sabato 11 ottobre 2014

il Fatto 11.10.14
“Fate presto, l’acqua ci travolge”
Ma Renzi progetta soltanto cemento
Nello “Sblocca Italia” via libera ai costruttori che diventano controllori di sé stessi
di Antonello Caporale


Dal mare tropicale alle montagne innevate in soli due minuti. Fondi caraibici e la pista di slalom gigante. Una funivia avrebbe collegato la spiaggia ai monti, il caldo al freddo, il sole alla neve. Sembra di essere tornati all’inizio degli anni Settanta quando Calogero Mannino radunò in piazza i cittadini di Sciacca e annunciò: “Dite ai vostri figli di tornare in città. C’è lavoro per tutti, finalmente”. Sembra che Matteo Renzi abbia preso molto dalla filosofia del potente democristiano siciliano. Ha creato Italia sicura, che deve preservare il nostro Belpaese dai dissesti idrogeologici, deve curare le ferite di mezzo secolo di devastazione e però ha firmato il decreto Sblocca Italia che consegna lo stesso Paese devastato ai devastatori, traveste i costruttori in commissari delle grandi opere pubbliche, ed elimina nella sostanza ogni forma di controllo pubblico. “Padrone in casa tua”, disse Berlusconi in uno dei suoi formidabili slogan che perforarono il cuore di tanti cittadini in attesa. Padrone in casa tua, ripete oggi Renzi. Anzi lo scrive: nero su bianco.
OGGI che Genova offre questo ennesimo spettacolo di distruzione e di morte, frutto soprattutto di cattivi piani urbanistici figli di interessi immobiliari diffusi e deviati, oggi che costruzioni e ostruzioni di massa allagano la città e la rendono permanentemente pericolosa, il premier spiega qual è il problema: “Fare presto, sbloccare le opere che devono salvare la città”. È un proponimento all’apparenza giusto, perchè circa 35 milioni di euro per la messa in sicurezza di alcuni corsi d’acqua sono fermi grazie alle postille burocratiche, ai ricorsi amministrativi, agli appelli e alle contese. Se per un attimo Renzi volesse approfondire il tema capirebbe che i cavilli, nove volte su dieci, sono armi speciali autorizzate e legalizzate in mano a quei costruttori che lui medesimo sta eleggendo a commissari. Per fare un esempio: la Metro C di Roma è costata grazie ai cavilli 600 milioni di euro (varianti, arbitrati, aggiornamenti prezzi) e dieci anni di ritardi. Il governo ha eliminato il problema eliminando i controlli. Scrive Salvatore Settis su Rottama Italia (scaricabile gratuitamente su altreconomia.it  ),unlibrodivari autori che documentano le continue devianze dal diritto a cui sarà sottoposto il paesaggio italiano: “Col silenzio-assenso ogni richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione di un’area archeologica, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia”. O anche – come a Genova – alla foce di un torrente, potremmo aggiungere. Tutto è permesso, in ragione della costruzione. Nel decreto Sblocca Italia le lentezze sono opera della burocrazia inetta e non figlie di norme volute dal Parlamento, destinate esattamente al loro scopo. Ritardare, arzigogolare, rallentare, negoziare. In Italia si spende un milione di euro al giorno per far fronte solo alle varie emergenze. E questo governo interpreta sia la vittima che il carnefice: manda in scena oggi il ministro dell’Ambiente Galletti (“No ai condoni”), mentre il suo collega Lupi, quello delle Infrastrutture, rade al suolo la concessione edilizia e codifica una certificazione autonoma del privato cittadino. È il privato che sancisce se è violato o meno l’interesse pubblico e il privato che garantisce che il suo cemento non reca danno, non ostruisce, non danneggia. In Italia sono circa sei milioni di cittadini che vivono in luoghi altamente a rischio e circa settemila comuni dal territorio fragile. Sapete qual è una delle prime dieci grandi opere altamente prioritarie? La nuova autostrada Orte-Mestre. Sapete chi ha avuto l’idea di costruire questa autostrada? La Mec, Management Engineering Consulting, società controllata da Vito Bonsignore, parlamentare di Ncd, il partito di Alfano (e di Lupi).

il Fatto 11.10.14
Sindaco e governatore se ne lavano le mani, ma la previsione c’era
L’associazione ligure del meteo denuncia: “Inascoltato il nostro allarme
di Enrico Fierro


Genova uccisa da modelli matematici farlocchi e bombe d’acqua, temporali “autorigeneranti”, una tempesta di astrusi neologismi che servono a nascondere un dramma antico come la città: le alluvioni. Quei fiumi che esplodono perché non ce la fanno a contenere la pioggia. Nella loro “pancia” non c’è più spazio, quello è servito all’uomo per costruire, cementificare, deviare. Un mare di parole affoga anche l’emergenza di queste ore. È giovedì, da 15 ore la città è battuta da una pioggia intensa e continua, ma all’Arpa (l’agenzia ambientale regionale) sono tranquilli.
   SULLE CARTINE che dividono Genova in zone appare solo il simbolo dell’avviso con un livello di allerta 1, il minimo. Piove, ma “la criticità al suolo è moderata”, dicono i tecnici. Solo alle 23:19, la Protezione civile del Comune manda i primi sms di allarme: “Prestare massima attenzione in area Val Bisagno, forti precipitazioni e possibili esondazioni”. Cosa è successo? La versione del sindaco Marco Doria, al centro delle polemiche perché mentre cominciava l’inferno era al Teatro Carlo Felice per l’inaugurazione della stagione lirica: “Nessuno ci aveva preavvertito che certe cose avrebbero potuto accadere nella giornata di ieri. Non avendo avuto informazioni in questa direzione, il nostro sforzo è stato quello di affrontare l’emergenza in tempo reale, comportandoci come se ci fosse uno stato di allerta 2 (elevata criticità, il più grave, ndr), anche se non era stato ancora proclamato”. L’allerta 2 è scattato alle 11:30 di ieri. La risposta della Regione. Parla il governatore Claudio Burlando: “Tutta colpa del nostro modello previsioni, è la prima volta che sbaglia. Ieri sera (giovedì, ndr), mentre fino al bollettino delle 18, che indicava un’attenuazione dei fenomeni, realtà e modelli corrispondevano, alle 21 si è verificata una divaricazione tra il modello e quello che è accaduto in realtà”. Una voce indipendente, Achille Pennellatore, “previsore” di Limet (associazione ligure di meteorologia): “L’alluvione non solo si poteva prevedere, ma noi l’abbiamo prevista, la situazione che si andava delineando era assolutamente paragonabile a quella del 2011. Avevamo segnalato un livello arancio (allerta1) con possibilità di evoluzione al livello rosso, il massimo. Altri bollettini ufficiali hanno minimizzato”. Chi dice la verità lo stabilirà la magistratura, c’è un morto, ci sono danni e c’è un’inchiesta, ma forse è anche inutile saperlo. L’unico dato certo è che a Genova piove. È la città più piovosa d’Italia, dal 1971 al 2000, gli esperti hanno calcolato che la Lanterna è stata bagnata da una media di 1093 millimetri di pioggia l’anno, un litro di acqua per metro quadro. Nel 1970, anno della grande alluvione, il cielo dispensò 570 millimetri di pioggia in 24 ore. Una catastrofe: 25 morti, 8 dispersi, 2 mila sfollati, danni per 45 miliardi di lire. Genova è alluvionata da sempre, le ultime catastrofi nel 1992, poi l’anno successivo, e nel 2010, e ancora l’anno dopo. La ragione è sempre la stessa, i fiumi cementificati si gonfiano ed esplodono in uno tsunami di fango e acqua che travolge uomini, case e strade. Il Bisagno e il Fereggiano sono due dei cinque torrenti responsabili del disastro di ieri. Il primo è lungo 30 chilometri e “in epoca preromana aveva un letto quattro volte più largo e profondo rispetto a quello attuale”, si legge in un recente dossier di Legambiente. Fiumi ingabbiati, “letti” ristretti dal cemento, argini selvaggiamente urbanizzati. Genova ha divorato spazio. Gli ambientalisti si schierano anche contro i progetti per la messa in sicurezza dei fiumi. “Quelli che riguardano i torrenti Bisagno e Fereggiano, prevedono grandi interventi infrastrutturali, con scolmatori dai costi rilevanti e senza che cambi la logica idraulica rispetto al passato. Il progetto per la sistemazione del Bisagno prevede di restringere l’alveo e di alzare gli argini...”. Ma fermiamoci un attimo per raccontare l’assurda storia degli appalti per la messa in sicurezza dei due torrenti. I soldi ci sono, e da tempo, ma i cantieri sono fermi da almeno tre anni, data dell’ultima alluvione. Solo ad agosto sono state avviate le procedure di gara per lo scolmatore di Fereggiano, un appalto da 45 milioni di euro. “Speriamo di aprire i cantieri entro la fine del 2014”, ha dichiarato l’assessore regionale Gianni Crivello. La sicurezza può attendere. È però la vicenda del torrente Bisagno (esondò nel 1822, uccise nel 2011 e sta devastando la città in queste ore) la più assurda e scandalosa. Anche per la sua messa in sicurezza, i soldi ci sono, 35 milioni in attesa, ma i lavori vengono bloccati prima dal Tar della Liguria (le imprese che non avevano vinto la gara ritennero non competenti gli ingegneri della commissione aggiudicatrice), la decisione viene appellata al Consiglio di Stato che affida la pratica al Tar del Lazio, che ribalta tutto e dà ragione al consorzio di imprese che si è aggiudicata la prima gara. I lavori possono andare avanti, dice la sentenza. I lavori sono fermi, ci dice la realtà. Ma anche quando finiranno (?), mette nero su bianco Legambiente, “e arriveranno alla Ferrovia, si avrà una capacità di 850 metri cubi d’acqua al secondo (ora è di 5-600), mentre l’alluvione del 2011 ha avuto una portata di 1000 metri cubi al secondo”. La città affonda nelle polemiche e i genovesi guardano il cielo. Forse domenica mattina ci sarà una tregua, ma da lunedì e martedì le previsioni prevedono pioggia. I fiumi stuprati sono lì, in attesa che si sblocchino i cantieri.

Repubblica 11.10.14
Maurizio Maggiani, scrittore
“Troppe speculazioni edilizie questa città è una rovina abitata”
di Stefano Bigazzi


UNA regina disadorna, Genova. Il titolo del romanzo di Maurizio Maggiani — un poema dedicato alla città, lui apuano genovese per amore e mai per forza — sintetizza la prostrazione del capoluogo, la sua sconfitta di fronte all’acqua.
Un giardino di cemento, che lo scrittore conosce bene: «Ho avuto la fortuna, il privilegio di mettermi per strada e girarla tutta pezzo per pezzo, non solo il centro storico, tutta, da Ponente a Levante, ho impiegato più di cinque anni e non l’ho nemmeno vista tutta. Genova è quella che è, una città che non può che naufragare in se stessa, non credo esistano soluzioni».
Oltre vent’anni fa il governatore, Claudio Burlando, allora sindaco di Genova, propose di radere al suolo interi quartieri e ricostruirli diversamente.
Abbattere, intanto.
«Non credo oggi lo farebbe qualcuno, e quante delibere edilizie avrà firmato la Regione in questi anni? Genova è una rovina abitata, c’è gente che si è ammazzata di lavoro per una casa a Quezzi alta».
Lei parla di quello che per decenni è stato preso a paradigma della cementificazione: Quezzi, antico borgo lungo cui scorre il rio Fereggiano, tra le prime cause del disastro.
«Non c’è alternativa, così come non c’è n’è una nelle Cinque Terre, dove dovrebbero smettere di fare i milionari, vendendo case, e rispettare il territorio, lì non vado più, da cinque anni, non è possibile assistere a questo cannibalismo svergognato, e credo che di fronte a tutto questo l’unica cosa sensata sia che i genovesi puntino il dito sul proprio, sul nostro occhio. Ognuno ha la sua parte di responsabilità, anche solo per omissione: la sopportazione del degrado è una colpa pesante».
Anche tacere è un piccolo grande crimine. Ma la gente reclama imputati, decide colpevoli, allestisce processi.
«Prendiamo l’Arpal: per le previsioni meteo usa modelli matematici comuni, che non funzionano più, quelli che indicano per esempio la formazione di temporali strutturati. E un temporale strutturato è qualcosa di pericoloso, occorre un tipo di allerta particolare? Oppure prendersela con il sindaco di Genova, Marco Doria, perché era a teatro, giovedì sera. C’ero anch’io a teatro, l’altra sera, se la prendano anche con me».
Sia ottimista, nei suoi libri in tanto dolore sono squarci di allegria che testimoniano la vita.
«Dobbiamo imparare a vivere nel disastro, se vogliamo vivere. Costruire una cultura della sopravvivenza nel disastro. Perché tutto questo va bene a molti, e non solo agli speculatori, anche a chi pensa di poter avere un appartamento a Genova a poco prezzo e si accontenta, chi pensa di potere avere un vigneto nelle Cinque Terre che può diventare un parcheggio. Ho visto anche questo».

il Fatto 11.10.14
Lo scrittore Maurizio Maggiani
“Radiamola al suolo e ricostruiamo”
di Emiliano Liuzzi


Non cerca colpevoli, Maurizio Maggiani, intellettuale, scrittore, editorialista del Secolo XIX e del Fatto, ma orgogliosamente ligure. “Ho ascoltato molto la radio in queste ore, ero a Genova due giorni fa. Ma conosco la situazione molto bene, e posso dire che Genova, negli ultimi cento anni, è stata costruita sul disastro di se stessa. Non ci sono i sindaci da ritenere colpevoli, l’Arpal per il mancato allarme e il presidente della Regione Burlando. Non torniamo al piove, governo ladro. Tutti quelli che conoscono la città sanno che dovrebbe essere rasa al suolo al cinquanta per cento perché venga messa in sicurezza. Forse lo disse anche Burlando, qualche anno fa, prima di alimentare lui stesso il disastro urbanistico”.
Scusi, ma il cemento non cresce come l’erba.
Certo. C’è stata la speculazione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma in quelle case andarono a dormire gli operai, i disgraziati. Furono un tetto per i poveri. Non ci sono le ville dei ricchi. In quelle case di merda andarono ad abitare delle persone perbene.
E il mancato allarme?
L’allerta meteo si basa su modelli matematici non affidabili o, semmai lo sono stati, non sono più affidabili.
Ma un’allerta meteo esisteva?
Sì, e parlava di temporali strutturati.
Tradotto?
Vuole semplicemente dire che i temporali strutturati sono un giorno sì e uno no. Questo vuol dire. Non c’è nessun sindaco capace di ordinare alle persone di rimanere a casa ogni volta che piove, questa sarebbe la soluzione. Magari ci sarebbe anche quella di non mettersi a percorrere sottopassaggi, costruiti in maniera criminale. Oppure fermarsi a vedere la piena, non è prudente.
Esiste una soluzione?
Sì, e la dico con un paradosso: fare la rivoluzione. Io ci sono, ma in quanti ci troviamo? In realtà non c’è niente che sia possibile. Nei prossimi giorni conteranno i quattrini per la messa in sicurezza degli argini, poi parleranno della presa di coscienza, della responsabilità. Fino a quando non se ne parlerà più, l’argomento dimenticato almeno fino alla prossima alluvione.
La colpa è di Genova?
Della speculazione edilizia, certo. Genova non è una città visibile, se non dal mare. Un motivo ci sarà. Lo ripeto e l’ho detto: è costruita sul disastro di se stessa.
Però altrove una bomba d’acqua non semina morti e devastazione. Almeno non
sempre.
Vero. Io abito tra la Liguria e la Romagna, a Faenza. Qui c’è stata un’alluvione quindici giorni fa. Una bomba d’acqua. A quel punto hanno aperto gli argini, l’acqua è finita nelle campagne e non c’è stato nessun disastro. Qui c’è la campagna. Genova è una città.

La Stampa 11.10.14
La piazza di giovani e sindacati inizia a preoccupare il premier
La Cgil: pullman pieni, e segnali buoni. E tra gli studenti monta la protesta
di Fabio Martini


L’altra sera a Virus il presidente del Consiglio ha testualmente detto: «Io non credo di avere nemici!». Difficile sapere se Matteo Renzo lo pensi veramente, sicuramente fa qualche fatica a capire come mai il suo appeal non sia ancor più diffuso. Ecco perchè la manifestazione del 25 ottobre della Cgil non gli garba. Come ha fatto capire quattro giorni fa quando, a palazzo Chigi, si è trovato davanti Susanna Camusso: «Lo so che il 25 porterete in piazza tre milioni di persone...». La battuta poteva restar lì e invece è stata fatta trapelare dallo staff di palazzo Chigi, un escamotage per provare ad inchiodare la Cgil al confronto con un precedente irripetibile: la marcia del 23 marzo 2002 quando il sindacato rosso portò in piazza fiumi di persone, si disse tre milioni, erano di meno, ma comunque erano tantissimi, mai così tanti nella storia della Repubblica.
Da qualche giorno la Cgil sta preparando la manifestazione del 25 ottobre, con un imperativo categorico: portare in piazza più gente possibile. Eppure, quel giorno il «peso» politico della manifestazione sarà misurato soprattutto dalla qualità della piazza: quanti giovani senza tessera? Quanti operai? Quanti precari? La presenza dei pensionati sarà preponderante? In altre parole sarà una bella manifestazione di resistenza del vecchio mondo, oppure marcerà un «popolo» proiettato nel futuro, capace di imporre una riflessione a Matteo Renzi?
Alla Cgil sono decisamente ottimisti e non soltanto perché è opportuno mostrarsi fiduciosi. Sostiene Nino Baseotto, responsabile del «mitico» ufficio dell’Organizzazione: «Sinceramente i segnali che arrivano da tutta Italia sono molto incoraggianti: alle nostre iniziative c’è tanta partecipazione, tanto dibattito, giovani. Per fare solo l’ esempio più recente: all’Alfieri di Torino c’era la gente fuori dal teatro . E la macchina organizzativa sta girando davvero molto bene». Si racconta di duemila pullman già prenotati: è come se centomila persone fossero già «incarrozzate» 15 giorni prima dell’evento. Ma c’è una difficoltà in più nel «reclutamento»: la Cgil deve mobilitare una piazza contro il segretario del Pd, che oltretutto gode di una vasta popolarità. Una complicazione vera? «A noi - dice Baseotto - non interessa fare la guerra a Renzi. La nostra sfida è a chi è più innovatore e più riformatore».
Il 25 ottobre il palco sarà collocato in piazza San Giovanni, anche se le tre manifestazioni del «biennio rosso» (la Cgil di Cofferati del 23 marzo 2002, i Girotondi del 14 settembre 2002, la marcia della pace del 15 febbraio 2003) fecero sfilare milioni di persone e sono restate inarrivabili per la Cgil «autarchica» di Epifani e della Camusso. Stavolta? Molto dipenderà dal popolo non organizzato: gli studenti, i romani, i senza tessera, il ceto medio riflessivo Dagli studenti, i più diretti interessati dalla riforma renziana, i segnali non sono chiari.
Ieri si sono svolte manifestazioni di studenti medi e universitari in tutta Italia: una ripresa del protagonismo giovanile o soltanto i primi cortei dell’anno scolastico? «Certo, negli anni della Gelmini era un’altra musica - ammette Gianluca Scucimarra, leader dell’Udu, il sindacato studentesco - ma rispetto agli ultimi due anni c’è un passo avanti. L’approccio del governo è difficile da interpretare, quasi tutti temono la fregatura, non si vede la risposta immediata. E anche se la Cgil non è vista come la panacea, negli ultimi giorni si sta creando un muro contro muro che potrebbe portare nella piazza del 25 un buon numero di studenti».

Repubblica 11.10.14
“Se votate la fiducia non venite in piazza”
La Camusso a Torino apre la campagna di avvicinamento alla manifestazione del 25 contro il Jobs Act
Critiche anche alla sinistra del Pd: “Meglio se tacete”
Cuperlo replica: “Io ci sarò”
Ma la Cgil pensa già allo sciopero generale: “Ci arriveremo”
“La cassa integrazione è eccezionale?”
“Il premier lo spieghi al suo amico Marchionne”
“È scortese ma legittimo chiederci dove eravamo in questi anni: noi davanti le fabbriche Renzi dove era?”
di Stefano Parola


TORINO Il teatro Alfieri di Torino ha 1.500 posti ed è strapieno, fuori ci sono decine di persone che non sono riuscite a entrare. Funzionari e delegati scalpitano perché sono troppo fresche le ferite inferte dal governo Renzi con il Jobs Act e dal Pd con la scelta di votare la fiducia. Così quando i lavoratori delle varie anime del sindacato prendono la parola parte un applauso ogni volta che un “compagno” parla di “sciopero generale”. Tant’è che neppure Susanna Camusso si tira indietro quando tocca a lei: «Arriveremo allo sciopero generale, perché ci dobbiamo arrivare».
Subito tira un po’ il freno: «La manifestazione del 25 ottobre a Roma è una prima tappa di una mobilitazione che cresce e che determinerà le condizioni per uno sciopero generale», dice ai giornalisti. Ma è proprio lì che vuole arrivare la “pancia” della Cgil che è seduta in platea. Ce l’hanno con Matteo Renzi: «È giovane ma propone uno schema vecchio: quello della contrapposizione tra tutelati e non», dice dal palco Toni Inserra, lavoratore della Cnh Industrial. «Il governo ha scelto la strada sbagliata, taglia i diritti e toglie risorse a chi non ne ha», accusa Simonte Tota, delegato sindacale della Lavazza.
Ma neppure la minoranza del Pd viene risparmiata: «Non sapete che rabbia mi è venuta quando ho visto in tv Bersani spiegare che non se l’è sentita di far cadere il governo perché tanto le leggi possono essere cambiate». Una bordata simile parte pure da Roma, dai pensionati della Cgil: «Non puoi dire che non sei d’accordo con le scelte del governo e poi dichiarare di votare la fiducia. Meglio stare zitti, si fa una figura migliore», dice ad Agorà la leader dello Spi Carla Cantone. Da Firenze, però, Gianni Cuperlo fa sapere che il 25 sarà in piazza con la Cgil: «È una manifestazione che ha delle giustificazioni oggettive, quando migliaia di lavoratori manifestano, la sinistra ha il dovere di ascoltarli». Eppure nel teatro Alfieri a ogni attacco corrisponde un applauso. Il più fragoroso arriva quando parla Sebastiano, un ragazzo che si è staccato dal corteo studentesco che sfilava per le vie del centro per contestare la “Buona scuola” e il Jobs Act: «L’articolo 18 è già stato distrutto dalla riforma Fornero, è giunto il momento di riprendere in mano la lotta di classe». Susanna Camusso cavalca la voglia di protesta: «Siamo entrati in una fase nuova, si è aperto uno scontro esplicito». Poi boccia il Jobs Act punto per punto: «Non si può raccontare che riduce la precarietà quando l’unico cenno nella delega riguarda i cocopro». Sulla cassa integrazione, con frecciata all’ad di Fiat Sergio Marchionne: «Renzi dice che deve essere uno strumento eccezionale? Lo vada a spiegare a quel signore di cui è tanto amico e che è andato a trovare a Detroit». E ancora: «Se parliamo al tempo stesso di demansionamento e di salario minimo significa che stiamo abbassando gli stipendi di tutti».
Il contrasto con il premier è ormai netto: «È scortese ma legittimo che qualcuno ci chieda dove eravamo in questi anni. Legittimo se ci dicesse dove era lui in questi anni. Noi eravamo davanti ai cancelli delle fabbriche», attacca la segretaria della Cgil.
Susanna Camusso però sa che lo scontro sarà duro. Nel suo intervento ricorda che all’inizio l’idea del cambiamento renziano «ha affascinato molti anche tra di noi», che ad accoglierla è stata anche «una parte del nostro mondo». Ora vuole capire quanto sia grande l’altra parte, ossia quella sinistra che si sente sempre più lontana dal premier. Ecco perché rimarca come la protesta del 25 sarà solo «la prima tappa». Poi, aggiunge, «bisognerà tornare nei luoghi di lavoro per far crescere l’idea dello sciopero e la partecipazione». Arriveranno altri tagli, con la legge di stabilità, e i ranghi si serreranno ancora. Insomma, dice la segretaria della Cgil, «la marcia sarà lunga, ma noi non abbiamo paura».

Corriere 11.10.14
Cuperlo in piazza, Bersani non va
E nasce un codice per vincolare i voti
di Tommaso Labate


ROMA «Il nostro non è il partito delle epurazioni. Certo, dovremo impedire che i comportamenti di chi non ha votato la fiducia al Senato si ripetano e la sanzione politica ci deve essere. Ma nessuna espulsione». La rotta la traccia Renzi. E le regole d’ingaggio su come gestire il seguito della vicenda dei tre senatori che non hanno votato la fiducia sul Jobs act — Corradino Mineo, Felice Casson e Lucrezia Ricchiuti — partono da Palazzo Chigi e arrivano a Palazzo Madama. Dove i vertici del gruppo guidato da Zanda, che comunque hanno l’intenzione di «non lasciare cadere nel nulla» il caso, confermano che nell’assemblea dei senatori di giovedì non ci sarà «alcuna votazione». Quindi, nessuna espulsione.
La lettera di Mineo
«Non sono preoccupato per nulla», scandisce Mineo. L’ex direttore di Rainews ha scritto una lettera a Zanda per ribadire «che un minimo di autonomia di mandato mi deve essere garantito, visto che quando mi sono candidato col Pd nessuno parlava di articolo 18». E il capogruppo, per tutta risposta, l’ha avvicinato per dirglielo a voce: «Se ti dimettessi da senatore, sarebbe un grave errore». Diverso l’approccio di Casson che, a domanda su presunti provvedimenti disciplinari reagisce con freddezza: «Non mi interessa nulla e non ne so nulla». È probabile che l’assemblea dei senatori della settimana prossima si trasformi in un mini-processo ai tre dissidenti. Ma senza conseguenze pratiche se non un semplice «richiamo». Anche perché, sul fronte del Jobs act, Renzi è sicuro di aver imboccato la strada giusta. Per cui, come ammette anche Civati, «aprire ora una questione disciplinare non conviene a nessuno, neanche a Matteo. Certo, se dovessero prendere dei provvedimenti su Mineo e compagnia, li prendano anche per me, che per una fiducia alla Camera mi comporterei come loro».
Le regole del parlamentare
Il punto di caduta di questa storia sta forse nella futura approvazione, tra partito e gruppi parlamentari, di una specie di «codice» in cui sarà fissato nero su bianco che «gli accordi presi tutti insieme nel partito si devono tradurre in voti in Parlamento» e che «chi non vota la fiducia al governo si mette da solo fuori dal gruppo». L’idea, tra l’altro, è sostenuta dal Orfini. «Fino ad oggi siamo stati in regime di deregulation, per cui sui mancati voti di fiducia al Senato non può essere preso alcun provvedimento. Ma oggi», aggiunge il presidente del partito, «queste regole forse vanno messe nero su bianco».
Le divisioni sulla piazza Cgil
C’è anche un altro motivo per cui Renzi si tiene alla larga dalla linea dura e si concentra su altri dossier, come la legge di Stabilità. Il premier, che sta convincendo Walter Tocci a ritirare le dimissioni, sa che il tema delle «epurazioni» sul Jobs act potrebbe dare fiato alle trombe della Cgil, che il 25 scenderà in piazza. Tra l’altro proprio nel momento in cui «l’allarme» per la manifestazione della Camusso, agli occhi di Palazzo Chigi, è ampiamente sotto il livello di guardia. La prova? Sulla partecipazione in piazza, i leader delle minoranze si divideranno. «Io ci sarò, la sinistra ascolti i lavoratori», dice Cuperlo. Mentre, a sorpresa, Bersani non sfilerà. «Alla Cgil sanno come la penso — dice agli amici l’ex segretario —. Ma io faccio un mestiere diverso».

il Fatto 11.10.14
La minoranza democrat e il partito delle fondazioni
Cene di finanziamento e incontri.
Le società create dall’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti sono molto attiva
E lui dice: È lì dentro che vive il Pd”
di Wanda Marra


“La scissione? Non si può fare. Per fondare un partito, ci vogliono i fondi. Gli immobili? Sì, è vero, ce li abbiamo, ma non sono soldi liquidi”. Un autorevole esponente bersaniano le motivazioni per rimanere nel Pd renziano, leaderistico e poco democratico (almeno per come lo vedono le minoranze ex maggioranza), le fa più economiche che politiche. La presa del Nazareno da parte di Matteo Renzi per molti resta un incubo. Un incubo che torna in forme diverse: la sinistra del partito ha dovuto votare la fiducia al governo e per giunta in bianco su un tema fondativo, come il lavoro. Lo spazio per nuovi soggetti politici per ora non c’è.
LO SANNO un po’ tutti gli oppositori. Eppure la scissione resta un sogno. Tanto accarezzato, quanto negato. “La politica è la massima espressione delle attività culturali”. Ugo Sposetti, l’ultimo tesoriere dei Ds, la mette così, raccontando le attività di un nutrito gruppo di Fondazioni e associazioni, Case del Popolo, Circoli culturali e Operai, riunite in una serie di iniziative adeguatamente illustrate in un sito “La Notte Rossa”.
Lo scorso weekend in giro per l’Italia ci sono state alcune cene di fundraising (ricavati da devolversi ala ricostruzione della Casa del popolo de L’Aquila). Stasera invece ad Alessandria ci sarà un cuoco d’eccezione: il vice ministro all’Economia, Enrico Morando, che si produrrà nel pollo alla Marengo (tanto per ricordare una delle storiche battaglie di Napoleone, il 14 giugno del 1800).
Ma le iniziative vanno avanti. Sono iniziate un anno fa, solo a Bologna e dintorni e adesso cominciano a espandersi per tutta l’Italia. A scorrere la lista delle Fondazioni promotrici si scopre che dentro ci sono le detentrici “ufficiali” degli immobili che ancora restano ai fu Ds, di cui Sposetti è stato l’ultimo tesoriere. Un tesoretto da mezzo miliardo di euro che potrebbe tornare utile. Localmente partecipano anche Arci, Libera, Acli. E pure Legacoop. A proposito di potere rosso. Per dirla con Sposetti: “È lì dentro che vive il Pd”. Non certo alla Leopolda e dintorni, insomma. Dove porterà tutto questo?
PER ADESSO, non è chiaro. Ma intanto, le cose si mettono in movimento. Si comincia a creare gli spazi, a sondare il consenso. Massimo D’Alema, rottamato eccellente, a fare la parte del dinosauro non ci sta. Pippo Civati ventila la scissione un giorno sì e l’altro pure. Stefano Fassina non fa mistero della sua differenza assoluta con i contenuti del partito di cui fa parte. E Maurizio Landini potrebbe essere l’asse di sfondamento nel mondo che fa capo al sindacato. Per adesso sono poco più che chiacchiere. Ma c’è una variabile che torna spesso nei discorsi di chi si interroga sulla reale fattibilità della scissione. Ed è la legge elettorale. Se la legislatura dovesse finire adesso, i motivi per fondare una nuova formazione politica ci starebbero tutti. Prima di tutto perché Renzi non fa mistero di non avere alcuna intenzione di ricandidare persone a lui non gradite. E poi perché se ci fosse il Consultellum con il sistema delle preferenze alcuni vecchi leader, come Pier Luigi Bersani, potrebbero ancora fare il pieno. Da qui le perplessità di molti dei giovani, che sono poco noti, come, e più, dei colleghi renziani. Ma potrebbe essere comunque un’estrema difesa in caso di elezioni anticipate. O, chissà, un motivo per provocarle.

il Fatto 11.10.14
Lucrezia Ricchiuti Senatrice astenuta
“Jobs act non era nel programma”
intervista di Wa.Ma.


Il jobs act non era nel programma elettorale, non sono stata eletta per abolire l’articolo 18, ma per difendere i lavoratori”. Lucrezia Ricchiuti, senatrice democratica, ex vicesindaco di Desio, vincitrice delle parlamentarie, civatiana, è una dei tre (insieme a Mineo e Casson) che hanno scelto di non votare la fiducia alla legge delega sul lavoro.
“Un problema” vi ha definiti il premier. Lei cosa ne pensa?
Ho dato il mio contributo con gli emendamenti. Non condivido il fatto che sia stata chiesta la fiducia sul tema più importante, che è il lavoro. E non ho votato contro.
Quindi non se ne va?
Io sono del Pd e voglio essere del Pd.
Perché la fiducia non era votabile?
Prima di tutto, c'è una delega non delega. Una delega deve avere una cornice costituzionale. C’è la possibilità che venga bocciata dalla Corte.
E nel merito?
Io sto nel Pd perché uno dei valori fondanti del mio partito è la difesa dei lavoratori e degli ultimi.
Ma il segretario del suo partito è sempre stato sulle posizioni contenute nel jobs act.
Il premier va in questa direzione. Io però mi rifaccio al programma Italia bene comune.
Quello di Bersani.
Sì.
Quali sono i punti su cui non poteva transigere?
Nell’articolo 4 dell’emendamento si parla di controlli a distanza sui lavoratori. Noi avevamo chiesto che le telecamere fossero sugli impianti. E poi c’è il fatto che adesso cambiano le regole per i licenziamenti disciplinari.
Che succederà?
I datori di lavoro licenzieranno per apparenti motivi economici, e anche se si dimostrerà che non è così, il reintegro non c’è più.
Come ha votato sulla riforma costituzionale?
Non ho partecipato al voto.
Lei non votò neanche la fiducia a Letta, giusto?
Sì. Nel nostro programma non c’era l’alleanza con il centrodestra.
E a Renzi?
Sì. Non c’era Berlusconi.
Qualcuno l’ha cercata, dopo la sua scelta?
No. Abbiamo comunicato a Zanda che non avremmo votato la fiducia. Non era felice.
Guerini ha detto che questa scelta mette in discussione i vincoli di partecipazione al Pd
Sono del Pd e mi riconosco nel programma elettorale sul quale siamo stati tutti votati.
Nel frattempo è cambiato il mondo.
Ma senza le elezioni.
  
il Fatto 11.10.14
Alfredo D’Attorre Bersaniano in trincea
“Fi detta l’agenda molto più di noi”
intervista di Luca De Carolis


È surreale sentire Giachetti parlare di disciplina di partito”. Il deputato Alfredo D’Attorre è un bersaniano di peso.
Non votare la fiducia al proprio premier è comunque un gesto grave.
Ricordo che proprio Giachetti presentò e votò una mozione di indirizzo per il Mattarellum in polemica frontale con il governo Letta, facendo credere che così avremmo avuto una nuova legge elettorale: un puro assist ai 5Stelle. E ricordo altri voti in dissenso dal gruppo, come quello sulla responsabilità civile dei magistrati.
Detto questo, non votare la fiducia...
È una scelta anomala, lo riconosco, seppure presa con grande sofferenza. Ma è altrettanto anomalo procedere a colpi di voti di fiducia. Il 75 per cento dei provvedimenti di questo governo sono stati approvati così, strangolando il dibattito in Parlamento.
Teme l’espulsione dei dissidenti?
Non ci sono precedenti nella storia recente del nostro partito. Queste cose le fa Grillo, non le può fare il Pd.
Renzi accusa spesso voi bersaniani di essere “frenatori”, “antichi”. Non è che ha in parte ragione
Saremmo molto contenti di accelerare su temi come la lotta alla corruzione. Per la competitività economica introdurre nuove norme sul falso in bilancio o contro l’evasione fiscale sarebbe molto più importante dell’abolizione dell’articolo 18.
Su questi temi Renzi traccheggia da mesi. Troppo forte il legame con Forza Italia?
L’agenda del governo è molto condizionata da una forza di opposizione, che pure era finita al margine della scena politica.
Si può dire che ora è molto più vicino a Berlusconi che a Bersani?
Non so calcolare le distanze. Posso però dire che senza la sinistra il Pd non esiste, muore.
Renzi pare correre sempre più verso un modello di Pd all’americana, come comitato elettorale.
Se continua così andremo molto oltre il modello americano, che non cancella il pluralismo e non arriva all’identificazione totale tra partito e leader.
In Parlamento voi bersaniani voterete contro la prossima volta?
Andando avanti a colpi di prendere o lasciare si rischia di far saltare il rapporto tra Parlamento e governo. Su provvedimenti come la legge di stabilità, il jobs act o le riforme servirà un confronto aperto.

Repubblica 11.10.14
Matteo alla minoranza “No a tattiche dilatorie”

Guerini tenta di mediare coi deputati-ex sindacalisti
di Goffredo De Marchis


ROMA Adesso sul Jobs Act l’obiettivo è evitare il braccio di ferro nella commissione Lavoro della Camera. Il testo votato dal Senato arriverà giovedì a Montecitorio e comincerà il classico iter: esame, audizioni, emendamenti e votazioni. La fiducia è uno strumento che si può usare solo in aula. Per i renziani, quella commissione presieduta dall’ex sindacalista Cgil Cesare Damiano, esponente della minoranza, è come la tana del lupo. Renzi infatti avverte i membri del Pd: «Il partito deve tenere, non sarebbero comprensibili tattiche dilatorie».
Alla mediazione ha già cominciato a lavorare il vicesegretario Lorenzo Guerini. Si sente tutti i giorni con Damiano, il quale a sua volta è sempre in contatto con il responsabile economico Filippo Taddei. «Il documento della direzione, approvato a larghissima maggioranza, l’abbiamo scritto io, Taddei, Damiano e Epifani — ricorda Guerini —. Anche loro dissero che erano stati fatti dei passi in avanti». Non basta per stare tranquilli. Perché ora lo scontro interno a Largo del Nazareno si è fatto più aspro. Perché nel frattempo si svolgerà la manifestazione della Cgil a Piazza San Giovanni. Perché l’ipotesi di sanzioni per i dissidenti hanno alimentato i contrasti. «Molto dipenderà da Speranza», ripete Renzi ai suoi fedelissimi riferendosi al capogruppo del Pd a Montecitorio.
Sul dibattito della commissione ora si allunga anche l’ombra di una nuova fiducia annunciata dal premier. Dice Alessia Rotta, membro della segreteria e della commissione: «Non vedo posizioni oltranziste. Abbiamo già lavorato bene insieme sul decreto Poletti, facendo delle correzioni. Possiamo farlo anche stavolta. L’importante è rispettare i tempi». I numeri della commissione sono a rischio per il governo e lasciano intravedere il possibile braccio di ferro. La maggioranza può contare su 27 voti, che è un buon margine sul totale di 46 componenti. Almeno una decina di membri Pd però appartengono alla minoranza ostile al provvedimento. Se si unissero ai 14 voti della minoranza, sposterebbero in maniera determinante gli equilibri. Insomma, hanno i numeri per affossare il Jobs Act così come il governo ha voluto farlo votare al Senato.
A questi dati si aggiunge il ruolo del presidente Damiano. Contrario all’abolizione dell’articolo 18, favorevole a robuste modifiche del testo licenziato da Palazzo Madama. «Se dopo il Senato si mette la fiducia anche alla Camera, tanto vale chiudere il Parlamento», attacca. «La verità è che in commissione si può fare una discussione aperta, è già accaduto per il decreto Poletti. Nessuno vuole fare melina e nessuno vuole tirare fascicoli alla presidenza. Perciò non confondiamo il dissenso con gli atteggiamenti dei 5 stelle». Damiano è il primo a sapere che c’è bisogno di tempi certi. «Al Senato si voleva rispettare la scadenza del vertice europeo. Ora non ci sono vertici, per fortuna. Ma c’è il semestre di presidenza europeo e la legge va fatta prima del 31 dicembre». Ma con modifiche profonde. «Le correzioni sono possibili. Per precisare meglio il caso dei licenziamenti disciplinari, per dare certezza dei soldi per gli ammortizzatori sociali legandoli alla legge di stabilità. Il testo va cambiato, poi torna al Senato e si approva definitivamente. Non vedo il problema».
Il problema, dal punto di vista dei renziani, è che in commissione sono presenti molti ex sindacalisti Cgil. «Mi stupisco dello stupore. Dove dovevano andare? In commissione Giustizia siedono molti avvocati e allora?», ribatte Damiano. Il timore è che si possa saldare un’asse tra dissidenti Pd, 5stelle (8 membri), Lega e Sel. Il documento dei bersaniani, presentato al momento della fiducia al Senato, annunciava la prosecuzione della battaglia alla Camera. Proprio sulla base dell’ordine del giorno votato dal Pd in direzione. «Vediamo come va questa fase — dice Guerini —. Però l’odg riguarda i decreti attuativi», avverte. Quel pacchetto semmai è vincolante non per la legge delega ma per i testi che la riempiranno di contenuti. Gli ingredienti di uno scontro non mancano. Per questo la mediazione continua, con molto anticipo rispetto al dibattito che comincia giovedì.

il Fatto 11.10.14
La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti


Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare. E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque – per analogia – si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all'esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l'imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all'oggetto dell'imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell'imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma – dice la Corte – l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.

il Fatto 11.10.14
Antimafia, il Pd preferisce non disturbare Mori
di Valeria Pacelli


STOP ALLA RICHIESTA DI FAVA E M5S DI SENTIRE IL GENERALE SUL PROTOCOLLO FARFALLA. IL PRETESTO: NON INTERFERIRE CON LA MAGISTRATURA

È abbastanza usuale e buona pratica che l’Antimafia non interferisca sulle indagini”. Così Stefano Esposito, senatore Pd membro della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, spiega perché il suo partito non ha acconsentito all’audizione dell’ex generale Mario Mori sul Protocollo Farfalla. Si tratta di quell’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per “gestire” le informazioni fornite da vari mafiosi all’insaputa dei magistrati.
LA COMMISSIONE ha iniziato una serie di audizioni per fare chiarezza su quella che il vicepresidente Claudio Fava ha definito “la Gladio delle carceri”. Ma sulla possibilità che si possa presentare l’ex capo del Sisde, Mario Mori, il Pd s’è opposto, dopo un confronto tra i commissari. Che non comprendono Forza Italia: senatori e deputati azzurri, dall’elezione della Bindi in poi, non partecipano più alle riunioni della commissione.
La motivazione del Pd per il no su Mori? Non interferire con i poteri della magistratura. In realtà il regolamento interno all’articolo 15 stabilisce tutt’altro: “La Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell’autorità giudiziaria”. E all’articolo successivo aggiunge: “Oltre alle indagini ed agli esami, si può procedere ad indagini conoscitive, acquisendo documentazioni, notizie e informazioni nei modi che ritenga più opportuni, anche mediante libere audizioni”. Sentito dal Fatto, Esposito aggiunge: “Non siamo il Copasir, stiamo anche lavorando bene. Ma su Mori aspettiamo che lo sentano prima i magistrati”.
Anche qui però c’è un errore: alcuni magistrati hanno già chiesto a Mori dell’esistenza di un accordo Dap-Sisde per gestire le informazioni dei mafiosi. Si tratta dei pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che nel 2007, mentre indagavano su Salvatore Leopardi – il pm di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde –, trovarono il Protocollo durante una perquisizione negli uffici degli 007. Ne chiesero conto sia a Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, che negò di sapere qualcosa dell’esistenza del Protocollo; sia a Mori, in quegli anni capo del Sisde, che invece minimizzò, parlando di un progetto mai attuato.
“Vorrei ricordare – continua Esposito – che è stato questo governo a desecretare gli atti dopo tanti anni. A questo punto cosa facciamo? Sentiamo anche Napolitano? ”. Ma Napolitano nel Protocollo non è mai stato tirato in ballo. In ogni caso a sentire il Presidente della Repubblica penserà la Corte d’Assise di Palermo: la testimonianza nel processo sulla Trattativa Stato-mafia è stata già ammessa e fissata per il 28 ottobre, sia pure senza i tre imputati (Totò Riina, Nicola Mancino e Leoluca Bagarella) e le parti civili.
Anche Franco Mirabelli, altro membro Pd dell’Antimafia, concorda sulla scelta di non convocare Mori: “Non escludo che lo sentiremo. Ma per ora abbiamo definito una serie di audizioni (come quelle dei magistrati romani titolari dell’inchiesta su “Farfalla”, nelle prossime settimane, ndr). Non è la Commissione a dover fare il processo”. Però in questo caso corre in aiuto il regolamento della commissione, che all’articolo 16 recita: “Le persone imputate o indiziate di procedimenti penali sono sentite liberamente ed hanno facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia”. Infatti il vicepresidente della Commissione, Claudio Fava, dissente dal Pd: “Ascoltare Mori non è un processo, ma un atto dovuto e comunque il processo non ha nulla a che fare con il Protocollo Farfalla. L’audizione, che io tornerò a sollecitare, risponde alla necessità di fare chiarezza sul ruolo che i servizi in passato potrebbero avuto”.
LA SCELTA DEL PD ha creato quindi uno scontro rimasto in Parlamento. Anche e soprattutto con il M5S. “La situazione – dice Mario Giarrusso dei 5Stelle – è questa: su tutto ciò che riguarda la trattativa, il Pd ha un ordine di scuderia preciso che viene dall’alto. Io trovo che ci siano grandi ostacoli dall’Ufficio di Presidenza”. Il Fatto ha provato a contattare anche al presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, che però ci ha liquidati così: “Io non parlo delle cose che succedono nell’Ufficio di Presidenza”. Dove, a quanto pare, regna il massimo disaccordo: se la destra è inesistente, tra le restanti forze politiche la battaglia sulla Trattativa è solo alle schermaglie iniziali.

il Fatto 11.10.14
Renzi “chiama” il condannato Errani al governo


CARO VASCO, ora noi abbiamo molto apprezzato il tuo gesto di dignità e orgoglio e siamo contenti che tu abbia vissuto questo momento con il rigore e la tenacia che ti riconosciamo. Ma mentre ti diciamo grazie, ti diciamo anche: non pensare di cavartela in questo modo. Vieni a Roma. Nel partito e nel governo abbiamo bisogno di te”. Matteo Renzi, ieri, inaugurando la campagna elettorale di Stefano Bonaccini alla presidenza dell’Emilia Romagna a Medolla, ha rivolto un invito esplicito all’ex Governatore, che si è dimesso dopo essere stato condannato per falso ideologico. In tutta questa vicenda, Renzi si è sempre lanciato in una difesa strenua di Errani (esprimendogli la sua “incommensurabile stima” alla Festa dell’Unità di Bologna). D’altra parte il potere rosso della “ditta” non è di quelli di cui non si possa tener conto. E c’è da scommettere che un posto da ministro per Errani nel prossimo esecutivo uscirà fuori.

Repubblica 11.10.14
“Fuori dall’Ordine il giornalista-spia”
Crescono le proteste contro il reintegro di Farina, l’agente Betulla
L’ex segretario Roidi: o noi o lui
di Rodolfo Sala


MILANO Un reintegro contestato terremota l’Ordine dei giornalisti. È quello di Renato Farina, l’agente Betulla al soldo del Sismi, che anche per le sue attività spionistiche ai danni di colleghi come Giuseppe D’Avanzo e Carlo Bonini, nell’ottobre del 2006 era stato sospeso per dodici mesi dall’Ordine, e l’anno dopo radiato. Per «comportamento incompatibile - questa la motivazione - con tutte le norme deontologiche della professione e per aver provocato un gravissimo discredito alla categoria». Nei giorni scorsi, però, l’Ordine lombardo ha deciso di riammettere tra le sue fila l’ex agente Betulla, sulla base della sentenza della Cassazione che nel 2011 aveva annullato in modo definitivo il provvedimento disciplinare. Motivo dell’annullamento: Farina nel frattempo si era dimesso dall’Ordine, «e come si fa a condannare disciplinarmente un signore che non fa più parte della corporazione che lo giudica?», spiega con amarezza Carlo Bonini.
Ma contro questa recente decisione dei lombardi, si sono dimessi in segno di protesta tre giornalisti che fanno parte del Consiglio nazionale dell’Ordine: lo stesso Bonini e Anna Bandettini, di Repubblica, e Pietro Suber di Mediaset. È una protesta che non si placa, e destinata ad allargarsi. Dopo queste dimissioni si moltiplicano le prese di posizione dei giornalisti degli Ordini regionali, che contestano duramente il provvedimento di riammissione. Dalla Puglia al Lazio, dalla Liguria all’Emilia Romagna; e ieri si è aggiunto l’Ordine della Toscana, che esprime solidarietà ai colleghi dimissionari, invitandoli però a non abbandonare il Consiglio nazionale «per proseguire l’azione per giungere a una riforma che possa permettere all’Ordine di svolgere un ruolo efficace e incisivo a favore dei colleghi».
Insomma, la categoria è in grande subbuglio, nel tam tam tra giornalisti c’è aria di rivolta: con richieste di assemblee, con la proposta di un’autosospensione generale dall’Ordine, e con la richiesta di riunire tutti i Comitati di redazione (gli organismi sindacali delle testate) per concordare una mobilitazione generale. Altra “perla” di Farina: dopo la radiazione aveva continuato a scrivere nell’anonimato e in modo abusivo, diffamando il magistrato Giuseppe Cocilovo, accusato ingiustamente di aver costretto una ragazza minorenne ad abortire (la cosa costò una condanna alla detenzione per Alessando Sallusti, direttore responsabile del giornale per cui scriveva “Betulla”).
Sulla vicenda interviene Vittorio Roidi, che quando fu decisa la cacciata di Farina era segretario nazionale dell’Ordine. «Ricordo benissimo quel voto, che fu dato all’unanimità - spiega nonostante sapessimo benissimo che la nostra decisione poteva essere invalidata perché Farina si era dimesso: nonostante questo non ci furono dubbi». Roidi è un fiume in piena, e se la prende con i colleghi lombardi, che hanno riammesso Farina: «Il loro giudizio è insindacabile, dovevano valutare una cosa sola: se uno così, che ha negato i principi della professione e che lavorava per i servizi segreti, può stare o no nell’Ordine». La sua risposta è scontata: «Se Farina resta, non c’è più l’Ordine dei giornalisti; o noi o lui»». A difendere a spada tratta “l’agente Betulla” c’è Maurizio Gasparri: «Ha già pagato duramente per colpe tutte da dimostrare, far proseguire nei suoi confronti un’ingiusta emarginazione è veramente una barbarie».

il Fatto 11.10.14
Jobs act?  Licenziare è facile: 200mila lavoratori a spasso
di Salvatore Cannavò


L’ultima notizia di licenziamenti è arrivata in redazione proprio ieri sera. E riguarda i giornalisti e il personale tecnico-amministrativo dell’emittente privata Extra Tv di Frosinone, nel Lazio. L’azienda ha avviato la procedura di licenziamento collettivo per 19 dei 24 dipendenti rimasti, cui si aggiunge, come spiega una nota della Cgil, “il drammatico ritardo nel pagamento degli stipendi che ha ormai raggiunto le nove mensilità”. Di casi così ce ne sono a decine ogni giorno (a Roma sono 19 i dipendenti licenziati di un’altra emittente, T9). La Cgil nazionale ha il merito di aver istituito un osservatorio sulle tante vertenze quotidiane e sfogliando i casi pubblicati ogni mese si scopre la realtà di un paese in cui non è mai stato così facile licenziare. I licenziamenti collettivi sono regolati dalla legge 223 del 1991 e quando, vengono attivate le procedure previste – come nel caso di Terni – scatta l’indennità di mobilità. Un sussidio che accompagna alla disoccupazione (700 euro al mese), che però la riforma Fornero ha indebolito, con l’introduzione dell’Aspi, e che il Jobs Act di Renzi intende alleggerire.
LA CISL HA STIMATO in circa 140 mila i posti di lavoro persi nel 2014 solo nei settori della manifattura e delle costruzioni. Dal punto della forza lavoro si tratta di più di un terzo del lavoro dipendente privato. Nel corso del 2013, le domande di mobilità complessivamente presentate all’Inps hanno raggiunto la cifra di 217 mila in crescita dell’81% rispetto all'anno precedente. Va inoltre precisato che circa 500 mila lavoratori sono esclusi da questo conteggio perché “protetti” dalla cassa integrazione.
Dentro il calderone dei licenziati “in massa” ci sono ad esempio i 256 lavoratori della Sixty di Chieti Scalo che da oggi si ritroveranno senza lavoro. Fondata nel 1989 dagli imprenditori romani Wicky Hassan e Renato Rossi nella zona industriale della val Pescara la Sixty era in crisi da tre anni, e i lavoratori, nel frattempo, hanno potuto usufruire della cassa integrazione. Che però non è servita a far ripartire l’azienda
BALLANO SULL’ORLO del licenziamento annunciato anche i 262 lavoratori dell’Accenture Outsourcing di Palermo. Società multinazionale, con oltre 50 mila dipendenti, la Accenture ha deciso di dismettere il sito siciliano in seguito al venir meno della commessa con British Telecom, suo unico cliente. I lavoratori sono riusciti a rendere molto visibile la loro protesta ma al momento non hanno certezza del futuro. Chi invece una certezza, negativa, l’ha già avuta sono i 130 dipendenti dell’Indesit di None, nel torinese, una delle aree maggiormente coinvolta dalla crisi industriale. In alternativa al licenziamento, con buonuscita di 30 mila euro lordi, i lavoratori hanno ricevuto l'offerta di trasferirsi a Comunanza, in provincia di Ascoli.
A rischiare di essere licenziati, se non sarà assicurato di nuovo il servizio di contact center al Comune di Roma (lo 060606), sono i 280 dipendenti di Almaviva mentre hanno già ricevuto la lettera di licenziamento i 115 dipendenti della
Nokia nelle sedi di Cassina de Pecchi (Milano), Roma e Napoli. La Nokia è particolarmente specializzata in licenziamenti collettivi visto che ha inviato lettere di questo tipo a 2500 persone in 7 anni.
GUAI ANCHE ALLA COCA Cola, che in estate ha avviato un piano di ristrutturazione per mettere in mobilità 279 lavoratori su un organico di 2112 unità. Solo in seguito a una trattativa sindacale gli esuberi si sono ridotti a 89. Situazione analoga, anche se con numeri diversi, 320 dipendenti, all’Averna di Caltanissetta da poco rilevato dalla Campari Spa. Anche qui è partita la procedura di mobililità per tutti i dipendenti, come denunciano Cgil, Cisl e Uil, nonostante la F. lli Averna Spa abbia i bilanci in attivo, un fatturato di 70 milioni e bilancio in nero. Scade domani, invece, la cassa integrazione per 630 dipendenti della ex Merloni cui si prospetta il licenziamento anche perché l'azienda subentrata, la Jp, non ha ancora avviato l'attività.
A sintetizzare la situazione ci hanno pensato i lavoratori “in esubero” di Meridiana, la compagnia aerea che ha deciso di licenziare 1600 dipendenti (1.478 dipendenti di Meridiana Fly e 156 di Meridiana Maintenance). L’altroieri si sono messi in fila per donare il sangue, “un piccolo aiuto per chi ne ha bisogno”. Terni, rabbia e disperazione: “Il futuro finisce qui”

il Fatto 11.10.14
Thyssen, sciopero a macchia di leopardo in attesa della manifestazione
“Fra 75 giorni arriveranno le lettere. E’ la fine”
di Sandra Amurri


“Quando resto in silenzio, la notte, sento una voce metallica che dice: codice non trovato”. È il tormento di Massimiliano, 35 anni, sposato con un bimbo di 4, operaio alla manutenzione alla ThyssenKrupp di Terni che metterà alla porta 576 figli di un'Italia incapace di garantire loro diritti primari. “Il 30 settembre il dipendente della Liomatic è entrato, come sempre, con il furgone per ricaricare le macchinette del caffè inserendo il badge. Il giorno dopo il cancello non si è aperto: il badge era stato smagnetizzato - racconta Massimiliano - è quello che può accadere ad ognuno di noi”.
ESTRAE IL CELLULARE dalla tasca: “Questo è mio figlio - dice mostrando la sua foto - quando rientro a casa la sera si attacca ai miei pantaloni e urla: non te ne andare papà, stai con me”. È troppo piccolo per capire la sua tragedia ma sente, da quel sorriso sulle sue labbra che non trova più, che qualcosa di brutto sta accadendo”. I numeri non bastano a dare la misura del cinismo di un profitto che divora l'umanità. Terni vanta 130 anni di storia operaia. “Di sinistra c'è solo Papa Francesco”. Lino, 52 anni, che non è mai stato credente, non ha dubbi su chi scegliere tra il premier e il Papa. Qui del saluto inviato da Renzi dal loggiato del convento di San Francesco d'Assisi non sanno proprio che farsene. Tantomeno dei suoi spot come quello delle tre “T”, emergenze occupazionali: Terni, Taranto e Termini, da risolvere immediatamente. La prima è saltata. “Qua nessuno sente la sua mancanza” dice David, 32 anni che con un sorriso amaro confida di essere fortunato nel non avere ancora famiglia che adesso diventa un lusso. “Se Renzi volesse davvero fare qualcosa per noi chiamerebbe la Merkel per fare pressione sulla dirigenza della tedesca ThyssenKrupp e sancire un accordo accettabile”, spiega il delegato Fiom. Dopo l'occupazione della stazione ferroviaria, in attesa della serrata cittadina prevista per giovedì, gli operai scioperano a macchia di leopardo: due ore ogni turno che trascorrono presidiando le quattro portinerie che distano tra loro 1 km e 200 metri. Una città nella città. L'età media oscilla tra i 30 e i 40 anni. “Ci stiamo giocando il futuro e quello dei nostri figli”. “Non dire così” lo riprende Andrea, 39 anni ”non possiamo arrenderci”. Anche lui padre di una bimba di due anni. Lo spettro della chiusura di uno dei forni è palpabile. Altri posti di lavoro salterebbero e l'acciaieria diventerebbe ancora più appetibile al compratore di turno, forse finlandese. Operazione affidata alle mani esperte dell’ad, Lucia Morselli. “Il primo giorno di occupazione della palazzina è rimasta chiusa nel suo ufficio per 14 ore e quando è arrivato il Prefetto non l'ha ricevuto: questa è casa mia, qui comando io”. “La verità è che i signori al governo non hanno idea di cosa sia la vita reale”, Mirko, 40 anni, trova lo spirito per intonare “... provate voi a lavorare e proverete la differenza tra lavorare e comandare”. Il costo dell'energia, 90 milioni annui più 70 milioni per gas e metano è insopportabile, dicono i vertici. E il governo non fa niente per trattare tariffe agevolate. “Quella che si è consumata è una farsa. Non era facile eppure il governo nella veste del sottosegretario alla presidenza del Consiglio (braccio destro di Renzi), Graziano del Rio, e del ministro Federica Guidi, è riuscito a fare una proposta che ha scontentato l'azienda e i sindacati” spiega, non senza ironia, il segretario cittadino della Fiom, Claudio Cipolla, che aggiunge: “In un mese abbiamo presentato 20 proposte. Non c'è mai stato un confronto a tre. Non esiste un piano industriale. L'azienda ha un piano finanziario da raggiungere ad ogni costo. E stiamo parlando di una realtà industriale d’avanguardia”.
DI BUONO c'è che il sindacato in questa vertenza è unito. A scendere in piazza ieri anche i lavoratori delle ditte terziste di fronte all'aut aut dell'azienda: avete 24 ore di tempo per tagliare del 20% l’importo dei contratti di appalto, altrimenti verrete sostituite. Le voci si accavallano nel bisogno di essere ascoltate: “Se il Pd fosse un partito di sinistra staremmo in una botte di ferro, sindaco, presidente di regione e premier del Pd, invece, è un partito di destra”. È il coro unanime. Mentre l'attesa delle lettere di licenziamento che potrebbero arrivare tra 75 giorni si fa sempre più logorante. A seguire la procedura di mobilità: 800 euro. “Per noi sopravvivenza, per loro, una vita agiata con il nostro sudore e il nostro dolore”. È l'amara e realistica conclusione di Mirko.

Repubblica 11.10.14
La ripresa del deflusso è testimoniata dai saldi del sistema europeo delle banche centrali Nel luglio 2012 l’annuncio di Draghi sull’euro aveva facilitato i movimenti di rientro
Capitali di nuovo in fuga dall’Italia oltreconfine 67 miliardi in due mesi
di Federico Fubini


ROMA Un deflusso del genere dall’Italia non si era visto da prima che Mario Draghi, nel luglio del 2012, pronunciasse le sue parole più celebri: «Faremo qualunque cosa per preservare l’euro». Quel giorno il presidente della Bce arrestò e poi invertì la corrente della fuga di capitali da Paesi più in crisi. Ora, per la prima volta da quei giorni, la direzione di marcia si è ribaltata: via dall’Italia, verso l’estero.
Questa non è una replica del film di due o tre anni fa, in cui un’intera porzione d’Europea fu colpita dalla sfiducia. Stavolta, sugli ultimi due mesi, la fuoriuscita di denaro riguarda solo l’Italia. Nelle altre economie della cosiddetta «periferia», Grecia, Spagna e Portogallo inclusi, la bilancia delle partite finanziarie procede come nell’ultimo anno o due. In agosto dall’Italia invece sono usciti capitali per 30,3 miliardi di euro, mentre la corsa verso l’estero in settembre ha addirittura accelerato con un saldo negativo di 37 miliardi. Era dal periodo drammatico fra la primavera 2011 e la primavera del 2012 che non si assisteva a un’emorragia così sostenuta. La tendenza è fotografata dal sistema europeo delle banche centrali, l’Eurosistema che dà vita alla Bce, attraverso i saldi di Target 2. Quest’ultimo è il meccanismo di pagamenti anche fra privati in Europa, che l’Eurosistema segue perché sono le stesse banche centrali a regolare i pagamenti attraverso i confini con un meccanismo di crediti e debiti.
È questo il termometro che ha segnalato la grande corsa verso ’uscita dall’Italia negli ultimi due mesi. Poiché gli scambi di import e export procedono di solito a ritmo costante, è sicuro che la fuoriuscita di capitali sia data da una decisione degli investitori finanziari: risparmiatori, fondi, banche. Sulla base dei dati pubblici è più difficile spiegare quali categorie di titoli italiani siano smobilizzate per portare denaro fuori. Per ora la fuga non sembra riguardare i titoli di Stato, ma dal 4 settembre scorso il Ftse-Mib, principale listino della borsa di Milano, ha perso il 9,5%: è una fuga di circa 40 miliardi di euro. Parte di questo denaro sembra essere stato parcheggiato in Germania: la posizione creditoria della Bundesbank nell’Eurosistema negli stessi mesi si è infatti impennata per circa la metà dei volumi finanziari persi dall’Italia. Il resto sembra essere finito fuori dall’area euro, contribuendo alla svalutazione della moneta unica.
Anche nel 2011 andò così: la fuga di capitali dall’Italia investì prima il mercato azionario, quindi quello dei titoli di Stato dopo qualche mese di deflussi dall’azionario. Non è detto che stavolta debba ripetersi il copione della crisi finanziaria, partendo dalla debolezza di borsa per poi si allargarsi ai titoli di Stato e facendo impennare lo spread con i bund tedeschi. Ma Frank Westermann dell’università di Osnabrueck ha notato lo smottamento di agosto e settembre e si è chiesto perché riguardi solo l’economia più grande dell’Europa del Sud. La prima spiegazione è la più ovvia: l’Italia è il solo Paese della periferia che resta in recessione, senza risultati visibili dalle riforme. Inoltre, poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre duecento miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati.
Westermann però offre anche una spiegazione politica: Draghi nel 2012 promise interventi illimitati della Bce solo in difesa di quei Paesi che avessero accettato la troika, cioè un programma di politiche controllate e monitorate dal resto d’Europa. L’Italia è il solo Paese del Sud a non averlo sottoscritto, e ha un sistema politico che rifiuta la troika. È un tema del quale i politici nel Paese e nel resto d’Europa non parlano mai. I dati sulle fughe di capitale, ogni tanto, invece sì.

Repubblica 11.10.14
Nobel per la Pace
Un premio a favore dei diritti dei bambini
La pachistana Malala sopravvissuta a un attacco talebano e l'indiano Satyarthi i due nuovi simboli
di Ugo Tramballi


«Chi di voi è Malala?». Era il 9 ottobre 2012. Nessuno poteva immaginare - nemmeno il talebano che lo aveva chiesto, convinto di emettere una sentenza di morte - che due anni dopo la vittima designata, centrata alla testa da un colpo di pistola, sarebbe diventata un Nobel per la Pace: all'età di 17 anni, la più giovane di un riconoscimento la cui media dei premiati è di 62 anni. Forse è per questo, per la paura di una straordinarietà ritenuta eccessiva perfino dai giurati del Nobel, che alla fine hanno deciso di dividere il premio, attribuendolo anche a un sessantenne.
Malala, cioè Malala Yousafzai, pachistana diciassettenne, e Kailash Satyarthi, attivista sociale indiano, 60 anni, sono i due protagonisti di quest'anno. La commissione di Oslo li ha scelti per la comune lotta, anche se condotta separatamente, contro lo sfruttamento e in favore del diritto dei bambini all'educazione. La provenienza di entrambi dal Subcontinente indiano è casuale ma non del tutto: musulmani o hindu, è lo spirito millenario di quel luogo che crea persone votate al bene degli altri, con una fede assoluta. È lo spirito gandhiano che nella motivazione della commissione di Oslo, è stato volutamente richiamato.
Uguali le ragioni del premio ma diversi i campi di battaglia nel quale la pachistana e l'indiano lo hanno conquistato. Nel suo Malala deve affrontare un nemico culturale e religioso: l'Islam oscurantista che educa all'ignoranza, soprattutto delle bambine. Già l'anno scorso Malala era nella rosa dei candidati al Nobel: era stata l'età a impedirle di vincere. Quest'anno, per quanto la giovane pakistana fosse ancora minorenne, premiarla aveva una valenza politica.
C'è sempre un messaggio politico nelle scelte fatte a Oslo: a un premiato esplicito corrisponde sempre un implicito biasimo. Si nomina Al Gore per condannare George Bush, un dissidente cinese per punire il regime di Pechino, un attivista del Terzo mondo per evidenziare le colpe del Primo. Il Nobel a Malala, una piccola musulmana dal grande carattere, enfatizza la mostruosità del califfato iracheno; esalta i valori della prima in contrapposizione ai disvalori del secondo.
Il campo di battaglia di Kailash Satyarthi è economico. L'India è uno dei cinque Paesi Brics che già sfidano in crescita le potenze occidentali. Investe molto nell'educazione, la scolarizzazione elementare è ormai garantita al 93%; il Paese produce quasi tre milioni di laureati l'anno nelle sue 17.600 università e mille business schools. Per gli indiani, come per i cinesi e gli ebrei, l'educazione dei figli è un valore assoluto: se sfogliate l'annuario degli alumni di Harvard o Yale troverete migliaia di nomi indiani.
Ma il 25% della popolazione, quasi il 50 di quella femminile, resta analfabeta. È in questa ombra lasciata fuori dal cono di luce della "India Shining", che la povertà continua a prosperare. Si calcola che siano almeno 60 milioni i minori costretti a lavorare spesso in una condizione di reale schiavitù. Satyarthai, con una laurea e un lavoro da ingegnere elettrico, era comodamente dentro il cono di luce dell'India splendente. Ma ha saputo guardare dentro il buio. Viene dal Madhya Pradesh, lo Stato indiano centrale la cui capitale è Bhopal dove nel 1984 ci fu la più grande tragedia industriale della storia: l'esplosione della fabbrica di pesticidi della Union Carbide uccise subito quasi 3mila persone. Ma 500mila ne subirono le conseguenze nei mesi e negli anni a venire, nessuno sa quanti morirono.
Quattro anni prima Satyarthai aveva fondato il Bachpan Bachao Andolan, il Movimento per la salvezza dell'infanzia. Erano bambini la gran parte delle vittime fra gli operai dentro la fabbrica della Union Carbide, e fuori, negli slum a ridosso delle mura del complesso industriale. Negli anni successivi Kailash Satyarthai avrebbe compiuto in tutta l'India degli autentici raid fra i produttori di tappeti, nelle miniere, nelle fabbriche di note marche occidentali per smascherare la condizione di schiavitù nella quale facevano lavorare i minori.
«Chi di voi è Malala?», è invece il culmine di una storia tanto breve quanto più conosciuta e ormai leggendaria. Satyarthi già salvava da anni bambini dando loro un'educazione (sono 80mila a tutt'oggi quelli che gli devono un futuro), quando in una scuola della valle dello Swat, una bambina di due anni e mezzo frequentava le lezioni accanto a bambini di 10. Malala Yousafzai era un prodigio. Nel Pakistan settentrionale tutti ricordano quando i talebani conquistarono lo Swat, imponendo la loro legge islamica e chiudendo 400 scuole. Ancor di più ricordano quando Malala, all'età di 11 anni, convocò una conferenza stampa e gridò nel microfono: «Come osano i talebani, negarmi il mio diritto fondamentale all'educazione?».
«In realtà non volevamo ucciderla, sapevamo che sarebbe stata una cattiva pubblicità sui media», avrebbe poi detto un portavoce dei talebani dello Swat. «Ma non avevamo alternative». Dal loro punto di vista non avevano torto: una bambina ostinata e prima della classe li stava umiliando. Così il 9 ottobre 2012 un talebano salì sullo scuolabus, si fece dire chi fosse Malala e le sparò in testa. Essendoci un Dio pietoso, diverso da quello al quale credono gli estremisti, la ragazzina si salvò. Nove mesi più tardi andò alle Nazioni Unite a tenere un discorso ormai entrato nella storia: «Pensavano che i proiettili ci avrebbero fatto tacere. Ma hanno fallito: da quel silenzio sono venute migliaia di voci». E due anni più tardi, a dicembre a Oslo, Malala riceverà insieme a Kailash Satyarthi il più alto dei premi.

Corriere 11.10.14
L’Isis avanza. «Sarà come Srebrenica»
Allarme Onu su Kobane. Centinaia di civili in trappola
Le foto dei massacri sui social media
di Lorenzo Cremonesi


BOIDI (Confine Turchia-Siria) Sono cominciati i massacri di curdi nella cittadina assediata di Kobane per mano dei fanatici guerriglieri dello Stato Islamico. L’epilogo della Alamo curda, che solo sino a qualche giorno fa era soltanto una minaccia, sta diventando realtà. L’Onu teme che almeno 700 civili, per lo più anziani rimasti nel centro, possano restare trucidati assieme a 12 mila altri intrappolati lungo il confine chiuso dai turchi. A loro si aggiungono alcune migliaia di guerriglieri curdi, tra cui molte donne.
Sui social media locali circolano già le fotografie dell’orrore che riprendono gruppi informi di corpi insanguinati dei combattenti. Le diffondono a bella posta i loro carnefici con l’intento propagandistico di terrorizzare: il cadavere di un combattente appeso per i piedi al braccio di una ruspa; tanti riversi a terra, alcuni decapitati; altri ancora semisepolti dalle macerie e il terriccio provocati dall’esplosione di un’autobomba kamikaze contro la loro postazione. Colpisce il montaggio di due foto parallele. Nella prima compare una bella ragazza molto giovane dei gruppi femminili combattenti curdi (le Ypj, «Unità di difesa delle donne»). Sorride, è in mimetica, in una mano tiene il fucile, con l’altra fa la «V» di vittoria. Ma nella seconda immagine uno dei tagliagole islamici brandisce la sua testa decapitata come un trofeo, le lunghe trecce bionde pendono nel vuoto. Ieri i blogger curdi notavano che sarebbe la foto di una delle tre ragazze decapitate la settimana scorsa. Le immagini delle prime due erano state diffuse subito.
Ancora giovedì avevamo osservato una debole ritirata delle teste di punta jihadiste bombardate ripetutamente dall’aviazione americana. Ma da ieri mattina la situazione è mutata: si combatte in pieno centro. Nonostante i raid Usa, i curdi si stanno ritirando. Mancano di munizioni. Pare che lo Stato Islamico controlli almeno il 40 per cento dell’area urbana, compreso il quartier generale delle milizie curde. Ma un disertore curdo riuscito ieri a scappare in Turchia ci ha detto che in realtà i suoi compagni sono intrappolati nel 30 per cento della città. A suo dire i morti curdi nelle ultime 24 ore sarebbero tra 150 e 250. Intanto le pattuglie nemiche si sono avvicinate all’ultimo punto di transito frontaliero con la Turchia, potrebbe venire preso da un momento all’altro. Tutto ciò avviene letteralmente sotto il naso dei soldati turchi, che però continuano a restare passivi.
Un accorato grido di allarme è arrivato ieri dall’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, che ha paragonato il fatto di Kobane alla «vergogna» di Srebrenica, la cittadina bosniaca dove nel 1995 oltre 8 mila civili vennero trucidati dai serbi davanti agli occhi delle truppe Onu, le quali quasi nulla fecero per impedirlo. «Non possiamo restare in silenzio», ha dunque tuonato de Mistura, chiedendo tra l’altro ad Ankara di permettere il passaggio ai volontari curdi in Turchia «con le loro armi» per andare a combattere con i curdi siriani.

Repubblica 11.10.14
L’assedio.
L’Is conquista un comando dei curdi
Alla frontiera turca i medici chiedono un corridoio umanitario. In Iraq giustiziati un cameraman e tre civili
Migliaia in trappola nell’inferno di Kobane L’allarme dell’Onu “È la nuova Srebrenica”
di Alberto Stabile


SURUC (CONFINE TURCO-SIRIANO) LA TURCHIA sembra traballare dal suo calcolato immobilismo riguardo alla guerra contro il califfato, promettendo di «addestrare ed equipaggiare l’opposizione moderata» (al regime di Assad) che nei disegni di Obama dovrebbero costituire le truppe di terra da impiegare contro i jihadisti. È questa la risposta di Ankara alle molte critiche e pressioni ricevute a causa dell’atteggiamento pilatesco assunto verso l’assedio di Kobane. Compreso il drammatico monito dell’inviato dell’Onu Staffan de Mistura che ha lanciato un appello per evitare che Kobane si trasformi in una nuova Srebrenica, la cittadina bosniaca dove, nel 1995, ottomila musulmani furono massacrati dai serbi davanti allo sguardo indifferente della comunità internazionale.
Resta da vedere cosa intende la Turchia per «opposizione moderata» (sono anche inclusi i curdi in questa definizione?) e cosa è disposta a fare, concretamente, per alleviare nell’immediato il dramma che si dipana ad un tiro di pietra dalla sua frontiera. Una frontiera che resta chiusa con la scusante, come ha detto il vice presidente del partito al potere (AK), Yasi Aktay, che «ormai tutti quelli che dovevano arrivare da Kobane sono arrivati», aggiungendo che «a Kobane non c’è nessun dramma in corso. C’è solo una guerra tra due bande terroriste».
La realtà non è così semplice. E non è soltanto la condizione dei civili intrappolati a Kobane (700 in città, circa 13 mila nei paraggi, ha denunciato de Mistura) a suscitare l’allarme. Ma anche il trattamento riservato ai combattenti feriti che vengono fatti passare con il contagocce e soltanto dopo lunghe e talvolta fatali attese. «Ecco da dove si potrebbe cominciare per evitare che l’agonia di Kobane si trasformi in un tragedia collettiva alla maniera di Srebrenica», mi dice il dottor Khalil, davanti all’ospedale governativo di Suruc, un piccolo presidio diventato essenziale in una zona sconvolta dalla guerra. Khalil, un giovane sui 40 anni, dopo la specializzazione era emigrato in Svezia dove aveva trovato lavoro come radiologo. Quattro mesi fa era tornato a Kobane «per aiutare la mia gente».
«Lei parla di combattenti feriti — dice, passeggiando davanti all’ingresso dell’ospedale, dove alla stampa non è permesso entrare — Qui sono soltanto civili, altrimenti non li farebbero entrare. Ma la cosa più grave è che li fanno aspettare troppo alla frontiera. Ieri sera, ne sono arrivati tredici, rimasti fermi al confine per 12 ore. Naturalmente, uno non ce l’ha fatta. Allora, non si potrebbe almeno chiedere alle autorità turche di mostrare maggiore sensibilità verso i feriti, invece di mandarli in ospedale quando sono già morti, o quasi?».
Da Ankara le autorità negano l’emergenza. Accusano «i terroristi del Pkk» di diffondere falsità. Ma Khalil, insiste: «Chiederò ufficialmente al governo di poter tornare a Kobane a prestare il mio aiuto con altri colleghi. E se mi risponderanno che la frontiera è chiusa, andrò lo stesso».
Fra i villaggi di Misanter e Otmanek, che fronteggiano i quartieri occidentali di Kobane dove hanno preso posizione gli uomini del califfato, c’è un filare di alberi tra i campi biancheggianti di cotone dove si raccoglie ogni giorno una piccola folla per seguire, alcuni armati di binocolo, altri a occhio nudo, l’andamento della battaglia. E’ qui che arrivano le notizie delle atrocità del-l’Is anche sull’altro fronte della guerra, l’Iraq. A Samra, un villaggio a Nord di Bagdad, giustiziati in pubblico un cameraman iracheno, suo fratello e altri due civili. Un orrore senza fine. Improvvisamente un telefono della Bbc riesce a stabilire un contatto con gli assediati. E subito, una selva di facce contadine, cotte dal sole, circonda la troupe. Dall’altro lato, a Kobane, c’è Aìsha, dell’ufficio stampa delle Unità di difesa popolare (YPG). «Noi stiamo facendo quello che possiamo — dice Aìsha, con voce ferma e chiara — ma loro hanno armi pesanti e carri armati. I bombardamenti della coalizione non sono bastati a fermarli. Abbiamo bisogno anche noi di armi pesanti ed i bombardamenti devono aumentare, altrimenti qua sarà un genocidio». Ma qual è la condizione dei civili? «Ci sono molte persone arrivate dai villaggi — racconta Aìsha — . Abbiamo ricevuto acqua e viveri (evidentemente dai curdi di Turchia, ndr) e li stiamo distribuendo ma presto le riserve finiranno». Fra i presenti qualcuno scuote la testa in segno di scoramento e un altro impreca contro il governo turco. Mahmud, un uomo sui 50 anni, che veste una sahariana grigia, militare, racconta di essere stato arrestato la settimana scorsa alla frontiera assieme ad altri 158 curdi. «Ci hanno portati in una scuola, sulla strada per Sanliurfa, senza dirci di cosa eravamo accusati. Ho detto di essere malato e cinque giorni fa mi hanno rilasciato assieme ad altri quattro». Gli chiedo cosa farà adesso. «Cosa vuole che faccia?», risponde. «Mi sono riposato abbastanza in questi giorni passati nella scuola. Stasera passerò di nuovo dall’altra parte anche se la frontiera è sbarrata. Ho quattro fratelli che combattono a Kobane».

«Columbus day celebrates genocide»
«American, what tribe are you from?»
il Fatto 11.10.14
Gli indiani sfrattano l’Italia dal Columbus Day
Molte città Usa rimpiazzano le celebrazioni dello scopritore del continente con quelle per i nativi americani
di Angela Vitaliano


New York. Come ogni anno, in questo periodo, new York si riempie di italiani: delegazioni che arrivano da ogni parte del Bel Paese, imprenditori, testimonial, sindaci con fasce tricolori e governatori di regioni, tutti pronti a sfilare per la grande parata del Columbus Day, celebrazione della “scoperta dell’America” da parte del genovese (con navi spagnole) Cristoforo. E con un sindaco, Bill De Blasio, che, incurante del melting pot di culture e nazionalità che rappresenta, ricorda sempre e in tutti i modi di essere “italiano”, c’è da aspettarsi, un tono ancor più autocelebrativo.
LA COMUNITÀ ITALIANA nella Grande Mela, d’altro canto è importante e lo sanno bene i politici che capitano da queste parti: lo stesso premier Renzi, durante la sua recente visita newyorchese non ha esitato, in occasione dell’incontro con il primo cittadino, a mostrarsi fiero di quell’appellativo di “paisà” usato da De Blasio.
Fuori New York, però, le cose sono diverse tanto che lunedi, il consiglio comunale di Seattle ha deciso, all’unanimità, di ribattezzare la festa del Columbus Day, trasformandola in Indigenous People’s Day, omaggio alle popolazioni indigene per le quali l’America era casa ben prima che le tre caravelle approdassero e che, da allora in poi, furono lentamente sterminate e rese “innocua” minoranza. Con la firma del provvedimento, il sindaco di Seattle, Ed Murray, dunque, stabilisce che il secondo lunedi del mese d’ottobre, lo stesso del ColumbusDay, sarà il giorno in cui la città renderà omaggio ai primi veri americani. La decisione del consiglio, peraltro avrà decorrenza immediata e, già il prossimo lunedì, giorno in cui altrove si celebrerà Colombo, a Seattle i protagonisti saranno gli indiani, per una volta non più relegati nelle loro riserve. “Nessuno ha scoperto Seattle - ha detto il presidente della Quinault Nation, Fawn Sharp, parlando di fronte al consiglio - e, azioni come quella di oggi, ci permetteranno di mantenere oggi e domani un giorno che renda onore alla ricchezza della nostra storia”. Il concetto, alla base della decisione dell'amministrazione è, appunto, che i Nativi americani vivevano già in questa parte del mondo tanto che la città fu chiamata Seattle proprio in onore di un capo tribù, prima di essere distrutta e ricostruita dai “nuovi arrivati”.
La notizia non è stata accolta con entusiasmo dalla comunità italo americana. “Gli italiani - ha detto Lisa Marchese rivolgendosi ai membri del consiglio - sono profondamente offesi. Per decenni, la comunità italo-americana non ha festeggiato l'uomo ma il simbolo del Columbus Day. Quel simbolo che significa che noi onoriamo i nostri antenati che immigrarono a Seattle”. Seattle, tuttavia, non è la prima città ad abolire il Columbus Day. Nel 1992 lo aveva fatto Berkeley e ad aprile era stata la volta di Minneapolis; anche altri stati, tra cui Alaska, Hawaii e Oregon, non celebrano la giornata che fu proclamata festa nazionale nel 1937.

il Fatto 11.10.14
St Louis. Ancora scontri per un altro nero ucciso


Seconda notte di disordini a St. Louis, in Missouri, dopo l’uccisione in uno scontro a fuoco di un ragazzo nero da parte di un agente - bianco - fuori servizio che lavorava come guardia di sicurezza.
Circa 400 dimostranti si sono riversati per le vie della città e hanno urlato slogan contro i poliziotti, alcuni dei quali in tenuta antisommossa. Le proteste sono sfociate nel caos e gli agenti sono stati costretti ad usare spray urticante per disperdere la folla.
Il capo della polizia Sam Dotson, intervistato da una tv locale, ha detto che durante il picco delle proteste dalla folla qualcuno ha lanciato un coltello. L’arma ha colpito un agente che fortunatamente indossava un giubbotto antiproiettile. Danneggiate anche vetture della polizia, abitazioni e attività commerciali. Bruciate inoltre delle bandiere americane.
Le proteste sono scoppiate proprio alla vigilia delle manifestazioni programmate per il week end in cui gli attivisti si raduneranno a St. Louis e Ferguson per chiedere l'arresto dell’agente che un paio di mesi ha ucciso Michael Brown, il 18enne nero disarmato.

il Fatto 11.10.14
Trent’anni dopo, quel che resta di Eduardo: praticamente tutto
di Nanni Delbecchi


“NON TI PAGO”, “LE BUGIE HANNO LE GAMBE LUNGHE”, “IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ”: A RILEGGERE TESTI E BATTUTE SCOPRIAMO COME L’ATTUALITÀ RIESCA REGOLARMENTE A SUPERARE LA NOSTALGIA

Se c’era qualcuno che se la intendeva coi fantasmi, quello è stato Eduardo De Filippo, e dunque nessuno stupore che adesso sia il suo fantasma ad aggirarsi un po’ dappertutto, nel trentennale della scomparsa. Mentre si avvicina il prossimo 31 ottobre (giorno della morte, e in cui sarà ricordato anche da quel Senato della Repubblica di cui fece parte) l’inconfondibile maschera scavata è riapparsa nella piazza napoletana che porta il suo nome, sui muri tirati su dalle macerie di quella che diventò la sua vera casa: così oggi cinque murales realizzati dal giovane artista Jorit Agoch ritraggono Eduardo in primo piano, a sorvegliare il Teatro San Ferdinando.
TRA I TANTI spettacoli che percorreranno i palcoscenici d’Italia c’è anche la novità assoluta Tà-kài-Tà, un omaggio d'autore ai pensieri e all’anima di Eduardo a cui Enzo Moscato ha dato lo stesso titolo del film che De Filippo stava progettando con Pier Paolo Pasolini immediatamente prima che Pasolini venisse assassinato. La memoria galoppa anche alla Casa del cinema di Roma, nelle seppure troppo esigue salette in cui è stata allestita la mostra I fratelli De Filippo tra cinema e teatro: foto di scena originali, locandine, manifesti, libri, brochure, e altri materiali rari di Eduardo Scarpetta, Eduardo, Peppino e Titina. Peccato che non ci sia nemmeno uno spezzone della straordinaria e quasi del tutto dimenticata filmografia lì rievocata a partire dagli Anni Quaranta, lacuna solo in parte colmata dal ciclo di proiezioni in corso, e bilanciata dalla recente riproposta su Rai5 dell’adattamento delle commedie per la Tv realizzato negli Anni Sessanta, dove ad affiancare il maestro fu chiamato un giovane appena assunto e che riuscì a compiere il miracolo di accontentarlo: un certo Andrea Camilleri.
Ma cadere nella trappola della memoria, interrogarsi su che cosa resti, trent’anni dopo, dell’enorme eredità lasciata da Eduardo e dalla ditta De Filippo al completo, e chiedersi in quali condizioni versi quell’eredità, presenta qualche rischio; e il rischio più grosso, come sempre, è quello di cadere nel rimpianto dei tempi andati, di unirsi alla schiera di quanti non perdono occasione per sospirare sul passare degli anni, tipi a cui Eduardo dedicò una battuta delle sue: “Peggio per loro”.
Certo, il teatro italiano di oggi se non è un fantasma gli assomiglia molto, e proprio a uno di quei fantasmi con un piede nell'angoscia e l’altro nella farsa perfetti per l’ispirazione assoluta e insieme concreta di Eduardo. Per non parlare di Napoli, mai tanto se stessa e insieme tanto universale come nel teatro di chi, come testamento poetico, volle tradurre in napoletano La tempesta di Shakespeare.
Dite un po’ se salvare Napoli non sembra davvero troppo anche per la bacchetta di Prospero; e se il botteghino del teatro italiano rianimato da Pippo Baudo, ormai troppo capace di far tutto per essere scritturato in Tv, non sono paradossi che lo avrebbero divertito. Per non parlare del recente bando del Mibac in cui gli attori, una delle categorie che si fa un baffo dell’articolo 18 (quasi tutti sono già disoccupati), venivano invitati a esibirsi nei musei d’Italia; salvo poi scoprire che non solo l’esibizione non prevedeva compenso, ma che avrebbero dovuto pure pagarsi assicurazione e diritti Siae. Insomma, un soggetto eduardiano allo stato puro.
QUINDI peggio per loro, e probabilmente anche per noi. Ma siccome quando parliamo di Eduardo parliamo di un classico puro, il solo che chiamiamo per nome di battesimo insieme al primo assoluto, Dante (e lui non sarà per caso l’ultimo?), il modo migliore per rendergli omaggio è verificare come l’attualità di certi fantasmi riesca regolarmente a superare la nostalgia. Non c’è nemmeno bisogno di fare troppi esempi, bastano i titoli. “Non ti pago”, che l’autore considerava uno dei suoi testi dal fondo più amaro sotto la scorza comica, e che Luca De Filippo si prepara a mettere in scena per la stagione futura, non potrebbe essere stata scritta con la consulenza della Pubblica amministrazione? Oppure “Le bugie hanno le gambe lunghe”, dove si racconta come basti studiare una qualsiasi balla, farla girare e farla ripetere dappertutto perché diventi molto più vera della verità, tutto questo non ci ricorda qualcosa? Ma il titolo più ancora da prima pagina è “Il sindaco del rione Sanità”, con quel sindaco di strada da cui si vede che Luigi De Magistris, in fondo, avrebbe un precedente illustre. Da cui però non gli consigliamo di fidarsi troppo.

Corriere 11.10.14
Zanzotto non c’è più. Ma è qui con noi
Il poeta intuì la nostra «notte dei tempi», per gli ambientalisti resta icona della difesa del paesaggio
di Marzio Breda


Cos’è un poeta per la gente? Se ponevi questa domanda ad Andrea Zanzotto, ti sentivi rispondere con il ricordo di un episodio accaduto tanti anni fa, in un’osteria della sua Pieve di Soligo. «Ero entrato per prendere un caffè e un tizio mi additò a un amico spiegando: quello è un poeta. L’altro girò su di me uno sguardo sbigottito e diffidente: chi?, quello là?». Non voleva crederci perché — raccontava Zanzotto con un sorriso — nell’immaginario popolare il poeta doveva essere «uno che mangia e beve senza far niente, un personaggio stravagante e misterioso, un po’ da favola, con un fascino perfino ultraumano… E in me, che parlavo in dialetto e mi tiravo dietro la borsa con i registri di scuola, non coglieva nessi tra la sua idea e ciò che vedeva».
L’apologo del poeta vissuto dagli altri quasi come un’eccezione antropologica ci rimanda al Veneto ancora in larga parte contadino, povero e preborghese, dell’immediato dopoguerra. Quando chi scriveva versi era spesso un isolato, magari da ossequiare con deferenza anche se non se ne comprendeva l’utilità sociale. Per Zanzotto, poi, la faccenda si complicava. La sua opera, dall’impronta frastagliata e con una compresenza di stili che divenne via via anche «un brulichio plurilinguistico», risultava «poco cantabile» rispetto alla tradizione. Perché forgiata su ibridazioni così colte da renderla criptica.
Infatti la zia Teresa, proprietaria di una cartoleria, dal giorno in cui una maestra le confessò di non aver «capito nulla» della sua raccolta d’esordio, del 1951, cominciò a raccomandare orgogliosa quel libro ai clienti della bottega: «Mio nipote scrive poesie che neanche le maestre riescono a capire».
Dopo aver attraversato più di mezzo secolo tra boom e sboom economici, tra Prime e Seconde Repubbliche politiche, l’Italia è molto cambiata. Oggi, in «tempi che civettano sinistramente da notte dei tempi» e sotto l’incubo di un naufragio imminente, il Paese si ritrova, insieme all’Europa, a fare i conti con una crisi che è soprattutto morale. E cerca figure cui riferirsi, confidando di recuperare qualche antidoto alla disperazione.
Sarà forse per questo che un autore «difficile» come Zanzotto è riscoperto come «uno dei poeti più europei del Novecento», a tre anni dalla scomparsa, quando di solito anche i più grandi scrittori sono spesso schiacciati in un cono d’ombra. Lui no. Lo si rilegge perché, oltre al valore letterario, i suoi testi — in versi e in prosa — hanno un profondo significato civile. Dimostrano una capacità quasi sciamanica di antevedere. Hanno dunque un senso di profezia. Educano alla verità e al «principio-resistenza», come lo chiamava lui, parafrasando il «principio speranza» di Bloch. E si rivelano appunto «moralmente indispensabili», quasi uno strumento di auto-aiuto.
Così, non è un caso che gli ambientalisti lo abbiano eletto a loro icona per la difesa del paesaggio, con ciò che vi sta dietro e dentro , di storia e di memorie umane. Non è un caso che critici e linguisti, mentre illanguidisce la forza dell’italiano, tornino ad analizzare i processi creativi della sua scrittura «pentecostale», in quanto mossa dall’ansia di «parlare al mondo». E, ancora, non è un caso che lo recuperino storici della letteratura, ma anche della musica, dell’arte e del cinema, vista la sua collaborazione con Fellini. E che, infine, incuriosisca perfino qualche economista, visto che il poeta già trent’anni fa lanciava l’allarme contro il capitalismo brado e senza etica che si stava imponendo.
Un miracolo, questo interesse, cominciato nei suoi ultimi anni e di cui Zanzotto stesso si stupiva, assistendo «alla piccola sglaciazione» editoriale che lo riguardava e al lavoro su di lui delle nuove leve di studiosi. Tutto questo negli ultimi mesi è lievitato con letture pubbliche, mostre, ricerche inedite (importanti quelle del Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, diretto da Maria Antonietta Grignani), convegni (sono appena stati pubblicati gli atti di un meeting svoltosi a Parigi), saggi penetranti (su tutti, quelli di Niva Lorenzini e di Francesco Carbognin, dell’ateneo bolognese).
Da ieri a onorarlo sono Pieve di Soligo, Solighetto e Cison di Valmarino, sindaci in testa, con tre giorni di dibattiti fra critici di 11 università, testimonianze, concerti, recital, visite nei luoghi evocati nelle sue poesie. «Assenza / Più acuta presenza»: così recitano alcuni celebri versi di Attilio Bertolucci. Valgono in particolare per Zanzotto, perché indicano quale eredità possa lasciare chi, scrivendo, ha saputo vivere oltre se stesso.

Corriere 11.10.14
Pansa e i reduci illusi (e delusi) dal fascismo
di Dino Messina


Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa Eia eia alalà , edito da Rizzoli (pagine 376, e 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis ) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924.
Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come Il sangue dei vinti , in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo.
La forza di Eia eia alalà sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate.
L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Corriere 11.10.14
A Francoforte la Francia ci sfratta
Gli editori italiani: «Un’offesa»


FRANCOFORTE La Fiera del 2015 sarà molto diversa. Per una contrazione degli spazi (chiude la Halle 8, quella degli stand inglesi e americani) e per una ridistribuzione dei posti assegnati. In sintesi: l’Italia, che dal 2001 occupava il piano nobile della Halle 5, scenderà al piano terreno. Al suo posto arriveranno i francesi, mentre rimangono gli spagnoli, il Portogallo, e Turchia e Grecia. Al pianterreno, l’Italia sarà in compagnia dei Paesi del Nord Europa (gli scandinavi), dell’Olanda, di Slovenia, Romania e gli altri Paesi dell’Est. Agli anglosassoni, invece, viene data tutta la Halle 6, distribuita su tre piani; al quarto, ci sarà il Right Center. Queste le decisioni prese dal direttore della Buchmesse, Juergen Boos, che ieri mattina ha avuto un incontro (abbastanza agitato) con il direttore dell’Associazione Italiana Editori (Aie), Alfieri Lorenzon. Una decisione che ha un valore simbolico fortemente negativo; a qualcuno ha fatto lo stesso effetto delle agenzie di rating, tipo quando Standard & Poor’s declassa l’economia dei Paesi più deboli.
«Non era il primo incontro con il direttore Boos, ma nonostante le nostre proteste — dice Lorenzon — la decisione di riunificare le diverse nazioni non verrà modificata. E quindi l’Italia scenderà di un piano. In cambio, per ora, abbiamo promesse, per esempio di rivitalizzare lo spazio esterno, facendolo diventare una sorta di Culture Square . Boos assicura anche che ci saranno iniziative per segnalare adeguatamente e promuovere il nuovo spazio dell’Italia, ma intanto noi abbiamo la sensazione netta che chi è più ricco comanda. Come editori ci sentiamo offesi. Dovrebbero tornare, secondo i piani di Boos, con gli altri editori italiani anche De Agostini, Atlantica e Giunti, attualmente in altri padiglioni, ma non è detto che accetteranno».
Queste decisioni stanno anche a significare un ridimensionamento della Fiera: sta diminuendo il numero di editori? Quindici anni fa arrivava fino alla Halle 9, la Galleria. Si può parlare di crisi del sistema-Fiera?
«A questa domanda Boos non risponde. Parla di riunificazione delle diverse realtà nazionali. Più che numero degli espositori, devo dire, quello che diminuisce vistosamente è la dimensione degli stand. A causa dei prezzi. Per esempio, nella Halle 8 c’erano molti buchi, alcuni camuffati da spazio di lettura, c’erano anche quelli che fanno i massaggi. Alla Halle 4, dove c’è l’editoria d’arte, gli spazi vuoti davano un’impressione di desolazione».
Come sono i prezzi per metro quadrato alla Buchmesse?
«La tariffa per stand superiori a 8 metri quadrati, nel 2014, era di 431 euro al mq; per il 2015, è salita a 440, circa il 2 per cento in più. Per il tasso di inflazione, dice Boos, ma non è del tutto vero: facendo la media dell’inflazione in Germania fra 2013 e i mesi da gennaio settembre 2014, arriviamo all’1,5».
E cosa faranno gli editori italiani?
«Purtroppo dobbiamo accettare la decisione. Non ci sembra la più adeguata, però faremo di tutto perché, alla fine, il risultato sia il più soddisfacente possibile. Forse, è inutile soffermarsi a fare confronti tra Paesi: ma siamo davvero così inferiori a Spagna e Portogallo, che restano al primo piano? Noi ora chiediamo una serie di interventi tecnici irrinunciabili; e ovviamente anche condizioni economiche migliori».
Uno sconto, insomma?
«Anche. Perché dobbiamo essere noi a pagare principalmente il programma di riorganizzazione della Buchmesse? Del resto, ricostruire gli stand in spazi mutati, costa. E, per come è sistemato ora, il pianterreno non consentirebbe la stessa visibilità del primo piano. Fra gli interventi da chiedere, poi, c’è la creazione di una Via Italia, un percorso che consenta una buona esposizione. E, appunto, la visibilità anche da fuori. E poi c’è il problema del soffitto, molto più alto e scuro. A queste richieste debbono dare risposte. E mi auguro che siano soddisfacenti».
Quanto al Salone del Libro di Torino 2015, invece, sarà la Germania il Paese ospite. I tedeschi hanno già fatto sapere che almeno una ventina di autori importanti saranno presenti. I nomi, però, tocca a Torino comunicarli. In questi giorni alla Fiera, Ernesto Ferrero, direttore del Salone, si è incontrato con i responsabili degli eventi internazionali della Buchmesse che si sono dimostrati «molto collaborativi e vogliosi di una significativa partecipazione». Questi i primi nomi di scrittori tedeschi che verranno a Torino: Ingo Schulze, Daniel Kehlmann, Michael Krüger e Katja Petrowskaja.

Repubblica 11.10.14
Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza
Paul Krugman ha scritto: “Non ci siamo coperti di gloria negli ultimi anni”
Flagellarsi per la categoria è diventato un genere letterario
di Federico Rampini


NEW YORK «LA professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute».
L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona...
In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics . L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.
C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.
Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita , Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.