentanza un espediente necessario ma non un´istituzione democratica (...). Tuttavia la rappresentanza non è semplicemente un ripiego per ciò (la sovranità diretta) che noi moderni non riusciamo più ad avere, è invece un processo politico capace di attivare nuove forme di partecipazione politica, diverse ma non meno importanti delle forme dirette degli antichi.
È senz´altro vero che la rappresentanza è stata concepita come un espediente per limitare e non per realizzare la democrazia. Per secoli, del resto, la democrazia ha goduto di pessima fama, come governo dei peggiori perché governo della moltitudine, vendicativa contro i benestanti e incolta, perciò facile alla manipolazione da parte di demagoghi e tiranni. Anche nell´era democratica per eccellenza, quella iniziata dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante la retorica contemporanea della globalizzazione della democrazia, molte istituzioni (certamente la rappresentanza) sono ancora giudicate secondo la stessa prospettiva degli architetti settecenteschi del governo rappresentativo, la cui agenda politica non contemplava certo l´obiettivo di facilitare la partecipazione delle moltitudini. Le premesse non-democratiche (e perfino anti-democratiche) difese dagli autori dei Federalist Papers (James Madison, Alexander Hamilton e John Jay) o da Emmanuel-Joseph Sieyès sono diventate luoghi canonici per molti studiosi di istituzioni politiche. Come si legge nel Federalist n. 63: «Il vero elemento distintivo tra queste forme politiche e quella americana è rappresentato dal fatto che quest´ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i rappresentanti del popolo dall´amministrazione». La pratica del suffragio universale non ha scalfito questa idea anti-democratica del ruolo della rappresentanza. Come ha scritto di recente uno studioso francese, Bernard Manin, le strutture portanti del governo dei moderni «sono rimaste le stesse» dal tempo delle rivoluzioni settecentesche, da quando cioè quello rappresentativo era ancora un governo di notabili eletti da pochi cittadini privilegiati».
il Riformista Lettere 11.7.09
Fratello Piero sorella Ritanna
Caro direttore, non erano sufficienti i servizi a reti unificate sulla nuova enciclica papale; non lo erano la sua pubblicazione integrale sui maggiori quotidiani, né l'esegesi dei vaticanisti e dei più importanti opinionisti. Doveva arrivare dunque una lettura apologetica del messaggio di Ratzinger da sinistra! Fratello Piero Sansonetti (su L'Altro) e sorella Ritanna Armeni (sul giornale da lei diretto) sono i primi convertiti sulla via di Damasco: tanti li seguiranno. Perché non si tratta di conversione, ma di un vero "auto da fé", che rende finalmente chiaro che cosa significhi la parola "cattocomunismo". L'invito che viene dai novelli san Francesco e santa Chiara ad abbeverarsi al fonte cattolico per purificare lo spirito e far risorgere la Sinistra, non è un inizio, ma la cronaca di una morte annunciata. L'alleanza terribile proposta dai due neo-crociati con una chiesa intollerante e conservatrice, che di tutto sa o vuole sapere, fuorché di amore tra uomo e donna, piuttosto della formula magica per la rinascita della Sinistra, è il testamento della stessa e il motivo per cui essa è defunta. Anche se, come Papa vuole, cerca di rimanere attaccata a un sondino detto "Caritas in veritate".
Paolo Izzo